50 anni di pubblicità televisiva

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50 anni di pubblicità televisiva
L'EVENTO
Fino al 30 maggio 2004 la Triennale di Milano è aperta alla mostra «Dreams. I sogni degli italiani
in 50 anni di pubblicità televisiva» curata da Silvana Annicchiarico e Gianni Canova. Ogni
settimana, per tutto il periodo di apertura, verranno organizzate delle visite guidate con esponenti
della cultura, della televisione e della pubblicità. La mostra, inaugurata il 17 febbraio scorso, è
aperta tutti i giorni tranne il lunedì dalle 10.30 alle 20.30 alle Triennale di Milano, Viale Alemagna
6. Tel: 02.724341. Ingresso: 7/5/3,00.
LE STANZE
L'esposizione si articola lungo un percorso che prevede l'attraversamento di 9 stanze connesse tra
loro da piazze e passages. Le stanze esprimono la componente progettuale e interpretativa della
mostra, le piazze contengono invece la sua componente più didattica e narrativa. Ognuna delle
stanze è appositamente progettata da un designer, da un artista o da un architetto con la funzione di
accogliere, contenere e mostrare la memoria storica della pubblicità televisiva italiana. Nel
percorso: Stanza dei nutrimenti Stefano Giovannoni. Stanza degli affetti e dei sentimenti Ciprì e
Maresco. Stanza dei rimedi, dei rifugi e dei ripari Denis Santachiara. Stanza delle nostalgie Italo
Lupi. Stanza delle comunicazioni e delle relazioni Fabrizio Plessi. Stanza delle maschere e dei
trucchi Franca Bertagnolli. Stanza dell'altrove Stalker. Stanza delle (tele)visioni Mario Bellini.
Stanza delle cose Karim Azzabi
IL CATALOGO
Pubblicato da Bruno Mondadori Editore, il catalogo libro affida le immagini della mostra solo alle
sue ultime pagine e dà un eccezionale spazio a contributi autonomi scritti da firme come Ghezzi,
Grasso, Di Marino, Codeluppi, La Cecla e da uno stuolo di esperti.
50 anni di pubblicità televisiva in mostra
Dreams, il mito del carosello
Spot, video, materiale d'archivio indagano l'arcano pubblicitario attraverso le immagini che hanno
accompagnato questo ultimo mezzo secolo di «sogni degli italiani». L'esposizione, in corso alla
Triennale di Milano fino al 30 maggio, presenta una sequenza di stanze, percorsi emozionali sulle
relazioni tra merci e corpo, affidate allo sguardo d'artista
ALBERTO ABRUZZESE
C'è ancora qualcosa da dire sulla pubblicità? Certamente e comunque perché no. E l'evento di cui
mi accingo a parlare lo di-mostra. Può la pubblicità dire ancora qualcosa? Forse. Vista la messa in
scena alla Triennale di Milano e letto il catalogo pubblicato da Bruno Mondatori - inevitabilmente
due cose diverse e giustamente diverse nella loro concezione - la mostra Dreams. I sogni degli
italiani in 50 anni di pubblicità televisivi, curata da Gianni Canova costituisce un evento culturale
davvero eccezionale da più punti di vista. Impresa difficile - dato il suo ottimo risultato di pubblico
- se si considera la ridondanza di cui il tema ha goduto e gode, ha sofferto e soffre, sul piano della
letteratura colta a lei dedicata in questo ultimo mezzo secolo (da sociologi, filosofi, estetologi,
semiotici, storici, economisti, ideologi, comunicazionisti, professionisti, poeti, narratori, giornalisti,
artisti), sul piano della chiacchiera mediale e infine sul piano degli usi e consumi collettivi.
Cominciamo dalla forma che Canova ha voluto dare alla mostra, partendo da una scelta di fondo,
parlare della pubblicità nella sua epoca televisiva, e quindi da alcuni presupposti essenziali: la
centralità dello sguardo in una relazione simbolica che mette in campo la comunicazione tra corpi e
merci. Il risultato è stato una sequenza di «stanze», a cui, ricorrendo a «sguardi d'artista», è stata
affidata quella zona simbolica della pubblicità che si esprime in modo con-fuso, laddove cioè le
grandi leggi razionaliste e funzionaliste del marketing si immergono - e da sempre, volenti o
nolenti, si sono immerse - nelle piccole tattiche e insorgenze del consumo quotidiano, quelle
dimensioni che, tuttavia, sono le sole a creare miti, mitologie di breve e lunga durata. A questa
operazione di allestimento estetico, emotivo, immaginifico - stanze come arredi della mente più che
teche della memoria - è stata affiancata la possibilità per il visitatore di distrarsi dallo spettacolo dal
vivo e accedere direttamente alle fonti, agli archivi della pubblicità televisiva da Carosello in poi. A
quel grande patrimonio di testi che, va detto, ancora così poco è stato sfruttato dalle storie della
cultura e della società italiana, poiché l'arco di discipline a cui ho fatto cenno sopra - esteso in sé ma
ridotto rispetto al sapere corrente e accumulato - nella più parte dei casi ha per giunta indagato il
senso dei linguaggi pubblicitari quasi sempre sviscerando l'oggetto d'analisi dal punto di vista
metodologico o ideologico piuttosto che utilizzarlo per mettere in discussione l'intimo vincolo che
una disciplina ha con la vita nazionale, la tradizione delle sue istituzioni e delle sue politiche,
l'identità dei suoi soggetti. In conclusione: la mostra combina in sé l'arte dell'installazione, cioè
fondata su una invenzione «critica» che non vuole farsi leggere ma solo intuire, sentire, percepire;
l'arte panoramatica delle immagini di repertorio (una quantità davvero notevole di televisori accesi
fa da vero e proprio monumento alla Rai e alle sue vicende pubblicitarie), tesa a suggestionare, al
«colpo d'occhio»; l'approfondimento scientifico e amatoriale (due campi che per gli «oggetti del
desiderio» spesso e fortunatamente si confondono tra loro).
