1 TECNICA: Insieme di procedure, di abilità e di saperi necessari

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TECNICA: Insieme di procedure, di abilità e di saperi necessari alla realizzazione di un
qualsiasi prodotto.
ARTE: Quel fare le cui opere reclamano la nostra attenzione estetica e il nostro giudizio.
Nella dimensione dell’arte è inclusa quella della tecnica come sua condizione necessaria.
Riconoscere una generica intenzionalità progettuale all’origine del suo processo
produttivo non basta ad identificare un qualsiasi oggetto come artistico.
OGGETTO ESTETICO: E’ un qualsiasi ritaglio di mondo che spicca nella sua singolarità
al limite del campo percettivo. E’ un oggetto soglia, oggetto segnico, oggetto evento. Esso
emerge in rapporto a tre polarità: 1. Intensificazione dell’esperienza ordinaria – costituirsi
come eccezione; 2. necessario carattere di singolarità – vaghezza (indeterminatezza del
senso di cui l’esperienza percettiva si fa carico); 3. prossimità – distanza. La nozione
decisiva è quella di relazionalità: le proprietà estetiche sono di tipo relazionale.
L’immaginazione serve a creare senso tra le due polarità.
ARTEFATTI COMUNICATIVI: Un sottoinsieme degli artefatti, a loro volta sottoinsieme
degli oggetti: sono specifici nel loro funzionare come segni. Questi derivano da
un’intenzionalità comunicativa e la loro funzione è la significatività (organizzazione
sintattica e semantica). Il segno viene assunto come transitivo.
ARTEFATTI DI TIPO ESTETICO: Sono un sottoinsieme degli oggetti estetici.
L’intenzionalità comunicativa e l’intenzionalità tecnico-progettuale non sono sufficienti a
definirli. Qui il segno è transitivo sia sotto il profilo sintattico che sotto quello semantico.
OGGETTO ARTISTICO: A determinare il pur minimo grado di vincolo oggettivo della
funzione artistica è la congiunzione intenzionale tra il tecnico e l’estetico. Nella fusione
intenzionale del tecnico e dell’estetico consiste l’autonomia dell’artistico, del suo grado di
oggettività. La fusione ha qui il senso di produrre qualcosa di nuovo rispetto alle
dimensioni che coinvolge. L’opera eccede sia l’aspetto tecnico del suo esser prodotto, sia
l’aspetto estetico del suo risultato. In virtù di questa eccedenza, l’opera d’arte ha senso in
se stessa. L’oggetto artistico può essere anche detto oggetto simbolico intransitivo, perché
le due dimensioni sintattico – semantico si saldano in un’unità che garantisce il
funzionamento simbolico. Per parlare di oggetto artistico si deve riscontrare una certa
intenzionalità estetica. Eccedenza di quest’ultima rispetto alla dimensione tecnica.
UNITA’ ESTETICA DI SENSO: L’opera d’arte, in quanto funzione simbolica, ha senso in
se stessa, oltre a prescindere dalle altre funzioni. Grazie a questa eccedenza di senso,
l’opera d’arte può essere considerata come svincolata da ogni altra funzione. L’unità di
senso è un quid di improducibilità che sfugge alla logica della pura intenzionalità. Il senso
dell’opera, l’autonomia della funzione artistica, sta in una triplice tensione: 1. con la
tecnica che la produce (quindi con la sua consistenza fisico-oggettiva); 2. con le differenti
funzioni a cui è destinata; 3. con lo stesso orizzonte dell’attenzione estetica. La tensione del
senso dell’opera potrebbe essere espressa come tensione tra arte e tecnica. Questa tensione
si esplica soprattutto nei termini di una dialettica tra improducibilità e producibilità.
L’unità di senso dell’opera, quale emerge dal rapporto tra la sua intenzionalità tecnicoproduttiva e l’intenzionalità estetica è appunto improducibile.
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GENERI E STILI: Ogni opera, alla luce dei due criteri – organizzazione sintattica e
semantica – e del loro necessario intreccio nell’instaurarsi di una relazione estetica, vale
certo di per sé. Questo però non vuol dire che sia inclassificabile.
La polemica crociana contro i generi artistici sposta l’attenzione sul carattere
singolarmente autonomo di ogni opera. E’ merito di Adorno aver difeso la tesi di un
rapporto puramente nominalistico tra opera d’arte e genere artistico. In quanto idea, il
genere è il correlato oggettivo di cui l’intenzione artistica è alla ricerca. Come
identifichiamo l’appartenenza di un’opera ad un genere, indipendentemente
dall’apprezzarla o meno, così possiamo identificarne lo stile. Se nel primo caso il giudizio
ha un peso oggettivamente cognitivo, nel secondo il criterio del giudicare è prevalentemente
estetico. Riconoscendo uno stile come proprio di un’opera, esprimiamo un giudizio relativo
al rapporto che, in essa, si stabilisce tra la sua dimensione sintattica e quella semantica.
