consiglio superiore della magistratura

Il seguente materiale redatto dal Dott. Guglielmo LEO proviene da un incontro organizzato in
data 11 gennaio 2010 dalla Formazione Decentrata di Milano .
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
UFFICIO DEI REFERENTI PER LA FORMAZIONE DECENTRATA
DISTRETTO DI MILANO
INCONTRO DI AGGIORNAMENTO SULLE RECENTI
PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE
IN MATERIA PENALE
Lunedì, 11 gennaio 2010
relatore
dott. Guglielmo Leo
Magistrato – Assistente di studio presso la Corte costituzionale
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LA GIURISPRUDENZA DELLA
CORTE COSTITUZIONALE
MATERIALI DI SUPPORTO PER LA RELAZIONE
Gli appunti che seguono hanno una mera funzione di supporto per
l’esposizione orale, e di memoria per i partecipanti all’incontro circa i
provvedimenti menzionati ed il relativo oggetto.
Il testo integrale di tutti i provvedimenti, e delle relative massime, è
reperibile presso il sito istituzionale della Consulta, nell’area
«Giurisprudenza», con particolare riguardo al settore «Ricerca delle
pronunce», ove è disponibile un motore di ricerca. La Corte pubblica i
provvedimenti più recenti anche nella pagina d’ingresso del sito,
nell’area «Ultimo deposito delle pronunce», che contiene anche un
elenco con titoletti, la cui lettura può dare una informazione
rapidissima su ciò che vale la pena di guardare a seconda degli interessi
di ciascuno.
Il sito istituzionale è
www.cortecostituzionale.it
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In generale.
SOMMARIO
Ancora sulle sentenze n. 348 e 349 del 2007, e sulla sentenza n. 311 del
2009, per introdurre una recente applicazione della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo quale parametro interposto: la sentenza n. 317 del 2009 in
tema di processo contumaciale (pag. 7);
ancora sulla sentenza n. 394 del 2006, e sulla ordinanza n. 413 del 2008 (a
proposito tra l’altro del concetto di norma penale di favore e del relativo
sindacato di legittimità (pag. 17);
qualche ulteriore esempio, con la ordinanza n. 3 del 2009 (lesioni da
sinistro stradale), la sentenza n. 57 del 2009 (sulla cd. ebbrezza
«sintomatica»), la ordinanza n. 66 del 2009 (in materia di trattamento
illecito dei dati), la ordinanza n. 103 del 2009 (a proposito di reati compresi
nella previsione di indulto), di questioni inammissibili (per il divieto di
sindacato in malam partem delle norme penali: pag. 19);
ancora, una questione di imminente trattazione in tema di lex intermedia
mitior (pag. 22);
la sentenza n. 324 del 2008 e le ordinanze nn. 5, 34 e 204 del 2009
(verifica di compatibilità costituzionale degli aspetti salienti della nuova
disciplina dei termini prescrizionali: p. 23);
la ordinanza n. 65 del 2008 (ancora in materia di prescrizione,
inammissibilità di sindacato in malam partem della disciplina degli atti
interruttivi: pag. 26);
la sentenza n. 72 e le ordinanze n. 343 e 384 del 2008 (sulla disciplina
transitoria per l’applicazione delle nuove regole in materia di prescrizione,
anche relativamente ai giudizi abbreviati: pag. 27);
la sentenza n. 215 del 2008, e le ordinanze n. 414 e 415 del 2008, e n. 65
del 2009 (a proposito d’un caso di irretroattività della legge di
depenalizzazione giudicato illegittimo dalla Corte: pag. 29);
la ordinanza n. 7 del 2009, la ordinanza n. 156 e la sentenza n. 161 del
2009 (sulla discrezionalità legislativa in materia di determinazione delle
pene e sui limiti conseguenti del sindacato della Corte anche a fronte di
soluzioni normative incongruenti: pag. 30);
ai confini della legislazione di clemenza: la ordinanza n. 109 del 2009 (a
proposito del condono tributario e della sua negata qualificazione come
provvedimento di amnistia, pag. 32).
Diritto sostanziale.
La sentenza n. 2 del 2008 e le ordinanze n. 223, n. 381, n. 433 del 2008,
n. 135 del 2009 (ancora sulla prescrizione, relativamente ai reati di
competenza del giudice di pace: i termini si calcolano, per tutti tali reati, a
norma dell’art. 157, comma 1, cod. pen: pag. 33);
le ordinanze n. 33, 91 e 257 del 2008, e l’ordinanza n. 171 del 2009
(ancora sulla nuova disciplina della recidiva, anche riguardo al bilanciamento
con altre circostanze: pag. 34);
la sentenza n. 327 del 2008 (la figura del disastro innominato ed il punto
sull’attuale giurisprudenza circa il principio di tassatività: pag. 38);
la sentenza n. 225 del 2008 (ancora in punto di tassatività e di necessaria
offensività delle condotte penalmente sanzionate, con riguardo al possesso
ingiustificato di chiavi o grimaldelli: pag. 39);
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la sentenza n. 21 del 2009 (con la quale, avuto riguardo alla disciplina
penale dell’immigrazione, la Corte ha proseguito la propria riflessione sulla
riserva di legge e sul principio di determinatezza della fattispecie penale:
pag. 40);
una decisione demolitoria concernente il delitto di evasione commesso dalla
madre in regime di detenzione domiciliare speciale che si allontana dal
luogo di esecuzione della misura per un tempo inferiore alle dodici ore
(sentenza n. 177 del 2009: pag. 42);
la sentenza n. 75 del 2009 (dichiarativa della parziale illegittimità
costituzionale dell’art. 384 del codice penale, in materia di non punibilità
del favoreggiamento commesso nell’ambito di sommarie informazioni
indebitamente richieste dalla polizia giudiziaria: pag. 43);
ancora in tema di non punibilità dei prossimi congiunti: la mancata
estensione al convivente more uxorio dell’esimente prevista dal primo
comma dell’art. 384 c.p. (sentenza n. 140 del 2009: pag. 47);
la ordinanza n. 41 del 2009 (a proposito del reato di illegale reingresso
dello straniero già espulso a norma dell’art. 14, comma 5-ter, del T.U.
immigrazione: pag. 48);
una decisione di restituzione degli atti (e, per un verso particolare, di
manifesta inammissibilità) a proposito della cd. aggravante di «clandestinità»
(art. 61, n. 11-bis, cod. pen.): l’ordinanza n. 277 del 2009 (pag. 49);
a proposito del conflitto tra poteri nei casi di deliberazione parlamentare
di insindacabilità ex art. 68 Cost.: alcune importantissime notazioni sul
procedimento (ordinanza n. 188 del 2009: pag. 52);
le ordinanze n. 97 e n. 301 del 2009 (con le quali la Corte, facendo
applicazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole,
ha confermato la natura sanzionatoria della confisca per equivalente: pag.
54);
ancora in materia di confisca, ed in particolare della confisca in caso di
lottizzazione abusiva nei confronti di terzi estranei al reato (sentenza n. 239
del 2009: pag. 55);
le ordinanze n. 145 e n. 260 del 2009 (sulla sospensione della esecuzione
della pena nei confronti di donna incinta o madre di neonato: pag. 53);
ancora una questione contro il differimento della esecuzione della pena,
stavolta nei confronti dei malati terminali: una pronuncia di infondatezza
(sentenza n. 264 del 2009: pag. 53).
Diritto processuale.
Una questione sui confini della giurisdizione: la sentenza n. 106 del 2009
sul conflitto tra poteri dello Stato relativamente al cd. caso Abu Omar: pag.
61);
ancora un conflitto tra poteri dello Stato, attinente alla qualificazione dei
reati ministeriali ed ai rapporti tra Tribunale dei ministri e Parlamento
(sentenza n. 241 del 2009, pag. 65);
sempre sul rapporto tra giurisdizione ed altri poteri dello Stato: la sentenza
n. 262 del 2009 sul cd. «lodo Alfano» (pag. 67);
un quadro sintetico delle pronunce in materia di appellabilità delle
sentenze (cd. legge Pecorella), avuto riguardo all’impugnazione del pubblico
ministero (da ultimo, la sentenza n. 242 del 2009: pag. 75);
(segue) le decisioni concernenti l’appello della parte civile: pag. 75.
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(segue) le decisioni relative all’appello dell’imputato contro le sentenze di
proscioglimento (in particolare, e da ultimo, la decisione – sentenza n. 274
del 2009 - concernente le sentenze di rito abbreviato: pag. 79);
(segue) la decisione relativa all’appello dell’imputato contro le sentenze di
condanna del giudice di pace (pag. 81);
ancora una pronuncia, la sentenza n. 121 del 2009, su novità introdotte
dalla legge n. 46 del 2006 (a proposito della «archiviazione obbligatoria» in
caso di scarcerazione per mancanza di indizi disposta dalla Corte di
Cassazione: pag. 82);
a proposito di competenza, l’ordinanza n. 279 del 2009, di restituzione
degli atti per le questioni concernenti la competenza «regionale» campana in
materia di rifiuti (p. 85);
le parti del procedimento: l’ordinanza n. 131 del 2009 (a proposito della
citazione quale responsabile civile della società assicuratrice del datore di
lavoro dichiarato fallito: pag. 86);
la sentenza n. 217 del 2009, concernente in particolare la irrilevanza del
legittimo impedimento del difensore della parte civile (ed in generale la
portata del principio di parità tra le parti nel rinnovato assetto dell’art. 111
Cost.: pag. 86);
la sentenza n. 184 del 2009, a proposito della utilizzabilità degli atti di
indagine difensiva nel giudizio abbreviato e, più in generale, della portata
del principio di parità delle parti e del diritto al contraddittorio nell’impianto
complessivo del rinnovato art. 111 Cost. (pag. 87);
l’ordinanza n. 67 del 2008 e la sentenza n. 333 del 2009, relativamente ai
rapporti tra contestazioni suppletive e diritto di accesso al rito abbreviato
(pag. 91);
ancora a proposito del giudizio abbreviato: l’ordinanza n. 102 del 2009
(sulla legittimità della disciplina che ne consente la celebrazione a cura del
giudice dell’udienza preliminare anche per i reati di competenza della Corte di
assise: pag. 96);
per concludere sui riti speciali, una importante decisione (n. 336 del 2009)
sull’efficacia della sentenza di patteggiamento nell’ambito del giudizio
disciplinare (pag. 97);
la ordinanza n. 146 del 2009 (a proposito dell’ammissibilità dell’incidente
probatorio in epoca successiva alla chiusura delle indagini preliminari: pag.
99);
in tema di prova dichiarativa, una pronuncia che interviene sui limiti di
utilizzabilità delle dichiarazioni utilizzate a fini di contestazione nel corso
dell’esame dibattimentale delle parti private: sentenza n. 197 del 2009 (pag.
99);
ancora sulla prova dichiarativa, una decisione (ordinanza n. 280 del 2009)
sollecitata a proposito dei poteri del giudice nella determinazione della veste
del dichiarante in sede dibattimentale (pag. 101);
la sentenza n. 29 del 2009 (a proposito della legittimità costituzionale
dell’art. 238-bis c.p.p., che consente la acquisizione a fini di prova di sentenze
irrevocabili: pag. 103);
la sentenza n. 173 del 2009 (dichiarata illegittimità costituzionale
parziale dell’art. 240 c.p.p.), in materia di distruzione immediata delle cd.
intercettazioni illegali: pag. 104);
sempre in materia di «intercettazioni», la recente pronuncia della Corte a
proposito dell’«agente segreto attrezzato per il suono»: sentenza n. 320 del
2009 (p. 107);
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l’ordinanza n. 236 del 2008 e l’ordinanza n. 67 del 2009 (a proposito della
obbligatorietà dell’arresto per il reato di indebito trattenimento dello
straniero che abbia ricevuto l’ordine di lasciare il territorio nazionale: pag.
110);
la sentenza n. 143 del 2008 e la ordinanza n. 60 del 2009 (a proposito delle
modalità di computo della durata massima della custodia cautelare in caso
di soggetto arrestato all’estero in esecuzione della normativa sul mandato di
arresto europeo: pag. 111);
ancora in tema di libertà personale, una questione concernente la durata
del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, disposto in via provvisoria:
ordinanza n. 287 del 2009 (pag. 113);
la sentenza n. 142 del 2009 (a proposito del criteri di formazione del
fascicolo predisposto in vista della udienza preliminare: pag. 114);
ancora sulla udienza preliminare, circa gli effetti della dichiarazione di
nullità del decreto di rinvio a giudizio: ordinanza n. 331 del 2009 (p. 114);
sui soggetti minorenni: una importante decisione (ordinanza n. 117 del
2009) sul diritto al contraddittorio del minore infraquattordicenne prima che
venga deliberata la sentenza di non luogo a procedere per difetto di
imputabilità (pag. 115);
ancora sul diritto al contraddittorio, una decisione (ordinanza n. 281 del
2009) concernente il termine a difesa ed i poteri di sindacato del giudice
sulla relativa richiesta (pag. 116);
sul diritto dello straniero alla difesa ed al contraddittorio: nuovi
provvedimenti – le ordinanze n. 417 del 2008 e n. 111 del 2009 – a proposito
del rilascio «obbligatorio» del nulla osta all’espulsione da parte del giudice
penale: pag. 116);
a proposito di vari aspetti del procedimento penale innanzi al giudice di
pace (le ordinanze n. 114 e n. 321 del 2008, relativamente al ricorso
immediato della persona offesa; le ordinanze n. 64 e n. 69 del 2009,
relativamente alla incidenza della connessione sui criteri di determinazione
della competenza: pag. 119);
la ordinanza n. 255 del 2009, sul procedimento di esecuzione (a
proposito dell’applicazione d’ufficio dell’amnistia e dell’indulto: pag. 121).
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IN GENERALE
Nel corso di precedenti incontri di aggiornamento abbiamo
ampiamente commentato le fondamentali sentenze n. 348 e n. 349 del
2007 (estensori, rispettivamente, Silvestri e Tesauro).
Come tutti sanno, la Corte ha chiarito che le norme della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo non sono «autoapplicative»
perché non sono norme comunitarie, né sono riferibili all’art. 11 della
Costituzione, dato che non introducono alcuna limitazione di sovranità.
Sono norme internazionali pattizie (dunque non consuetudinarie, con
conseguente inapplicabilità del primo comma dell’art. 10 Cost.), che
vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento
interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi
applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando, nello
stesso tempo, le norme interne in eventuale contrasto.
Per altro, il testo riformato dell’art. 117, primo comma, Cost.
condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni
al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente
rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti
dell'uomo. Va respinta – secondo la Corte – la tesi che la norma sia da
considerarsi operante soltanto nell'ambito dei rapporti tra lo Stato e le
Regioni. Allo stesso tempo, non può ritenersi che ogni norma contenuta
in un trattato internazionale assuma, per il tramite dell’art. 117 comma
1, il rango di norma costituzionale.
In realtà la disposizione presenta struttura simile a quella di altre
norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se
poste in stretto collegamento con altre norme, di rango subcostituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si
limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso
richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di
rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge
ordinaria. Nel linguaggio corrente si tratta di “fonti interposte".
Quindi le norme della Convenzione, come interpretate dalla Corte
di Strasburgo, non acquistano la forza delle norme costituzionali e sono
perciò non immuni dal controllo di legittimità della Corte costituzionale
italiana. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro
costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello subcostituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione.
L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità
siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile,
per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata
incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua
volta in contrasto con la Costituzione. È illegittima solo una norma che
contrasti con un parametro interposto del quale sia positivamente
scrutinata la conformità alla Costituzione.
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Insomma, quando sorga il dubbio di un contrasto tra una norma
nazionale ed una della Convenzione, occorre verificare: a) se
effettivamente vi sia contrasto, non risolvibile in via interpretativa, tra
la norma interna e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte
europea ed assunte come fonti integratrici del parametro di
costituzionalità di cui all'art. 117, primo comma, Cost.; b) se le norme
della
CEDU
invocate
come
integrazione
del
parametro,
nell'interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano
compatibili con l'ordinamento costituzionale italiano.
Se la norma interna contrasta con una norma della Convenzione, e la
norma della Convenzione non contrasta con la Costituzione, ebbene il
giudice nazionale dovrà eccepire l’illegittimità della norma interna per
contrasto con il primo comma dell’art. 117 Cost., e la Consulta ne
disporrà l’eliminazione dall’ordinamento.
Questa lettura di sintesi (estrema) del sistema costruito nelle cd.
«sentenze gemelle» è stata efficacemente ribadita in una recentissima ed
ulteriore decisione della Corte, che dobbiamo brevemente analizzare
sebbene non riguardi un argomento penalistico (essendo attinente ad
una pretesa norma «interpretativa» circa il trattamento economico e
giuridico di dipendenti degli enti locali trasferiti all’Amministrazione
dello Stato): è la sentenza n. 311 del 2009 (Amirante, Tesauro).
È interessante anzitutto una prima puntualizzazione sui casi di
copertura convenzionale di norme generalmente riconosciute del diritto
internazionale:
Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il
giudice comune, il quale non può procedere all’applicazione della norma della CEDU
(allo stato, a differenza di quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo di
quella interna contrastante, tanto meno fare applicazione di una norma interna che egli
stesso abbia ritenuto in contrasto con la CEDU, e pertanto con la Costituzione, deve
sollevare la questione di costituzionalità (anche sentenza n. 239 del 2009), con
riferimento al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell’art. 10,
primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma
del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto
dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall’art. 117, primo comma,
Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme
internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di
costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell’interpretazione
insufficiente ad eliminare il contrasto.
Sollevata la questione di legittimità costituzionale, spetta a questa Corte il compito
anzitutto di verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile
attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto
alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo. La Corte dovrà
anche, ovviamente, verificare che il contrasto sia determinato da un tasso di tutela della
norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma CEDU, dal momento che la
diversa ipotesi è considerata espressamente compatibile dalla stessa Convenzione
europea all’art. 53.
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Va subito posta in rilievo la pur schematica anticipazione della
prospettiva poi sviluppata nella sentenza sul processo contumaciale
(infra), e cioè la CEDU e la Costituzione come sistema multilivello idoneo
a garantire la «massima estensione delle tutele» in ordine ai diritti
umani.
Nel caso di specie, innanzi alla Corte di Cassazione, era stata
prospettata una violazione dell’art. 6 della Convenzione, come
interpretato dalla Corte di Strasburgo, secondo cui gli Stati non
possono intervenire mediante leggi interpretative per influenzare l’esito
di singole controversie o gruppi di controversie, salvo il caso di
pressanti esigenze di carattere generale. Proprio questo scopo avrebbe
avuto, invece, la sedicente norma interpretativa volta a risolvere le
controversie insorte dopo l’applicazione delle legge cui si sopra si è fatto
cenno.
In verità la disciplina in contestazione era già stata scrutinata dalla
Consulta nel 2007, con esito positivo, ma alla luce di parametri diversi
dall’art. 117, primo comma, Cost. Il ricorso al nuovo parametro ha
imposto anzitutto di verificare la consistenza del «diritto convenzionale»,
nella
prospettazione
ricavabile
dalla
giurisprudenza
CEDU.
Tralasciando qui l’analisi della specifica normativa coinvolta nel
giudizio, possiamo citare l’esito della ricognizione:
[…] occorre rilevare che la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto
assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non
contrari all’art. 6 della Convenzione europea particolari interventi retroattivi dei
legislatori nazionali.
La legittimità di simili interventi è stata riconosciuta, in primo luogo, allorché
ricorrevano ragioni storiche epocali, come nel caso della riunificazione tedesca (caso
Forrer-Niederthal c. Germania, sentenza del 20 febbraio 2003).
In questo caso, la Corte europea, di fronte ad una norma che faceva salvi con effetto
retroattivo i trasferimenti di proprietà, senza indennizzo, in «proprietà del popolo» della
ex D.D.R., ha concluso per la compatibilità dell’intervento con la norma convenzionale;
ciò non soltanto per il motivo “epocale” del nuovo riassetto dei conflitti patrimoniali
conseguenti alla riunificazione, ma anche in considerazione della sussistenza effettiva di
un sistema che aveva garantito alle parti, che contestavano le modalità del riassetto,
l’accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e garantito. In particolare, a seguito
della denuncia di incostituzionalità della norma, il Tribunale costituzionale tedesco si era
pronunciato nel senso della compatibilità della disposizione in questione con la Legge
Fondamentale. Tale specifica evenienza, che mostra un’innegabile analogia con la
vicenda oggi qui in esame, è stata considerata come «punto chiave della controversia».
La Corte europea ha riconosciuto che il ricorrente aveva avuto accesso a tribunali
indipendenti avvicendatisi nei vari gradi, e soprattutto all’organo di giustizia
costituzionale, sicchè ha osservato che «nel suo complesso», il procedimento in questione
aveva rivestito i caratteri di equità, conformi al dettato dell’art. 6, paragrafo 1, della
CEDU.
In altri casi, nel definire e verificare la sussistenza o meno dei motivi imperativi
d’interesse generale, la Corte di Strasburgo ha ritenuto legittimo l’intervento del
legislatore che, per porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata,
aveva inteso con la legge retroattiva ristabilire un’interpretazione più aderente
all’originaria volontà del legislatore […].
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Va […] ribadito che la legge n. 124 del 1999 ha inteso governare una particolare
operazione di riassetto organizzativo riguardante un ampio numero di soggetti. La
disposizione di legge censurata ha contribuito a soddisfare l’indiscutibile interesse
generale a rendere tendenzialmente omogeneo il sistema retributivo di tutti i dipendenti
del ruolo statale, al di là delle rispettive provenienze, impedendo che una diversa
interpretazione potesse determinare, non solo una smentita dell’originario principio di
“invarianza della spesa”, ma anche e soprattutto un assetto che rischiava, esso sì
irragionevolmente, di creare un potenziale vulnus al principio di parità di trattamento,
che le amministrazioni pubbliche devono garantire. In tal modo, nella specie ricorrono
più di una tra quelle «ragioni imperative di interesse generale» che consentono, nel
rispetto dell’art. 6 della Convenzione europea e nei limiti evidenziati dalla Corte di
Strasburgo, interventi interpretativi e retroattivi.
Segue, nella decisione, un’analisi di dettaglio della normativa
censurata, delle sue finalità e delle sue implicazioni, che in questa sede
non assume rilievo dirimente. Basti aver messo in evidenza come la
Consulta abbia rinvenuto nella stessa (e specifica) giurisprudenza di
Strasburgo una sorta di margine di apprezzamento che ha impedito
una perturbazione del bilanciamento tra interessi che aveva già trovato
il proprio assetto alla luce dei principi «interni» alla nostra Carta
costituzionale. Anche se qui, per maggior precisione, si trattava di
apprezzare un limite «interno» alla stessa costruzione del principio di
non interferenza operata, a Strasburgo, in base all’art. 6 della
Convenzione.
Ma veniamo finalmente, a soprattutto, alla sentenza n. 317 del
2009, che presenta ai nostri occhi un duplice interesse: puntualizza e
sviluppa la riflessione della Corte sui rapporti tra ordinamenti ed
introduce una regola di grande importanza, pratica e sistematica, nella
disciplina del processo contumaciale.
Va fatta una premessa, anche per evidenziare le differenti sensibilità
evidentemente sottese a questi temi. Si poneva da tempo la questione,
relativa all’art. 175, comma 2, c.p.p., se il meccanismo della
rimessione in termini per l’impugnazione a favore dell’imputato
processato in contumacia potesse essere azionato quando il gravame
fosse già stato interposto dal difensore.
Il problema non si era posto fino al 2000, perché il legislatore del
nuovo codice aveva fatto una scelta iniziale forse discutibile, ma
certamente coerente. All’art. 571 c.p.p. era stato stabilito che il
difensore non potesse impugnare la sentenza contumaciale senza uno
specifico mandato. La presenza del mandato (requisito poi edulcorato
dalla giurisprudenza alla luce di un discutibile favor impugnationis)
assicurava che l’imputato, per quanto giudicato in contumacia, fosse
consapevole del procedimento e – prescindendo appunto da una «deriva»
giurisprudenziale mirata ad ampliare i poteri del difensore – addirittura
della sentenza pronunciata in suo danno. Nel contempo, e per quanto
erosa dal diritto vivente, la disciplina impediva la celebrazione di un
giudizio di appello nel caso di contumace inconsapevole.
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Coerentemente, l’art. 175 c.p.p. (sia pure con condizioni di accesso
molto restrittive) consentiva la rimessione in termini per l’appello, ma
alla condizione che il giudizio di gravame non fosse stato già celebrato
per iniziativa del difensore.
Il sistema si teneva: vero che «doveva» passare in giudicato, senza
appello, una sentenza sfavorevole al contumace; ma, in favore di questi,
veniva preservata l’opportunità di un nuovo giudizio di merito alla sua
presenza.
Trascurando – e secondo alcuni ignorando – la funzione della norma,
il legislatore della legge Carotti (legge n. 479 del 1999) eliminò dall’art.
571 c.p.p. la condizione del mandato ad hoc per l’impugnazione del
processo contumaciale. La cosa avvenne senza discussioni, e passò
inizialmente quasi inosservata, anche perché Carotti e compagni si
erano «dimenticati», nel testo dell’art. 175 c.p.p., la preclusione alla
restituzione nel termine nel caso di gravame già celebrato su iniziativa
del difensore. Sennonché i casi del genere si erano ormai estesi ad una
classe inusitata di fattispecie: quelle dell’appello proposto nella
perdurante inconsapevolezza dell’imputato giudicato in contumacia. I
problemi sul tappeto si erano fatti progressivamente più chiari: il
difensore poteva sentire l’obbligo deontologico di impedire il passaggio
in giudicato d’una sentenza di condanna, ma la celebrazione del
gravame nell’assenza e nella inconsapevolezza dell’imputato poteva
implicare che questi si ritrovasse condannato in via definitiva senza
neppure disporre del rimedio introdotto con la modifica dell’art. 175
c.p.p.
La questione era esplosa a metà dello scorso decennio, per effetto
della sentenza di condanna deliberata contro l’Italia, dalla Corte di
Strasburgo, su ricorso di tale Sejdovic (infra). Il legislatore era
intervenuto d’urgenza, con il decreto-legge n. 17 del 2005. Per la
verità, poiché le prime decisioni Sejdovic denunciavano «solo» l’eccessiva
severità delle condizioni per ottenere la restituzione in termini, il
Governo aveva modificato l’art. 175 c.p.p. esclusivamente sotto questo
profilo, allungando il termine per la richiesta e sollevando il richiedente
dall’onere di provare la propria inconsapevolezza pregressa circa il
giudizio a suo carico. Tuttavia, durante i lavori parlamentari per la legge
di conversione, era maturata presso la Camera dei Deputati l’idea di
sopprimere anche l’inciso che, nel testo della norma, limitava l’accesso
al beneficio ai casi in cui il giudizio di gravame non avesse già avuto
luogo su iniziativa del difensore. Il Senato era andato di diverso avviso,
ma lo «scontro» tra i due rami del Parlamento si era risolto a favore della
Camera, anche data l’urgenza di approvare la legge n. 60 del 2005
entro i termini utili per la conversione. Dunque il testo dell’art. 175
c.p.p. uscito da quella vicenda, ed ancor oggi vigente, ammette la
restituzione in termini del contumace senza alcuna distinzione (almeno
esplicita) tra casi di gravame già interposto e casi di impugnazione
proposta per la prima volta insieme alla richiesta di rimessione.
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Il seguente materiale redatto dal Dott. Guglielmo LEO proviene da un incontro organizzato in
data 11 gennaio 2010 dalla Formazione Decentrata di Milano .
In questo contesto è possibile essere molto espliciti. Per quanto si sia
sostenuto, anche molto autorevolmente, che le intenzioni del legislatore
non sarebbero univoche, in realtà la normativa approvata dal
Parlamento appare di chiarezza solare, almeno quanto alla intentio legis.
Il Relatore del disegno di legge alla Camera ebbe ad affermare
espressamente che l’inciso veniva rimosso per consentire il gravame,
su richiesta del contumace, anche in caso di celebrazione pregressa
su iniziativa del difensore. E d’altra parte la logica insegna che, quando
il legislatore elimina una norma che pone una preclusione,
normalmente ciò avviene al fine di rimuovere detta preclusione. Il tutto,
nella specie, con un fine discutibile ma riconoscibile e razionale, cioè
consentire in tutti i casi che almeno un pezzo del giudizio di merito si
svolgesse alla presenza dell’imputato.
Non è un caso che le prime due decisioni della Cassazione successive
alla legge 60 avessero affermato – del tutto innovativamente, ma a
fronte di una rilevante novità normativa – la possibilità del bis in
idem: nel concorso delle ulteriori condizioni, il contumace
inconsapevole ha diritto alla restituzione nel termine per l’impugnazione
anche quando il corrispondente grado del giudizio sia già stato
celebrato.
Ma… nonostante la mera apparenza del contrasto con le precedenti
decisioni, tutte banalmente deliberate nella vigenza di una norma di
segno opposto, la questione era stata rimessa alle Sezioni unite. E,
come si ricorderà, le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza
Huzuneanu (n. 6026 del 2008), avevano stabilito che l’imputato
contumace non avesse diritto alla restituzione in termini per
l’impugnazione quando il gravame fosse già stato proposto dal difensore
(anche d’ufficio) e già definito. La soluzione, in problematico rapporto
con la giurisprudenza CEDU sul diritto di personale partecipazione al
processo, era stata giudicata costituzionalmente compatibile perché –
naturalmente semplifico – mai specificamente “imposta” dalla Corte
europea ed espressiva di un necessario bilanciamento con altri principi
costituzionali, che si risolvono nel parametro della ragionevole durata.
La soluzione sacrificava la possibilità per l’imputato contumace di
partecipare al proprio processo. Non ha dunque sorpreso che le Sezioni
unite siano state molto presto contraddette da sezioni semplici. È stata
in particolare la prima sezione della Cassazione, già nel corso del
2008, a sollevare la questione di legittimità poi accolta dalla Consulta
con la sentenza in commento.
Nell’ordinanza, aderendo (senza eccessivi sforzi di supporto
argomentativo) alla soluzione negativa propugnata dalle Sezioni unite
sul bis in idem, il giudici hanno contraddetto il massimo Collegio quanto
alla pretesa compatibilità della disciplina ricavata dal comma 2
dell’art. 175 c.p.p. con la Costituzione e la Convenzione europea dei
diritti dell’uomo.
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A quest’ultimo proposito si può anticipare brevemente che la Corte di
Strasburgo, anche e soprattutto trattando ricorsi proposti contro lo
Stato italiano, aveva ormai elaborato una propria stabile
giurisprudenza: a) la Convenzione assicura ad ognuno il diritto di
presenziare ad un giudizio che si svolga nei suoi confronti, e questo
diritto, se non volontariamente e consapevolmente dismesso, deve
essere assicurato prima che venga eseguita una eventuale sentenza di
condanna nei confronti dell’interessato; b) il modello del processo
contumaciale non è incompatibile in assoluto con la Convenzione, ma
deve essere accompagnato da strumenti ripristinatori che assicurino,
al condannato in contumacia inconsapevole, la possibilità di essere
sentito dal giudice, e di difendersi, prima che una condanna venga
eseguita; c) la Corte, fino ad ora, non ha stabilito che la Convenzione
impone un dato modello ripristinatorio (ne sono concepibili parecchi,
dalla «purgazione» - adottata da noi per le sentenze del giudice di pace –
alla rimessione in termini per l’impugnazione), esigendo però che si
tratti di rimedio accessibile con facilità ed efficiente sul piano della
assicurazione concreta del diritto di difesa.
Con sentenza approvata il 30 novembre 2009 la Corte costituzionale
ha dichiarato «la illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2,
del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente la
restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del
procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre
impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle
ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione
sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato».
La Corte ha ricordato i molti strumenti internazionali in base ai quali
l’Italia è obbligata a garantire una «fresh determination» (per usare il
linguaggio dell’ormai storica sentenza Colozza c. Italia) sull’accusa
mossa ad un contumace inconsapevole.
Il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New
York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia in base alla
legge 25 ottobre 1977, n. 881, attribuisce all’imputato il «diritto di
essere presente al processo» (art. 14, comma 3, lettera d). L’art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, nell’interpretazione
datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nei termini più avanti
specificati. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la
risoluzione del 21 maggio 1975, n. 11, ha precisato i criteri da seguire
nel giudizio in assenza dell’imputato, stabilendo, tra le «regole minime»,
che «ogni persona giudicata in sua assenza deve poter impugnare la
decisione con tutti i mezzi di gravame che le sarebbero consentiti
qualora fosse stata presente» (raccomandazione n. 7). L’art. 3 del
Secondo Protocollo addizionale alla Convenzione europea di
estradizione, adottato a Strasburgo il 17 marzo 1978, ratificato e reso
esecutivo in Italia in base alla legge 18 ottobre 1984, n. 755, prevede
che l’estradizione di un condannato, ai fini dell’esecuzione di una pena
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inflitta mediante provvedimento reso in contumacia, possa essere
subordinata al fatto che la Parte richiedente fornisca «assicurazioni
ritenute sufficienti per garantire alla persona la cui estradizione è
chiesta il diritto ad un nuovo procedimento di giudizio che tuteli i diritti
della difesa». L’art. 5, numero 1), della Decisione quadro del Consiglio
dell’Unione europea del 13 giugno 2002 (2002/584/GAI), relativa al
mandato d’arresto europeo ed alle procedure di consegna tra Stati
membri, dispone: «se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai
fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza comminate
mediante decisione pronunciata “in absentia”, e se l’interessato non è
stato citato personalmente né altrimenti informato della data e del luogo
dell’udienza che ha portato alla decisione pronunciata in absentia, la
consegna può essere subordinata alla condizione che l’autorità
giudiziaria emittente fornisca assicurazioni considerate sufficienti a
garantire alle persone oggetto del mandato di arresto europeo la
possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato membro
emittente e di essere presenti al giudizio».
Con riguardo particolare all’art. 6 CEDU, con una serie di pronunce
(Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985; F.C.B. c. Italia, 28 agosto 1991; T.
c. Italia, 12 ottobre 1992; Somogyi c. Italia, 18 maggio 2004; Sejdovic c.
Italia, 10 novembre 2004 e Idem, Grande Camera, 1° marzo 2006), la
Corte di Strasburgo ha fissato principi che si possono riassumere come
segue.
a. La persona accusata di un reato, pur non avendone l’obbligo, ha diritto di essere
presente al processo che la riguarda.
b. È possibile la rinuncia all’esercizio di tale diritto, e dunque la previsione di forme
di procedimento contumaciale non è per se stessa contraria alle disposizioni
convenzioni di garanzia dei diritti dell’uomo.
c. Affinché la celebrazione in absentia del processo rappresenti il frutto di una scelta, e
non la violazione di un diritto, l’imputato deve essere consapevole della
celebrazione del procedimento a suo carico.
d. Va conseguentemente prevenuta l’esecuzione di sentenze pronunciate contro
contumaci inconsapevoli.
e. Appartiene alla discrezionalità degli Stati la scelta degli strumenti per evitare
l’esecuzione delle sentenze appena indicate, potendo essi approntare strumenti
preventivi, cioè preclusioni che ostacolino la celebrazione del processo in absentia
a fronte di comunicazioni non personalizzate circa le scansioni del processo, oppure
strumenti ripristinatori.
f. A proposito di questi ultimi, in particolare, deve essere garantita al condannato
contumace inconsapevole la nuova celebrazione di un procedimento, che si svolga
in sua presenza avanti ad un giudice che ascolti le ragioni del condannato e gli
consenta l’esercizio del diritto di difesa.
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È evidente che la disciplina italiana sulla restituzione in termini,
almeno nella versione offertane dalla sentenza delle Sezioni unite,
non assicurava l’osservanza dei principi anzidetti.
La Consulta non ha rimproverato al rimettente l’omessa
sperimentazione di una soluzione «convenzionalmente orientata» (che
pure sembrava tutt’altro che inconcepibile), e neppure si è indotta ad
una decisione su base interpretativa (ad esempio una sentenza
interpretativa di rigetto). Del resto, dopo la sentenza Huzuneanu, si
erano registrate due decisioni adesive delle sezioni semplici, e la stessa
ordinanza di rimessione, nei suoi presupposti interpretativi, aderiva al
dictum del massimo Collegio.
La Corte piuttosto, molto opportunamente riconoscendo alla
Cassazione la sua preminente funzione nomofilattica, ha fatto
applicazione della teorica del diritto vivente. Senza dunque
assoggettare a verifica (ed a critica) l’assunto che ancor oggi l’art. 175
c.p.p. precludesse il bis in idem, il Giudici costituzionali sono partiti da
quell’assunto. Ma immediatamente e – si direbbe – inevitabilmente,
hanno contraddetto le Sezioni unite in punto di compatibilità tra detto
diritto vivente ed i precetti della Costituzione.
Come accennato in apertura, la sentenza costituisce il punto più
avanzato della riflessione in corso nelle Corti costituzionali (non solo
quella italiana) circa i rapporti tra ordinamenti nazionali, ordinamenti
sovranazionali e ordinamento internazionale. Non è questione di
gerarchie, ma di «sistema multilivello» delle garanzie per i diritti
umani, in una interazione virtuosa tra fonti, tale da assicurare sempre
la garanzia più estesa tra quelle disponibili. Né la Corte «appalta» il
proprio ruolo storico ed istituzionale di garante degli equilibri disegnati
dalla nostra Costituzione, perché una trasposizione automatica delle
norme e dei dicta provenienti dagli ordinamenti sovranazionali non
potrebbe mai determinare una lesione di interessi garantiti dalla
Costituzione italiana. Concetto già presente nelle sentenze n. 348 e
349 del 2007 (e sommariamente evocato, a fini di motivazione, nella
sentenza Huzuneanu), ma chiarito e puntualizzato con la recentissima
decisione.
Dato appunto che il provvedimento è recente, conviene fare
abbondante ricorso alla citazione:
Questa Corte ha già chiarito che l’integrazione del parametro
costituzionale rappresentato dal primo comma dell’art. 117 Cost. non deve
intendersi come una sovraordinazione gerarchica delle norme CEDU – in sé
e per sé e quindi a prescindere dalla loro funzione di fonti interposte –
rispetto alle leggi ordinarie e, tanto meno, rispetto alla Costituzione. Con
riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi
internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela
rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve,
viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa.
Se si assume questo punto di partenza nella considerazione delle
interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, si arriva facilmente
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alla conclusione che la valutazione finale circa la consistenza effettiva
della tutela in singole fattispecie è frutto di una combinazione virtuosa tra
l’obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti
dalla CEDU – nella sua interpretazione giudiziale, istituzionalmente
attribuita alla Corte europea ai sensi dell’art. 32 della Convenzione –
l’obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme
interne una interpretazione conforme ai precetti convenzionali e l’obbligo
che infine incombe sulla Corte costituzionale – nell’ipotesi di impossibilità
di una interpretazione adeguatrice – di non consentire che continui ad
avere efficacia nell’ordinamento giuridico italiano una norma di cui sia
stato accertato il deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale. Del
resto, l’art. 53 della stessa Convenzione stabilisce che l’interpretazione
delle disposizioni CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli
assicurati dalle fonti nazionali.
L’accertamento dell’eventuale deficit di garanzia deve quindi essere
svolto in comparazione con un livello superiore già esistente e
giuridicamente disponibile in base alla continua e dinamica integrazione
del parametro, costituito dal vincolo al rispetto degli obblighi internazionali,
di cui al primo comma dell’art. 117 Cost.
È evidente che questa Corte non solo non può consentire che si
determini, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., una tutela
inferiore a quella già esistente in base al diritto interno, ma neppure può
ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la
stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale. La
conseguenza di questo ragionamento è che il confronto tra tutela
convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve
essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie,
anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme
costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti.
Nel concetto di massima espansione delle tutele deve essere compreso,
come già chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, il necessario
bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè
con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti
fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola
tutela. Questo bilanciamento trova nel legislatore il suo riferimento
primario, ma spetta anche a questa Corte nella sua attività
interpretativa delle norme costituzionali.
Il richiamo al «margine di apprezzamento» nazionale – elaborato dalla
stessa Corte di Strasburgo, come temperamento alla rigidità dei principi
formulati in sede europea – trova la sua primaria concretizzazione nella
funzione legislativa del Parlamento, ma deve essere sempre presente nelle
valutazioni di questa Corte, cui non sfugge che la tutela dei diritti
fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di
norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro. Naturalmente, alla
Corte europea spetta di decidere sul singolo caso e sul singolo diritto
fondamentale, mentre appartiene alle autorità nazionali il dovere di evitare
che la tutela di alcuni diritti fondamentali – compresi nella previsione
generale ed unitaria dell’art. 2 Cost. – si sviluppi in modo squilibrato, con
sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale e
dalla stessa Convenzione europea.
Il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento
deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola
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norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela
per tutto il sistema dei diritti fondamentali.
Questa Corte non può sostituire la propria interpretazione di una
disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con ciò
uscendo dai confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso
impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica,
senza l’apposizione di riserve, della Convenzione (sentenza n. 311 del
2009), ma può valutare come ed in qual misura il prodotto
dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento
costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare
il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel
sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e
bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è
chiamata in tutti i giudizi di sua competenza.
In sintesi, il «margine di apprezzamento» nazionale può essere
determinato avuto riguardo soprattutto al complesso dei diritti
fondamentali, la cui visione ravvicinata e integrata può essere opera del
legislatore, del giudice delle leggi e del giudice comune, ciascuno
nell’ambito delle proprie competenze.
In base a questa ricostruzione del sistema – della quale è già stata
posta in rilievo una forte carica assiologia – è stato valutato l’assunto
delle Sezioni unite secondo cui il diritto di difesa del contumace
avrebbe ben potuto soccombere ad una pratica applicazione del
principio di ragionevole durata del processo, del quale il ne bis in idem
costituisce un corollario particolarmente importante.
Tale eventualità deve essere esclusa, giacché il diritto di difesa ed il
principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in
comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla
completezza del sistema delle garanzie. Ciò che rileva è esclusivamente
la durata del «giusto» processo, quale delineato dalla stessa norma
costituzionale invocata come giustificatrice della limitazione del diritto di
difesa del contumace. Una diversa soluzione introdurrebbe una
contraddizione logica e giuridica all’interno dello stesso art. 111 Cost., che
da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio
e dall’altra autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo di
abbreviare la durata dei procedimenti. Un processo non «giusto», perché
carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello
costituzionale, quale che sia la sua durata.
La Corte non si è disinteressata dei gravi effetti sistemici della propria
decisione, che tuttavia è stata necessaria per eliminare un vulnus
attuale ed immediato del diritto di difesa, restituendo effettività proprio
al rimedio ripristinatorio prescelto dal legislatore. La sentenza contiene
anzi qualche spunto, a volte quasi ermetico, su questioni che si
porranno nella pratica, e che qui non è possibile discutere.
A fortiori non possono essere richiamati, per convalidare la legittimità
costituzionale della norma censurata, i principi dell’unicità del diritto
all’impugnazione e del divieto di bis in idem, da cui non possono essere
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tratte conclusioni limitative di un diritto fondamentale. Tali principi devono
essere presi in considerazione, invece, sia per ricercare i rimedi ad
eventuali
giudicati
contraddittori
che
già
siano
presenti
nell’ordinamento positivo, sia per approntare, da parte del legislatore,
norme tecniche di dettaglio, volte a rendere maggiormente operativo, sul
piano processuale, il principio di garanzia costituito dal diritto del
contumace inconsapevole a fruire di una misura ripristinatoria.
Quest’ultima, per avere effettività, non può essere «consumata»
dall’atto di un soggetto, il difensore (normalmente nominato
d’ufficio, in tali casi, stante l’assenza e l’irreperibilità dell’imputato), che
non ha ricevuto un mandato ad hoc e che agisce esclusivamente di propria
iniziativa. L’esercizio di un diritto fondamentale non può essere sottratto al
suo titolare, che può essere sostituito solo nei limiti strettamente necessari
a sopperire alla sua impossibilità di esercitarlo e non deve trovarsi di
fronte all’effetto irreparabile di una scelta altrui, non voluta e non
concordata, potenzialmente dannosa per la sua persona.