Insieme a Silvana Annichiarico, Canova ha progettato e curato le stanze dei nutrimenti, degli affetti
e dei sentimenti, dei rimedi, dei rifugi e dei ripari, delle nostalgie, delle comunicazioni e delle
relazioni, delle maschere e dei trucchi, dell'altrove, delle (tele)visioni, delle cose. Un percorso che,
invece di trattare le singole «stazioni» in modo didattico, punta tutto sullo spaesamento piuttosto
che sull'ambientazione. Per citare qualche caso, il tema degli affetti è affidato a Ciprì e Maresco,
facendoci così precipitare in una condizione psicosomatica e esperienziale che non ha nulla di
rassicurante e civilizzato; analogamente il tema delle cose, là dove ci saremmo attesi l'apparizione
di mostri, la tragica felicità dei desideri che si fanno cosa e delle cose che si fanno desideri, la scena
appare nel gelo più assoluto del progetto moderno, del design, quello che più etnicamente pulito
non si potrebbe, con effetti ben più inquietanti delle mutazioni biotecnologiche di un Cronenberg.
Per scelta il catalogo libro affida le immagini della mostra solo alle sue ultime pagine e dà invece un
eccezionale spazio a contributi autonomi, scritti non solo dalle firme che ci si poteva attendere - tra
altri Ghezzi, Grasso, Di Marino, Codeluppi, Volli, Pitteri, La Cecla - ma anche da uno stuolo di
esperti dotati di ogni tipo di «sensore»: un insieme di autori che attesta comunità di intenti e visioni
non comune. Siamo di fronte a un libro che dimostra quanto sia maturato l'approccio al linguaggio
della pubblicità e quanto abbia abbandonato le remore e le questioni del tempo in cui essa appariva
qualcosa di marginale rispetto all'esistenza. Ma proprio qui, nell'ammirare la profondità con cui
l'arcano pubblicitario è stato indagato in ogni suo territorio e dettaglio, mi viene da chiedere cosa
davvero ci attendiamo di «nuovo» dai linguaggi delle merci ora che di fatto, legittimati come
mondo, ne abbiamo demitizzato il funzionamento.
Una demitizzazione che passa tanto attraverso il metodo della più pignola e rigorosa
destrutturazione delle emozioni pubblicitarie nelle loro singole componenti socio-linguistiche
quanto attraverso la strategia pur sempre cognitiva di chi le immerge nelle grandi condensazioni
antropologiche dell'immaginario collettivo, quel tipo di indagine a cui tuttavia - anche quando sia
affascinata, stregata dal suo oggetto, imbevuta di «spirito del tempo» - si deve la morte dei miti.
Riconoscendo nella pubblicità piattaforme mitologiche in piena efficienza, in grado di possederci e
di farci possedere abbiamo svelato anche il suo contenuto: niente di più triviale e necessario.
Continuando a scriverne è come se avessimo paura di avere detto su di lei - e sulla televisione che
vi si incarna e ne è incarnata - tutto il possibile. Per questo penso che si debba cominciare a
prendere le distanze non dalla cattiva pubblicità o dalla pubblicità cattiva, ma dalla sua oggettiva
bellezza, dalla sua comunque-bellezza. Dalla bellezza senza qualità, appunto, dei miti.
In esordio del libro, Canova scrive: «La pubblicità, ormai, non solo non è più fuori, landscape
materico del tessuto urbano in trasformazione; non solo - con la tv - è entrata nell'intérieur (...). Di
più, è diventata scenario mentale, paesaggio interiore, metro e modello di comportamento».
Con questo si spiega la concezione di questa mostra, la necessità del suo carattere monumentale.
Ma cosa c'è di nuovo oggi nella pubblicità? Moltissimo, ma anche nulla. «Di più» o «nulla più» e
non - secondo il dettato di tutta la modernità - «non più e non ancora». Quando nel 1851 la Regina
Vittoria inaugurò a Londra la prima Grande Esposizione Universale, l'arcano della pubblicità si era
già pienamente espresso, il legame tra merce e linguaggi era già arrivato al suo culmine.
Da allora in poi le tecniche della réclame piuttosto che essere il linguaggio con cui vendere prodotti
è stato il linguaggio con cui vestire di ostentazione mitologica un «contenuto» che con la viva
presenza della Regina nello spazio delle merci s'era già compiuto, anche nel suo destino televisivo.
La potenza riposta nell'essere umano come oggetto e soggetto dei propri desideri iniziava a farsi
struttura e espressione della sfera pubblica. E questa storia ha retto sino a quando è stato possibile
riferirsi ad una sfera pubblica. Oggi che questa sfera sta franando, che cosa può dirci un linguaggio
che ne è stato il più efficace sostenitore? La mostra e il libro hanno l'incalcolabile merito di
stimolarci a porre questa domanda.
il manifesto 19 marzo 2004
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