Non necessariamente, il nostro giudizio è formulato proiettando in avanti nel tempo, oltre
la sua effettività storica, un modello di unità stilistica. Possiamo anche proiettarlo
all’indietro, prima della sua nascita.
INTERPRETAZIONE: Tra la percezione e la comprensione dell’opera si apre lo spazio
della critica e dell’interpretazione. Ogni comprensione, resta suscettibile di rimettere in
moto un atto interpretativo che attende a sua volta di compiersi nel gesto
dell’interpretazione. Si può rafforzare la distinzione tra interpretazione e comprensione in
rapporto al problema dell’opera d’arte, in due direzioni: 1. vi è una via intermedia tra
l’infinità di interpretazioni e la singola interpretazione corretta, quella dell’autore. Ogni
interpretazione deve rispettare le convenzioni relative al contesto culturale e ogni
interpretazione ha una natura necessariamente ipotetico-congetturale rispetto alla quale
sia l’intenzione dell’autore che l’intento della costituzione dell’opera restano sempre
qualcosa d’altro. 2. inserire l’interpretazione all’interno di una risposta complessa che si
può scandire funzionalmente in 5 momenti: percezione, emozione, critica, interpretazione,
comprensione. Il giudizio che esprime l’apprezzamente estetico dell’opera, in questi
cinque momenti ne configura l’unità sintetica e coincide con la sua comprensione.
LA QUESTIONE MIMETICA: Platone condanna l’arte; in particolare la pretesa
dell’artista di mostrare direttamente la verità con ciò che produce. Tutto quanto
identifichiamo come reale sono soltanto fenomeni, mentre verso è soltanto l’eidos, che
imitano. Con la teche poietikè si produce qualcosa che in natura non c’è (letti, sedie). Con
l’arte estetica si produce soltanto l’immagine di qualcosa che già esiste. Ma poiché quanto
ci appare sensibilmente non è il vero essere, allora l’arte produce soltanto l’immagine dei
fenomeni. Platone chiama il secondo tipo di arte, teche mimetikè, arte mimetica. La critica
di Platone si estende anche alla poesia. La distanza che separa il poeta dal filosofo sta nella
sua immodestia: nella facilità con la quale egli identifica la maestria della finzione
produttiva con un sapere capace di surrogare ogni altri sapere, perfino quello divino che
fa nascere gli enti naturali.
Per i Sofisti (Gorgia) l’arte non ha alcun rapporto con la verità: la sua funzione è di
procurare emozioni piacevoli.
Per Aristotele l’arte è mimesis, ma porta alla conoscenza. Nella teoria della tragedia,
Aristotele sostiene che l’arte poetica, imitando l’agire umano, assume ad oggetto il
possibile. Per lui, la poesia è più filosofica della storia, poiché guarda all’universale.
Consapevolezza della differenza tra il carattere di finzione del mondo possibile e il mondo
della vita. Non c’è mimesis che non sia finzione, capacità di elaborare immaginativamente
tratti della realtà per rappresentare come essa può e deve essere. All’origine della
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concezione aristotelica dell’arte poetica vi è la tesi del doppio rapporto che la techne
instaura con la natura: imitativo (vuole imitare) e percettivo (vuole compiere).
Plotino, sostiene che le arti non si limitano a imitare la realtà visibile, ma si elevano alle
ragioni formali dalle quali proviene la natura. L’artista, nel produrre, non guarda più alla
realtà, ma al mondo delle idee. Si ha un vero e proprio capovolgimento della posizione di
Platone nei confronti del carattere mimetico dell’arte. Le opere dell’artista, in quanto copie
di copie, non sono più a tre distanze dal vero, non partecipano più dell’infimo grado
epistemico e ontologico che caratterizza la natura effimera dei simulacri, dei riflessi
speculari e delle ombre.
Il limite dell’artistico è declinabile in duplice direzione: 1. pretesa direttamente veritativa
dell’opera d’arte; 2. finzionalità assoluta. L’opera d’arte non è pensabile come finzione, ma
il limite dell’artistico sta nell’impossibilità di essere veritativa; ma il suo tenore veritativo
deriva dalla tensione tra la sua finzione e il fuori.