C’è un altro aspetto di fondo quanto agli strumenti di sindacato delle
scelte legislative, concernente specificamente le disposizioni penali,
che conviene evocare in via preliminare.
In un’epoca segnata da frequentissime riforme del sistema penale,
anche sul piano sostanziale, ed in particolare da riforme che
«addolciscono» il trattamento di determinate fattispecie, matura con
molta frequenza l’esigenza di un controllo di legittimità sulle scelte
legislative. Si pongono problemi di successione nel tempo delle leggi
penali, alla luce del principio di retroattività della legge più
favorevole. Ma il sindacato sulla legittimità della lex mitior,
naturalmente, deve fare i conti con il divieto di interventi in malam
partem, nella materia penale, da parte della Corte costituzionale.
Conviene ancora partire, sebbene si tratti di un provvedimento ormai
piuttosto risalente, alla sentenza n. 394 del 2006, Flick: sentenza
dichiarativa, come tutti ricorderete, della parziale illegittimità della
normativa di favore introdotta, nel 2004, con riguardo ai falsi elettorali.
Per brevità, e per opportuna documentazione, trascrivo i passaggi
essenziali della motivazione, cominciando dal primo tema: nozione di
norma penale di favore
(…) secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, all'adozione di pronunce
in malam partem in materia penale osta non già una ragione meramente processuale – di
irrilevanza, nel senso che l'eventuale decisione di accoglimento non potrebbe trovare
comunque applicazione nel giudizio a quo – ma una ragione sostanziale, intimamente
connessa al principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.,
in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata
in vigore prima del fatto commesso» (…) Rimettendo al legislatore – e segnatamente al
«soggetto-Parlamento», in quanto rappresentativo dell'intera collettività nazionale
(sentenza n. 487 del 1989) – la riserva sulla scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle
sanzioni loro applicabili, detto principio impedisce alla Corte sia di creare nuove
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fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti; sia di incidere in
peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (…).
Questa Corte ha peraltro chiarito che il principio di legalità non preclude lo scrutinio
di costituzionalità, anche in malam partem, delle c.d. norme penali di favore: ossia delle
norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più
favorevole di quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni. Di
tale orientamento – che trova la sua prima compiuta enunciazione nella sentenza n. 148
del 1983 – questa Corte ha fatto ripetute applicazioni (…). Esso si connette all'ineludibile
esigenza di evitare la creazione di «zone franche» dell'ordinamento (così la sentenza n.
148 del 1983), sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali il legislatore
potrebbe di fatto operare svincolato da ogni regola, stante l'assenza d'uno strumento che
permetta alla Corte di riaffermare il primato della Costituzione sulla legislazione
ordinaria. Qualora alla preclusione dello scrutinio di costituzionalità in malam partem
fosse attribuito carattere assoluto, si determinerebbe, in effetti, una situazione
palesemente incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che il legislatore è tenuto a
rispettare i precetti costituzionali se effettua scelte di aggravamento del trattamento
penale, mentre può violarli senza conseguenze, quando dalle sue opzioni derivi un
trattamento più favorevole.
In accordo con l'esigenza ora evidenziata, va osservato che il principio di legalità
impedisce certamente alla Corte di configurare nuove norme penali; ma non le preclude
decisioni ablative di norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte
alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro
un trattamento più benevolo (sentenza n. 148 del 1983): e ciò a prescindere dall'istituto
o dal mezzo tecnico tramite il quale tale trattamento si realizza (previsione di una
scriminante, di una causa di non punibilità, di una causa di estinzione del reato o della
pena, di una circostanza attenuante o di una figura autonoma di reato punita in modo più
mite). In simili frangenti, difatti, la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione
resta salva: l'effetto in malam partem non discende dall'introduzione di nuove norme o
dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a
rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta,
invece, una conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune,
dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina
derogatoria. Tale riespansione costituisce una reazione naturale dell'ordinamento –
conseguente alla sua unitarietà – alla scomparsa della norma incostituzionale: reazione
che si verificherebbe in ugual modo anche qualora la fattispecie derogatoria rimossa
fosse più grave; nel qual caso a riespandersi sarebbe la norma penale generale meno
grave, senza che in siffatto fenomeno possa ravvisarsi alcun intervento creativo o
additivo della Corte in materia punitiva.
(…) la nozione di norma penale di favore è la risultante di un giudizio di relazione fra
due o più norme compresenti nell'ordinamento in un dato momento: rimanendo escluso
che detta qualificazione possa esser fatta discendere dal raffronto tra una norma vigente
ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell'area di
rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta
di sindacato in malam partem mirerebbe non già a far riespandere la portata di una
norma tuttora presente nell'ordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la norma
abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali: operazione, questa,
senz'altro preclusa alla Corte, in quanto chiaramente invasiva del monopolio del
legislatore su dette scelte (…).
Il requisito della compresenza della norma di favore e di
dovrebbe «riespandere» la propria portata, che la dottrina
parlando di «specialità sincronica» è stato compiutamente
proprio attraverso la sentenza in esame, sebbene la Corte
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quella che
ha fissato
focalizzato
ne avesse
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fatto applicazione in precedenza, ad esempio coi provvedimenti del 2004
sulla riforma del falso in bilancio. Una nuova applicazione è stata
compiuta, al fine di dichiarare la inammissibilità della questione
sollevata, con la ordinanza n. 413 del 2008, Flick, Tesauro: la
Cassazione tendeva a sindacare la depenalizzazione, in sostanza, del
trasporto di rifiuti prodotti in proprio dalle aziende e non pericolosi, a
prescindere dall’iscrizione all’Albo nazionale delle imprese dedite alla
gestione di rifiuti; la Corte ha replicato:
invero, nelle più recenti pronunce si è precisato che la nozione di norma penale di
favore costituisce la risultante di un giudizio di relazione fra due o più norme
compresenti nell'ordinamento in un dato momento (sentenze n. 324 del 2008 e n. 394 del
2006); (…) dunque, la detta qualificazione va esclusa quando, come nella specie, la
norma sottoposta a scrutinio sia messa a raffronto con una norma anteriore, dalla prima
sostituita con conseguente contrazione dell'area di rilevanza penale; in tal caso, infatti,
la richiesta di sindacato mira, non già a far riespandere la portata di una norma
contemporaneamente vigente nell'ordinamento, quanto piuttosto ad ottenere la
reintroduzione di una norma incriminatrice abrogata, in contrasto con il principio, più
volte ribadito da questa Corte, secondo cui l'individuazione delle condotte ai fini della
repressione penale è espressione di una scelta discrezionale riservata al legislatore
(sentenze n. 324 del 2008, n. 394 del 2006, n. 330 del 1996; ordinanza n. 175 del 2001),
fermo ovviamente il rispetto del principio di irretroattività già sopra richiamato.
Vi sono molti casi recenti in cui la Corte ha fatto applicazione dei
principi evocati, ed ha neutralizzato i tentativi dei giudici ordinari, più
che comprensibili sul piano del merito, di sindacare scelte spesso
irrazionali o contraddittorie della politica sanzionatoria di questi anni.
Nell’infortunio della «questione inammissibile» cade anche la Corte di
cassazione, come è avvenuto nel caso risolto con la ordinanza n. 3 del
2009, (Flick, Maddalena), concernente il trattamento sanzionatorio e
processuale del reato di lesioni colpose da sinistro stradale. In
estrema sintesi va ricordato come il reato in questione sia attribuito alla
competenza de giudice di pace (art. 4 del d.lgs. n. 274 del 2000), e
come da ciò derivi l’applicabilità delle pene previste dall’art. 52 del citato
d.lgs. n. 274 del 2000), le più severe tra le quali sono le cd. sanzioni
paradetentive (permanenza domiciliare e lavoro di pubblica utilità).
Le caratteristiche del caso di specie hanno influito sulla vicenda
processuale sotto molti profili. L’imputato aveva infatti provocato lesioni
molto gravi alla vittima tenendo una condotta di guida irresponsabile (si
muoveva ad alta velocità con una moto impennata ed aveva invaso la
corsia di marcia vietata, travolgendo un altro motociclista). Di qui la
sensazione di inadeguatezza della sanzione applicata (qualche fine
settimana a casa…), e di qui ripetuti incidenti di costituzionalità, già in
una occasione risolti dalla Corte nel senso della inammissibilità.
Questa volta, come detto, ci aveva provato la Corte suprema,
soprattutto evidenziando la distonia di trattamento rispetto ad altri
soggetti in «posizione di garanzia» (cioè gli autori di reati commessi per
violazione delle norme a tutela dei lavoratori o con colpa
professionale). Non è andata meglio. Anzitutto, forse in qualche modo
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Il seguente materiale redatto dal Dott. Guglielmo LEO proviene da un incontro organizzato in
data 11 gennaio 2010 dalla Formazione Decentrata di Milano .
recependo il disagio cui alludevo, la Consulta ha dichiarato
inammissibile la questione per difetto di motivazione sulla rilevanza,
non essendo chiaro perché il giudice escludesse una qualificazione
dolosa del fatto, che ovviamente avrebbe risolto il problema. Si è voluta
ribadire, comunque, la preclusione di sentenze peggiorative del
trattamento sanzionatorio:
in aggiunta a ciò, il rimettente - come già affermato da questa Corte con la citata
ordinanza n. 187 del 2005 - «chiedendo per il reato in esame una pronuncia che consenta
di ripristinare il meccanismo sanzionatorio applicabile prima dell'entrata in vigore del
decreto legislativo n. 274 del 2000, invoca nella sostanza un intervento additivo e di
sistema in malam partem, non consentito a questa Corte in forza del principio della
riserva di legge in materia penale»; (…) non può indurre a diverso avviso il richiamo
che il rimettente fa della sentenza n. 394 del 2006, peraltro adducendo soltanto una
generica analogia tra la fattispecie allora scrutinata e quella attualmente oggetto di
esame, giacché non si verte, nel caso di specie, in ipotesi di norme penali di favore.
Un caso ulteriore e relativamente complicato, che però ai nostri fini
conviene semplificare, è riferibile al tema della cd. ebbrezza
«sintomatica», cioè alla condotta di chi si ponga alla guida di un veicolo
in stato evidente di ubriachezza, senza che sia stato possibile misurare
il livello dell’intossicazione attraverso gli appositi strumenti tecnici. La
questione proposta dal rimettente era complicata dall’accavallarsi di
interventi legislativi contraddittori, tra i quali primeggiano l’abolizione
prima ed il ripristino poi della sanzione penale per colui che rifiuti
di sottoporsi agli accertamenti: un interregno durante il quale, com’è
ovvio, era sommamente conveniente sottrarsi agli esami, riducendo al
pagamento di una somma la conseguenza di una condotta di guida in
stato di ebbrezza.
Semplificando, il rimettente avrebbe voluto anzitutto che la cd.
ebbrezza sintomatica, proprio per il fatto di essere tanto intensa da
manifestarsi platealmente (alitosi, difficoltà di eloquio e coordinamento
motorio, ecc.), non fosse punita come l’intossicazione di più basso
livello, ma, semmai, come quella di livello più elevato. Inoltre, avrebbe
voluto che la Corte anticipasse l’intervento poi attuato dal legislatore,
reintroducendo la sanzione penale per il rifiuto di sottoporsi ai rilievi
tecnici.
La Corte gli ha prevedibilmente risposto con una dichiarazione di
manifesta inammissibilità (ordinanza n. 57 del 2009, Amirante,
Quaranta).
Il richiesto intervento avente ad oggetto il comma 2 dell'art. 186 del codice della
strada è, infatti, chiaramente manipolativo, in quanto tende ad ottenere che alla guida in
stato di ebbrezza sintomatica si applichi, non il trattamento sanzionatorio più lieve
(lettera a) tra quelli contemplati da tale comma, bensì quello più severo (lettera c del
medesimo comma).
Quanto, invece, alla censura che investe il comma 7 del predetto art. 186, essa mira a
conseguire - in anticipo sulle determinazioni successivamente assunte dal legislatore
(nell'esercizio di quel monopolio riservatogli dall'art. 25, secondo comma, Cost.) - una
rinnovata "criminalizzazione" della fattispecie contemplata da tale norma. Ricorre,
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pertanto, anche in questo caso, un esito diverso dall'ablazione di norme penali di favore,
cioè di quelle disposizioni, come si è precisato, «che sottraggano determinati gruppi di
soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più
generale», destinata a riespandersi proprio in ragione di tale ablazione.
In conclusione, entrambe le questioni proposte con riferimento ai commi 2 e 7
dell'art. 186, in quanto tendono a non consentiti interventi con effetti in malam partem,
devono essere dichiarati inammissibili, in conformità alla costante giurisprudenza di
questa Corte (ex multis, sentenze n. 324 del 2008, n. 394 del 2006; ordinanza n. 413 del
2008).
Un ulteriore esempio riguarda una questione proposta con riguardo
al reato di illecito trattamento di dati personali, nella specie riferibile
all’utilizzazione giornalistica di lettere private, avvenuta senza il
consenso degli interessati ma in condizioni di «essenzialità
dell’informazione» e nella ricorrenza del diritto di cronaca.
Il giudice rimettente ha censurato l’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003
proprio nella parte in cui non esige, per la liceità penale della condotta,
il consenso della persona cui si riferiscono i dati. La Corte gli ha
ovviamente risposto che cercava di ottenere una estensione in malam
partem dell’area di applicazione di una fattispecie incriminatrice
(ordinanza n. 66 del 2009, Amirante, De Siervo).
Infine, il tentativo di escludere dalla previsione di indulto
determinate fattispecie: «È manifestamente inammissibile la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, della legge
31 luglio 2006, n. 241, censurato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo
comma, Cost., nella parte in cui non stabilisce che l'indulto concesso
dalla medesima legge non si applica al delitto previsto dall'art. 648-ter
del codice penale (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza
illecita), limitatamente all'ipotesi in cui «l'impiego in attività economiche
o finanziarie riguardi denaro, beni o altre utilità provenienti dai delitti
concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti o
psicotrope». Infatti, posto che, nella specie, l'indulto - varato al fine di
far fronte ad una esigenza di sovraffollamento degli istituti penitenziari ha valore di regola generale, abbracciando più reati commessi sino al 2
maggio 2006, il rimettente invoca una pronuncia additiva in malam
partem che avrebbe l'effetto di sottrarre i condannati per il reato di cui
all'art. 648-ter cod. pen. alla fruizione del beneficio, modificandone in
senso deteriore il trattamento e a ciò osta il principio di riserva di legge
ex art. 25, secondo comma, della Costituzione, che - fatta eccezione per
l'ipotesi, che non ricorre tuttavia nella specie, in cui il sindacato verta
sulle cosiddette norme penali di favore - impedisce tanto la creazione di
nuove fattispecie criminose o l'estensione di quelle esistenti a casi non
previsti, quanto di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti
comunque inerenti alla punibilità» (ordinanza n. 103 del 2009,
Amirante, Frigo).
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La Corte tratterà nell’udienza del 12 gennaio 2010 una questione
che potrebbe implicare un nuovo ed importante approfondimento – per
certi versi originale – circa i limiti del sindacato sulla lex mitior. La
norma censurata, l’art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, del d.lgs.
n. 152 del 3 aprile 2006 n. 152 (c.d. testo unico ambiente) – nel testo
precedente le modifiche apportate dal d.lgs. n. 4 del 2008 – ha per
oggetto le “ceneri di pirite”, qualificate come sottoprodotto non
soggetto alle disposizioni della parte quarta del decreto stesso.
La questione è estremamente complicata, e varrà la pena di
approfondirla nei dettagli solo se e quando la Corte dovesse definirla
attraverso passaggi argomentativi rilevanti per il diritto sostanziale o per
la disciplina del giudizio incidentale di costituzionalità. Ai fini di questa
segnalazione si può ricordare – in termini estremamente generali – che
la legge prevede disposizioni penali concernenti condotte che
riguardano i rifiuti, affidando a disposizioni extrapenali il compito di
definire la nozione di rifiuto. Tale nozione è delimitata, in esito ad un
procedimento fondato anche sull’elaborazione della giurisprudenza
comunitaria, da quella di sottoprodotto, che comprende materiali i
quali non costituiscono oggetto delle fattispecie penali concernenti
appunto i rifiuti.
Le ceneri di pirite sono il residuo della bruciatura industriale della
pirite, che fino a qualche anno or sono era il processo industriale in uso
per la produzione dell’acido solforico. Dette ceneri possono essere usate
nella fabbricazione del cemento, ma in Italia esistono enormi depositi
“storici” di ceneri abbandonate. Il giudizio a quo si è instaurato nei
confronti di persone che hanno movimentato uno di tali depositi, a
decenni dalla sua formazione, senza l’osservanza delle procedure
previste per il riciclaggio dei rifiuti. Alla luce delle disposizioni vigenti
all’epoca della condotta (2002) non v’era dubbio che le ceneri di pirite
fossero un rifiuto, e non un sottoprodotto (nozione che si fonda su
caratteristiche in ogni caso incompatibili con quelle del materiale in
questione).
Sennonché nel 2006 – secondo una logica che ormai potremmo
considerare «tradizionale» - il legislatore è intervenuto a depenalizzare
tutte le condotte prima rilevanti in base alla considerazione delle ceneri
di pirite come rifiuto. La tecnica però è stata insolita, consistendo in un
intervento sulla norma extrapenale integratrice del precetto. Nella
disposizione sopra indicata è stata inserita la seguente locuzione:
«Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui
alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido
di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto
come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e
ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi,
aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o
di ripristino ambientale».
Insomma, una «norma fotografia», fondata su una sorta di scambio
delle etichette (come accennato, la nozione di sottoprodotto non può
comunque comprendere le ceneri di pirite), e mirata appunto ad
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escludere il materiale dalla nozione di rifiuto, con conseguente
«depenalizzazione» delle condotte antecedenti.
L’ulteriore particolarità del caso è che la norma – palesemente
contraria al diritto comunitario e probabilmente ai principi fissati
nell’art. 3 Cost. – è stata poco dopo abrogata, di talché non sembra
dubbio che le ceneri di pirite rappresentino oggi un rifiuto, e che
dunque la violazione delle relative norme di trattamento assuma
significato penale.
Emerge un problema generale, ormai davvero grave. Con una legge in
ipotesi illegittima il legislatore spazza le aule di giustizia dai
procedimenti pendenti, e poi ricriminalizza determinate condotte,
ostacolando ulteriormente il sindacato di costituzionalità. Si tratta in
particolare di stabilire, alla luce del divieto di sindacato in malam
partem, quali siano i poteri di intervento della Carta sulla lex
intermedia mitior, con l’ulteriore complicazione che l’intervento
riguarda norme extrapenali. Ciò in un quadro di forte movimento dei
parametri interposti che regolano il tema della legittimità dei limiti
alla retroattività della lex mitior (infra).
Come si è visto, con la sentenza 394 del 2006, la Corte ha già
stabilito che una lex mitior può essere retroattiva solo a condizione che
sia legittima. Ma ha anche sindacato detta legittimità nella sola e
peculiare prospettiva della norma penale di favore, cioè con riguardo
ad una norma in rapporto di specialità sincronica con una
disposizione compresente e più severa.
Resta da stabilire – ammesso che nel caso di specie ve ne siano le
condizioni e la possibilità – se vi siano margini ulteriori, specie
considerando il paradosso cui andremmo incontro se considerassimo
ostativa la preclusione del sindacato in malam partem per la
rimozione di norme in positivo contrasto con parametri diversi dall’art.
3 Cost.
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Abbiamo ampiamente richiamato la summa più recente del pensiero
della Consulta sui limiti di sindacabilità in malam partem di riforme
«migliorative» del trattamento sanzionatorio anche per facilitare una
riflessione di sintesi sulle decisioni assunte dalla Corte sulla disciplina
della prescrizione, introdotta dalla cd. legge ex-Cirielli.
Si tratta naturalmente, ed in primo luogo, della sentenza n. 324 del
2008 (pres. Bile, rel. Silvestri, red. Napolitano), che ha definito i giudizi
promossi mediante tre particolari ordinanze, le quali evocavano i dubbi
più ricorrenti nella dottrina e nella stessa giurisprudenza, dichiarando
inammissibili o infondate tutte le questioni sollevate.
È un quadro complesso, che proviamo a semplificare come segue.
Secondo i rimettenti – riducendo i quesiti alla sostanza - sarebbero
state illegittime:
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a) La previsione di irrilevanza, nel computo del termine, delle
circostanze attenuanti e delle aggravanti comuni.
b) La maggior durata del termine prorogato in base a circostanze
inerenti la persona del colpevole.
c) La irrilevanza degli atti interruttivi relativamente ai reati
connessi.
d) La irrilevanza della continuazione in punto di decorrenza del
termine di prescrizione per i singoli reati compresi nella fattispecie.
e) La ragionevolezza, più in generale, del quadro dei termini
scaturente dalle modifiche introdotte.
f) La legittimità della disciplina transitoria.
Vediamo allora, con molta sintesi, come ha risposto la Corte.
L’attenzione principale è stata riservata alla riforma forse più
«dannosa» per i procedimenti in corso, a parte naturalmente il dato della
riduzione secca della durata dei termini, e cioè quella sopra indicata
sub d): prescrizione e continuazione.
Le varie questioni proposte sono state giudicate inammissibili,
proprio perché la pronuncia sollecitata avrebbe violato il principio di
insindacabilità in malam partem delle norme concernenti il trattamento
sanzionatorio penale. La Corte ha ribadito – smentendo con facilità la
tesi di uno dei rimettenti – che il divieto non riguarda solo la previsione
edittale di pena, od i limiti della previsione incriminatrice, ma ogni
aspetto del «trattamento» di una fattispecie a fini di punizione, compreso
quello concernente la prescrizione (principio già molte volte affermato).
La Corte, ancora, ha negato fondamento alle tesi ingegnose delle parti
private di uno dei giudizi a quibus, che, in estrema sintesi, miravano a
prospettare la nuova disciplina come norma penale di favore. Nessun
rapporto di specialità con una disciplina generale e coesistente: non
quella precedente, appunto perché abrogata, e non quella dell’art. 81
c.p., che non si occupa della decorrenza del termine prescrizionale.
La Corte non ha ritenuto di confrontarsi, d’altra parte, con le tesi, di
prevalente matrice dottrinale (ad esempio Marinucci e Dolcini), secondo
le quali il sindacato in malam partem sarebbe comunque ammesso in
caso di norme assolutamente «irrazionali». È un problema risalente,
studiato ad esempio da coloro che sondarono l’eventuale esistenza di
obblighi costituzionali di penalizzazione, che ha assunto consistenza del
tutto speciale nell’attuale contingenza politico-istituzionale. Come
risponderemmo alla domanda circa la legittimità di una ipotetica norma
che escludesse ogni sanzione, per tutti, relativamente all’omicidio
doloso? Le riflessioni dottrinali non sono prive di punti di riferimento
nella stessa giurisprudenza costituzionale (si veda soprattutto la
ordinanza n. 337 del 1999, Granata, Neppi Modona, ove l’intervento
additivo in senso peggiorativo viene escluso «sempre che la disciplina
non sia frutto di una scelta palesemente irrazionale e ingiustificata»).
Va aggiunto che, nonostante qualche cenno a questa prospettiva,
nessuno nel giudizio si era impegnato seriamente a verificare la
razionalità «intrinseca» della scelta legislativa. Questione molto seria: la
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scelta, ad esempio, sembra coerente con la ratio del reato continuato,
che è istituto di favore per il condannato (tanto da restare inapplicato
quando produrrebbe effetti negativi), ma è incoerente sul piano della
relazione tra profili sanzionatori e disciplina della prescrizione, che nel
caso del reato continuato è oggi interrotta.
Naturalmente anche la questione c): diffusione degli effetti
interruttivi ai reati connessi, è stata risolta nel senso della
inammissibilità, trattandosi di sollecitazione per un intervento
peggiorativo del trattamento sanzionatorio.
La questione sub b): recidiva e maggior durata del termine, è stata
sostanzialmente giudicata irrilevante nei giudizi a quibus (e comunque
un allargamento a tutti dei termini previsti per i recidivi sarebbe stato
precluso dal solito principio della insindacabilità in malam partem).
La questione sub a): irrilevanza delle attenuanti e delle aggravanti
comuni, è stata giudicata infondata, perché pertinente al ragionevole
esercizio della discrezionalità legislativa. È parso congruo aver riguardo
al fatto nella prospettiva della pena più severa, considerando a questo
fine le circostanze che comportano una variazione qualitativa del
trattamento sanzionatorio: le aggravanti a effetto speciale.
Uno dei rimettenti aveva posto la questione più finemente,
lamentando che non si considerino almeno le attenuanti ad effetto
speciale, per le quali vale la ratio appena evocata. La Corte ha risposto
individuando un’altra esigenza ragionevolmente perseguita dal
legislatore: consentire che i termini siano valutabili in astratto, anche
prima del giudizio (ove normalmente vengono riconosciute le attenuanti)
e comunque a prescindere dal giudizio di comparazione.
Le questioni che ho genericamente ricondotto alla lettera e):
irragionevolezza dei nuovi termini, si sono diluite in varie cause di
inammissibilità.
Quanto alla disciplina evocata sub f), cioè la disciplina transitoria
per il nuovo regime della prescrizione, c’è da dire che i rimettenti,
cercando di escludere la rilevanza della riforma nei processi in corso,
hanno perseguito un obiettivo «antistorico»: la Corte ha nuovamente
precisato di non considerare addirittura costituzionalizzato il contrario
principio di retroattività della lex mitior, ma ha ribadito quanto già
stabilito nella citata sentenza n. 393 del 2006, ove addirittura era stata
giudicata illegittima l’inapplicabilità della riforma nei giudizi di primo
grado: «per le leggi in esame l'applicazione retroattiva è la regola e tale
regola è derogabile solo in presenza di esigenze tali da prevalere su un
principio il cui rilievo, si è già osservato, non si fonda soltanto su una
norma, sia pure generale e di principio, del codice penale» ma che
assume carattere di «principio generale dell'ordinamento comunitario,
desunto dal complesso degli ordinamenti giuridici nazionali e dei trattati
internazionali dei quali gli Stati membri sono parti contraenti» (sentenza n.
393 del 2006 che espressamente cita la sentenza della Corte di Giustizia,
3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02)».
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La Corte è tornata su questi temi con la ordinanza n. 5 del 2009
(Flick, Napolitano). Il rimettente per la verità, a partire dalle
caratteristiche del caso sottoposto al suo giudizio (una serie di truffe
scoperte tardivamente dalle vittime), aveva costruito dei quesiti molto
particolari. Egli chiedeva, in sostanza, che fosse introdotta una regola
speciale per la decorrenza della prescrizione nel caso del reato di
truffa (ove, per definizione, la percezione dell’illecito è successiva alla
sua perpetrazione), in particolare individuando il dies a quo nel giorno
della scoperta del fatto, e non in quello della sua consumazione. Per
altro verso, e per ragioni facilmente intuibili, lo stesso rimettente ha
eccepito che il termine prescrizionale, nel caso di reato continuato,
dovrebbe decorrere dall’ultimo episodio della serie, e non
frazionatamente. Questa almeno, in via subordinata, dovrebbe essere la
disciplina quando, nella fattispecie continuata, confluiscano reati
punibili a querela, è ciò in quanto la condizione di procedibilità sarebbe
criterio di selezione alternativa dei fatti per i quali deve ritenersi ancora
attuale l’interesse alla punizione.
Con varie argomentazioni la Corte ha dichiarato tutte le questioni
manifestamente inammissibili. Al centro del ragionamento, per
quanto può dirsi in questa sede, ancora una volta la inammissibilità di
interventi peggiorativi, da parte della Consulta, a proposito della
disciplina dell’estinzione del reato in base alla prescrizione.
Sugli stessi temi della sentenza n. 324 del 2008 sono tornate anche
la ordinanza n. 34 del 2009 e la ordinanza n. 204 del 2009,
ribadendo per altro i concetti ormai ampiamente illustrati (l’ordinanza
204, in particolare concerne un nuovo tentativo di far decorrere il
termine prescrizionale per la truffa dal momento di conseguita
consapevolezza del raggiro da parte delle vittima, anziché da quello di
consumazione del reato).
Sempre a proposito della inammissibilità di interventi “peggiorativi”
della Consulta sul piano del trattamento penalistico delle condotte dei
consociati, e sempre a proposito della disciplina della prescrizione – in
particolare quella concernente l’identificazione degli atti interruttivi
(curiosamente non intaccata dal legislatore della riforma, nonostante
l’evidente obsolescenza) – va ricordata l’ordinanza n. 65 del 2008 (Bile,
Flick), che concerne il problema della ipotetica valenza interruttiva
dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis
c.p.p.).
È noto che dopo un certo dibattito, segnato anche da sentenze di
segno contrastante, la questione è stata risolta in senso negativo dalle
Sezioni unite della Cassazione (sentenza 22 febbraio 2007, n. 21833,
ric. Iordache). L’ordinanza della Consulta si segnala per due ragioni:
convalida apertamente ed incondizionatamente l’opzione ermeneutica
della Cassazione, e cioè che l’avviso di conclusione delle indagini non
interrompe il corso della prescrizione; esclude l’ammissibilità di
questioni di legittimità che – facendo valere l’irragionevolezza, per certi
aspetti plateale, dell’esclusione di quest’atto dal catalogo degli eventi
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interruttivi – mirino a provocare una sentenza additiva che integri
l’elenco contenuto nell’art. 160, secondo comma, cod. pen.. La ragione è
quella che stiamo da tempo analizzando: inammissibilità di una
sentenza peggiorativa del trattamento sanzionatorio riservato dalla
legge penale a determinate fattispecie. È poiché, come già abbiamo
ricordato, la disciplina della prescrizione è compresa in quest’ambito, si
conferma l’inutilità di doglianze espresse nei confronti di interventi
“lassisti” del legislatore.
Per proseguire con la riforma della prescrizione, sotto il particolare
aspetto dei suoi effetti retroattivi, conviene ricordare la sentenza n.
72 del 2008 (Bile, Finocchiaro), ove la Corte, in ritenuta congruenza coi
principi fin qui evocati, aveva invece ritenuto legittima la previsione di
irretroattività delle nuove disposizioni sulla prescrizione relativamente
ai giudizi di appello in corso all’epoca di entrata in vigore della legge ex
Cirielli. La lettura dei passaggi decisivi del provvedimento è utile per il
fare il punto più attuale sulla giurisprudenza in materia di retroattività
della lex mitior:
deroghe a tale regola sono possibili solo se superano un vaglio positivo di
ragionevolezza in quanto mirino a tutelare interessi di analogo rilievo rispetto a quelli
soddisfatti dalla prescrizione (efficienza del processo, salvaguardia dei diritti dei soggetti
destinatari della funzione giurisdizionale) o relativi a esigenze dell'intera collettività
connesse a valori costituzionali. In particolare, la deroga al regime della retroattività
delle disposizioni più favorevoli al reo è ammissibile nei confronti di norme che riducano
i termini di prescrizione del reato, purché essa sia coerente con la funzione assegnata
dall'ordinamento all'istituto della prescrizione e tuteli interessi del tipo indicato (…) la
circostanza che nel processo sia stata pronunciata una sentenza (di primo grado) è
significativamente correlata all'istituto della prescrizione, come si desume dall'art. 160
cod. pen. che considera rilevante ai fini della prescrizione la sentenza (oltre il decreto di
condanna ed altri atti processuali). Deve, in particolare, evidenziarsi che il riferimento
generico al decreto di citazione a giudizio, contenuto nell'art. 160 cod. pen., consente di
ricomprendere tra gli atti interruttivi del corso della prescrizione anche il decreto di
citazione per il giudizio di appello di cui all'art. 601 cod. proc. pen.
Inoltre, nei giudizi penali di appello (e ancor più in quelli di cassazione), l'esigenza di
evitare che l'acquisizione del materiale probatorio (e quindi l'esercizio del diritto di
difesa dell'imputato) sia resa più difficile dallo scorrere del tempo è già soddisfatta dalla
disciplina positiva di tali giudizi. Infatti, in via di principio, quel materiale probatorio è
acquisito nel corso del dibattimento di primo grado (in appello la rinnovazione
dell'istruzione dibattimentale è ammessa solo nei casi di cui all'art. 603 cod. proc. pen.).
Sotto tale profilo, la scelta legislativa di escludere l'applicazione a tali giudizi dei
nuovi termini di prescrizione è ragionevole, non potendosi per essi invocare la ricordata
esigenza cui il fondamento della prescrizione è correlato.
La ragionevolezza di tale scelta è poi ulteriormente comprovata dal rilievo che essa poiché nei giudizi in esame il materiale probatorio, in linea di massima, è ormai stato
acquisito - mira ad evitare la dispersione delle attività processuali già compiute
all'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, secondo cadenze calcolate in base ai
tempi di prescrizione più lunghi vigenti all'atto del loro compimento, e così tutela
interessi di rilievo costituzionale sottesi al processo (come la sua efficienza e la
salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale).
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Nello stesso senso, più recentemente, è intervenuta la ordinanza n.
343 del 2008 (Bile, Finocchiaro).
Non bisogna comunque coltivare l’illusione che la materia della
retroattività della lex mitior abbia trovato un assetto stabile. A mero
titolo di esempio può citarsi una recentissima ordinanza della Sez. II
penale della Corte di cassazione, occasionata proprio dalla discussione
sul concetto di pendenza in appello (ord. 12 novembre – 14 dicembre
2009, n. 47395, De Giovanni).
Due settimane prima dell’ordinanza, le Sezioni unite avevano
deliberato circa l’individuazione del momento in cui si determina la
pendenza del giudizio di appello ai fini dell’esclusione dell’applicazione
del più favorevole regime di prescrizione introdotto dalla legge n. 251 del
2005 (Sez. un., 29 ottobre 2009 n. 47008, D’Amato, rv. 244810): detta
pendenza si realizza con «la pronuncia della sentenza di condanna di
primo grado. Ebbene, la sez. II ha ritenuto di mettere nuovamente in
discussione il principio, con una radicale contestazione non solo del
dictum del massimo collegio, ma anche di quanto già statuito dalla
Consulta con riferimento alla legittimità dell’esclusione della lex mitior ai
giudizi di appello e di cassazione.
A fondamento della rinnovata rimessione l’ordinanza cita, oltre ad
alcune decisioni della Corte di giustizia delle comunità europee, il
principio che la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe ritenuto
desumibile dall’art. 7 CEDU (in particolar modo con la sentenza 17
settembre 2009 in causa Scoppola c. Italia) sulla retroattività della legge
penale più favorevole che, sotto il profilo della lesione dell’art. 117 Cost.,
potrebbe allargare, in sede interpretativa, le garanzie stabilite dall’art.
25 Cost., limitate alla irretroattività della legge meno favorevole.
In realtà, non pare che, nella citata decisione, la Corte europea abbia
inteso avventurarsi sul terreno “minato” di affermazioni generalizzanti,
essendosi limitata a sottolineare che essa è libera di stabilire quali tra le
misure adottate dai legislatori nazionali assumano natura di pena in
senso sostanziale e che l’ambito di applicazione dell’art. 7 CEDU
riguarda la sanzione (e ovviamente il suo presupposto, e cioè la
previsione del fatto di reato), senza che per questo se ne possano trarre
argomenti di ordine più generale sulla portata del principio di
retroattività della lex mitior.
Ad ogni buon fine, va segnalato che il ricorso è stato restituito alla
sezione rimettente con decreto del Primo presidente aggiunto in data 22
dicembre 2009.
Si può menzionare, per chiudere definitivamente il quadro della ex
Cirielli, la decisione che ha tratto le ovvie implicazioni della sentenza
393 del 2006 riguardo alla retroattività della nuova disciplina della
prescrizione nel caso di fatti perseguiti, all’epoca di entrata in vigore
della legge cd. ex Cirielli, mediante giudizio abbreviato.
Come si ricorderà, una delle critiche mosse all’art. 10 della legge 251
del 2005, ed alla scelta di individuare nelle formalità di apertura del
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Il seguente materiale redatto dal Dott. Guglielmo LEO proviene da un incontro organizzato in
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dibattimento la soglia utile ad arginare la propagazione retroattiva della
lex mitior, consisteva nell’incertezza creata a proposito dei giudizi
strutturalmente privi di «dibattimento», quale è appunto il rito
abbreviato. Per risolvere il problema erano state proposte varie tesi, le
quali però hanno perso ormai rilevanza.
È chiaro infatti come la Corte, spostando di fatto alla sentenza di
primo grado la soglia discriminante tra vecchia e nuova disciplina,
avesse risolto il problema, «introducendo» un adempimento proprio
anche del rito abbreviato.
Con la ordinanza n. 384 del 2008 (Flick, Quaranta) si è preso
formalmente atto della situazione, restituendo gli atti al rimettente che
aveva censurato il comma 3 dell’art. 10 «nella parte in cui non esclude
l'applicazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi pendenti
alla data di entrata in vigore della presente legge, ove sia stato disposto
o ammesso il giudizio abbreviato»: è chiaro, infatti, che il giudice a quo
dovrà rivalutare la questione (ovviamente fondata su un preciso
presupposto interpretativo) alla luce della disciplina che ormai parifica i
giudizi ordinari e quelli abbreviati in corso all’epoca di introduzione del
nuovo regime della prescrizione.

È opportuno ricordare qui, brevemente, anche una decisione in
materia di apparecchi automatici per il gioco d’azzardo. Si tratta
della sentenza n. 215 del 2008, Bile, Tesauro.
Era stato censurato l’art. 1, comma 547, della legge n. 266 del 2005,
il quale prevedeva che per le violazioni di cui all’art. 110, comma 9,
T.u.l.p.s., commesse in data antecedente alla data di entrata in vigore
della citata legge, si applicassero le disposizioni vigenti al tempo delle
violazioni stesse.
In sostanza, a fronte della depenalizzazione delle fattispecie di reato
già previste dall’art. 110, comma 9, T.u.l.p.s., la norma censurata
introduceva una deroga al principio di non ultrattività della legge
penale, sancito dall’art. 2 del codice penale. Secondo i rimettenti, tale
deroga non era assistita da una sufficiente ragione giustificativa, e
violava dunque l’art. 3 della Costituzione.
La norma penale individuava diverse figure di reato contravvenzionale
(installazione ed uso di apparecchi da gioco d’azzardo; installazione ed
uso di apparecchi da intrattenimento non rispondenti alle
caratteristiche previste dai commi 6 e 7; violazione del divieto di utilizzo
ai minori di 18 anni) ed una fattispecie di illecito amministrativo
(distribuzione, installazione ed uso in mancanza di nulla osta). La
depenalizzazione è stata attuata con l’art. 1, commi 525 e da 541 a 546,
della legge n. 266 del 2005.
Come accennavo, la Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale
della previsione di ultrattività. Ci interessa, particolarmente, com’è
ovvio, la nuova presa di posizione sulla proiezione costituzionale dell’art.
2 c.p..
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Dopo aver ricordato che il principio di uguaglianza tendenzialmente
impone la retroattività della lex mitior (salvo appunto ricorrano
significative eterogeneità connesse al tempus commissi delicti), la Corte
prosegue:
Il principio della retroattività della legge penale favorevole, dunque, è suscettibile di
limitazioni e deroghe, ma - in ragione della peculiare rilevanza dell'interesse da esso
tutelato, dimostrata dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno, come pure
dalla sua appartenenza alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri
dell'Unione europea (Corte di giustizia, sentenza 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02,
C-391/02 e C-403/02) e al diritto internazionale (art. 15, primo comma, del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966,
ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881) - tali limitazioni e deroghe
devono giustificarsi in relazione alla necessità di preservare interessi contrapposti di
analogo rilievo (sentenze n. 72 del 2008, n. 394 e n. 393 del 2006).
Ciò premesso in generale, la Corte ha rilevato che nessuna ragione
attendibile (men che meno quella indicata nella relazione parlamentare:
fare chiarezza sul regime sanzionatorio del fenomeno regolato)
giustificava la scelta legislativa di ultrattività: non in particolare quella
di assicurare la continuità delle entrate finanziarie, trattandosi nella
specie non di violazioni finanziarie, appunto, ma di reati contro l’ordine
pubblico.
Una breve notazione di carattere processuale. In epoca successiva
alla sentenza di cui si è detto, la Corte ha esaminato questioni
analoghe, sollevate ovviamente prima della sentenza medesima,
deliberando le ordinanze nn. 414 e 415 del 2008 e n. 65 del 2009
(Flick, Tesauro). Negli ultimi tempi, in tutti i casi del genere, gli atti
erano stati restituiti al rimettente per una nuova valutazione di
rilevanza della questione sollevata: valutazione destinata a chiudersi in
senso negativo, essendo stata espunta dall’ordinamento la norma
censurata. Riprendendo una giurisprudenza più risalente, invece, la
Corte ha stavolta dichiarato inammissibile la nuova questione:
valendo ex tunc la dichiarazione di illegittimità della norma censurata, è
come se il rimettente avesse sollevato una questione priva di oggetto,
cioè relativa ad una disposizione inesistente.

Con l’ordinanza n. 7 del 2009 (Flick, Silvestri), la Corte ha definito
l’ennesimo giudizio incidentale proposto in base all’assunto della
eccessiva severità del trattamento sanzionatorio previsto, a partire
dalla nota riforma del 2004, per il reato cd. di indebito trattenimento
dello straniero nel territorio dello Stato. Un provvedimento successivo,
l’ordinanza n. 156 del 2009, ha riguardato analoga questione proposta
riguardo alle severe sanzioni previste per il cd. reato di indebito rientro
dello straniero dopo il provvedimento di espulsione
Ancora una volta la deliberazione è stata nel senso della manifesta
inammissibilità, e non nel senso della manifesta infondatezza della
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questione. Si discute infatti di sindacabilità delle scelte sanzionatorie
del legislatore. A questo proposito, a parte alcuni provvedimenti
confermativi o interlocutori che non vale la pena di citare, assume
rilievo centrale la sentenza n. 22 del 2007 (Flick, Silvestri), che aveva
dichiarato inammissibili numerose questioni sollevate appunto con
riguardo al severo trattamento sanzionatorio dell’indebito trattenimento
dello straniero nel territorio dello Stato, dopo la notifica della
intimazione del Questore ad uscirne entro cinque giorni per essere
intervenuto un decreto di espulsione (art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n.
286 del 1998).
In breve può dirsi che la Corte non aveva giudicato infondate le
questioni, almeno nel loro nucleo essenziale, ed anzi aveva espresso
apertamente un giudizio di incoerenza interna del quadro
sanzionatorio concernente l’immigrazione irregolare. La Corte non si era
neppure adagiata dietro l’assunto tradizionale della pertinenza delle
scelte sanzionatorie alla discrezionalità del legislatore, che potrebbe
essere sindacata solo in caso di esercizio manifestamente irrazionale. Se
l’irrazionalità assoluta (tecnicamente: irragionevolezza intrinseca) può
essere sindacata (e storicamente lo è stata) anche in questa materia,
resta vero anche che il legislatore non può determinare disuguaglianze
nel trattamento di situazioni assimilabili.
Posta questa premessa, la Corte aveva escluso che la fattispecie
censurata fosse omologabile alle figure «ordinarie» di inottemperanza ad
un ordine dell’autorità, ma non aveva escluso affatto che la stessa
fattispecie fosse segnata da un trattamento identico a quello previsto
per condotte assai più gravi, sempre pertinenti alla disciplina dei flussi
migratori. Qui subentra il limite del sindacato, ma non nel senso che
la scelta legislativa sia lecita:
Il sindacato di costituzionalità, tuttavia, può investire le pene scelte dal legislatore
solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, in quanto ci
si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso
trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le pronunce più recenti, sentenze n. 325 del
2005, n. 364 del 2004; ordinanze numeri 158 e 364 del 2004). Se non si riscontra una
sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione, e si rileva invece, come nel
caso in esame, una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, un
eventuale intervento di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo
rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a
quella che spetta al legislatore.
Ecco il significato «profondo» della scelta per l’inammissibilità,
anziché per la soluzione più usuale dell’infondatezza. La Corte, per
altro, non aveva mancato di formalizzare un monito al legislatore
perché intervenisse a ridare coerenza al quadro delle sanzioni. È appena
il caso di rilevare che, a quasi tre anni dalla decisione, nessun
intervento è stato compiuto e che anzi la legislazione «emergenziale»
affastella interventi discutibili (anche) sul piano della coerenza interna
al sistema e della compatibilità coi principi costituzionali.
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Alla soluzione della infondatezza la Corte è per altro tornata con una
pronuncia più recente, la sentenza n. 161 del 2009, Amirante,
Criscuolo. Il rimettente aveva censurato, con riferimento all’art. 3 della
Costituzione, l'art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423,
norma che prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni in
caso di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la
sorveglianza speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno. Pena di
molto superiore, si era notato, a quella prevista per fatti asseritamente
equivalenti, come il delitto di cui all'art. 385 cod. pen. o il delitto di cui
all'art. 47-ter, comma 8, della legge n. 354 del 1975.
La Corte ha ribadito come le scelte legislative riguardanti la
configurazione dei reati e il relativo trattamento sanzionatorio siano
censurabili in sede di costituzionalità soltanto qualora la discrezionalità
sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole, arbitrario o
radicalmente ingiustificato. Nel caso in esame, la pena prevista dalla
norma denunziata non può definirsi manifestamente irragionevole o
ingiustificata, riguardando soggetti sottoposti ad una grave misura di
prevenzione perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica,
interesse quest'ultimo in relazione alla cui salvaguardia altre misure
non sono state ritenute idonee. Il raffronto proposto dal rimettente, per
altro verso, avrebbe riguardato fattispecie palesemente diverse, avendo
differenti presupposti soggettivi e diversa oggettività giuridica.
Come in molti altri casi, l’asserita incongruenza per eccesso del
trattamento sanzionatorio era stata correlata anche ad una violazione
dell'art. 27, terzo comma, Cost. Stavolta la Corte ha risposto
evidenziando la sussistenza di un consistente divario tra il minimo ed il
massimo edittale della pena stabilita dalla norma impugnata, e dunque
la possibilità di adeguamento della sanzione al diverso disvalore delle
violazioni che rientrano nell'ambito applicativo della fattispecie.