TENSIONE TRA ARTE E POESIA: E’ il linguaggio poetico che ci permette di intuire
l’unità estetica di senso, propria di ogni opera d’arte e la poesia comunicando se stessa, è
anche veicolo di comunicazione d’altro. La poesia è anche comunicazione della lingua, in
cui è presente una solida organizzazione tra funzione sintattica e semantica. IL linguaggio
è autoriflessione dell’unità ritmica di suono e senso, manifestando in sé quella funzione
della comunicazione linguistica, detta funzione poetica. La poesia nasce dalla lingua che
ha la capacità di funzionare poeticamente e dall’unione di entrambe con la funzione
poetica si esplicita quella funzione artistica propria del fare umano. La tensione è
individuabile nel rapporto che si crea nella poesia tra la lingua autoriflessiva e la finzione
della forma. Nella forma del linguaggio si dispiega il sentimento, il piacere estetico, dove il
ritmo e il senso si uniscono. Dalla pluralità si sensi e interpretazioni possibili emerge il
limite che è l’impossibilità di identificare radicalmente linguaggio e pensiero.
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LA RAPPRESENTAZIONE: Nel primo capitolo, Goodman indaga il tema della
rappresentazione. Solo l’oggetto somiglia a se stesso al massimo grado e quindi un oggetto
molto simile ad un altro, non lo rappresenta di certo, perché è in grado di rappresentare
solo se stesso. Se voglio copiare un oggetto non posso farlo in ogni suo aspetto
contemporaneamente e quindi devo scegliere solo un aspetto. La nostra percezione può
essere distorta in certi casi e quindi dobbiamo cercare di copiare un oggetto così com’è,
visto in condizioni asettiche e da un occhio “libero ed innocente”, che però non esiste.
Un’opera d’arte come un quadro è rappresentazione? “Un quadro che rappresenta un
oggetto, si riferisce a esso e, più precisamente lo denota. La rappresentazione non deve
essere considerata come descrizione, ma come denotazione e non è possibile identificarla
semplicemente con un rispecchiamento. Inizialmente Goodman assimila tutti i linguaggi
figurativi, rappresentativi a delle descrizioni, ma poi rileva una specificità simbolica della
rappresentazione rispetto all’analiticità della descrizione.
Le descrizioni evocano immagini tramite enunciati verbali, ma tali enunciati ci danno
molteplici riferimenti, ma non riescono ad evocare in noi rappresentazioni visive finite. Le
rappresentazioni, al contrario delle descrizioni verbali, non utilizzano linguaggi
rappresentativi, ma sono immagini, raffigurazioni. La rappresentazione non è quindi
verbale, ma figurativa. Il senso di ogni rappresentazione ci è dato dal suo rapporto con il
mondo.
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Niente è intrinsecamente una rappresentazione di qualcosa, ma si ha rappresentazione
solo all’interno di un sistema simbolico nel quale possiamo riconoscere un paradigma che
ci può aiutare a definire la fedeltà e il realismo di una determinata rappresentazione.
Il realismo è relativo e sicuramente è influenzato dalle credenze e dalle abitudini non solo
presenti all’interno dei sistemi sociali di una determinata cultura, ma anche in riferimento
ad ogni singola persona.
L’ESPRESSIONE: Goodman tratta dell’espressione nel secondo capitolo. Il primo punto
da sfatare è che l’espressione sia la relatività dei sentimenti dell’artista. Mentre la
rappresentazione riguarda gli oggetti e gli eventi, l’espressione riguarda sentimenti e
proprietà, ma non vuol dire che si riferiscono a chi esprime la simbolizzazione dell’opera.
L’altro tratto interessante è il movimento: l’espressione procede in senso inverso rispetto
alla rappresentazione; muove da e non verso ciò che è denotato.
Bisogna cogliere le affinità e le differenze tra esemplificazione ed espressione:
l’esemplificazione correla il simbolo ad un’etichetta che lo denota; l’espressione
metaforizza il denotato e per questo è un movimento da e non verso.
OPERE AUTOGRAFICHE E ALLOGRAFICHE: Distinzione tra arti autografiche e
allografiche: nel primo caso non si può distinguere tra proprietà costitutive e contingenti
(differenza tra originale e copia). Sono singole al primo stadio. Le proprietà costitutive di
un quadro si identificano con le sue proprietà contingenti. Diremo che un’opera d’arte è
autografiche se e solo se la distinzione tra falso e originale è significativa; meglio, se e solo
se anche la più esatta duplicazione non conta per questo come genuina. Quindi la pittura è
autografica, la musica è allografica. Il confine tra arte autografica e arte allografica non
coincide con quello fra arte singola e arte multipla. L’unica conclusione positiva che
possiamo avanzare è che le arti autografiche sono quelle che al primo stadio sono singole
(l’incisione è singola nel suo primo stadio e la pittura nel suo primo e solo stadio. Le opere
allografiche sono a base notazionale e sono anche le sue proprietà costitutive.