Un tema attualissimo. L’art. 79 Cost. prevede una procedura
«aggravata» per l’approvazione di leggi di amnistia, cosicché non è
dubbio che una legge di amnistia approvata nelle forme ordinarie
dovrebbe essere considerata illegittima. Il problema è stabilire quali
siano le caratteristiche tipiche di una «legge di amnistia», perché –
chiaramente – un provvedimento di clemenza non definibile in quel
senso può essere legittimamente adottato senza la procedura imposta
dall’art. 79. Il tema è stato agitato in tempi recenti, con molto clamore, a
proposito del cd. scudo fiscale.
La Corte ha una lunga giurisprudenza al proposito, ribadita con la
ordinanza n. 109 del 2009. Nella specie erano state sollevate questioni
di legittimità con riguardo all'art. 15, comma 7, della legge 27 dicembre
2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003), «nella parte in cui
prevede l'esclusione, ad ogni effetto, della punibilità per i reati tributari
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in esso elencati, nel caso di perfezionamento della definizione dei
processi verbali di constatazione da cui risultano i reati medesimi».
La Corte ha ricordato d’avere in precedenza più volte stabilito - a
proposito del condono edilizio, ma con argomentazioni valide, sul punto,
anche per quello fiscale - che il condono medesimo ha natura diversa
dall’amnistia. Infatti, «mentre il condono […] costituisce una complessa e
varia fattispecie produttiva di effetti estintivi, che si compone di una serie
di fasi […] ed i cui effetti estintivi del reato sono quindi rimessi alla
volontà, per quanto condizionata, degli interessati» e, pertanto, al
perfezionamento del «procedimento amministrativo di sanatoria»,
l’amnistia «in quanto misura di clemenza generalizzata, incide
direttamente sulla punibilità astratta, con l’effetto immediato della
estinzione del reato senza mediazione fattuale», così che tale effetto è «da
ricondurre all’atto legislativo concessivo dell’amnistia» e comporta
l’«obbligo per il giudice di immediata declaratoria di non doversi
procedere» (sentenza n. 427 del 1995, che richiama la sentenza n. 369
del 1988 ed è richiamata dalla sentenza n. 196 del 2004).
Del resto – si è aggiunto – fanno parte dell’ordinamento vigente anche
altri atti legislativi che «determinano lo stesso effetto estintivo del reato
prodotto dal condono […]», che non sono qualificabili come leggi di
amnistia e «per i quali non sono previste procedure legislative diverse da
quelle ordinarie, come, ad esempio, le ipotesi di oblazione introdotte
dalla legge n. 689 del 1981, o i casi in cui un fatto cessa (anche
temporaneamente) di essere previsto dalla legge come reato, o la
previsione di estinzione di reati collegata ad adempimenti richiesti agli
autori degli stessi» (sentenza n. 427 del 1995, sopra citata).
Non tutti gli argomenti riportati sono persuasivi nella stessa maniera,
specie se si pensa all’istituto della amnistia condizionata, ma resta
vero che la Corte ha ormai fornito una «copertura» univoca alla prassi
dei condoni tributari introdotti con legge approvata nelle forme
ordinarie.
DIRITTO SOSTANZIALE
Siamo già abbondantemente «scivolati», trattando dei limiti intrinseci
al controllo di costituzionalità, su argomenti di stretta pertinenza del
diritto sostanziale, che ora conviene esaurire, a cominciare, ancora una
volta, dall’istituto della prescrizione.
Un ulteriore aspetto giunto all’attenzione della Consulta, riguardo alla
legge cd. ex Cirielli, è quello della prescrizione dei reati di competenza
del giudice di pace, tema notoriamente riferibile anche al giudice non
onorario, quando questi sia chiamato a giudicare di quei reati per
ragione di connessione. Il «problema» qui derivava dal 5° comma dell’art.
157 del codice penale, nel testo novellato dalla legge n. 251 del 2005: il
termine prescrizionale è di appena tre anni quando si tratta di reati
puniti con «pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria»; i
soli reati puniti con pene diverse sono appunto alcuni di quelli riferibili
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al giudice di pace (e puniti con le sanzioni para-detentive), cioè i più
gravi; il paradosso, secondo alcuni, era che per i reati di pace meno
gravi, puniti con pena pecuniaria, la prescrizione interverrebbe in
quattro o sei anni, mentre per gli altri (puniti con pena “più che
pecuniaria”, anche se non “detentiva”) la prescrizione sarebbe maturata,
appunto in tre anni.
La Corte ha ritenuto, con la sentenza n. 2 del 2008, Bile, Silvestri,
che i termini prescrizionali per tutti i reati di competenza del giudice di
pace siano individuati a norma del primo comma dell’art. 157 del codice
penale, avuto riguardo, per i fatti sanzionabili con le pene cosiddette
«paradetentive», al criterio di ragguaglio fissato nel primo comma
dell’art. 58 del d.lgs. n. 274 del 2000 (considerazione quali pene
detentive della specie corrispondente a quella della pena
originariamente prevista per il reato preso in considerazione).
Si tratta di una tipica pronuncia interpretativa di rigetto. Per quanto
non emerga espressamente dal testo della motivazione, la soluzione
interpretativa presupposta al ragionamento dei rimettenti comportava
una effettiva violazione dell’art. 3 Cost. La soluzione opposta, adottata
alla stregua di interpretazione costituzionalmente obbligata, “elimina”
dal panorama la norma censurata, implicando la non fondatezza delle
questioni sollevate.
C’è da dire che, dopo qualche incertezza iniziale, anche la Cassazione
ha ripetutamente affermato che, per i reati di competenza del giudice di
pace, i termini prescrizionali sono sempre quelli indicati nel primo
comma dell’art. 157 c.p.. Si tratta di pronunce sia antecedenti che
successive alla pubblicazione della sentenza n. 2 del 2008, la quale è
stata ovviamente citata, nelle decisioni più recenti, quale elemento di
conferma dell’orientamento ormai dominante.
Ecco la massima di una delle decisioni pubblicate sul punto:
Cass., Sez. IV, Sentenza n. 13966 del 24/02/2008 Ud. (dep. 03/04/2008), Antichi.
Il termine di prescrizione da applicare ai reati di competenza del giudice di pace è quello di cui
all'art. 157, comma primo, cod. pen. (come novellato dall'art. 6 L. n. 251 del 2005), poiché le pene
previste per detti reati hanno sempre natura pecuniaria, e solo in alcune ipotesi ed a determinate
condizioni possono essere sostituite da pene paradetentive; al contrario, il termine previsto dall'art.
157, comma quinto, cod. pen. è applicabile ad ipotesi di sanzioni non rinvenibili nell'attuale sistema
delle pene (conf. C. cost. 14-18 gennaio 2008, n. 2).
La stessa Consulta è tornata sull’argomento, più volte, in tempi
recenti, definendo decine di questioni sollevate da giudici di pace e
tribunali, e ribadendo un principio di diritto che ormai può dirsi del
tutto stabilizzato (ordinanze n. 223 e n. 381 del 2008, n. 135 del
2009, rel. Silvestri).

L’altro aspetto fondamentale dell’intervento attuato con la legge n.
251 del 2005 riguarda, com’è noto, l’istituto della recidiva.
Con alcuni provvedimenti – l’ordinanza n. 33 del 2008, l’ordinanza
n. 257 del 2008 e l’ordinanza n. 171 del 2009, la Corte ha ribadito il
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proprio punto di vista su uno degli aspetti più rilevanti della novella,
cioè il «divieto di prevalenza» delle attenuanti sulla recidiva
reiterata, previsto dal novellato comma 4 dell’art. 69 c.p., nel
quadro della regolamentazione del giudizio di bilanciamento tra
circostanze eterogenee.
La questione era stata affrontata e risolta, per la prima volta, con la
sentenza n. 192 del 2007, Bile, Flick.
La norma censurata, che fa seguito ad un regime di quasi assoluta
“liberalizzazione” del giudizio di valenza (almeno pro reo), dice
testualmente:
«le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle
circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti
dall’art. 99, quarto comma, nonché dagli artt. 111 e 112, primo
comma, n. 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze
attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra
circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie
diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da
quella ordinaria del reato».
La «neutralizzazione» (se non addirittura la soccombenza) delle
attenuanti contrapposte alla recidiva – compresa ad esempio la
fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. 309 del 1990, con la
conseguenza che anche fatti di lieve entità in materia di stupefacenti
parevano sanzionati al minimo con dieci anni di reclusione – aveva
suscitato dubbi di legittimità presso innumerevoli giudici.
I rimettenti evocavano gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., e in qualche
caso anche gli artt. 25 comma 2 e 27 comma 1 Cost.. In qualche caso
ulteriore erano evocati anche gli artt. 101 comma 2 e 111 comma 1,
Cost.
Nel ragionamento della Corte ha assunto significato decisivo la
ritenuta mera apparenza dell’automatismo prospettato dai rimettenti,
e dunque la perdurante possibilità per il giudice di procedere
all’adeguamento della pena alle caratteristiche del caso concreto.
Se, infatti, la contestata recidiva, una volta ritenuta, non può
soccombere nel giudizio di comparazione con le attenuanti, è pur vero
che la stessa recidiva può tuttora essere esclusa dal giudice, con la
conseguente sua esclusione dal bilanciamento tra circostanze.
In altre parole: il comma 4 dell’art. 69 comprende casi di recidiva
(quella reiterata) ove l’esito del giudizio di comparazione è
predeterminato, ma la stessa recidiva può essere sic et simpliciter
esclusa dal giudice (cioè i casi in cui non ricorrono reati del catalogo di
cui all’art. 407 c.p.p.). Accreditando questa soluzione, la Corte ha
“rimproverato” ai giudici rimettenti di non averla sperimentata nei
giudizi a quibus, così recuperando quella possibilità di adeguamento
della pena al fatto che consideravano preclusa dal denunciato
automatismo.
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Nella citata ordinanza 257 del 2008 si affronta un ulteriore aspetto
del problema. Alcuni dei rimettenti, infatti, avevano ammesso la
possibilità di non applicare la recidiva reiterata, ma avevano sostenuto –
con riferimento alla formula «circostanze aggravanti ritenute» che
figura nell'art. 69, quarto comma, cod. pen. – che l’intervenuta
contestazione, ove naturalmente fondata, inibirebbe comunque
l’applicazione di attenuanti generiche concorrenti.
La Corte ha replicato:
Qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di
facoltatività, ma dall'altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all'applicazione
di circostanze attenuanti concorrenti, ne deriverebbe la conseguenza - primo visu
paradossale - di una circostanza "neutra" agli effetti della determinazione della pena
(ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell'ipotesi di reato
non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto "aggravante" - eventualmente, anche
in rilevante misura - nell'ipotesi di reato circostanziato "in mitius" (in sostanza, la
recidiva reiterata non opererebbe rispetto alla pena del delitto in quanto tale e
determinerebbe, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato).
È appena il caso di porre in rilievo che, con le decisioni richiamate, la
Corte non ha preso posizione relativamente ai casi, più o meno ampi ma
certamente esistenti, in cui la recidiva non può essere esclusa.
C’è per altro un problema ulteriore, di corretta esegesi del c. 5 dell’art. 99 c.p. («se si tratta di
uno dei delitti di cui all’art. 407 comma 2 lett. a c.p.p. …»), e segnatamente di individuazione di
quale fra i delitti che determinano l’insorgenza dello status di recidivo debba appartenere al
catalogo racchiuso nella norma processuale richiamata, affinché scatti il regime di obbligatorietà.
In dottrina vi sono ben quattro tesi:
* che il delitto di cui all’art. 407 comma 2 lett. a c.p.p. debba essere quello pregresso:
soluzione a favore della quale si allega l’argomento logico per cui meriterebbe un surplus di pena
solo il condannato per un grave reato che ne commetta un altro, anche se meno «preoccupante»
* che il delitto di cui all’art. 407 comma 2 lett. a c.p.p. debba essere, invece, quello commesso
dal già recidivo: e ciò in quanto la logica sottesa alla previsione normativa de qua sarebbe quella di
colpire il fenomeno dell’escalation criminale
* che il delitto di cui all’art. 407 comma 2 lett. a c.p.p. possa essere, indifferentemente, quello
pregresso o quello attuale
* che tanto il delitto pregresso che quello attuale debbano appartenere al catalogo dell’art.
407comma 2 lett. a c.p.p.
L’ultima soluzione interpretativa comporta un ulteriore energico restringimento dell’area di
obbligatorietà della recidiva, il quale potrebbe essere ritenuto contrastante con la voluntas legis, ma
viene giustificato quale interpretazione “costituzionalmente orientata”.
E’ stato operato il sindacato di legittimità costituzionale anche su un
ulteriore aspetto della nuova disciplina della recidiva, fissato nell'art.
99, primo, terzo e quarto comma, del codice penale, come sostituito
dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251: la previsione che – nei
casi di recidiva semplice, di recidiva pluriaggravata e di recidiva
reiterata - il giudice operi un aumento in misura fissa della pena
irrogata per il reato in contestazione.
Numerosi giudici hanno giudicato che tale «automatismo» contrasti
con l’art. 3 della Costituzione, impedendo di modulare le pene in base
alle differenze tra i vari casi concreti. La Corte, in sostanza, ha
richiamato la propria tradizionale giurisprudenza sulla discrezionalità
legislativa in materia di trattamento sanzionatorio. Ma ha sviluppato,
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nel contempo, alcuni rilievi specifici (ordinanza n. 91 del 2008, Bile,
Flick)
In primo luogo, come abbiamo visto più volte anche in questa sede, la
Corte ha riconosciuto che l’applicazione di pena nei casi di recidiva è in
genere facoltativa, anche nel caso di recidiva reiterata: se il giudice
ritiene che l’aumento «fisso» derivante dalla applicazione della
circostanza implichi un difetto di proporzionalità tra la sanzione ed il
concreto fatto sottoposto a giudizio, ebbene lo stesso giudice può non
applicare la recidiva.
La Corte ha richiamato, in secondo luogo, la propria tradizionale
giurisprudenza sulla compatibilità costituzionale delle pene fisse. La
disarmonia di queste fattispecie con il principio di uguaglianza, e con il
principio di finalizzazione rieducativa della pena, non viene negata.
Tuttavia si è detto che la possibilità per il giudice di adeguare la
sanzione alle caratteristiche del fatto deve essere valutata nel suo
complesso, alla luce di tutte le norme applicabili ai casi considerati, e
non solo in relazione alla previsione edittale di una determinata
fattispecie (per esempio, è stata respinta una questione proposta
riguardo ad una pena pecuniaria fissa prevista congiuntamente ad una
pena detentiva variabile tra minimo e massimo).
Infine un terzo rilievo. Nel caso della recidiva la pena in aumento non
è realmente fissa, essendo il frutto di una misurazione percentuale
sulla pena base, e dunque assume una dimensione quantitativa
variabile in relazione alla variabilità della pena base. Il giudice quindi –
secondo la Corte – può ridurre l’effetto di aggravamento eccessivo
eventualmente
ricorrente
nella
specie
attraverso
l’opportuna
modulazione della pena a monte dell’applicazione della recidiva.
A questo punto, per altro, devono consentirsi due osservazioni,
necessariamente telegrafiche. La prima, valevole per tutta la
giurisprudenza che la Consulta ha costruito sulla «facoltatività della
recidiva», è che la soluzione prescelta per “salvare” la riforma ex-Cirielli
– oltre che non valere per le pur limitate ipotesi di effettiva
obbligatorietà dell’applicazione (supra) – presenta il difetto d’una
eccessiva compressione degli spazi di discrezionalità del giudice: impone
l’alternativa tra l’applicazione di una aggravante che divora le
circostanze di segno opposto, con effetti di inasprimento della pena
talvolta ipertrofici, e la completa indifferenza alla condizione di recidivo
(nel che si sostanzia la disapplicazione della recidiva); tutto ciò,
probabilmente, con conseguenze su larga scala opposte a quelle che il
legislatore ha perseguito con la riforma. Vero che il giudice può
comunque aumentare o diminuire la pena ex art. 133 c.p., per
bilanciare gli effetti di un meccanismo tanto sgangherato, ma la
coerenza del sistema esce distrutta da tale situazione: perché
giustificare l’applicazione della pena minima per un rilevante fatto di
narcotraffico, proprio nei confronti di un recidivo, solo perché altrimenti
la sanzione “finale” risulterebbe insopportabilmente alta?
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Analogamente: perché il giudice dovrebbe calcolare al minimo una
pena base solo per evitare che l’aumento frazionario di misura fissa
comporti un aumento eccessivo in termini di quantità della sanzione
aggiuntiva?.
Non è un caso che, nella sentenza in esame, la Corte abbia voluto
inserire un piccolo ma pur significativo inciso: «pur costituendo, quello
scrutinato, un assetto che si discosta per più versi dalle linee generali del
sistema».

Alcune sentenze ulteriori dell’ultimo anno si segnalano per la
pertinenza ad un tema di grandissima importanza per il diritto penale
sostanziale, specie in tempi di scarso livello tecnico nell’attività di
legislazione. Si tratta del principio di tassatività, sanzionato dall’art. 25
della Costituzione, ed evocato da diverse nuove fattispecie, tra le quali
può ricordarsi quella dell’indebito trattenimento dello straniero, sul
territorio nazionale, «senza giustificato motivo»: questione risolta dalla
Corte, favorevolmente alla compatibilità costituzionale della norma (art.
14, comma 5-ter del T.U. imm.), con la nota sentenza n. 5 del 2004.
Alcune decisioni, per altro, riguardano due fattispecie ormai risalenti,
cioè figure originarie del codice penale. Entrambe sono state «salvate»
dalla Corte, con provvedimenti importanti anche perché costituiscono il
“punto” sul complesso tema del livello minimo di determinatezza della
previsione incriminatrice.
Conviene iniziare dal provvedimento che ha riguardato la figura di
«disastro innominato» regolata dall’art. 434 del codice penale. Può
essere utile ricordare come la norma punisca «chiunque, fuori dei casi
preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il
crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro
disastro…». Una fattispecie che la rubrica della norma definisce con
l’espressione «altri disastri» era chiaramente destinata ad una verifica di
compatibilità con il principio di determinatezza, e sorprende solo,
semmai, il numero dei decenni trascorsi prima dell’evento. Non è
probabilmente estranea alla circostanza la relativa frequenza con la
quale, da qualche tempo, gli uffici del pubblico ministero contestano il
reato de quo di fronte a gravi fatti di inquinamento ambientale.
Comunque sia, con la sentenza n. 327 del 2008 (Bile, Flick), la
Consulta ha respinto i dubbi di legittimità espressi dal Tribunale di S.
Maria Capua Vetere, e l’ha fatto riassumendo ed aggiornando la propria
posizione in punto di tassatività:
Per costante giurisprudenza di questa Corte, la verifica del rispetto del principio di
determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo
elemento descrittivo dell'illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della
fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce. In particolare, «l'inclusione
nella formula descrittiva dell'illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi,
ovvero […] di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del
parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto
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incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite
dall'incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di
stabilire il significato di tale elemento mediante un'operazione interpretativa non
esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione
consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla
fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e,
correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione
sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (…).
In tal modo, risultano soddisfatti i due obiettivi fondamentali sottesi al principio di
determinatezza: obiettivi consistenti – come lo stesso rimettente ricorda – per un verso,
nell'evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva
assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando,
in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l'illecito; e, per un altro verso, nel
garantire la libera autodeterminazione individuale, permettendo al destinatario della
norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria
condotta (…).
Su queste premesse è stata condotta l’analisi della fattispecie
sottoposta a verifica. Vero – dice la Corte - che il concetto di «disastro» si
presenta, di per sé, scarsamente definito. Tuttavia concorrono alla sua
delimitazione la finalità dell'incriminazione e la sua collocazione nel
sistema dei delitti contro la pubblica incolumità.
L'art. 434 cod. pen. è norma di “chiusura” del predetto sistema.
Dunque fa parte di un genus che comprende le precedenti figure
incriminatrici, delle quali condivide i tratti unificanti. L’evento
incriminato è un accadimento diverso, ma comunque omogeneo, sul
piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai «disastri» contemplati
negli altri articoli compresi nel capo relativo ai «delitti di comune
pericolo mediante violenza».
L’elemento strutturale unificante è desumibile dall’analisi d'insieme
dei delitti in questione. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve
essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni
straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre
effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall'altro lato, sul piano della
proiezione offensiva, l'evento deve provocare – in accordo con
l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la
«pubblica incolumità») – un pericolo per la vita o per l'integrità fisica
di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia
richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno
o più soggetti.
La Consulta invoca, a sostegno del proprio ragionamento, il fatto che
nella pratica giurisprudenziale questi elementi sono stati evidenziati
senza particolari sbandamenti o contrasti. Non che l’uniformità
dell’interpretazione possa colmare in sé un deficit di tassatività. Tuttavia
l'esistenza di un indirizzo giurisprudenziale costante diviene elemento di
conferma della possibilità di identificare, sulla scorta d'un ordinario
percorso ermeneutico, la più puntuale valenza di un'espressione
normativa in sé ambigua, generica o polisenso.
La Corte aggiunge, in relazione allo specifico andamento della
motivazione sviluppata dal rimettente, che la «pubblica incolumità»
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esposta a rischio dalla condotta va intesa «nel suo preciso significato
filologico, ossia come un bene, che riguarda la vita e l'integrità fisica
delle persone» (da ritenere naturalmente comprensiva anche della
salute)».
Un problema di tassatività è stato affrontato – qui non per la prima
volta – con la sentenza n. 225 del 2008, Bile, Flick, relativa alla
fattispecie di possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli
(art. 707 codice penale).
Il rimettente, in un provvedimento prevalentemente incentrato sulla
tassatività come elemento di garanzia della necessaria offensività del
fatto incriminato, aveva lamentato tra l’altro che la condotta sarebbe
scarsamente definita, incentrandosi piuttosto la fattispecie su una
condizione personale dell’interessato (già condannato per determinati
reati). La Corte ha fatto nella specie applicazione pratica dei principi più
volte enunciati, anche a proposito della interpretazione teleologica: il
possesso è di per sé una condotta, e nella specie non è punito
semplicemente come relazione tra l’agente ed una cosa determinata; la
norma infatti sanziona chi viene «colto» in possesso, evocando anche
con tale espressione una situazione dinamica, di elevata probabilità
della destinazione del materiale alla commissione di un reato, che dal
canto proprio assicura l’offensività della condotta.
Proprio a quest’ultimo proposito può essere citato un brano della
motivazione del provvedimento, utile a sua volta per un “punto” sulla
giurisprudenza in materia
L'ampia discrezionalità che – per costante giurisprudenza di questa Corte – va
riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende
anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra,
segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l'opzione per forme di tutela avanzata, che
colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a
pericolo; nonché, correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosità alla
quale riconnettere la risposta punitiva.
Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l'esigenza di rispetto del principio
di necessaria offensività del reato: principio desumibile, in specie, dall'art. 25, secondo
comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi
alla dignità umana» (sentenza n. 263 del 2000).
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a
tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario
(sentenze n. 265 del 2005, n. 263 e n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie,
alla Corte – tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità – procedere alla
verifica dell'offensività «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal
legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell'ipotesi del ricorso al
modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità
del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod
plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333 del 1991).
Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al
principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario,
nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività «in concreto»). Esso –
rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di
fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore
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appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l'area di
operatività dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile
potenzialità lesiva.
Ancora un problema di tassatività, ed uno concorrente a proposito
della riserva di legge (intesa come disciplina formale della fonte del
precetto penale), sottendono ad una recente pronuncia in materia di
favoreggiamento all’emigrazione illegale verso uno Stato diverso,
che la Corte ha affrontato e risolto, nel senso della infondatezza, con la
sentenza n. 21 del 2009, Flick, Saulle.
Il rimettente censurava l'art. 12, comma 1, del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286 (T.u. imm.), nella parte in cui punisce chi «compie
atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro Stato del quale la
persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente».
La disposizione censurata violerebbe appunto l'art. 25 della
Costituzione, in rapporto tanto al principio della riserva di legge in
materia penale che a quello della tassatività e determinatezza delle
norme incriminatrici. Essa delineerebbe, difatti, un reato «a condotta
libera», avente, quale unico elemento «tipizzante», il requisito di «illiceità
speciale» rappresentato dalla illegalità dell'ingresso in altro Stato del
soggetto favorito: illegalità, che dovrebbe essere peraltro stabilita, non
in base alla legge italiana, ma alla normativa dello Stato estero di
destinazione del migrante da questa richiamata, spesso neppure
individuabile con certezza, stante la configurazione della fattispecie
come delitto a consumazione anticipata, che punisce i semplici «atti
diretti» a procurare l'emigrazione, a prescindere dall'eventuale
conseguimento dell'obiettivo.
Venivano configurati anche altri profili di illegittimità, che qui
sarebbe troppo lungo analizzare.
Ebbene, la Corte ha replicato richiamando la nozione di elemento
normativo del fatto, che trova vasta applicazione nel nostro sistema di
incriminazioni, specie grazie alla clausole di cd. illiceità speciale.
Ovviamente, l’integrazione eteronoma del precetto penale non è senza
limiti. Con particolare riferimento ai casi nei quali l'elemento di
"riempimento" del precetto è fornito da una fonte (interna) di rango
secondario o da un provvedimento dell'autorità, la giurisprudenza
costituzionale ha chiarito che la violazione del principio di legalità deve
essere esclusa ove si rinvenga nella legge una sufficiente specificazione
dei presupposti, dei caratteri, del contenuto e dei limiti dei
provvedimenti dell'autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali
deve seguire la pena.
Il caso di specie è in effetti particolare, perché la norma integratrice
appartiene all’ordinamento di un altro Stato. Ma, secondo la Corte, è
sufficiente che sia il legislatore nazionale ad individuare, in termini di
immediata percepibilità, il "nucleo di disvalore" della condotta
incriminata, che giustifica la reazione punitiva. Per altro verso, è
necessario, ma anche sufficiente, che risultino adeguatamente
identificate le norme straniere chiamate ad integrare il precetto.
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La Corte indulge anche ad una considerazione di politica criminale,
rammentando che l’incriminazione dei «transiti» è imposta da
convenzioni internazionali: «ritenere il contrario, significherebbe
d'altronde escludere ogni possibilità di intervento del legislatore penale
nella lotta contro un fenomeno quale il favoreggiamento dell'emigrazione
illegale (…) stante il carattere tipicamente transazionale del fenomeno
stesso, non appaiono configurabili ragionevoli alternative a quella
adottata, in parte qua, dalla norma sottoposta a scrutinio».
Quanto poi alla questione della determinatezza, la Corte ha ripreso
gli insegnamenti che sono stati richiamati anche poco sopra:
«l'inclusione nella formula descrittiva dell'illecito di clausole generali o
concetti elastici non comporta un vulnus del parametro costituzionale
evocato quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta
comunque al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite
dall'incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si
colloca - di stabilire il significato di tale elemento, mediante un'operazione
interpretativa non esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato; e,
correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una
percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore
precettivo (sentenza n. 5 del 2004)».
Presenta sicuro interesse a «fini operativi» una serie di
considerazioni che la Corte ha svolto, nella sentenza in esame, a partire
dalle molte incertezze che nella pratica si presentano per l’applicazione
di una normativa che, comunque, non presenta certo caratteristiche
tecniche particolarmente apprezzabili.
È vero ad esempio che, stante la configurazione della fattispecie come
delitto a consumazione anticipata, lo Stato di destinazione del migrante
clandestino non risulta individuabile con certezza: «in effetti, ove
persistesse un insuperabile dubbio sulla identificazione di detto
Stato e, con essa, sul carattere illegale o meno dell'emigrazione favorita,
il favoreggiatore dovrebbe essere evidentemente assolto».
Vero poi che assume particolare rilevanza, nel contesto socioculturale in cui maturano i fatti in questione, il problema della
conoscenza della legislazione dello Stato di destinazione, che si
cumula a quello della conoscenza della legislazione nazionale: «è
parimenti evidente, sotto altro profilo, come i problemi connessi
all'eventuale ignoranza od errore del favoreggiatore in ordine ai contenuti
della normativa straniera, legati alle difficoltà di conoscenza della stessa,
trovino esaustiva risposta nella disciplina dell'errore, a seconda dei
casi, su legge penale (art. 5 cod. pen., quale risultante a seguito della
sentenza di questa Corte n. 364 del 1988) o extrapenale (art. 47, terzo
comma, cod. pen.)».


Veniamo ad alcuni interventi della Corte su singole fattispecie
incriminatrici. Si tratta di decisioni assai significative su un piano che
abbiamo già parzialmente affrontato, cioè quello della discrezionalità
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legislativa nella individuazione delle condotte da sottoporre a
sanzione penale. È tralaticia la giurisprudenza costituzionale che
rimette al legislatore, appunto, la più ampia libertà di individuare, nel
complesso dei comportamenti antisociali, quelli che meritano il
trattamento sanzionatorio in astratto più severo, cioè quello di natura
criminale. Certo – ed è importante – numerose pronunce aggiungono
che la discrezionalità in questione incontra il limite della manifesta
irragionevolezza, ma la strada della denuncia come irragionevoli di
singole incriminazioni ad opera del legislatore è sempre risultata
impervia. Molto più fruttuosa – ammesso naturalmente che sia possibile
– è la strada della comparazione diretta tra due fattispecie in rapporto
al parametro costituzionale dell’uguaglianza, secondo il tipico
ragionamento «triadico». Perché, se è vero, che il legislatore gode di
ampia discrezionalità nella nostra materia, è anche vero che non può
violare il principio di uguaglianza. E ancora, se è vero che il vulnus alla
regola dell’uguaglianza, per la nota riserva di legge in materia penale,
non può essere risolto dalla Consulta con decisioni che estendano
disposizioni sfavorevoli a nuove categorie di soggetti (salvo il caso della
norma penale di favore), è vero che lo stesso limite non sussiste quando
si tratta di rimuovere una regola sfavorevole che discrimina
ingiustamente determinati soggetti rispetto ad altri.
Ecco un tipico esempio, rappresentato dalla sentenza n. 177 del
2009, Amirante, Silvestri.
La Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 47-ter,
commi 1, lettera a), seconda parte, e 8, della legge 26 luglio 1975, n.
354 (Ordinamento penitenziario), in relazione all'art. 3 della
Costituzione, nella parte in cui non limita la punibilità ai sensi
dell'art. 385 cod. pen. al solo allontanamento che si protragga per più
di dodici ore, come stabilito dall'art. 47-sexies, comma 2, della suddetta
legge n. 354 del 1975, sul presupposto, di cui all'art. 47-quinques,
comma 1, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo
di commissione di ulteriori delitti.
La norma dichiarata illegittima riguarda la madre di prole infante
che, per tale sua condizione, e dovendo scontare una pena inferiore ai
quattro anni di reclusione, viene ammessa al regime di detenzione
domiciliare cd. «ordinaria». Era previsto che fosse punita a titolo di
evasione la persona che non rientrasse nel domicilio all’ora fissata,
senza alcuna eccezione, e quindi anche nel caso di brevissimo ritardo
(nel giudizio a quo si trattava di quaranta minuti).
L’istituto della detenzione domiciliare cd. speciale, che concerne a
sua volte la madre di prole infante, è stato introdotto nel 2001 ed è
regolato dalla legge di ordinamento penitenziario con gli artt. 47quinquies e 47-sexies. Tale normativa prende in considerazione i casi in
cui non ricorra il presupposto di cui all'art. 47-ter, vale a dire che la
pena da espiare non sia superiore a quattro anni, ed estende agli stessi
la possibilità della concessione della detenzione domiciliare, allo scopo
di «ripristinare la convivenza con i figli», purché la detenuta abbia
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espiato almeno un terzo della pena, ovvero dopo l'espiazione di almeno
quindici anni, nel caso di condanna all'ergastolo.
Nel caso della detenzione domiciliare speciale l’allontanamento
ingiustificato dall’abitazione è punito a titolo di evasione solo quando
si protragga, senza giustificato motivo, per un tempo superiore alle
dodici ore.
La Corte ha ritenuto manifestamente irragionevole che la madre di
prole di età non superiore ad anni dieci, che abbia da scontare una
pena pari o inferiore a quattro anni, subisse un trattamento
sanzionatorio, per l'ipotesi di ritardo nel rientro del domicilio, più severo
di quello riservato alla madre che, in uguali condizioni, abbia da espiare
una pena di durata maggiore.
Per altro la mancata estensione della disciplina stabilita dall'art. 47sexies sul margine di tolleranza del ritardo all'omogenea previsione
riguardante la detenzione domiciliare deve considerarsi irragionevole in
rapporto al sistema costituito dagli artt. 47-quinques e 47-sexies. In
tale contesto la donna viene ammessa alla detenzione domiciliare
all’esito di una sostanziale valutazione di «adeguatezza» della misura
circa la prevenzione di nuovi comportamenti criminosi, valutazione che
non è invece richiesta per la forma «ordinaria». Di qui la precisazione
che l'estensione della disciplina evocata in comparazione si completa
con la preventiva valutazione dell'inesistenza del rischio concreto che il
soggetto ammesso alla misura «ordinaria» possa commettere altri delitti.

Un nuovo esempio di «riduzione» dell’area applicativa di una
fattispecie incriminatrice: la recente dichiarazione di parziale
illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 384 c.p.,
sul tema delle dichiarazioni false o reticenti rese nella fase delle
indagini preliminari innanzi alla polizia giudiziaria. Si tratta della
sentenza n. 75 del 2009, Amirante, Criscuolo.
Il codice processuale prevede com’è noto una serie di «figure soggettive» presso le quali
possono essere acquisite informazioni, cioè può essere assunta, lato sensu, la prova dichiarativa.
Qui non ci interessa la figura dell’indagato o imputato, ove è garantito, per il «privilegio contro
l’autoincriminazione», il diritto di tacere ed anche quello di mentire, salvi i limiti della calunnia e, in
termini molto problematici, del favoreggiamento.
La figura tradizionale del testimone, cioè di una persona che non è accusata del fatto
investigato o di fatti connessi o collegati, assume la duplice veste di persona informata dei fatti
quando viene sentita in fase di indagini, e di testimone quando viene sentita nel giudizio di merito.
La persona informata dei fatti può essere sentita anzitutto dalla polizia giudiziaria, nei casi e
modi stabiliti dall’art. 351 c.p.p.. E’ possibile che la polizia proceda all’adempimento in quando
delegata dal pubblico ministero (art. 370 c.p.p.). E’ possibile, soprattutto, che lo stesso pubblico
ministero proceda all’audizione, nei casi e nei modi stabiliti dall’art. 362 c.p.p. A partire dal 2000,
l’audizione della persona informata è consentita anche nell’ambito delle indagini difensive, come
stabilito dagli artt. 391-bis e seguenti c.p.p.
Lo stesso soggetto, una volta avviato il giudizio di merito (ed eccezionalmente nell’ambito
dell’udienza preliminare) viene sentito direttamente dal giudice quale testimone.
Orbene, il testimone “puro” ha il dovere giuridico, penalmente sanzionato, di rispondere e dire
la verità. Se tace o mente, risponderà per il giudizio di falsa testimonianza (art. 372 c.p.), e per la
fase di indagini, a seconda del soggetto investigante, di false informazioni al pubblico ministero (art.
371-bis c.p.) o di false dichiarazioni al difensore (art. 371-ter, con la precisazione che il reato,
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poiché non vi è obbligo di prestarsi alle indagini difensive, si commette con il falso ma non con la
reticenza).
Resta il problema del silenzio o del mendacio innanzi alla polizia giudiziaria. È opinione
comune che – in assenza di una apposita previsione – l’agente risponda di favoreggiamento (art.
378 c.p.), ed in particolare del cosiddetto favoreggiamento dichiarativo, sempre che abbia agito allo
scopo di aiutare taluno ad eludere le investigazioni dell’autorità.
Bisogna aggiungere che la legge preclude manovre elusive, che consistano nel sentire come
testimone una persona che dovrebbe assumere altra veste, e comunque impone l’interruzione della
testimonianza quando emergano indizi di reità a carico dell’interrogato. In tal senso l’art. 63 c.p.p.
A questo punto, per altro, è necessario ricordare che esiste una figura intermedia tra quella
dell’indagato e quella del testimone. Evitando orribili neologismi (impumone), viene in genere
definita «testimone assistito».
Si tratta, in termini del tutto generici, di persone che hanno un interesse difensivo da tutelare nel
rendere dichiarazioni sul fatto, e che pertanto, in certe condizioni, non possono essere sentite come
“testimoni” (ferma restando la possibilità che vengano interrogate ex art. 210 c.p.p., senza obbligo
di rispondere e dire il vero), mentre in altre condizioni possono assumere l’ufficio, e tuttavia hanno
diritto all’assistenza di un difensore, anche dato che sono precluse determinate domande.
I tratti “somatici” del testimone assistito si traggono dagli artt. 197 e 197 bis del codice di
rito. In buona sostanza, l’imputato di reato connesso, o l’imputato di un reato «collegato» a
norma dell’art. 371 comma 2 lett. b, non possono essere sentiti come testimoni finché non si è
chiuso il processo che personalmente li riguarda, e sono invece sentiti come testimoni assistiti
quando il processo in questione si è chiuso.
Allo stesso regime è assoggettata la testimonianza dei collaboratori, quando abbiano ricevuto
gli avvisi di cui alla lettera c) del comma 3 dell’art. 64 c.p.p.
E’ importante sottolineare che le norme che segnano il discrimine tra divieto di testimonianza
e testimonianza assistita si applicano anche nel corso delle indagini preliminari, e ciò per il
richiamo che l’art. 351 fa all’art. 362, e che l’art. 362 fa agli artt. 197 e 197-bis. In altre parole anche
la polizia giudiziaria ed il pubblico ministero, di fronte ai soggetti indicati, devono astenersi
dall’assumere informazioni, o possono assumerle, a seconda dei casi, con la formula del
dichiarante assistito.
A norma dell’art. 384 c.p., primo comma, i reati «di falsa
dichiarazione» (dal favoreggiamento alla falsa testimonianza) non sono
punibili se commessi da persona «costretta dalla necessità» di salvare
se stessa od un prossimo congiunto da un grave nocumento nella
libertà o nell’onore. Una variante dello stato di necessità, che ricorre,
secondo l’opinione preferibile, solo quando il nocumento sarebbe
conseguenza immediata ed inevitabile della dichiarazione veritiera. La
norma costituisce uno degli ancoraggi positivi del principio nemo
tenetur se detegere, ma certamente non ne rappresenta la disciplina
esaustiva, sia perché include fatti ulteriori (il nocumento per un
prossimo congiunto), sia perché il principio consente comportamenti
difensivi che vanno oltre la semplice e diretta «non autoincriminazione».
Certo è che il favoreggiamento dichiarativo commesso per evitare
un danno alla propria libertà non è punibile. Come vedremo, si è molto
discusso se il tossicodipendente possa mentire sulla provenienza della
droga da lui detenuta.
Ma nel caso in esame norma censurata era il secondo comma
dell’art. 384 c.p.. Con esclusivo riguardo ai reati di false dichiarazioni
al P.m. e al difensore, ed alla falsa testimonianza (oltre che alla falsa
perizia, qui non rilevante), viene esclusa “la punibilità” nel caso si tratti
di persona che è stata escussa come testimone o persona informata e
non avrebbe dovuto esserlo, in generale o con riguardo a singole
domande.
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Il seguente materiale redatto dal Dott. Guglielmo LEO proviene da un incontro organizzato in
data 11 gennaio 2010 dalla Formazione Decentrata di Milano .
La norma originaria riguardava il solo falso testimone o perito. Nel 1992 è stato inserito il
riferimento al falso dichiarante innanzi al p.m., e nel 2000 quello al falso dichiarante innanzi al
difensore. Con la legge 63 del 2001 è stata inserita una ulteriore modifica, volta a comprendere, in
sostanza, i casi di «domanda indebita» rivolta al testimone assistito (che, come accennato, gode di
un’area ove conserva libertà di determinazione, prossima al fatto da lui stesso commesso).
Come si vede, la «causa di non punibilità» in questione non investiva
il favoreggiamento. La cosa aveva una sua logica, perché il
favoreggiamento può essere commesso in mille modi, e non solo
rendendo false dichiarazioni alla polizia giudiziaria. Ma nel momento in
cui, per la mancanza di una fattispecie ad hoc, il favoreggiamento
diventa la norma che sanziona «la falsa testimonianza avanti alla
polizia», il problema emergeva con nettezza.
Il caso di specie risulta emblematico. Tizio è stato trovato in possesso
di qualche grammo di droga, e probabilmente sottoposto a narcotest. È
stato indagato sia per detenzione illegale di stupefacenti che per guida
in stato di intossicazione. La prima accusa è stata archiviata, mentre
per la seconda è intervenuto patteggiamento. Entrambi i provvedimenti,
per altro, sono successivi all’escussione condotta nei suoi confronti
dalla polizia giudiziaria, ex art. 351 c.p.p. Tizio è stato alla fine accusato
di favoreggiamento perché ha negato di avere acquistato la droga da
una certa persona poco prima del sequestro in suo danno.
Dirò subito del ragionamento sviluppato dalla Corte. A titolo personale nutro dei dubbi circa la
punibilità per favoreggiamento, anche a monte della decisione qui in commento, per dichiarazioni
abusivamente assunte presso un indagato di reato connesso (dubbi che, se condivisi,
avrebbero forse potuto creare perplessità circa la rilevanza della questione sollevata dal
rimettente).
Presupposto della questione era che l’imputato non avrebbe potuto essere sentito come
«testimone», neppure come testimone assistito. Ciò in quanto indagato, al momento
dell’escussione, per reato probatoriamente collegato (lett. b del comma 1 dell’art. 197, e art. 197bis, in relazione alle lett. b del comma 2 dell’art. 371: supra). Ma poteva essere sentito come
persona indagata, anche dalla polizia giudiziaria a norma dell’art. 350 c.p.p., con le garanzie
previste in quella sede, ed in quell’ambito potevano naturalmente essere poste domande su reati
collegati. Naturalmente avrebbe dovuto applicarsi il comma 3 dell’art. 63 c.p.p..
Ora, l’imputato che renda dichiarazioni mendaci nel corso del proprio interrogatorio non può
essere chiamato a risponderne, almeno e proprio nella misura in cui le circostanze cui si riferiscono
le dichiarazioni influiscano sulla prova del reato a lui stesso ascritto. Per essere chiari: se mi
interrogano sul reato di guida in stato di intossicazione, e mi chiedono dove ho comprato lo
stupefacente, avrò bene il diritto di negare che ho comprato stupefacente da Tizio.
Questo diritto non viene meno proprio e soprattutto quando vi siano irregolarità
nell’interrogatorio.
Le prescrizioni che circoscrivono la sanzione di inutilizzabilità dell’interrogatorio irregolare
riguardano l’utilizzabilità processuale delle dichiarazioni rese, ma non la punibilità delle
dichiarazioni medesime. È vero che la giurisprudenza esclude che la inutilizzabilità dell’art. 63
c.p.p. riguardi il reato commesso proprio attraverso le dichiarazioni rese (cioè, è inutilizzabile la mia
dichiarazione concernente un pregresso reato, ma non quella che rappresenta essa stessa il
reato). Ma questo vale per le persone sentite come testimoni (63 comma 1), che non hanno il diritto
di mentire. Infatti, il secondo comma dell’art. 63 dice che, se la persona era già raggiunta di indizi,
non v’è alcun margine di utilizzabilità delle sue dichiarazioni.
Ora, è chiaro che la polizia giudiziaria, nel caso di specie, aveva inteso sentire l’imputato non
come tale, ma come “testimone” a carico dello spacciatore. Penso tuttavia che non rilevino
l’opzione degli inquirenti o la qualificazione da loro data all’atto – posto il principio che non c’è
alcuna discrezionalità sullo strumento processuale – ma la sostanza dell’adempimento compiuto.
Se l’imputato fosse stato interrogato su questioni che direttamente riguardavano la sua
responsabilità, penso che la sua impunità sarebbe derivata direttamente dal principio nemo tenetur
se detigere.
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Va considerato che, dopo lunghe discussioni, la giurisprudenza si è assestata nel senso che
l’acquirente di dosi per uso personale non è indagato, in base alla sola circostanza dell’acquisto,
per un reato collegato a quello di cessione commesso dallo spacciatore, e dunque può essere
sentito come “testimone” dalla polizia giudiziaria (Sez. un., sent. 21832 del 2007, Morea). Ma nella
specie l’imputato era formalmente indagato per detenzione illegale di stupefacenti, e comunque per
guida in stato di intossicazione da stupefacenti.
Un diverso modo di guardare allo stesso problema consiste nella asserita «pregiudizialità» della
questione proposta rispetto al tema della ricorrenza della esimente di cui al 1° comma dell’art. 384
c.p.
Breve premessa: anche con la sentenza delle Sezioni unite sopra citata, è stato stabilito che
nocumento alla libertà che “giustifica” la falsa dichiarazione può anche consistere nelle sanzioni
amministrative che sono applicabili nei confronti del tossicodipendente ex art. 75 del T.U. stup.. In
altre parole, anche se non ha commesso un reato, un tossicodipendente può mentire quando
l’affermazione della verità comporterebbe per lui una significativa restrizione di libertà (o un
nocumento per l’onore), che, in buona sostanza, egli ha il diritto di cercare di evitare anche
attraverso la menzogna (ed il favoreggiamento).
È una questione che va accertata caso per caso: per esempio le Sezioni unite hanno escluso la
ricorrenza dell’esimente nel caso di specie, perché il «favoreggiatore» era un pluripregiudicato per
spaccio (niente onore da difendere) e non aveva in qualche modo specificato in quale misura le
restrizioni connesse ai provvedimenti amministrativi avrebbero pregiudicato le sue condizioni
esistenziali e professionali.
Insomma. È davvero fondata l’idea che l’efficacia del principio nemo tenetur sarebbe
pregiudicata ogni qual volta l’inquirente, invece che adottare il modello procedimentale che attua il
principio, ne adotta indebitamente uno che impone di rendere dichiarazioni veritiere?
È vero, nonostante quanto rilevato con le note personali che
precedono, che il legislatore ha dimostrato a più riprese di ritenere
necessaria una speciale esimente per chi mente o si atteggia a
reticenza durante l’assunzione di una «prova dichiarativa» che lo ha
indebitamente posto nell’alternativa tra la condotta vietata e l’esercizio
del diritto di tacere o di allegare circostanze non veritiere a propria
difesa. Si dovrebbe però considerare che, a partire dalla scelta «politica»
di non punire come testimone infedele chi comunque non avrebbe
dovuto testimoniare, il legislatore ha inteso escludere la punibilità delle
dichiarazioni false o mendaci qualunque sia il relativo oggetto, e
dunque proteggere un interesse generico e comunque diverso da
quello della garanzia di libertà nell’azione difensiva
La Corte, comunque, si è collocata in una diversa prospettiva, che
può tranquillamente essere condivisa, una volta superate le perplessità
sulla rilevanza della questione, ed una volta chiarito che l’art. 384 c.p.
non riguarda solo, ed al tempo stesso non esaurisce, la rilevanza
della clausola nemo tenetur se detegere.
Ecco il dispositivo della pronuncia: «dichiara l'illegittimità
costituzionale dell'art. 384, secondo comma, del codice penale, nella parte
in cui non prevede l'esclusione della punibilità per false o reticenti
informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi non avrebbe
potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere in quanto
persona indagata per reato probatoriamente collegato - a norma dell'art.
371, comma 2, lettera b), codice di procedura penale - a quello, commesso
da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono».
La Corte, pur evidenziando un profilo di irragionevolezza, ha utilizzato
per larga parte il ragionamento «triadico», muovendo dalle analogie di
trattamento processuale delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria e
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di quelle assunte dal pubblico ministero. Una tale convergenza di
disciplina processuale – si è detto – rende del tutto irragionevole il
diverso regime giuridico riscontrabile tra le corrispondenti condotte di
mendacio o reticenza, qualora esse siano riconducibili alle ipotesi di
reato previste, rispettivamente, dall'art. 371-bis e dall'art. 378 cod. pen.
(limitatamente alla condotta di false o reticenti informazioni assunte
dalla polizia giudiziaria), non essendo applicabile alla seconda ipotesi
(per mancata previsione normativa) la citata causa di non punibilità nel
caso di assunzione d'informazioni ad opera della polizia giudiziaria,
ancorché non sia configurabile in capo al dichiarante un obbligo di
renderle o comunque di rispondere in quanto persona indagata per
reato probatoriamente collegato, a norma dell'art. 371, comma 2, lettera
b), cod. proc. pen., a quello (commesso da altri) cui le dichiarazioni
stesse si riferiscono.
Sempre a proposito dell’art. 384 c.p., cioè delle cause speciali di
non punibilità che riguardano i reati contro l’amministrazione della
giustizia, va segnalata una pronuncia concernente il primo comma,
nella parte in cui non prevede per il convivente more uxorio le stesse
ragioni di immunità che vengono riconosciute al coniuge.
È una vecchia questione, più volte risolta negativamente dalla Corte,
che anche in questo caso ha rifiutato una equiparazione che, a suo
giudizio, implicherebbe effetti sistematici enormi, ed incidenti sullo
stesso assetto di valori consacrato nella Costituzione. La Corte non ha
omesso, comunque, qualche cenno di «attualizzazione» del
ragionamento sulla famiglia di fatto.
Per dare contezza della pronuncia è sufficiente la relativa massima
ufficiale. Si tratta della sentenza n. 140 del 2009 (Amirante, Criscuolo)
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 384, primo comma,
cod. pen., censurato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., nella parte in cui non
contempla tra i soggetti che possono beneficiare della scriminante anche il convivente
more uxorio. La convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale (nella
Costituzione il secondo è oggetto della specifica previsione di cui all'art. 29 Cost.,
mentre la prima ha rilevanza nell'ambito della protezione dei diritti inviolabili dell'uomo
ex art. 2 Cost.) e tale diversità giustifica che la legge possa riservare trattamenti giuridici
non omogenei. Infatti, se è vero che, in relazione ad ipotesi particolari, si possono
riscontrare tra i due istituti caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria un'identità
di disciplina, che la Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza, nella specie,
l'estensione di cause di non punibilità comporta un giudizio di ponderazione a soluzione
aperta tra ragioni diverse e confliggenti che appartiene primariamente al legislatore. Si
tratterebbe, insomma, di mettere a confronto l'esigenza della repressione di delitti contro
l'amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare,
dall'altro, ma non è detto che i beni di quest'ultima natura debbano avere
necessariamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della
famiglia legittima, per la quale sola esiste un'esigenza di tutela non solo delle relazioni
affettive, ma anche dell'istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e
caratterizzante è la stabilità. Ciò legittima nel settore dell'ordinamento penale soluzioni
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legislative differenziate. Inoltre, una dichiarazione di incostituzionalità che assumesse la
pretesa identità della posizione spirituale del coniuge e del convivente, oltre a
rappresentare la premessa di quella totale equiparazione che non corrisponde alla
visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative
consequenziali di portata generale che trascendono l'ambito del giudizio incidentale di
legittimità costituzionale.

Anche in tempi recenti la Corte è stata chiamata ad occuparsi della
disciplina penale della immigrazione, e non solo sotto il profilo ormai
«tradizionale» della incongruenza del quadro sanzionatorio espresso dal
d.lgs. n. 286 del 1998, cui si riferiscono alcuni provvedimenti richiamati
nella parte «generale» di questa rassegna.
Riguarda ad esempio un problema di struttura della fattispecie la
ordinanza n. 41 del 2009, Amirante, Silvestri, che ha giudicato
manifestamente infondata una questione solleva dal Tribunale di Ivrea a
proposito della fattispecie di «indebito rientro» dello straniero già
espulso.
Il comma 5-quater dell’art. 14 del T.u. immigrazione stabilisce
testualmente: «Lo straniero già espulso ai sensi del comma 5-ter, primo
periodo, che viene trovato, in violazione delle norme del presente testo
unico, nel territorio dello Stato è punito con la reclusione da uno a cinque
anni. Se l'ipotesi riguarda lo straniero espulso ai sensi del comma 5-ter,
secondo periodo, la pena è la reclusione da uno a quattro anni ».
Si parla correntemente di rientro in quanto l’espulsione a norma
dell’art. 14, comma 5-ter deve essere eseguita, o almeno dovrebbe,
estromettendo fisicamente l’interessato dal territorio dello Stato, e non
semplicemente intimandogli di andarsene, come normalmente avviene
ex art. 15, comma 4-bis.
Ebbene, il rimettente osservava che lo straniero il quale permane nel
territorio dello Stato dopo la prima espulsione (cd. indebito
trattenimento), punito a norma del comma 5-ter , può andare esente
da pena quando ricorra un giustificato motivo per la sua condotta:
una clausola che eccede il limite già posto dalle ordinarie cause di
giustificazione. La stessa clausola non è riprodotta dalla norma
censurata, della quale poco sopra si è riportato il testo. La diversità di
trattamento, secondo il rimettente, sarebbe priva di giustificazione e
violerebbe i principi di uguaglianza e di necessaria finalizzazione
rieducativa della pena.
La Corte ha replicato che, nel contesto di una spiccata discrezionalità
da riconoscersi al legislatore nella configurazione delle condotte
penalmente rilevanti, una questione di irragionevole sperequazione può
essere posta a condizione di una sostanziale identità delle situazioni
poste a confronto. E, nella specie, non è questo il caso: «nell'un caso (art.
14, comma 5-ter) si è di fronte ad un comportamento di tipo omissivo,
poiché lo straniero, raggiunto dalla intimazione del questore a lasciare il
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territorio dello Stato entro cinque giorni, non ottempera all'ordine; nell'altro
caso (art. 14, comma 5-quater) lo straniero, già resosi inottemperante
all'ordine di allontanamento del questore e successivamente espulso con
accompagnamento coattivo alla frontiera, rientra illegalmente nel territorio
dello Stato, vanificando gli effetti dell'attività amministrativa e giudiziale
culminata con il suo allontanamento».
Mentre lo straniero intimato a lasciare il territorio nazionale deve
trovare possibilità e mezzi per obbedire, quello che rientra trova
possibilità e mezzi per rientrare illegalmente. Può darsi ricorrano motivi
apprezzabili, ma, osserva la Corte, è possibile in questo caso il ricorso
alla procedura per l’autorizzazione al rientro, e «d'altronde, nei casi in cui
sussistano ragioni di tale cogenza da non consentire l'attesa connessa al
procedimento di autorizzazione, risulterà verosimilmente integrata una
delle cause di giustificazione ordinarie, con conseguente esclusione della
rilevanza penale della condotta».
Assume un rilievo certamente preponderante, comunque, il primo
pronunciamento della Corte su questioni concernenti la cd. «aggravante
di clandestinità», introdotta nell’ordinamento con il «primo pacchetto
sicurezza», nel maggio del 2008, mediante l’inserimento nell’art. 61 del
codice penale, dedicato alle aggravanti comuni, di un numero 11-bis.
Nel rozzo linguaggio del decreto legge, poi omologato almeno a quello
delle restanti fattispecie contenute nella medesima norma con una
modifica operata in sede di conversione, era stato stabilito che la pena
debba essere aumentata per i fatti commessi da «soggetto che si trovi
illegalmente sul territorio nazionale».
Dunque una aggravante comune, ad effetto comune, applicabile a
qualunque genere di reato (delitti, contravvenzioni, dolo, colpa, ecc.),
fondata sulla mera violazione di una qualunque delle norme che
regolano l’ingresso, la circolazione e la permanenza degli stranieri nel
territorio dello Stato.
Per inciso, e come anche risulta anche dai lavori parlamentari
(nonché dalla occasio legis, che come molti ricorderanno riguardava
soprattutto delitti commessi da cittadini comunitari), la norma era stata
costruita per riguardare tutti i cittadini di nazionalità non italiana,
compresi i comunitari. Specie in questo aspetto, la scelta del legislatore
aveva incontrato violentissime critiche, ad esempio presso il
Commissario per i diritti umani del Consiglio di Europa, e presso la
stessa Commissione europea, che con prese di posizione ufficiali aveva
considerato la disciplina in contrasto (almeno) con le norma
comunitarie sulla circolazione dei cittadini dell’Unione.
Di qui l’introduzione nel «secondo pacchetto sicurezza» di una
pretesa norma di interpretazione (art. 1, comma 1, della legge 94 del
2009), in base alla quale la fattispecie aggravante non si applica ai
cittadini comunitari.
Ma veniamo alle questioni che erano state sollevate da tre diversi
Tribunali, cioè quelli di Ferrara, Latina e Livorno, con una serie di
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argomenti che –muovendo dalla comune premessa che la norma si
fonderebbe su uno «status» dell’interessato e non su un particolare
profilo della sua condotta - possono essere articolati come segue.
La disposizione censurata violerebbe:
a) l’art. 3 della Costituzione, perché fatti di identica natura sono puniti in misura
differente a seconda che il reo si trovi o non regolarmente nel territorio dello Stato;
b) l’art. 3 della Costituzione, perché lo straniero irregolarmente soggiornante è punito
nella stessa misura del recidivo o del latitante, pur non avendo commesso, in
precedenza, alcun reato;
c) l’art. 3 della Costituzione, per la sostanziale assimilazione, attraverso l’istituzione di
un’aggravante comune e di automatica applicazione, fra il trattamento di soggetti
responsabili d’una mera violazione amministrativa ed il trattamento di soggetti che
abbiano abusato della propria funzione o qualità personale (art. 61, nn. 9 e 11, cod.
pen.), o abbiano già commesso reati in precedenza (artt. 70, ultimo comma, e 99 cod.
pen.), o siano già individuati come pericolosi mediante un provvedimento giudiziale
(art. 61, n. 6, art. 576, comma 1, nn. 3 e 4, art. 628, comma 3, n. 3, art. 629, comma 2,
c.p.; art. 7 legge 31 maggio 1965, n. 575, recante «Disposizioni contro la mafia»);
d) l’art. 3 della Costituzione, per la intrinseca irragionevolezza di una presunzione di
maggior pericolosità collegata alla mera assenza di un titolo di legittimo soggiorno nel
territorio dello Stato, senza alcuna distinzione tra le varie possibili violazioni della legge
sull’immigrazione e senza alcuna rilevanza per l’eventuale ricorrenza di un «giustificato
motivo», limitatamente all’equiparazione tra tutte le violazioni di norme concernenti
l’immigrazione);
e) l’art. 3 della Costituzione, per la intrinseca irragionevolezza di una previsione
aggravante comune, e come tale applicabile anche ai reati in materia di immigrazione,
con la conseguenza in questi casi d’una indebita duplicazione del trattamento
sanzionatorio;
f) l’art. 3 della Costituzione, per la intrinseca irragionevolezza di una presunzione di
maggior pericolosità collegata alla mera assenza di un titolo di legittimo soggiorno nel
territorio dello Stato, senza alcuna necessaria correlazione tra la condizione del reo e la
gravità del reato;
g) l’art. 13 della Costituzione, poiché il diritto alla libertà personale, inviolabile e come
tale riferibile in pari misura al cittadino ed allo straniero, è sacrificato senza alcun
ragionevole bilanciamento con la tutela di beni di analogo rango costituzionale;
h) gli artt. 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione, per il difetto
di pertinenza del maggior trattamento punitivo al fatto di reato, e per la sua esclusiva
inerenza ad uno «status personale del reo»;
i) l’art. 25, secondo comma, della Costituzione, per il difetto di pertinenza del maggior
trattamento punitivo ad un incremento di gravità del fatto, con conseguente violazione
del principio di offensività, oltre che dei principi di necessità e sussidiarietà del diritto
penale;
l) l’art. 27, primo comma, della Costituzione, per il difetto di proporzione tra la pena
ed il grado della responsabilità personalmente riferibile al reo, e per il trasferimento
della logica punitiva dalla colpevolezza al tipo d’autore;
m) l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, perche la sproporzione per eccesso della
sanzione rispetto al fatto esclude la finalizzazione rieducativa della pena, anche in
ragione della percezione da parte del condannato.
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Come è noto, con la ordinanza n. 277 del 2009 (Amirante, Silvestri)
la Corte ha definito le tre pendenze con due tipologie di decisione.
È interessante anzitutto, perché attiene alla portata della fattispecie
ed ai suoi meccanismi applicativi, la deliberazione di inammissibilità
per la questione sollevata a Livorno. In quella sede l’aggravante dell’art.
61 n. 11-bis era stata contestata con riferimento ad un reato di
immigrazione, punito ex art 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Ora, quasi tutti i commentatori della nuova fattispecie, ed una piana
lettura della prima parte dell’art. 61 cod. pen. (le aggravanti comuni
operano quando non consistano in elementi costitutivi del reato od in
sue specifiche circostanze), suggeriscono che detta fattispecie non si
applica ai reati di immigrazione, per l’evidente esigenza di evitare un
bis in idem. Se questo è vero – e la Corte pianamente l’ha ritenuto –
risulta evidente che, quando contestata in casi del genere, l’aggravante
deve essere esclusa. Con la conseguenza che il giudice livornese non
doveva fare effettiva applicazione della norma da lui censurata:
questione dunque irrilevante, e per questo inammissibile.
Ma veniamo alle analoghe questioni sollevate da altri Tribunali.
La Corte ha rilevato tre variazioni normative intervenute in epoca
successiva alle ordinanze di rimessione. Per quanto l’ordinanza non sia
esplicita, sembra che le prime due possano considerarsi irrilevanti: le
modifiche della legge di conversione sembrano solo stilistiche;
l’esclusione dei «comunitari» non dovrebbe aver riflessi nei giudizi a
quibus, stando almeno alla presunzione che può trarsi dai nomi arabi
dei rispettivi imputati (presunzione per altro non assoluta, e dunque da
verificare ad opera dei rimettenti).
Il vero problema è che, proprio con la legge 94 del 2009, sono state
introdotte profonde modifiche nel trattamento penale ed extra-penale
della immigrazione. La più importante consiste nell’intervenuta
criminalizzazione del soggiorno illegale (art. 10-bis, come inserito nel
T.u. delle leggi sull’immigrazione): danno luogo ad un reato punibile con
l’ammenda, in sostanza, tutti i comportamenti che si pongono anche
alla base della fattispecie aggravante di cui si tratta.
Ora, la nuova previsione dà luogo ad una serie di interrogativi etici,
politici e tecnici che non possono essere affrontati in questa sede, Certo
l’aggravante di clandestinità non sarà applicata al reato di clandestinità,
e fin qui si spera non vi siano incertezze. Meno immediata la risposta al
quesito se non si sia creata una sorta di reato complesso, con la
conseguenza che lo straniero in posizione di soggiorno irregolare,
compiendo un reato qualunque, risponde di tale reato con l’aggravante
della clandestinità, ma non del reato di clandestinità. La soluzione
potrebbe anche essere opposta (art. 61 comma 1 prima parte), e cioè
consistere nell’esclusione dell’aggravante ogni volta che lo straniero
risponda del reato di clandestinità, anche se si tratterebbe in pratica di
una interpretatio abrogans della previsione censurata, e molte altre
potrebbero essere le obiezioni critiche al proposito.
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La rilevanza retroattiva di queste variazioni – in un sistema fondato
sul principio di irretroattività delle nuove incriminazioni – deve essere
valutata in tutti i processi per fatti antecedenti al luglio scorso.
Ma v’è un dato per così dire «argomentativo» della cui attualità deve
compiersi una verifica. Tutti i rimettenti, con maggiore o minore enfasi,
avevano argomentato sulla presunta irrazionalità di una norma che
eleva a fattispecie aggravante un comportamento privo di rilevanza
penale, cioè un mero illecito amministrativo. Non è l’unico
argomento, come si è visto, e forse non è decisivo, ma certamente
segnava in modo profondo l’iter motivazionale dei rimettenti. Si tratta di
un argomento non più attuale.
Di qui la restituzione degli atti, per una nuova valutazione sulla non
manifesta infondatezza della disciplina. Dai due capoversi finali
dell’ordinanza emergono con chiarezza due piani del futuro
ragionamento:
a) Una norma che non può retroagire – ammesso che oggi abbia
risolto il problema di incoerenza sistematica denunciato dai
rimettenti e legittimi ex post la previsione dell’aggravante – può
assumere rilievo, sia pure indiretto, in processi per fatti antecedenti?
(tenendo conto che la Corte – ove mai considerasse dirimente questo
aspetto della questione - non potrebbe comunque caducare una
norma attualmente legittima, almeno fuori dalla insolita prospettiva
di una caducazione «a tempo»).
b) Pensando all’attuale disciplina, è davvero dirimente il fatto che
l’aggravante si fonda su una condotta che rileverebbe per sé stessa
come reato?
Ai posteri, cioè ai rimettenti vecchi e nuovi, l’ardua sentenza. Per
l’intanto, si può segnalare che alla fine del mese di gennaio 2010 la
Corte sarà chiamata a valutare altre cinque ordinanze aventi ad oggetto
l’aggravante di clandestinità. Si tratta, per altro, di provvedimenti
anch’essi antecedenti alla approvazione della legge 94 del 2009.