LA TEORIA DELA NOTAZIONE: Goodman ci dice che “lo schema simbolico di ogni
sistema notazionale è notazionale, ma non ogni sistema simbolico con uno schema
notazionale è un sistema notazionale”. Ciò che distingue i sistemi notazionali dagli altri
sono certe caratteristiche della relazione che intercorre tra lo schema notazionale e
l’applicazione. Tutte le iscrizioni di un carattere dato in una notazione sono
sintatticamente equivalenti: indifferenza di carattere tra gli esemplari di ogni carattere. Il
modo con cui è reso il carattere è indifferente perché l’esemplare di ogni carattere è una
replica, non è la copia di un originale. Per definire che cosa costituisce uno schema
notazionale, Goodman, individua cinque requisiti necessari: 1. I caratteri devono essere
disgiunti; 2. I caratteri devono essere finitamente differenziati o articolati; 3. La
composizionalità implica la composizione di carattere finitamente differenziati; 4.
Congruenza come correlazione di un sistema simbolico con un campo di riferimento; 5.
Non ambiguità semantica dei sistemi notazionali (differenziazione semantica finita). In
questi cinque requisiti non possono rientrare i linguaggi naturali. Nessuna delle nostre
lingue naturali è un sistema notazionale: i linguaggi discorsivi sono svincolati dai tre
requisiti semantici, pur rispettando i due requisiti sintattici (differenziazione e
disgiunzione).
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I 5 SINTOMI RELATIVI AL FUNZIONAMENTO SIMBOLICO DELL’ARTE: Goodman
propone di individuare almeno dei sintomi relativi al funzionamento simbolico di qualche
oggetto, che possono essere delle spie dell’attivarsi di una relazione estetica. Un sintomo
non è una condizione necessaria né sufficiente dell’esperienza estetica, ma tende
semplicemente ad esservi presente ad accanto ad altri sintomi dello stesso tipo. La
specificità simbolica di un’opera d’arte è quella di attrarre l’attenzione su di sé, piuttosto
che a quello a cui si riferisce. I cinque tipi di sintomo sono: 1. Densità sintattica: si ha
densità sintattica, quando si ha disgiunzione, quando prevale la raffigurazione e non si
isolano dei caratteri; 2. Densità semantica: è dove sono sepolti i simboli; 3. Saturazione
sintattico relativa: l’indiscernibilità tra l’elettrocardiogramma e il disegno di Hokusai del
monte Fuji; in questo secondo caso vengono a far parte degli aspetti che nel diagramma
sono puramente contingenti (spessore della linea, carta, colore, ecc.); qui contrasta con il
metter da parte l’intenzionalità e il limite sta nel non distinguere tra artistico ed estetico,
dove nel secondo è implicita l’autorialità; 4. Esemplificazione metaforica: mentre mostra,
esemplifica anche altre cose; 5. Riferimento multiplo e complesso: i riferimenti all’interno
di un’opera d’arte non sono mai unici e lineari (ha a che fare anche con tutti i livelli con cui
si può analizzare un’opera d’arte).
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DAL “TRACTATUS” ALLE “RICERCHE FILOSOFICHE”: Il punto di partenza del
Tractatus è il mondo. L’accordo tra ontologia e mondo è dato dalla forma logica. L’essenza
della proposizione sta nella forma logica. Nelle Ricerche è la semantica che articola
l’ontologia del mondo e questa articolazione non è più mediata dalla forma logica della
proposizione. Ogni proposizione è in ordine così com’è, non si deve commisurare con una
forma logica compiuta. Dall’interno del linguaggio, non si descrive cos’è il mondo, ma
come esso è. La valenza ontologica viene dalla semantica. E’ con il linguaggio che facciamo
esperienza del mondo e diamo una valenza agli oggetti.
CONTRO L’IMMAGINE OSTENSIVA AGOSTINIANA: Le parole, per Agostino, sono
nomi e il loro significato è l’oggetto o la cosa per la quale esse stanno. Chi si affida a questa
definizione, rimanda a una rappresentazione primitiva di come funziona il linguaggio. Il
fatto che una definizione ostensiva deve essere compresa e può essere fraintesa, basta da
sola a mostrare che essa non sta affatto all’origine del linguaggio e del suo apprendimento.
La definizione ostensiva spiega l’uso – il significato – di una parola, quando sia già chiaro
quale funzione la parola debba svolgere, in generale, nel linguaggio.