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Continua il lavoro della Corte a fini di delimitazione della immunità
dei parlamentari per le opinioni espresse, come sancita dall’art. 68
Cost. Sul piano sostanziale, nonostante una produzione cospicua nel
corso del 2008 e del 2009, nessuna novità sconvolgente, ma la decisa
riproposizione di paletti che il Parlamento, dal canto proprio,
generalmente non riconosce.
Vorrei segnalare piuttosto una pronuncia recente, per le preziose
indicazioni operative che possono trarne coloro i quali siano chiamati
a promuovere conflitti analoghi.
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Il seguente materiale redatto dal Dott. Guglielmo LEO proviene da un incontro organizzato in
data 11 gennaio 2010 dalla Formazione Decentrata di Milano .
L’art. 26 delle Norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte
costituzionale regola gli adempimenti che devono seguire al
provvedimento con il quale la Corte, investita del ricorso per conflitto
tra poteri, dichiara ammissibile il conflitto medesimo. Ricorso ed
ordinanza vanno notificati entro venti giorni al «potere» configgente
(nella specie al ramo del Parlamento che ha deliberato l’insindacabilità).
Gli atti, unitamente alla prova della notifica, vanno depositati entro
venti giorni nella cancelleria della Corte costituzionale. Il termine
decorre, in caso di pluralità degli enti destinatari, dalla data dell’ultima
tra le notifiche effettuate.
La giurisprudenza considera pacificamente perentori entrambi i
termini che ho indicato, e considera pacificamente improcedibile il
conflitto quando vi sia stata violazione dei termini medesimi.
Ora, poiché il potere ricorrente deve essere al corrente
dell’intervenuta notifica, e comunque disporre della copia notificata del
proprio ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità, si pone il problema del
rispetto del secondo fra i termini indicati, che postula un rapporto
«efficiente» con l’agente incaricato della notifica. Il caso di specie
(ordinanza n. 188 del 2009) è significativo, perché l’improcedibilità ha
«colpito» un ufficio giudiziario particolarmente efficiente: gli atti erano
stati depositati presso la Cancelleria della Corte (pur collocata a Roma,
cioè a molte centinaia di chilometri dalla sede giudiziaria interessata), il
giorno successivo a quello in cui erano pervenuti, dall’ufficiale
giudiziario, gli esemplari notificati del ricorso e dell’ordinanza; peccato
che la ricezione fosse successiva di oltre venti giorni alla data della
notifica eseguita presso la Camera dei Deputati (tanto era servito perché
l’Ufficiale giudiziario di Roma spedisse il plico per posta, ed il plico fosse
consegnato all’Autorità ricorrente).
Piaccia o meno la Corte ha stabilito, nel caso di notifica «a mani»
del destinatario», che non rileva la data in cui il rimettente ha ricevuto
effettivamente notizia dell’adempimento, e men che meno la data di
disponibilità materiale degli atti notificati, ma la data in cui una
«diligente attivazione» avrebbe consentito di acquisire informazioni e
documenti necessari.
A questo punto sembra meglio affidare l’illustrazione del principio alla
stessa Consulta:
in proposito, non esclude la tardività del deposito la circostanza che la relata della
notificazione alla Camera dei deputati sia stata restituita al giudice ricorrente solo il 17
dicembre 2008, quando il citato termine per il deposito degli atti notificati era già
decorso;
[…] infatti, nel caso di specie, la notificazione è stata effettuata dall'ufficiale
giudiziario non già a mezzo posta, ma a mani proprie;
[…] mentre nella notificazione a mezzo posta il notificante, dopo aver consegnato
all'ufficiale giudiziario l'atto da notificare, non ha particolari oneri di diligenza, dovendo
solo attendere la restituzione dell'avviso postale di ricevimento - avviso che costituisce
prova certa della data sia dell'avvenuta consegna del plico al destinatario sia della
comunicazione di tale consegna al notificante -, nella notificazione a mani proprie,
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invece, sussiste uno specifico onere di diligenza a carico del notificante […] infatti, con
riguardo a tale ultima modalità di notificazione, questa Corte ha già affermato che
l'ufficiale giudiziario - pur se tenuto ad eseguire la notificazione senza indugio e
comunque entro il termine prefissato dall'autorità per gli atti da essa richiesti (art. 108,
secondo comma, del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229) − non ha «l'obbligo di restituire
gli atti al richiedente nel domicilio o nella sede di questo» (sentenza n. 247 del 2004) e
che «il notificante [...] deve diligentemente attivarsi, facendo in modo − per quanto egli
può controllare − che il procedimento di notificazione si concluda, con il ritorno degli
atti nella sua disponibilità, nel tempo utile per il rituale proseguimento del processo»
(sentenza n. 247 del 2004, già citata; ordinanza n. 278 del 2004).


È venuto il momento di trattare interventi della Corte che colgono le
più recenti linee evolutive dello strumento sanzionatorio penale, ed in
particolare l’istituto della confisca. È nota l’attuale propensione degli
ordinamenti, anche sulla base di convenzioni internazionali nella
materia, a valorizzare la confisca come strumento di repressione e di
prevenzione per determinate categorie di crimini, trascendendo di gran
lunga
l’originaria
fisionomia
assunta
dall’istituto,
almeno
nell’ordinamento italiano: quella cioè di uno strumento che, privando il
singolo del mezzo o del frutto specificamente pertinenti al reato, mirava
a contenere il rischio di nuove manifestazioni criminose da parte
dell’interessato, proprio a partire dall’uso dei beni interessati dal
provvedimento. La rottura della relazione tra l’oggetto della confisca ed
il provvedimento ablatorio si è fatta palese con la cd. «confisca per
equivalente», nata certamente a fronte della difficoltà di reperire
fisicamente beni eminentemente fungibili (come il denaro), ma
chiaramente assurta a strumento sanzionatorio-dissuasivo, anche
attraverso il rapporto di proporzionalità con il vantaggio ricavabile dal
delitto programmato e poi effettivamente ricavato.
La natura sanzionatoria della confisca per equivalente è stata ormai
più volte riconosciuta dalla Suprema Corte (si vedano ad esempio le
sentenze n. 39173, n. 39172 e n. 21566 del 2008) e, come vedremo tra
breve, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Detta qualificazione,
com’è ovvio, assume fondamentale rilevanza sul piano della
successione di leggi nel tempo, ed in particolare della efficacia
«retroattiva» della introduzione di nuove ipotesi di confisca per
equivalente.
È noto come, per le disposizioni di carattere sanzionatorio di carattere
sfavorevole valga il principio di irretroattività, mentre il principio
opposto è sancito, per le misure di sicurezza, dall’art. 200 del codice
penale. Il che si comprende, perché le (vere) misure di sicurezza non
hanno carattere punitivo, e sono proiettate a prevenire futuri
comportamenti criminosi. Ma occorre, appunto, che non si tratti di
misure sostanzialmente sganciate dalla prognosi di pericolosità e
collegate, in chiave di dissuasione e di retribuzione, al dato essenziale
rappresentato dal comportamento criminoso.
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Come si diceva, la Corte di Cassazione ha ripetutamente escluso che
l’art. 200 c.p. si applichi alla confisca per equivalente. La stessa Corte
di Strasburgo, che valuta ovviamente il tema nella prospettiva di
irretroattività delle previsioni sanzionatorie che caratterizza l’art. 7
della CEDU, ha stabilito che viola la norma convenzionale l'applicazione
retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio ad un'ipotesi di
confisca per equivalente (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza n.
307A/1995, Welch v. Regno unito).
Ebbene, il concetto è stato ribadito anche dalla Consulta, con la
ordinanza n. 97 del 2009, Amirante, Gallo.
L’occasione è stata data trattando degli artt. 200, 322-ter del codice
penale e dell’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n.
244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato - legge finanziaria 2008), nella parte in cui sarebbe prescritta
la confisca obbligatoria cosiddetta "per equivalente" − vale a dire, la
confisca di beni di cui il reo abbia la disponibilità, per un valore
corrispondente a quello del profitto derivante dal reato − anche per i
reati tributari commessi precedentemente alla entrata in vigore della
citata legge 244 del 2007.
Il rimettente, perfettamente edotto della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, si è mosso dall’assunto che un regime di retroattività
violerebbe l’art. 7 della CEDU, ed ha coerentemente sollevato la sua
questione in rapporto all’art. 117 comma primo della Costituzione
(supra). Sennonché, proprio ed anche la giurisprudenza di Strasburgo, e
lo sforzo che il giudice deve compiere per adottare – tra più
interpretazioni possibili – la soluzione ermeneutica che esclude il vulnus
per i principi costituzionali e per quelli convenzionali, avrebbero dovuto
convincere il rimettente che muoveva da un erroneo presupposto
interpretativo: le norme che introducono un caso di confisca per
equivalente non sono retroattive.
L’erroneità del presupposto interpretativo sotteso ad una questione,
almeno negli ultimi tempi, ha condotto la Corte ad una dichiarazione di
manifesta inammissibilità della questione medesima.
Il concetto è stato ribadito in tempi più recenti, e con riguardo alla
stessa norma, con la ordinanza n. 301 del 2009, Amirante, Gallo.


Sempre a proposito della confisca, una decisione di inammissibilità
ha chiuso, per ora, una questione di grande rilevanza, in generale ed
anche con riguardo al caso concreto che ha originato l’ordinanza di
rimessione (la quale riguarda il «mostro» edilizio realizzato a Punta
Perotti). Si tratta della sentenza n. 239 del 2009 (Amirante, De Siervo).
L’art. 44 comma secondo del d.P.R. 380 del 2001 (il T.U. delle
norme edilizie) stabilisce che, quando il giudice penale accerta con
sentenza definitiva «che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la
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confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere
abusivamente costruite».
La disposizione è stata letta (non senza eccezioni) attraverso due
postulati essenziali: il primo è che la confisca rappresenta nella specie
una sanzione amministrativa, applicata dal giudice penale per la sua
connessione ad un fatto penalmente illecito, e non una pena od una
misura di sicurezza patrimoniale; in secondo luogo, la sanzione deve
essere applicata ogni volta che sia stata accertata l’illegittimità della
lottizzazione, indipendentemente da una pronuncia di condanna, che
può mancare, nonostante la sussistenza del fatto, per varie ragioni (la
prescrizione anzitutto). Dal secondo assunto viene fatto derivare che la
confisca va disposta anche se il bene è già passato nelle mani di terzi di
buona fede, ferma restando la possibilità, per questi ultimi, di rivalersi
presso il dante causa.
Insomma, e salvo quanto si dirà in seguito, il giudice dovrebbe
ordinare la confisca alla sola condizione di avere accertato gli estremi
materiali della lottizzazione abusiva (definiti dall’art. 30 del d.P.R. n.
380 del 2001). Tuttavia, l’applicazione di una sanzione nei confronti di
persona del tutto incolpevole pone evidenti problemi, a meno non di non
considerare l’area lottizzata come pericolosa «in sé» (infra).
Un problema intricato, nel quale si è inserita la Corte europea dei
diritti dell’uomo. La Corte è stata investita proprio da cittadini italiani
accusati per la vicenda di Punta Perotti, che erano stati assolti nel
processo di primo grado perché il fatto non costituisce reato, cioè sul
presupposto di un errore inevitabile su legge extrapenale (quella
amministrativa sulla lottizzazione), e per altro erano stati ugualmente
colpiti dalla confisca. Ebbene, la Corte, con sentenza del 30 agosto
2007, ha ritenuto la violazione dell’art. 7 CEDU, attuata con il
disporre la confisca di terreni per la cui lottizzazione il giudice penale
aveva escluso la penale responsabilità degli imputati, in ragione di un
inevitabile errore di diritto sulla normativa applicabile, ed affermando
che l'art. 7 CEDU esige un lien moral tra l'elemento materiale del reato e
l'autore del fatto. In altre parole, la Corte ha considerato «penale» la
confisca prevista dall’ordinamento italiano, sia pure ai fini e nell’ambito
tipico dello strumento convenzionale.
Una nuova pronuncia (20 gennaio 2009) – ancora pertinente alla
medesima vicenda (Sud Fondi e altri vs. Italia) – è segnata dalla
condanna dell’Italia per una doppia violazione: art. 7 della Convenzione,
ma anche art. 1 del Primo protocollo aggiuntivo. Quanto a
quest’ultimo, è stato essenzialmente ritenuto un difetto di
proporzionalità tra la misura ablatoria e le esigenze di ripristino della
legalità. Interessante citare la nuova puntualizzazione della Corte sul
principio di colpevolezza nella prospettiva convenzionale:
Per quanto riguarda la Convenzione, l’articolo 7 non menziona
espressamente il legame morale esistente tra l’elemento materiale del reato e
la persona che ne viene considerata l’autore. Tuttavia, la logica della pena e
della punizione, così come la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la
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corrispondente nozione di «persona colpevole» (nella versione francese) vanno
nel senso di una interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, un
legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare
un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato. In
caso contrario, la pena non sarebbe giustificata. Sarebbe del resto incoerente,
da una parte, esigere una base legale accessibile e prevedibile e, dall’altra,
permettere che si consideri una persona come «colpevole» e «punirla» quando
essa non era in grado di conoscere la legge penale, a causa di un errore
insormontabile che non può assolutamente essere imputato a colui o colei che
né è vittima.
Il rimettente, nel caso di specie, è la Corte di appello di Bari, che
stava giudicando alcuni imputati condannati in primo grado per
lottizzazione abusiva.
Occorre premettere che l’ordinanza risale all’aprile del 2008, e che
dunque i giudici rimettenti non hanno potuto tenere conto né della
recente pronuncia della Corte di Strasburgo (supra) né del revirement
della Corte di cassazione, che si è manifestato alla fine dello scorso
anno (infra).
Prendendo atto della decisione CEDU del 2007, comunque, La Corte
barese ha censurato l’art. 44 comma 2, nella parte in cui impone la
confisca anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei
confronti di persone estranee ai fatti. Parametri evocati formalmente:
artt. 3, 25 comma e 27 Cost.. Per altro, nell’ordinanza, ampio spazio
viene dato alla decisione CEDU sull’art. 7 della Convenzione. Per tale
ragione la Consulta – in ciò superando una eccezione posta dalla
Presidenza del consiglio dei ministri – ha ritenuto evocato anche il
parametro del primo comma dell’art. 117 della Costituzione.
Naturalmente, l’intera questione è stata costruita sull’eventualità che,
nel giudizio di secondo grado, debba essere disposta l’assoluzione in
forza della maturazione dei termini di prescrizione del reato.
La dichiarazione di inammissibilità ci esime al momento da un
approfondimento della questione, certo molto problematica, anche se
nei fatti avviata ad una soluzione.
La stessa giurisprudenza costituzionale ha escluso che una confisca
«penale» possa colpire un soggetto estraneo al reato, fuori dai casi di
«illiceità oggettiva in senso assoluto» della cosa cui deve riferirsi il
provvedimento ablatorio. Una caratteristica che sembra difficile riferire
agli esiti di una lottizzazione abusiva, specie quando sia sopravvenuta
concessione in sanatoria, la quale, secondo la Cassazione, pur non
estinguendo il reato di lottizzazione abusiva, è ostativa alla confisca,
perché l’autorità amministrativa ha con essa riconosciuto ex post la
conformità dell’opera agli interessi urbanistici e ne ha consentito la
conservazione in disponibilità da parte del privato.
D’altro canto la qualificazione della fattispecie come confisca
«amministrativa» non risolve il problema, dato che la partita non si
gioca più solo sul piano nazionale (come si vede torniamo sempre più
spesso su questo terreno). La Corte di Strasburgo, fin dalla sentenza
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Engel c. Paesi Bassi, ampiamente confermata dalle successive
pronunce, ha riconosciuto il carattere “autonomo” dei propri criteri di
qualificazione, rispetto a quelli del diritto nazionale, giungendo ad
attribuire natura penale, ai limitati fini dell’applicabilità dell’art. 7, a
sanzioni disciplinari ed amministrative, che nell’ordinamento interno
non potevano in alcun modo acquisire tale natura; difatti, la
qualificazione giuridica assegnata dal diritto nazionale funge da mero
indice sintomatico, ma non decisivo circa la natura dell’illecito. Proprio
alla luce di tali criteri, la Corte di Strasburgo ha affermato l’applicabilità
dell’art. 7 alla confisca ex art. 19 della legge 47 del 1985 (ora art. 44 del
d.P.R. 380 del 2001).
Ora, una pronuncia della Cassazione (sentenza n. 42741 del 24
ottobre 2008), muovendosi in tale ordine di idee, ha affermato che, pur
a seguito delle deliberazioni di Strasburgo, nell’ordinamento interno la
confisca resta sanzione amministrativa. In effetti la stessa evoluzione
dell’istituto oggi regolato dall’art. 44 appare scarsamente in linea con la
natura penale di esso: data la carenza di un elemento obiettivo di
pericolosità nei beni lottizzati, e di una funzione squisitamente
preventiva-repressiva della confisca (funzione chiaramente assente, ove
essa colpisca i terzi di buona fede), pare più agevole ravvisarvi una
misura affidata al giudice penale a fini di supplenza nei confronti di
un’Amministrazione spesso inerte nella tutela del territorio,
comportante la vanificazione di un’attività materiale o negoziale di
alterazione profonda del tessuto urbanistico.
Per altro una ribadita (e problematica) conferma del carattere
amministrativo della confisca nel nostro ordinamento non implica che
essa possa venire disposta nei confronti del terzo di buona fede estraneo
al fatto materiale della lottizzazione, come invece si riteneva in
precedenza, ostandovi appunto l’art. 7, nell’interpretazione della Corte
di Strasburgo.
A tale conclusione è giunta la citata sentenza 24 ottobre 2008 n.
42741 della Cassazione, la quale, disattendendo un proprio precedente
orientamento (Cass. 12 aprile 2007, n. 21125), ha ritenuto applicabile
alla confisca i principi della legge 689/81, con riferimento in
particolare alla “esistenza di una condotta che risponda ai necessari
requisiti soggettivi della coscienza e volontà dell’agente e sia
caratterizzata quanto meno dall’elemento psicologico della colpa” (art. 2 e
3 L. 689/81), ed ha conseguentemente escluso che la misura possa
venire adottata nei confronti di “soggetti estranei alla commissione del
reato e dei quali sia stata accertata la buona fede”.
L’orientamento non sembra ancora stabile, nonostante quanto tra
breve si dirà sull’autorevole «supporto» della stessa Consulta. Una
prima decisione (Sez. 3, Sentenza n. 12118 del 12 dicembre 2008, dep.
il 19 marzo 2009, ric. Scalici, C.E.D. n. 243395) ha ripreso l’assunto del
precedente appena citato, tra l’altro evocando la sentenza CEDU del
2009 nel caso Sud Fondi vs. Italia. C’è però una decisione difforme,
ancora più recente (Sez. 3, Sentenza n. 17865 del 17 marzo 2009, dep.
il 29 aprile 2009, Quarta, in C.E.D. n. 243751). Per la verità, in
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motivazione, la Corte ha negato espressamente il conflitto, assumendo
che nel caso della sentenza n. 42741 del 2008 era già stata accertata la
buona fede effettiva dei terzi aventi causa dal lottizzatore abusivo. In
verità il rilievo non appare decisivo, e non stupisce che lo stesso Ufficio
del Massimario abbia segnalato il contrasto tra i provvedimenti in
questione
In ogni caso, problemi di compatibilità con l’art 7 della Convenzione
si porrebbero se il richiamo all’accertamento della buona fede dovesse
intendersi nei termini di un onere in capo al terzo per la dimostrazione
di tale elemento, anziché di un obbligo del giudice di accertare la
sussistenza dell’elemento psicologico. Parimenti incostituzionale
diverrebbe disporre la confisca nei confronti degli autori del fatto,
quando essi fossero assolti con formula ampiamente liberatoria, per
quanto diversa dalla insussistenza del fatto stesso (assoluzione per non
aver commesso il fatto).
Questo passaggio del ragionamento evoca per inciso un problema che
diviene fisiologico nel caso di affari d’un certo livello: quello della
assoluzione di parte soltanto dei lottizzatori (e, se si vuole,
dell’accertata buona fede di parte soltanto dei terzi aventi causa). Più la
confisca si lega ad una logica di sanzionamento penale, più aumenta
il rischio di provvedimenti soggettivamente «incompleti». In breve: se
Tizio viene condannato, e Caio viene assolto per non aver commesso il
fatto, che facciamo? Confischiamo una quota?. Come si vede, la
previsione legislativa ha senso in una logica di obbligatorietà del
provvedimento, che si sgancia dall’atteggiamento dei singoli e
comunque dalla loro condanna, e che assume anche – contrariamente a
quel che si è detto – una funzione di deterrenza. Ripeto che, tra l’altro, il
contratto su un bene oggetto di lottizzazione abusiva dovrebbe essere
nullo, e che dunque gli aventi causa in buona fede non dovrebbero
comunque restare in possesso del bene. Insomma, un intervento che
accrediti (o introduca) elementi di «personalizzazione» della misura
rischia di pregiudicare la razionalità complessiva della disciplina.
Si è accennato più volte come la questione sollevata dalla Corte di
appello di Bari sia stata dichiarata inammissibile. La Consulta ha
ritenuto che il rimettente avesse omesso di descrivere a sufficienza la
fattispecie, impedendo così di verificare la rilevanza della questione.
Per un verso, infatti, la Corte barese non avrebbe dato atto di avere
accertato il fatto materiale della lottizzazione abusiva, il che
condiziona la rilevanza in quanto la disposizione impugnata può trovare
applicazione alla condizione che tale elemento fattuale venga accertato
da parte del giudice.
In secondo luogo, si sarebbe omesso di precisare se la confisca
andasse disposta nei confronti degli imputati prosciolti ovvero anche di
terzi estranei, così accomunando indistintamente due categorie di
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soggetti non necessariamente omogenee, senza che dal provvedimento
risulti quale di esse sia interessata alla confisca nel caso concreto.
Infine il rimettente, pur postulando che l'interpretazione della norma
censurata debba mutare a seguito della sopravvenuta giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo - nella specie rifacendosi
all'orientamento che riconduce la confisca in parola ad una "pena", ai
sensi dell'art. 7 della Convenzione - ha omesso di sperimentare la
possibilità di un'interpretazione conforme alla disposizione
internazionale, quale interpretata dalla predetta Corte europea dei
diritti dell'uomo. In altre parole, e sulla via indicata dalla Cassazione,
deve essere sondata una soluzione ermeneutica che escluda la
possibilità della confisca nei confronti dei terzi di buona fede e nei
confronti degli stessi accusati del reato di lottizzazione abusiva, quando
prosciolti per ragioni che escludano un lien moral con il fatto illecito.

Qualche segnalazione in materia di esecuzione della pena.
Torniamo anzitutto ai casi di particolare trattamento della donna
incinta o con prole infante. Con l’ordinanza n. 145 del 2009 la Corte
ha dichiarato manifestamente infondata una questione mirata a
censurare l’automatismo della sospensione imposta, quanto
all’esecuzione della pena detentiva, per le donne nella condizione
indicata,
automatismo
che
provocherebbe
una
soccombenza
ingiustificata delle esigenze di protezione sociale quando l’interessata,
pur trovandosi nelle condizioni indicate, appaia fortemente pericolosa,
al punto da rende ampiamente probabile la commissione di nuovi reati
quale effetto della sua non carcerazione.
La questione ha investito l'art. 146, primo comma, numeri 1) e 2),
cod. pen., censurato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 30
Cost., nella parte in cui, stabilendo il rinvio obbligatorio della pena
detentiva nei confronti di donna incinta o madre di prole di età inferiore
ad un anno, non prevede che il giudice possa negare il differimento
dell'esecuzione se lo ritenga non adeguato alle finalità di prevenzione
generale e la detenzione domiciliare non sia idonea a prevenire il rischio
di recidiva.
Ma la Corte, come si accennava, si è orientata per la manifesta
infondatezza. Non irragionevolmente il legislatore ha ritenuto, con
riguardo al periodo della gravidanza e al primo anno del bambino, che
la protezione del rapporto madre-figlio in un ambiente idoneo debba
prevalere sull'interesse dello Stato all'esecuzione immediata della pena.
Inoltre, il rinvio del momento esecutivo non esclude la funzione di
intimidazione e dissuasione della pena, posto che non ci si trova di
fronte ad una rinuncia sine die della esecuzione. Infine, il pericolo che
la maternità venga utilizzata come scudo per ottenere il rinvio è
adeguatamente bilanciato dal fatto che il secondo comma dell'art. 146
cod. pen. prevede, tra le condizioni ostative alla concessione del
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differimento, la dichiarazione di decadenza della madre dalla potestà sul
figlio e l'abbandono o l'affidamento del figlio ad altri.
Gli stessi concetti, in sostanza, sono stati stabiliti con un
provvedimento ancor più recente, e cioè con l’ordinanza n. 260 del
2009, dichiarativa della manifesta infondatezza di analoga questione.
Si è tentato di ribaltare anche la previsione del differimento nella
esecuzione della pena nei casi di malati di AIDS conclamata o
comunque in condizione di malattia terminale.
La Corte, con la sentenza n. 264 del 2009, ha dichiarato infondata
la questione di legittimità costituzionale dell'art. 146, primo comma,
numero 3), cod. pen., censurato, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, primo
e terzo comma, Cost., ove prevede il differimento obbligatorio
dell'esecuzione della pena nei confronti di persona affetta da AIDS
conclamata o da altra malattia particolarmente grave per effetto della
quale le condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di
detenzione. La norma non introduce una presunzione assoluta di
incompatibilità con il carcere per i malati di cui sopra, tanto che, per il
differimento, occorre la condizione che la malattia non solo sia
gravemente debilitante ma anche che sia giunta alla sua fase terminale:
così facendo, e privilegiando esigenze di natura umanitaria, garantisce
un corretto equilibrio tra il diritto alla salute del condannato e le
esigenze di sicurezza, effettività e certezza dell'espiazione della pena.
DIRITTO PROCESSUALE
Non ha bisogno di notazioni introduttive la vicenda che tutti
conoscono in riferimento al nome della vittima di un sequestro di
persona, il cd. Abu Omar, sequestro che è stato imputato ad agenti dei
servizi segreti (o appartenenti a forze di polizia), di nazionalità italiana e
statunitense, nel complesso quadro delle investigazioni sulle cd.
extraordinary renditions (una pratica formalmente stigmatizzata
anche nella sentenza che ci si appresta ad illustrare).
Il caso presenta grande complessità. Ai fini di una sommaria
illustrazione del decisum della Corte basterà ricordare che, nell’ambito
delle indagini per il fatto indicato, il pubblico ministero aveva disposto
ed effettuato la perquisizione di alcuni locali siti in uno stabile di via
Nazionale, a Roma, utilizzati dai Servizi militari italiani. Nel corso della
perquisizione erano state trovate e sequestrate alcune missive,
riprodotte in copia senza che il personale presente eccepisse in
proposito la ricorrenza del segreto di Stato.
Più tardi, si sarebbero intersecate due vicende essenziali. Una
riguardante la corrispondenza tra la Procura di Milano e la Presidenza
del Consiglio dei ministri (rappresentata dapprima dall’on. Prodi e poi
dall’on. Berlusconi) a proposito della ricorrenza del segreto di Stato,
appunto, sulle circostanze culminate con il «prelievo» dell’imam
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milanese e con il suo presunto trasferimento «forzato» in un altro Paese.
L’altra concernente la nuova acquisizione di documenti che, in parte,
erano già stati sequestrati ”in copia” durante la perquisizione in via
Nazionale. Dando seguito a richieste di esibizione del pubblico
ministero, infatti, i vertici del Servizio militare avevano trasmesso a
Milano, tra le altre, la copia di quelle stesse missive cui sopra si è fatto
riferimento. Tuttavia gli esemplari trasmessi erano stati «omissati»:
alcune delle annotazioni presenti sugli originali, cioè, erano state
coperte con un pennarello nero, ed era stata prospetta la «vietata
divulgazione … di cui agli artt. 256, 258 e 262 c.p.»
Il nucleo essenziale della vicenda è che, dopo il deposito della
versione «integrale» a norma dell’art. 415-bis c.p.p. (avvenuto il 6
ottobre 2006, prima che qualsiasi questione di segreto fosse insorta), la
Procura di Milano ha depositato la stessa versione integrale con la
richiesta di rinvio a giudizio, sebbene nelle more, e cioè il 31 ottobre
2006, il SiSMI avesse trasmesso le copie “omissate”. La Procura di
Milano non aveva allegato quei documenti al fascicolo processuale,
inserendoli invece in un protocollo riservato, e però non era intervenuta
sugli esemplari che aveva già depositato, allegandoli poi alla richiesta di
rinvio a giudizio. Dunque i documenti non “omissati” avevano costituito
(parte del)la base cognitiva per l’udienza preliminare e per lo stesso
provvedimento di rinvio a giudizio.
Da questa vicenda sono scaturiti cinque conflitti di attribuzione
tra poteri dello Stato, risolti dalla Corte con la sentenza n. 106 del
2009. Senza entrare in dettaglio, può dirsi che i ricorsi hanno seguito
l’andamento del processo, e sono stati proposti reciprocamente tra i
magistrati milanesi e la Presidenza del consiglio dei ministri. Ai primi si
sono attribuiti comportamenti irrispettosi delle prerogative del
Presidente del consiglio in materia di segreto di Stato, e di violazione del
segreto medesimo (a Brescia è stato per altro archiviato un
procedimento intentato nei confronti dei magistrati milanesi a tale
ultimo proposito). Alla Presidenza del consiglio si è attribuita la pretesa
di aver disposto solo ex post una secretazione delle circostanze emerse
durante le indagini, lasciando margini di incertezza sulla estensione del
segreto alle circostanze specificamente concernenti il reato investigato, e
di avere indebitamente confermato il segreto di Stato opposto al giudice
dibattimentale, da alcuni testimoni, durante la fase più recente del
procedimento.
Attenzione: quella che precede è una semplificazione estrema dei
termini del conflitto, i quali vanno desunti – a fini diversi da quelli di un
inquadramento del tutto sommario della vicenda – attraverso la lettura
integrale della sentenza della Corte, e delle molte centinaia di pagine
che raccolgono i ricorsi e le memorie prodotte dalle parti.
La Corte ha assunto una decisione complessa, che descrivo
sommariamente nei soli suoi profili a carattere «operativo» (rinviando
alla lettura della sentenza, ancora una volta, per quanto concerne il
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ruolo del segreto di Stato nel nostro ordinamento democratico, la
procedura di sindacato delle decisioni assunte dal Presidente del
Consiglio, la nozione di «eversione» che sottende al divieto di apporre il
segreto, ecc.).
In sintesi va detto che la Corte non ha considerato rilevante né il fatto
che i documenti coperti da segreto fossero già stati depositati a
disposizione dei difensori (e poi pubblicati in vario modo, anche sulla
rete), né il fatto che il giudice dibattimentale, di propria iniziativa, li
abbia estromessi dal fascicolo per il dibattimento. Infatti «il giudizio per
conflitto è diretto a definire l'ambito delle sfere di attribuzione dei poteri
confliggenti al momento della sua insorgenza, restando di regola
insensibile agli sviluppi successivi delle vicende che al conflitto abbiano
dato origine».
È stato dichiarato inammissibile il conflitto proposto dal Procuratore
della Repubblica di Milano (ricorso n. 6 del 2007). La Corte ha in
sostanza argomentato sulla tesi fondamentale prospettata dallo stesso
pubblico ministero, e cioè che ogni iniziativa processuale ed ogni
provvedimento assunto nel corso del procedimento avrebbero potuto
considerarsi «indipendenti» dai documenti poi «colpiti» dalla
segretazione: argomentazione che, a prescindere dal suo ruolo nel
ragionamento della Procura, ha consentito di considerare il ricorso
astratto od ipotetico, ammettendosi dallo stesso ente promotore che
nessun vulnus era stato recato alle prerogative del pubblico ministero,
in particolare al potere-dovere di esercitare l’azione penale.
I ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri, invece, sono stati
parzialmente accolti. Dalle circostanze emerse nel corso del giudizio la
Corte ha desunto i seguenti «corollari», che trascrivo testualmente:
a) in primo luogo, che la perquisizione ed il sequestro di documentazione effettuati il
5 luglio 2006 presso gli uffici del SISMi in Via Nazionale hanno rappresentato - in
assenza di qualsiasi opposizione da parte dei funzionari presenti o, anche
successivamente, ad opera dello stesso organismo, mediante una espressa comunicazione
- atti di indagine legittimi sul piano processuale;
b) in secondo luogo, che alla legittima acquisizione dei documenti è quindi seguita
l'immissione del materiale stesso nel fascicolo delle indagini preliminari. In tale
prospettiva, infatti, è assorbente rilevare che, oltre agli adempimenti previsti dall'art. 366
del codice di rito penale, risultava intervenuto - prima ancora che il SISMi inviasse,
unitamente ad altra copiosa documentazione, anche uno stralcio di quella già
sequestrata, con la indicazione del segreto per le parti obliterate - il deposito degli atti,
con l'avviso della conclusione delle indagini preliminari, a norma dell'art. 415-bis cod.
proc. pen.
Sulla base, quindi, della documentazione acquisita in seguito alla suddetta
perquisizione, la Procura avrebbe potuto - in ipotesi - svolgere tutta la attività di
indagine conseguente e, finanche, richiedere ed ottenere dal Giudice per le indagini
preliminari l'adozione di una misura cautelare a carico degli indagati. Al tempo stesso, e
ferma l'ipotesi che la documentazione acquisita ben avrebbe potuto orientare le indagini
anche in favore degli indagati, come prescrive l'art. 358 cod. proc. pen., i risultati delle
indagini scaturite dal sequestro di cui si è detto, proprio perché messi a disposizione
degli indagati, quantomeno a partire dalla notifica dei provvedimenti ex art. 415-bis cod.
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proc. pen., costituivano ormai un "patrimonio conoscitivo" sul quale si fondavano facoltà
e diritti processuali degli stessi.
Ma ecco il seguito. La Corte ricorda che il 31 ottobre 2006 il SISMi ha
trasmesso le copie «omissate», evidenziando il segreto sulle circostanze
relative. Ciò non vuol dire che si determini retroattivamente una
inutilizzabilità del materiale non omissato: «però, tale opposizione di
segreto non può neppure risultare "indifferente" rispetto alle ulteriori
attività dell'Autorità giudiziaria, requirente e giudicante, ed in relazione
alle cadenze processuali imposte dal rito penale». E’ «indubbio che, a
partire dal momento in cui l'esistenza del segreto su documenti è stata
portata a conoscenza della Autorità procedente, questa viene posta di
fronte all'alternativa o di stralciare dagli atti processuali (sentenza n. 487
del 2000) i documenti non recanti obliterazioni (restituendoli al SISMi) e di
sostituirli con quelli recanti gli omissis, ovvero di attivare, se intende
continuare ad avvalersi della documentazione non recante obliterazioni,
la procedura diretta alla eventuale conferma del segreto di Stato da parte
del Presidente del Consiglio dei ministri».
L’atteggiamento tenuto dal pubblico ministero avrebbe determinato
un vulnus alle prerogative che, in tema di segreto di Stato, vanno
riconosciute al Presidente del Consiglio dei ministri: «e ciò perché, una
volta edotta della esistenza del vincolo del segreto su parte della
documentazione trasmessa dal SISMi, spettava comunque all'Autorità
giudiziaria procedente il compito di adottare tutte le cautele del caso per
impedire che le copie non "omissate" di quegli stessi documenti
permanessero nel normale circuito divulgativo del processo»
È interessante riprendere, tra i molti argomenti opposti alle «difese»
della Procura di Milano, l’argomento della ineluttabilità della
trasmissione al GUP degli stessi atti già depositati ex art. 415-bis c.p.p.:
accogliere l’argomento avrebbe significato «esaurire nella valutazione
della sola pretesa legittimità della sua condotta, dal punto di vista
meramente processuale, il ben diverso giudizio sulla idoneità della stessa
a garantire il rispetto delle prerogative costituzionali spettanti al
Presidente del Consiglio in tema di segreto».
Ancor più interessante la risposta negativa data alle richieste della
Presidenza del Consiglio di annullare gli atti processali ritenuti lesivi
delle sue prerogative:
Ed invero, «gli effetti caducatori della dichiarazione di non spettanza devono
limitarsi ai provvedimenti, o alle parti di essi, che siano stati riconosciuti lesivi degli
interessi oggetto del giudizio costituzionale per conflitto di attribuzione» (sentenza n.
451 del 2005; analogamente sentenza n. 263 del 2003), atteso che «spetterà alle
competenti autorità giurisdizionali investite del processo» (che sia eventualmente
progredito a fasi successive, rispetto a quella cui risaliva l'atto rivelatosi lesivo delle
attribuzioni di altro potere dello Stato, diverso da quello giudiziario) valutare, in
concreto, «le eventuali conseguenze di tale annullamento sul piano processuale»
(sentenze n. 451 del 2005 e n. 284 del 2004).
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Una valutazione, questa, da compiersi, evidentemente, nel rispetto delle regole
processuali proprie del tipo di giudizio che viene in rilievo, e dunque, nella specie, di
quelle fissate dal comma 1 dell'art. 185 cod. proc. pen. («La nullità di un atto rende
invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo») e dall'art. 191
del medesimo codice («Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge
non possono essere utilizzate»), e quindi individuando in quali loro parti, e con
riferimento a quali dei soggetti coinvolti nella vicenda giudiziaria, gli atti processuali
da questa Corte annullati possano ritenersi autosufficienti rispetto alla ragione che ha
condotto al loro annullamento parziale; facendo eventualmente ricorso anche
all'istituto della separazione dei processi.
La Corte ha ritenuto di accogliere il ricorso concernente l’assunzione
di incidente probatorio, in data 31 settembre 2006, di dichiarazioni
concernenti i rapporti tra la Cia ed il Sismi (cfr. infra). In questo caso è
stato disposto l'annullamento degli atti processuali emessi a norma
degli art. 393 e 398 cod. proc. pen. nelle parti corrispondenti, nonché,
anche sotto questo profilo, di quelli emanati a norma degli artt. 416 e
429 cod. proc. pen., in quanto fondati sulle risultanze dell'incidente
probatorio colpito dalla declaratoria di annullamento, giacché
concernenti circostanze coperte da segreto di Stato: «da ciò consegue la
inutilizzabilità delle risultanze probatorie acquisite attraverso l'incidente
probatorio, nel rispetto delle disposizioni dei già richiamati art. 185,
comma 1, e 191 cod. proc. pen. e di quanto in precedenza osservato».
Una sorta di «diffida preventiva» è stata impartita anche in ordine alla
utilizzazione di conversazioni intercettate che riguardassero le
circostanze coperte dal segreto di Stato. Ciò la Corte ha fatto negando il
fondamento della pretesa che il pubblico ministero avrebbe dovuto
astenersi dall’intercettare le utenze dei servizi, oltretutto in base al solo
fatto che il gestore aveva segnalato trattarsi di utenze in condizione di
«riservatezza contrattuale»: non esiste un divieto legale di intercettare
utenze dei “Servizi”, e la preclusione può derivare solo dalla specifica
apposizione di un vincolo di segreto.
Quanto al comportamento del giudice dibattimentale, è stato escluso
ogni carattere lesivo dell’ordinanza che ha «riaperto» il processo (dopo
un precedente provvedimento di sospensione) ed ha espunto i
documenti non omissati dal fascicolo processuale, ché anzi si sarebbe
trattato di un comportamento satisfattivo delle esigenze convergenti
nella concreta fattispecie. Tuttavia è stata annullata una ordinanza di
ammissione della prova testimoniale, nonostante la cautela, adottata
dal giudice, di riservare la preclusione di singole domande che fossero
rivolte in merito a circostanze coperte dal segreto. Nel contempo, è stato
respinto il ricorso proposto dallo stesso giudice dibattimentale contro il
provvedimento con il quale il Presidente del Consiglio ha confermato il
segreto di Stato opposto da testimoni appartenenti ai Servizi una
volta che è iniziata l’istruttoria dibattimentale al proposito.
Qui si rinviene l’altro nucleo essenziale della fattispecie, almeno
adottando un punto di vista «interno» al difficile procedimento in corso.
Quel nucleo che ha indotto la Corte a considerare congrua la conferma
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da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri del segreto di Stato
opposto dai testi interrogati avanti al giudice dibattimentale milanese.
Non è possibile qui analizzare le circostanze che hanno portato la
Corte alle proprie conclusioni, né è possibile sindacarne il merito. Ma
dette conclusioni possono almeno essere rappresentate con le parole
della Corte medesima:
Il segreto di Stato, dunque, non ha mai avuto ad oggetto il reato di sequestro in sé,
accertabile dall'Autorità giudiziaria competente nei modi ordinari, bensì, da un lato, i
rapporti tra i Servizi segreti italiani e quelli stranieri e, dall'altro, gli assetti
organizzativi ed operativi del SISMi, con particolare riferimento alle direttive e agli
ordini che sarebbero stati impartiti dal suo Direttore agli appartenenti al medesimo
organismo, pur se tali rapporti, direttive ed ordini fossero in qualche modo collegati
al fatto di reato stesso; con la conseguenza, quanto alla fonte di prova in questione,
dello "sbarramento" al potere giurisdizionale derivante dalla opposizione e dalla
conferma, ritualmente intervenuti, del segreto di Stato.

Un altro conflitto tra poteri dello Stato ha suscitato notevole clamore,
relativamente ad un procedimento penale intentato contro il Ministro
dell’ambiente, relativamente alla ipotesi di un reato del quale si è
discussa la natura funzionale o extrafunzionale. In realtà tutto
sembra nato dal fraintendimento delle norme vigenti in materia e, di
riflesso, della effettiva portata assunta dalla sentenza n. 241 del 1009
(Amirante, Frigo), con cui la Corte ha definito il conflitto.
Partiamo dal quadro normativo, che non è universalmente
conosciuto.
L'art. 96 Cost., nel testo introdotto dalla legge costituzionale n. 1 del
1989, stabilisce: «Il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri,
anche se cessati dalla carica, sono sottoposti per i reati commessi
nell'esercizio delle loro funzioni alla giurisdizione ordinaria, previa
autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati,
secondo le norme stabilite con legge costituzionale».
La stessa legge costituzionale, che ha introdotto il nuovo testo
dell'art. 96 Cost., ha istituito, presso il tribunale del capoluogo del
distretto di Corte d'appello competente per territorio, un collegio, cui il
procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, deve trasmettere,
con le sue richieste, i rapporti, i referti e le denunce concernenti i reati
indicati dall'art. 96 Cost. È il cd. «Tribunale dei Ministri».
Tale collegio, se non ritiene che si debba disporre l'archiviazione,
trasmette gli atti con relazione motivata al procuratore della Repubblica
per la loro immediata rimessione al Presidente della Camera
competente (art. 8, comma 1). In caso diverso, sentito il pubblico
ministero, dispone l'archiviazione con decreto non impugnabile (art. 8,
comma 2). Il procuratore della Repubblica dà comunicazione
dell'avvenuta archiviazione al Presidente della Camera competente (art.
8, comma 4).
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Conviene subito dire come la legge n. 219 del 1989 abbia precisato
(art. 2, comma 1) in quali casi il «Tribunale dei ministri», esperite le
necessarie indagini, deve disporre l'archiviazione. Tra questi è
compresa l'ipotesi che il fatto integri un reato diverso da quelli
indicati nell'art. 96 Cost. In tale evenienza, si prevede che il collegio
disponga altresì, contestualmente all'archiviazione, la trasmissione degli
atti all'autorità giudiziaria competente a conoscere del diverso reato.
Ora, dalle disposizioni richiamate emergono alcune indicazioni
essenziali. La prima è che non esiste un regime autorizzatorio per i
reati extrafunzionali, ed infatti la Corte non ha inteso minimamente
affermarlo. La seconda è che – essendo discriminante appunto la
qualifica del reato come funzionale od extrafunzionale – l’ordinamento
riconosce al Parlamento la possibilità di interloquire in proposito, non
certo attraverso lo strumento dell’autorizzazione, ma eventualmente,
quando l’Autorità giudiziaria opta per la natura extrafunzionale,
mediante la promozione di un conflitto tra poteri dello Stato:
altrimenti l’operatività della prerogativa istituita dalla Costituzione
sarebbe rimessa unicamente alle valutazioni dell’Autorità giudiziaria.
Per tale ragione è stabilito che il Parlamento sia comunque
informato circa il procedimento contro un Ministro: con la richiesta di
autorizzazione in caso che si intenda procedere per un reato
funzionale; con la comunicazione della disposta archiviazione, ove si
sia deliberato in tal senso.
Quid iuris nel caso che il Tribunale dei ministri disconosca la natura
funzionale del reato, e dunque si dichiari funzionalmente
incompetente? Contrariamente a quel che di solito accade, occorre
procedere ad archiviazione del procedimento, oltre che trasmettere gli
atti al pubblico ministero ordinario. La cosa è del tutto innaturale
(«asistematica», ha scritto la Corte), ma è inequivocabilmente prescritta
dalla legge. E se ne comprende la ragione: proprio in quanto la
riqualificazione del fatto è causa di archiviazione, il provvedimento è
comunicato al Parlamento, che dunque, ove lo ritenga, può adire la
Corte per denunciare un preteso aggiramento delle garanzie apprestate
per i reati funzionali.
Nel caso di specie è accaduto che il Tribunale dei ministri di Firenze,
spogliandosi della competenza per il ritenuto carattere non funzionale
del reato ascritto al Ministro, non ha provveduto ad archiviare il
procedimento e non ha trasmesso gli atti al pubblico ministero con la
specifica indicazione della necessità che detta archiviazione fosse
comunicata alla Camera dei Deputati. Di qui il ricorso della stessa
Camera, e l’accoglimento da parte della Consulta, la quale dunque si è
limitata ad affermare che, per non ledere le prerogative del Parlamento,
la decisione di incompetenza deve essere ad esso comunicata, quando si
fondi sulla riqualificazione del reato. Senza alcuna implicazione, com’è
ovvio, in merito alla correttezza della qualificazione adottata dal
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Tribunale di Firenze, e senza alcuna introduzione «implicita» di un
regime autorizzatorio per i reati non funzionali.
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
Veniamo ora ad una ulteriore decisione che investe il tema dei
rapporti tra giurisdizione e altri poteri dello Stato, sul particolarissimo
terreno della cd. «immunità» per le «Alte cariche dello Stato». Com’è a
tutti noto, con la sentenza n. 262 del 2009 (Amirante, Gallo), la Corte,
giudicando su questioni di legittimità costituzionale poste dal Tribunale
di Milano e dal Tribunale di Roma, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 per
violazione degli artt. 3 e 138 della Costituzione.
Ha altresì dichiarato inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale della stessa disposizione proposte dal GIP del Tribunale
di Roma.
Ecco il testo della norma dichiarata illegittima:
Art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del
processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato).
1. Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei
soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della
Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei Ministri sono
sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si
applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione.
2. L'imputato o il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla
sospensione.
3. La sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi
degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale, per l'assunzione delle prove non rinviabili.
4. Si applicano le disposizioni dell'articolo 159 del codice penale.
5. La sospensione opera per l'intera durata della carica o della funzione e non è reiterabile, salvo il
caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura né si applica in caso di successiva investitura in
altra delle cariche o delle funzioni.
6. Nel caso di sospensione, non si applica la disposizione dell'articolo 75, comma 3, del codice di
procedura penale. Quando la parte civile trasferisce l'azione in sede civile, i termini per comparire, di cui
all'articolo 163-bis del codice di procedura civile, sono ridotti alla metà, e il giudice fissa l'ordine di
trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all'azione trasferita.
7. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni
fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge.
8. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale.
Tutti sanno che la disciplina della cd. «immunità» trovava un
antecedente diretto nel cd. lodo Schifani, la cui disciplina fu a sua
volta dichiarata illegittima con la sentenza n. 24 del 2004 (Chieppa,
Amirante), che così dispose:
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, della legge 20 giugno
2003, n.140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in
materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato);
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dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità
costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 3, della predetta legge n. 140 del 2003.
Può essere utile, anche perché una larga parte del dibattito
processuale ed extraprocessuale sul lodo Alfano si è incentrato sul
valore del precedente, riportare la parte più significativa della
motivazione:
… la misura predisposta dalla normativa censurata crea un regime differenziato riguardo
all'esercizio della giurisdizione, in particolare di quella penale.
La constatazione di tale differenziazione non conduce di per sé all'affermazione del contrasto
della norma con l'art. 3 della Costituzione. Il principio di eguaglianza comporta infatti che, se
situazioni eguali esigono eguale disciplina, situazioni diverse possono implicare differenti
normative. In tale seconda ipotesi, tuttavia, ha decisivo rilievo il livello che l'ordinamento
attribuisce ai valori rispetto ai quali la connotazione di diversità può venire in considerazione.
Nel caso in esame sono fondamentali i valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto
prevalente l'esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle
cariche in questione.
Alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento
rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da
precetti costituzionali.
L'automatismo generalizzato della sospensione incide, menomandolo, sul diritto di difesa
dell'imputato, al quale è posta l'alternativa tra continuare a svolgere l'alto incarico sotto il peso di
un'imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti,
oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo,
l'accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un
diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.). Ed è appena il caso di osservare che, in
considerazione dell'interesse generale sotteso alle questioni di legittimità costituzionale, è
ininfluente l'atteggiamento difensivo assunto dall'imputato nella concretezza del giudizio.
Sacrificato è altresì il diritto della parte civile la quale, anche ammessa la possibilità di
trasferimento dell'azione in sede civile, deve soggiacere alla sospensione prevista dal comma 3
dell'art. 75 del codice di procedura penale.
7. Si è affermato, per sostenere la legittimità costituzionale della legge, che nessun diritto è
definitivamente sacrificato, nessun principio costituzionale è per sempre negletto.
La tesi non può essere accolta.
All'effettività dell'esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo. Ancor
prima che fosse espressamente sancito in Costituzione il principio della sua ragionevole durata
(art. 111, secondo comma), questa Corte aveva ritenuto che una stasi del processo per un tempo
indefinito e indeterminabile vulnerasse il diritto di azione e di difesa (sentenza n. 354 del 1996) e
che la possibilità di reiterate sospensioni ledesse il bene costituzionale dell'efficienza del processo
(sentenza n. 353 del 1996).
8. La Corte ritiene che anche sotto altro profilo l'art. 3 Cost. sia violato dalla norma
censurata.
Questa, infatti, accomuna in unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di
investitura, ma anche per la natura delle funzioni e distingue, per la prima volta sotto il profilo
della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del
Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da
loro presieduti. Né vale invocare, come precedente e termine di comparazione, l'art. 205
cod.proc.pen. il quale disciplina un aspetto secondario dell'esercizio della giurisdizione, ossia i
luoghi in cui i titolari delle cinque più alte cariche dello Stato possono essere ascoltati come
testimoni.
Non è superfluo soggiungere che, mentre vengono fatti salvi gli artt. 90 e 96 Cost., nulla viene
detto a proposito del secondo comma dell'art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1,
che ha esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell'immunità accordata nel
secondo comma dell'art. 68 Cost. ai membri delle due Camere. Ne consegue che si riscontrano
nella norma impugnata anche gravi elementi di intrinseca irragionevolezza.
La questione è pertanto fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale.
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Come è noto, il legislatore del 2008 ha introdotto alcune varianti
della disciplina nella dichiarata intenzione di «prestare ossequio» ai
rilievi compiuti dalla Corte, soprattutto introducendo limiti temporali
alla sospensione del processo, un meccanismo di protezione della
parte civile, la possibilità di rinuncia da parte dell’imputato–Alta
carica, l’esclusione del soggetto istituzionale non eletto in base al
suffragio popolare, neppure indirettamente (cioè il Presidente della
Consulta).
Ugualmente due collegi del Tribunale di Milano, ed il Gip di Roma,
hanno sollevato dubbi sulla legittimità della disciplina. Vediamo
rapidamente le questioni sollevate.
Con l’ordinanza n. 397 del 2008 il Tribunale milanese ha censurato i
commi 1 e 7 dell’art. 1 della legge 124 del 2008: violazione, anzitutto
dell’art. 138 della Costituzione, perché le norme intervengono in una
«materia riservata […] al legislatore costituente, così come dimostrato
dalla circostanza che tutti i rapporti tra gli organi con rilevanza
costituzionale ed il processo penale sono definiti con norma
costituzionale»; violazione poi degli artt. 3 e 136 della Costituzione,
perché, «avendo riproposto la medesima disciplina sul punto», incorrono
«nuovamente nella illegittimità costituzionale, già ritenuta dalla Corte
sotto il profilo della violazione dell'art. 3 Cost.», avendo accomunato «in
una unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di
investitura, ma anche per la natura delle funzioni», ed inoltre per aver
distinto irragionevolmente e «per la prima volta sotto il profilo della parità
riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle
Camere, del Consiglio dei ministri [...] rispetto agli altri componenti degli
organi da loro presieduti».
Con l’ordinanza n. 398 del 2008 altro collegio dello stesso Tribunale
ha censurato l’intero art. 1, prospettando le violazioni:
- dell’art. 138 Cost., perché «la normativa sullo status dei titolari delle
più alte istituzioni della Repubblica è in sé materia tipicamente
costituzionale, e la ragione è evidente: tutte le disposizioni che limitano o
differiscono nel tempo la loro responsabilità si pongono quali eccezioni
rispetto al principio generale dell'uguaglianza di tutti i cittadini davanti
alla legge previsto dall'articolo 3 della Costituzione, principio fondante di
uno Stato di diritto»;
- dell’art. 3 Cost., perché le «guarentigie concesse a chi riveste cariche
istituzionali risultano funzionali alla protezione delle funzioni apicali
esercitate», con la conseguenza che la facoltà di rinunciare alla
sospensione processuale riconosciuta al titolare dell’alta carica si pone in
contrasto con la tutela del munus publicum, attribuendo una
discrezionalità «meramente potestativa» al soggetto beneficiario, anziché
prevedere quei filtri aventi caratteri di terzietà e quelle valutazioni della
peculiarità dei casi concreti che soli, secondo la sent. n. 24 del 2004,
potrebbero costituire adeguato rimedio rispetto tanto all’automatismo
generalizzato già stigmatizzato dalla Corte quanto «al vulnus al diritto di
azione»;
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- dell’art. 3 Cost., perché «il contenuto di tutte le disposizioni in
argomento incide su un valore centrale per il nostro ordinamento
democratico, quale è l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti all’esercizio
della giurisdizione penale»;
- degli artt. 3, 68, 90, 96 e 112 Cost., perché crea una disparità di
trattamento tra la disciplina introdotta per i reati extrafunzionali e quella,
di rango costituzionale, prevista per i reati funzionali delle quattro alte
cariche in questione, e tale disparità è irragionevole: per la mancata
menzione dell’art. 68 Cost. fra le norme costituzionali espressamente
fatte salve dalla legge n. 124 del 2008; per il fatto che «il bene giuridico
considerato dalla legge ordinaria, e cioè il regolare svolgimento delle
funzioni apicali dello Stato, è lo stesso che la Costituzione tutela per il
Presidente della Repubblica con l’art. 90, per il Presidente del Consiglio e
per i ministri con l’art. 96»; per la previsione di uno ius singulare per i
reati extrafunzionali a favore del Presidente del Consiglio, che, invece, la
Costituzione accomuna ai ministri per i reati funzionali in conseguenza
della sua posizione di primus inter pares.
- dell’art. 111 Cost., sotto il profilo della ragionevole durata del
processo, dal momento che una sospensione formulata nei termini di cui
alle disposizioni censurate, «bloccando il processo in ogni stato e grado
per un periodo potenzialmente molto lungo, provoca un evidente spreco
di
attività
processuale»,
oltretutto
non
stabilendo
alcunché
«sull’utilizzabilità delle prove già assunte» né all’interno dello stesso
processo penale al termine del periodo di sospensione né all’interno della
diversa sede in cui la parte civile abbia scelto di trasferire la propria
azione, con conseguente necessità per la stessa parte «di sostenere ex
novo l’onere probatorio in tutta la sua ampiezza».
Infine il GIP di Roma, con l’ordinanza n. 9 del 2009, ha prospettato le
seguenti lesioni dei precetti costituzionali:
- art. 138 Cost., in quanto «la deroga al principio di uguaglianza
dinanzi alla giurisdizione ed alla legge è stata […] introdotta con lo
strumento della legge ordinaria, che nella gerarchia delle fonti si colloca
evidentemente ad un livello inferiore rispetto alla legge costituzionale, la
quale […] è stata di per sé già ritenuta insuscettibile di alterare uno dei
connotati fondamentali dell’ordinamento dello Stato espresso dal
suddetto principio»;
- art. 3, primo comma, Cost., perché, crea «“un regime differenziato
riguardo alla giurisdizione [...] penale” (sent. Cost. n. 24/2004)»,
ponendosi cosí in contrasto con «uno dei principi fondamentali del
moderno Stato di diritto, rappresentato dalla parità dei cittadini di fronte
alla giurisdizione, manifestazione a sua volta del principio di eguaglianza
formale dinanzi alla legge»;
- art. 3 Cost., per l’irragionevolezza intrinseca della disciplina
derivante dall’insindacabilità della facoltà di rinunzia alla sospensione
«dal momento che se l’interesse dichiaratamente perseguito dal
legislatore è quello di assicurare la serenità di svolgimento della funzione
nel periodo di durata in carica (sent. Corte cost. n. 24/2004), la
sospensione dei procedimenti dovrebbe essere del tutto indisponibile da
parte dei soggetti considerati, al fine di assicurarne appieno l’efficacia»;
- art. 111, secondo comma, Cost., perché si pone in contrasto con
«un corollario immanente al principio di ragionevole durata del processo,
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consistente nella concentrazione delle fasi processuali, nel senso che
nell’ambito del procedimento penale, alla fase di acquisizione delle prove
deve seguire entro tempi ragionevoli quella della loro verifica in pubblico
dibattimento, ai fini della emissione di una giusta sentenza da parte del
giudice»;
- artt. 3 e 112 Cost., per violazione dei principi di obbligatorietà
dell’azione penale e di uguaglianza sostanziale, sotto il profilo
dell’irragionevolezza del contenuto derogatorio della disciplina censurata
rispetto al diritto comune, in quanto la norma non si applica ai reati
commessi nell’esercizio delle funzioni istituzionali, ma ai reati
extrafunzionali «indistintamente commessi dai soggetti ivi indicati, di
qualsivoglia natura e gravità, finanche prima dell’assunzione della
funzione pubblica».
Nella fase preliminare al giudizio di legittimità costituzionale avevano
depositato memorie, oltre all’Avvocatura dello Stato per conto ed in
nome del Presidente del consiglio dei ministri (come avviene nella
maggior parte dei giudizi incidentali di legittimità costituzionale), lo
stesso Presidente del Consiglio dei ministri (quale parte privata dei
giudizi a quibus), nonché la Procura della Repubblica di Milano, nella
veste asserita di parte di due tra i giudizi principali. Come è noto, la
Corte ha poi dichiarato inammissibile la costituzione del pubblico
ministero nel giudizio incidentale di costituzionalità, come aveva sempre
fatto (i precedenti di altro segno riguardano situazioni affatto diverse, e
cioè i giudizi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato).
Vediamo quali sono stati i passaggi essenziali del ragionamento
seguito dalla Corte, anzitutto liquidando rapidamente il tema della
inapplicabilità della sospensione nella fase delle indagini
preliminari. Il GIP di Roma aveva sollevato questione sul presupposto
che il cd «lodo» imponesse detta sospensione anche prima dell’atto di
esercizio dell’azione penale, ed aveva sviluppato in proposito alcune
argomentazioni. La Corte è andata di contrario avviso, così pervenendo
ad un giudizio di inammissibilità della questione sollevata a Roma: quel
Giudice, in effetti, non doveva fare applicazione della norma censurata
(in altre parole, non doveva affatto sospendere il procedimento).
Varrebbe la pena di approfondire se la disciplina fosse rimasta in vigore.
Ma poiché è stata dichiarata illegittima, non applicandosi più in alcuna
fase del procedimento, la cosa appare superflua.
Veniamo allora al merito delle varie questioni proposte, e sopra
schematizzate.
- Violazione del giudicato costituzionale: questione infondata; la
Corte ha giudicato significative le variazioni rispetto al cd. lodo Schifani;
alcune norme identiche non rilevano, perché ciò che conta è il contesto.
- Violazione degli artt. 3 e 138 Cost. per l’introduzione di
prerogative, a favore delle Alte cariche, senza ricorso alla legge di
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rango costituzionale. Vizio segnalato nella duplice prospettiva
dell’uguaglianza formale (Alte cariche-altre cariche, Alte carichecittadini) e della intrinseca irrazionalità.
Quanto alla prima prospettiva, superate le eccezioni di
inammissibilità, la Corte è pervenuta alla decisione di accoglimento,
dichiarando assorbita, con tutte le altre questioni non trattate, anche la
questione molto seria della intrinseca irrazionalità della normativa
censurata.
In via preliminare ha dovuto essere superata la pretesa che la
questione fosse «pregiudicata» dalla sentenza 24 del 2004, o
addirittura che sul punto vi fosse un giudicato costituzionale. La Corte
ha ricordato come la decisione non avesse trattato il tema, ed avesse
formalmente dichiarata «assorbita» ogni questione non espressamente
valutata con il proprio provvedimento. In altre occasioni, ed in tempi
non sospetti, era già stato chiarito che, mancando un nesso di
pregiudizialità in senso proprio, è la Corte ha stabilire l’ordine di esame
delle questioni, e che l’accoglimento di una tra esse rende inutile la
prosecuzione dell’esame. Nella specie, i Giudici delle leggi avevano
valutato per primi i temi più decisamente agitati dal rimettente, e colto
profili evidenti di violazione di diritti fondamentali della persona.
Non bastasse, si è dovuto ricordare dalla Corte che non esiste un
«giudicato di costituzionalità», ferma restando l’inammissibilità di
questioni volte ad ottenere un riesame da parte delle Corte delle sue
stesse decisioni, poiché ogni modifica di contesto, ed ogni nuovo aspetto
di critica, comporta la necessità di un nuovo scrutinio della norma già
scrutinata.
Ciò premesso, la decisione in esame è passata attraverso due
affermazioni: a) la disciplina censurata ha introdotto prerogative per le
Alte cariche; b) le prerogative devono essere introdotte con norme di
rango costituzionale.
a) Sul questo punto si era battuta con vigore la Presidenza del
Consiglio: non di prerogativa si sarebbe trattato, ma di mera ipotesi di
sospensione del processo penale, come tante ce ne sono, introdotta
alla luce del carattere assorbente degli impegni di un’Alta carica, e con
funzione eminente di tutela del suo diritto di difesa.
Vediamo la definizione di «prerogativa» adottata dalla Corte, che non
ha nulla di nuovo rispetto alle precedenti ed agli orientamenti dottrinali
tradizionali:
… le prerogative costituzionali (o immunità in senso lato, come sono spesso
denominate) si inquadrano nel genus degli istituti diretti a tutelare lo
svolgimento delle funzioni degli organi costituzionali attraverso la protezione dei
titolari delle cariche ad essi connesse. Esse si sostanziano - secondo una
nozione su cui v'è costante e generale consenso nella tradizione dottrinale
costituzionalistica e giurisprudenziale - in una specifica protezione delle persone
munite di status costituzionali, tale da sottrarle all'applicazione delle regole
ordinarie. Le indicate prerogative possono assumere, in concreto, varie forme e
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denominazioni (insindacabilità; scriminanti in genere o immunità sostanziali;
inviolabilità; immunità meramente processuali, quali fori speciali, condizioni di
procedibilità o altro meccanismo processuale di favore; deroghe alle formalità
ordinarie) e possono riguardare sia gli atti propri della funzione (cosiddetti atti
funzionali) sia gli atti ad essa estranei (cosiddetti atti extrafunzionali), ma in
ogni caso presentano la duplice caratteristica di essere dirette a garantire
l'esercizio della funzione di organi costituzionali e di derogare al regime
giurisdizionale comune. Si tratta, dunque, di istituti che configurano particolari
status protettivi dei componenti degli organi; istituti che sono, al tempo stesso,
fisiologici al funzionamento dello Stato e derogatori rispetto al principio di
uguaglianza tra cittadini.