GIOCHI LINGUISTICI E SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA: Wittgenstein, con il termine
“gioco linguistico”, intende: a) quei giochi mediante i quali i bambini apprendono la loro
lingua materna; b) linguaggi più semplici o primitivi del nostro complicato linguaggi
quotidiano; c) ciascuno dei differenti e innumerevoli modi di impiego di ciò che
chiamiamo segni, parole, proposizioni. Se passiamo in rassegna i vari giochi e gruppi di
giochi, ciò che vediamo non è qualcosa che sia comune a tutti, bensì una rete complicata di
somiglianze di famiglia che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in
grande e in piccolo.
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IL SIGNIFICATO DI UNA PAROLA STA NEL SUO USO: Uno dei grandi errori della
filosofia è quello di credere che una parola non ha significato se ad essa non corrisponde
qualcosa. Il significato di una parola va ricercato nella funzione che svolge nel linguaggio,
ossia nell’insieme delle regole che ne disciplinano e ne delimitano l’uso. Comprendo una
proposizione in quanto la adopero.
SEGUIRE UNA REGOLA: Wittgenstein critica sia la concezione che le conseguenze di
una regola sono già esistenti in essa, chiedendo che cosa ci assicura che il punto al quale si
giunge sia effettivamente quello al quale la regola è da sempre idealmente giunta? Inoltre
critica anche chi ritiene che tra la regola e la sua applicazione sia necessario un atto
interpretativo: perché allora qualunque cosa io faccia, può sempre essere accordato con la
regola stessa, anche il suo contrario. Seguire una regola, per Wittgenstein è allora un uso,
un’abitudine, una prassi. Un’applicazione della regola in un nuovo contesto, in una nuova
circostanza, viene posta come paradigma di correttezza per ulteriori applicazioni della
regola: l’applicazione viene definita applicazione paradigmatica. Non si può postulare che
seguire una regola avvenga per una sola persona, per una sola volta; si implica una
riflessione in virtù di un addestramento. Seguire una regola una sola volta, non vuol dire
seguire la regola. La regola si comprende nella sua applicazione. Non è possibile che un
solo uomo abbia seguito una regola, perché questo farebbe coincidere credere si seguire
una regola con il seguire la regola.
LINGUAGGIO PRIVATO: Il linguaggio privato altro non è che un certo modo di
fraintendere l’operare del nostro linguaggio. Si induce a trattare le sensazioni, i sentimenti
come oggetti privati, a cui io solo posso accedere. Questi oggetti si presentano davanti
all’occhio o all’orecchio della mia mente e io do loro un nome, mediante una sorta di
definizione ostensiva interna e privata (esempio della S sul calendario); da qui emergono
due considerazioni: le sensazioni di una persona sono accessibili solo ad essa e possono
solo congetturare le sensazioni altrui. Quando si dice “ha dato un nome a una sensazione”
si dimentica che molte cose devono già essere pronte nel linguaggio, perché il puro
denominare abbia un senso. E quando diciamo che una persona dà un nome a un dolore,
la grammatica della parola dolore è già precostituita. Se interpretiamo il dolore come un
oggetto privato, allora un nulla rende lo stesso servizio di un qualcosa di cui non si possa
dire niente. L’espressione verbale del dolore, sostituisce e non descrive il dolore.
LA COMPRENSIONE: Wittgenstein prende in esame, criticandoli, i due tipi di
mentalismo: semantico e psicologico. Mentalismo semantico esperenziale: afferma che il
significato di un termine, risiede esclusivamente in un’esperienza mentale vissuta.
Mentalismo semantico psicologico: sostiene che il significato di un termine si trova in un
processo cerebrale che giace sotto la coscienza individuale. Per Wittgenstein nessuna
immagine mentale può riuscire ad assegnare alla parola corrispondente un significato
specifico, proprio perché tale immagine, anche se il più somigliante possibile ad una
determinata cosa, può sempre essere impiegata in maniera diversa. Mentalismo
psicologico esperienziale: ribadisce che per comprendere il significato di un termine non è
necessario avere un’esperienza vissuta e l’avere esperienza di una cosa non significa
comprenderla. Mentalismo psicologico neurofisiologico: si ha, anche a livello inconscio, un
processo cerebrale all’interno del proprio cervello, ma per Wittgenstein, la presenza di un
processo cerebrale non è condizione necessaria perché si comprenda una determinata
espressione di una lingua. Il comprendere non è uno stato psichico. Comprendere significa
essere padroni di una tecnica. Riconduce la comprensione ad uno stato mentale: ad un
processo interno, che per esistere deve necessariamente manifestarsi in qualche modo.
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