Le prerogative introducono una rottura del principio di
uguaglianza, che la Corte ribadisce trovarsi «alle origini della
formazione dello Stato di diritto». È vero allora che non esiste una
espressa riserva di legge costituzionale nella materia. Ma il sistema delle
prerogative è interamente regolato da norme costituzionali, ed il
bilanciamento degli interessi è tutto interno alla Costituzione (le rotture
della Costituzione, in realtà, le attua solo la Costituzione). Dunque il
legislatore ordinario, come si è chiarito con pronunce anche risalenti,
può solo dettagliare le procedure di applicazione di una regola che deve
essere affermata dalla Costituzione.
La Corte ha esaminato in dettaglio gli argomenti che le parti avevano portato contro
(o comunque al fine di neutralizzare) il semplice assunto enunciato (immunità
diplomatiche, immunità riconosciute ai componenti del CSM, ecc.), ma per ragioni di
brevità conviene in proposito rinviare alla lettura della sentenza.

Il problema diviene quindi: il «lodo» Alfano introduce una prerogativa?
La risposta è stata affermativa, ed anche in questo caso passando da
due snodi di ragionamento.
Il primo concerne la ratio, che è appunto quella di tutte le
prerogative, cioè proteggere la funzione e non l’individuo, creando un
dato equilibrio nei rapporti tra poteri. Nessuno aveva mai avuto dubbi
in proposito, neppure lo stesso legislatore del lodo Alfano, che nella
relazione al disegno di legge si era pronunciato nello stesso senso. Ma il
ribaltamento (o, meglio, la spinta ad un ribaltamento) è maturato negli
scritti del Presidente e della Presidenza del Consiglio: come già
accennato, la ratio consisterebbe nel proteggere l’individuo e non la
funzione, più precisamente il diritto di difesa della persona investita
dell’Alta carica. A sostegno: l’asserita temporaneità della sospensione e
la sua rinunciabilità. Ciò che potrebbe definirsi (ed è stato da molti
definito) elemento di incoerenza del sistema viene promosso ad
elemento di qualificazione della sua natura.
La Corte ha replicato che sarebbe irrazionale una presunzione
assoluta di impedimento, ed ingiustificata la disparità di trattamento di
moltissimi altri cittadini, che potremmo definire «molto occupati», nel
loro rapporto con la giurisdizione penale. Inoltre, l’impedimento
legittimo non ha un contenuto fisso, ed una particolare «legittimità»
investe quello che deriva dall’esercizio di cariche pubbliche di altissimo
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rilievo, come la Corte aveva del resto già stabilito, ad esempio con le
sentenze riguardanti il caso Previti.
In ogni caso, la temporaneità non è compatibile neppure con la
pretesa funzione di tutela del diritto di difesa, che certo non si deprezza
nel caso di soggetto che assume un’alta carica dopo averne gestita
un’altra.
In secondo luogo l’oggetto della disciplina ne conferma la natura di
prerogativa, già sostanzialmente affermata con la sentenza 24 del
2004.
È istituita una disparità di trattamento rispetto a tutti i cittadini, che
è tale: non si tratta cioè di un trattamento differente in base alla
differenza della situazione regolata. Qui la Corte non va molto oltre
l’enunciato. Io direi che la differenza esiste, ma non è congrua rispetto
alla disciplina derogatoria. Non basta che due situazioni siano diverse
per giustificare qualunque difformità di trattamento: deve ovviamente
esistere una relazione qualificata tra la differenza in fatto e quella della
disciplina giuridica. Nella specie, quale semplice presidio delle differenze
in fatto, la disciplina eccede nella deroga, perché la peculiare
posizione delle Alte cariche trova un idoneo regolatore nella rilevanza
differenziata delle situazioni di legittimo impedimento.
È ovvio dunque che la normativa ha una funzione diversa e più
ampia, che attiene all’equilibrio tra i poteri dello Stato. Ma, proprio per
questo, è una prerogativa, ed è dunque oggetto necessario di una
legislazione di rango costituzionale.
La Corte ha poi individuato violazioni del principio di uguaglianza
anche in ambito «interno» alla disciplina per le Alte cariche
Ingiustificata, anzitutto, la maggior protezione dei tre Presidenti di
organi collegiali rispetto ai componenti dei collegi. In particolare, la
nuova «teoria» del Presidente del consiglio come primus super pares, a
parte ogni altro rilievo, cozza con la disciplina costituzionale della
funzione di governo (anche quella successiva al 1948, come per i reati
ministeriali).
Ingiustificata anche la parificazione del trattamento delle specifiche
quattro Alte cariche individuate dalla legge. L’elemento della comune
legittimazione del voto popolare, per altro sempre indiretto, è stato
giudicato troppo vago, e comunque del resto ad un numero infinito di
funzionari pubblici (fino ai presidenti delle circoscrizioni comunali…).
Ecco le parole finali e riassuntive della Corte:
In base alle osservazioni che precedono, si deve concludere che la sospensione
processuale prevista dalla norma censurata è diretta essenzialmente alla protezione
delle funzioni proprie dei componenti e dei titolari di alcuni organi costituzionali e,
contemporaneamente, crea un'evidente disparità di trattamento di fronte alla
giurisdizione. Sussistono, pertanto, entrambi i requisiti propri delle prerogative
costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria a disciplinare la
materia. In particolare, la normativa censurata attribuisce ai titolari di quattro alte
cariche istituzionali un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile
dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura
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costituzionale. Essa, dunque, non costituisce fonte di rango idoneo a disporre in
materia.
Deve, pertanto, dichiararsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 124
del 2008, per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost., in relazione
alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.

Può essere utile, per quanto concerne la giurisprudenza
costituzionale recente sul processo penale, fare il punto sulle decisioni
assunte in merito alla appellabilità delle sentenze, tema sul quale,
com’è noto, la legge n. 46 del 2006 aveva inciso profondamente,
eliminando anzitutto l’appello del pubblico ministero contro le
sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere.
Non c’è più molto da dire, ormai, circa la decisione che ha
reintrodotto la possibilità per la parte pubblica di promuovere il giudizio
di appello dopo una sentenza dibattimentale di proscioglimento,
dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 46 del
2006, di modifica dell’art. 593 c.p.p., e dell’art. 10 della stessa legge n.
46, di transitoria disciplina per gli appelli pendenti al momento di
entrata in vigore della novella).
Si tratta della sentenza n. 26 del 2007, Bile, Flick.
È evidente, specie grazie alla lettura del testo della motivazione,
l’attenzione con la quale la Corte ha inteso non “pregiudicare” un
prossimo ed auspicabile intervento di riforma sul sistema delle
impugnazioni, ribadendo diversi principi di «libertà» per il legislatore:
il doppio grado di giurisdizione nel merito non è costituzionalmente
necessario, le impugnazioni non costituiscono per il pubblico ministero
modalità di attuazione dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, la
parità tra le parti non implica analogia di poteri neppure sul piano delle
impugnazioni. Su questo piano, anzi, le distinzioni sono ben possibili,
purché corrispondano ad una diversità di situazione che le giustifichi
razionalmente.
Ciò che mancava, nella legge Pecorella, era proprio questa ragionevole
giustificazione del baratro introdotto tra l’imputato, legittimato a
sindacare senza limiti la sentenza per sé sfavorevole, e la parte
pubblica, impedita sempre (tranne che nell’ipotesi marginale e un po’
ridicola della sopravvenienza di nuovi elementi in pendenza dei termini
per l’impugnazione) a sindacare la sentenza per sé sfavorevole (ma
paradossalmente legittimata a impugnare le sentenze parzialmente
favorevoli, come quelle di condanna).
Durante il 2008 una lunga serie di provvedimenti è intervenuta a
disporre la restituzione degli atti nei confronti di giudici rimettenti che
avevano sollevato le medesime questioni, al fine di consentire loro una
nuova valutazione di rilevanza alla luce dello ius superveniens (ordd.
nn. 78, 151, 154, 227, 243, 244, 245, 246, 260, 261, 262, 264, 348 e
349).
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Un problema di compatibilità costituzionale si era posto, fin dai primi
mesi di applicazione della nuova disciplina dell’appello, anche con
riguardo alla preclusione del gravame del pubblico ministero contro le
sentenze di proscioglimento deliberate in esito al giudizio
abbreviato. Di nuovo, la Corte era intervenuta con una sentenza
demolitoria, dichiarando l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 10,
comma 2, della legge n. 46 del 2008 (sentenza n. 320 del 2007, Bile
Flick). Anche a questo proposito si sono registrati, nel corso del 2008,
provvedimenti di restituzione degli atti motivati dall’intervenuta
rimozione della norma censurata (ordd. n. 78, 152, 153, 229 e 348).
La questione dell’appello contro le sentenze del giudice di pace è
stata affrontata per la prima volta durante lo scorso anno, e questa
volta risolta nel senso della infondatezza (sentenza n. 298 del 2008).
La Corte ha enunciato in dettaglio gli argomenti che, a suo avviso,
differenziano la fattispecie in questione dalle altre già esaminate, ed
escludono in particolare una violazione del principio di parità tra le
parti. Manca, in primo luogo, il carattere «generalizzato» della
preclusione imposta alla pubblica accusa, in quanto detta preclusione
concerne, al contrario, i soli reati di competenza del giudice di pace. In
secondo luogo, la limitazione viene ad innestarsi su un modulo
processuale del tutto particolare, perché ispirato a finalità di snellezza,
semplificazione e rapidità, che lo rendono non comparabile con il
procedimento davanti al tribunale, e comunque giustificano sensibili
deviazioni rispetto al modello ordinario. La riforma avrebbe emendato,
in terzo luogo, una precedente sperequazione, posto che il pubblico
ministero fruiva del potere di appello, a certe condizioni, in rapporto ad
entrambi gli epiloghi decisori del processo di primo grado (condanna e
proscioglimento), mentre l’imputato fruiva dell’omologo potere, a certe
condizioni, solo in rapporto alla decisione di condanna. Inoltre,
l’imputato non poteva (né può) proporre appello contro le sentenze di
condanna per reati puniti con pena alternativa, allorché sia stata
concretamente applicata la sola pena pecuniaria (salvo che impugni
l’eventuale deliberato di condanna al risarcimento dei danni), mentre il
pubblico ministero, prima dell’intervento di riforma, poteva sempre
appellare le sentenze di proscioglimento relative alla medesima
categoria di reati.
Sembra aver dominato, nel pensiero della Corte, la bassa offensività
degli illeciti di cui si discute («un circoscritto gruppo di figure criminose
di minore gravità e di ridotto allarme sociale […] per le quali è
comunque esclusa l’applicabilità di pene detentive»), e la conseguente
coerenza di un modulo procedimentale di particolare snellezza, anche
nel passaggio dall’un grado di giudizio all’altro. Resta l’incongruenza di
una parte, il pubblico ministero, che ha conservato il potere di appello
avverso le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria,
ma ne risulta priva riguardo alle sentenze di proscioglimento, che
disattendono in toto la sua domanda. La Corte ha osservato, in
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proposito, che l’asimmetria potrebbe essere risolta mediante interventi
di vario segno (compresa l’eliminazione della residua possibilità di
appello), e comunque con un provvedimento che, nel caso di specie, non
era compreso nella domanda proposta dal rimettente.
C’è ancora un genere di sentenza «liberatoria» che la recente riforma
ha sottratto all’appello, ed in particolare al gravame del pubblico
ministero: si allude qui alla sentenza di non luogo a procedere, che
costituisce, in esito all’udienza preliminare, l’alternativa decisoria al
rinvio a giudizio dell’imputato.
Va ricordato come la riforma abbia inciso direttamente sull’art. 428
c.p.p., che riguarda in modo specifico le impugnazioni contro la
sentenza di non luogo a procedere. Quest’ultima, per altro, non è
oggetto di autonoma menzione nell’art. 10 della legge n. 46 del 2006,
che si riferisce in generale, dettando le regole di transizione al nuovo
regime, alla «sentenza di proscioglimento».
I giudici che hanno censurato la norma novellata, nell’ambito di
procedimenti già pendenti all’epoca di entrata in vigore della legge di
riforma, erano partiti dall’assunto che, stabilendo l’inammissibilità
sopravvenuta delle impugnazioni proposte contro le decisioni di
«proscioglimento», la disciplina transitoria si riferisse anche alle
sentenze di non luogo a procedere. Proprio un tale assunto, in sostanza,
era stato valutato criticamente dalla Corte, per la prima volta con la
ordinanza n. 4 del 2008, dichiarativa della manifesta inammissibilità
della questione sollevata. In particolare, dopo aver evocato
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la norma transitoria in
questione (di carattere eccezionale rispetto al principio tempus regit
actum) deve applicarsi alle sole sentenze concernenti il merito
dell’imputazione (cioè di «proscioglimento»), la Corte aveva rilevato come
i rimettenti avessero omesso di prendere in adeguata considerazione,
anche solo per confutarla, una tale soluzione interpretativa, che avrebbe
escluso nei giudizi a quibus la sopravvenuta inammissibilità
dell’impugnazione.
In un successivo provvedimento sul medesimo oggetto, e con il
medesimo dispositivo (ordinanza n. 156 del 2008), era stata evocata la
ratio della diversa disciplina che il legislatore avrebbe introdotto per la
transizione al nuovo regime, facendo salve le impugnazioni pendenti
contro sentenze di non luogo a procedere. Nel caso che il procedimento
venga definito all’udienza preliminare, in effetti, non si pongono le
esigenze che avevano indotto l’abolizione dell’appello contro le sentenze
di segno assolutorio: non si tratta di garantire all’imputato un doppio
grado di merito per il giudizio di colpevolezza, né di prevenire pronunce
di condanna asseritamente inattendibili (almeno nella logica del
ragionevole dubbio), perché successive ad una decisione di
proscioglimento deliberata dal giudice nel contraddittorio tra le parti, e
poi ribaltata da un giudice chiamato invece ad operare, almeno in linea
di tendenza, mediante la mera cognizione di atti formati in altra sede.
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Tali rationes erano state evocate, nel provvedimento citato, al solo fine
di giustificare il diverso trattamento della sentenza di non luogo a
procedere nella transizione dal vecchio al nuovo regime dell’appello. Il
discorso assume per altro, oggi, un qualche significato anticipatorio
della decisione che la Corte ha preso, recentemente, sulla disciplina a
regime in materia di appello del pubblico ministero contro la sentenza
che chiude il processo all’udienza preliminare.
Con la sentenza n. 242 del 2009 (Amirante, Frigo), in particolare, è
stata dichiarata infondata la questione di legittimità proposta con
riguardo all’art. 428 c.p.p., così determinando un perdurante regime
di inappellabilità in danno del pubblico ministero.

Esaurita la materia delle impugnazioni spettanti al pubblico
ministero, va evocato a questo punto il tema dell’appello della parte
civile contro le sentenze di proscioglimento nel giudizio ordinario.
In questo caso la prima ed essenziale pronuncia era intervenuta già
l’ordinanza n. 32 del 2007. Numerose corti d’appello avevano
censurato il nuovo testo dell’art. 576 c.p.p., introdotto dall’art. 6 della
legge n. 46 del 2006, secondo il quale la parte civile può proporre
impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano
l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la
sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio. Dall’omessa
menzione dell’appello si era dedotto che l’esclusione del gravame fosse
stata estesa dal pubblico ministero al danneggiato dal reato, e che
quest’ultimo potesse ormai giovarsi del solo ricorso per cassazione. Altra
parte della giurisprudenza, però, aveva espresso l’opinione che la parte
civile avesse conservato il potere di appello, il che del resto
corrispondeva alla volontà piuttosto chiara dal legislatore, come
risultante dai vari interventi attuati sull’art. 576 c.p.p. lungo il
complesso iter di approvazione della legge di riforma.
Con l’ordinanza poco sopra citata, la Corte aveva in sostanza
accreditato la soluzione favorevole alla perdurante ammissibilità
dell’appello, rimproverando ai rimettenti, con una pronuncia di
manifesta inammissibilità, di non aver esposto le ragioni per le quali
ritenevano di discostarsi dall’orientamento conservativo. A questa presa
di posizione – con un esempio di quella dinamica «cooperativa» tra le
Corti che sembra ormai recuperata dopo momenti di crisi relativamente
recenti – ha fatto seguito un conforme deliberato delle Sezioni unite
della Cassazione, secondo cui, anche dopo le modificazioni introdotte
dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006, la parte civile ha facoltà di
proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la
sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado
(sent. n. 27614 del 2007). La novità è stata prontamente recepita dalla
Corte con gli ulteriori provvedimenti mediante i quali, nel 2008, sono
state definite le molte questioni proposte riguardo all’art. 576 c.p.p.
Nella relativa motivazione, infatti, è posta in rilievo la dissonanza tra il
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presupposto interpretativo sotteso alle ordinanze di rimessione e
l’autorevole opinione delle Sezioni unite, il cui deliberato si avvia ad
assumere le caratteristiche del diritto vivente (ordd. nn. 3, 155 e 226).
Il problema dell’appello della parte civile è stato sollevato anche con
riguardo alle sentenze di proscioglimento del giudice di pace, sul
presupposto – definito dalla Corte non implausibile – che la materia sia
regolata, nell’assenza di una specifica disciplina nel d.lgs. n. 274 del
2000, dalle norme generali del codice di rito. Proprio in base a tale
rilievo, per altro, la questione è stata risolta accreditando la tesi della
perdurante ammissibilità dell’appello della parte, con dichiarazione di
manifesta inammissibilità delle questioni fondate sul contrario assunto,
per la carenza di adeguata giustificazione in ordine al relativo
presupposto (ordinanza n. 302 del 2008).

Resta da dire, ancora, della facoltà di appello dell’imputato contro le
sentenze di proscioglimento pronunciate in esito al dibattimento,
che la legge di riforma aveva escluso, nella ricerca di una simmetria (per
la verità solo formale) tra la posizione della parte privata principale e
quella della pubblica accusa.
La questione è stata risolta con la sentenza n. 85 del 2008, che ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 1 della legge n. 46 del
2006, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 c.p.p., escludeva che
l'imputato potesse proporre appello contro le sentenze di
proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con
la sola ammenda o con pena alternativa (fatta eccezione per le ipotesi
previste dall'art. 603, comma 2, del codice di rito, ove la nuova prova
fosse decisiva). Con lo stesso provvedimento, e secondo un modello già
sperimentato, è stata dichiarata l’illegittimità della pertinente porzione
della disciplina transitoria (cioè del comma 2 dell’art. 10 della citata
legge n. 46, nella parte in cui stabiliva la sopravvenuta inammissibilità
degli appelli proposti da imputati contro sentenze di proscioglimento
non relative a contravvenzioni sanzionate con pene alternative o con
l’ammenda).
Il ragionamento della Corte si è fondato, anzitutto, sulla
constatazione che il genus delle sentenze di proscioglimento comprende
provvedimenti dagli effetti molto eterogenei: le decisioni completamente
liberatorie (cioè quelle fondate sulle formule secondo cui il fatto non
sussiste, oppure non è stato commesso dall’imputato) sono affiancate
da altre che addirittura presuppongono la colpevolezza dell’interessato
(quelle ad esempio che ne escludono l’imputabilità), o comunque
lasciano aperta la relativa questione (come avviene per le declaratorie di
estinzione del reato). Da sentenze del genere – come del resto la Corte
aveva già rilevato mediante una lunga serie di provvedimenti
concernenti il regime di appellabilità dei proscioglimenti nel codice di
rito abrogato – possono derivare effetti pregiudizievoli per l’onore e per
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gli interessi dell’accusato, e finanche provvedimenti limitativi del suo
patrimonio, come la confisca. Rispetto ad essi, nella situazione di parità
formale tra le parti creata dalla legge n. 46 del 2006 (nessun appello
contro le sentenze di proscioglimento), la posizione dell’imputato era
stata oggetto di una sostanziale sperequazione: mentre infatti al
pubblico ministero era consentito appellare le sentenze per sé
parzialmente sfavorevoli (le decisioni di condanna contestate, ad
esempio, in punto di trattamento sanzionatorio), analoga possibilità non
era data all’imputato posto nella medesima posizione (cioè assolto, ma
con formula pregiudizievole).
Non si trattava, in realtà, dell’unica difformità di trattamento
determinata dalla riforma del 2006. Rispetto alle decisioni
completamente sfavorevoli, infatti, l’imputato (sempre ammesso ad
appellare contro la sentenza di condanna) era stato posto in condizioni
migliori del pubblico ministero, cui il gravame era stato completamente
precluso (con la disposta inappellabilità delle sentenze di
proscioglimento). Tuttavia, come già si è ricordato, la stessa Corte
costituzionale aveva rimosso la relativa «dissimmetria», reintroducendo
la possibilità di gravame del pubblico ministero contro i provvedimenti
liberatori per l’accusato (sent. n. 27 del 2007). La posizione
dell’imputato, per tal via, si era ulteriormente differenziata da quella
della pubblica accusa, ormai rimessa nelle condizioni di appellare
qualunque provvedimento. Analoga sperequazione si riscontrava a
favore della parte civile, dato che la giurisprudenza dominante
(accreditata, come sopra si è visto, dalla stessa Consulta) considerava
ammissibile l’appello della medesima parte contro ogni tipo di
deliberazione, salvo il limite generale dell’interesse all’impugnazione.
Un tale assetto, secondo la Corte, contrastava con molteplici
parametri costituzionali. Risultava anzitutto lesivo del principio di
parità delle parti (art. 111, secondo comma, Cost.), perché non sorretto
– quanto ai rapporti tra imputato e parte pubblica – da alcuna razionale
giustificazione, correlata al ruolo istituzionale del pubblico ministero o
ad esigenze di corretta e funzionale esplicazione della giustizia. La
disciplina contrastava, inoltre, con i principi di eguaglianza e di
ragionevolezza (art. 3 Cost.), «stante l'evidenziata equiparazione di esiti
decisori tra loro ampiamente diversificati – quali quelli ricompresi nel
genus delle sentenze di proscioglimento – nel medesimo regime di
inappellabilità da parte dell'imputato». Violazione, infine, del diritto di
difesa (art. 24 Cost.), al quale la facoltà di appello dell'accusato, secondo
una giurisprudenza costituzionale già consolidata, risulta collegata
come strumento di esercizio.
Di qui, come anticipato, la declaratoria di illegittimità costituzionale
dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006, con conseguente ripristino della
facoltà di appello dell’imputato contro le sentenze di proscioglimento. La
Corte, per altro, ha «ritagliato» in negativo, con il proprio dispositivo, le
decisioni relative a contravvenzioni punite con la sola ammenda o con
pena alternativa, che restano dunque inappellabili. Alla base della
scelta la constatazione che, altrimenti, si sarebbe introdotta nel sistema
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un’evidente aporia: l’imputato, infatti, non può appellare le sentenze
relative alle contravvenzioni in discorso neppure quando si tratti di
decisioni di condanna (comma 3 dell’art. 593 c.p.p.).
Con una decisione recentissima, la Corte ha reintrodotto la facoltà di
appello dell’imputato, sempre con riferimento alle decisioni di
proscioglimento, anche in rapporto alle sentenze pronunciate in esito
al giudizio abbreviato.
Questa volta, però, l’intervento è stato più selettivo, investendo
unicamente la causa di proscioglimento che si era determinata nel
giudizio a quo. Così infatti recita il dispositivo della sentenza n. 274 del
2009:
dichiara l'illegittimità costituzionale dell’art. 443, comma 1, del codice di
procedura penale, come modificato dall'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46
(Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle
sentenze di proscioglimento), nella parte in cui esclude che l'imputato possa
proporre appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità,
derivante da vizio totale di mente.
Come c’era da aspettarsi, la Corte ha esordito negando che vi sia
perfetta identità tra la questione concernente la sentenza
dibattimentale, della quale appena si è detto, e la preclusione posta
nell’ambito del rito abbreviato. Per quest’ultimo, si era già ammesso
che, nel «pacchetto» delle controprestazioni offerte dall’imputato in
cambio di uno sconto della pena, possano esservi limitazioni della
facoltà di appello. Tuttavia dette limitazioni devono essere razionali, e
compatibili con l’essenzialità del diritto cui si riferiscono, che è il diritto
di difesa. Non a caso, con la sentenza n. 363 del 1991, era stata
dichiarata illegittima la preclusione dell’appello contro le sentenze di
condanna ad una pena che non dovesse comunque essere eseguita.
Dunque la Corte è passata ad uno specifico esame del merito della
sentenza assolutoria fondata sul vizio totale di mente, cogliendone il
forte carattere pregiudizievole per l’imputato, sul piano morale e su
quello materiale. È appena il caso di ricordare che, in caso di ritenuta
pericolosità, la sentenza può condurre all’applicazione di misure di
sicurezza personali, anche di fortissimo contenuto afflittivo e di durata
non ponderabile. Perfino quando il giudice esclude la pericolosità,
residua una comunicazione della sentenza all’autorità di pubblica
sicurezza, la quale è legittimata per questo allo svolgimento di
particolari controlli.
D’altra parte, prosegue la Corte, è del tutto irrazionale che l’imputato
sia ammesso ad appellare sentenze di condanna a pene irrisorie, e
magari inseguibili, mentre non residua alcuno spazio per il riesame di
merito di una decisione enormemente più afflittiva, ad onta del
dispositivo formale di proscioglimento.
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Insomma, si è voluta individuare una incoerenza «interna» al rito
abbreviato, che ha assunto specifico rilievo ex art. 3 Cost. oltre che con
riguardo al successivo art. 24.

Sempre con riguardo all’appello proposto dall’imputato, è stata
valutata anche una questione concernente le sentenze di condanna del
giudice di pace.
In questo caso il rimettente avrebbe voluto ridurre l’ambito delle
impugnazioni esperibili, ed in particolare escludere l’appello nei casi di
condanna alla sola pena pecuniaria, che l’art. 37 del d.lgs. n. 274 del
2000 attualmente consente purché vi sia stata, nel medesimo contesto,
la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile
costituita. Con la sentenza n. 426 del 2008, la Corte ha dichiarato
infondata la questione.
Il dubbio di legittimità era stato prospettato, anzitutto, sotto il profilo
dell’eccesso di delega, dato che il Parlamento, con il comma 1 dell’art.
17 della legge n. 468 del 1999, aveva impartito la direttiva secondo cui
le sentenze di condanna del giudice di pace avrebbero dovuto essere
appellabili, ma non quando si fosse applicata la sola pena pecuniaria.
La Corte ha posto in evidenza che la regola generale prescritta per il
legislatore delegato prevedeva l’ammissibilità dell’appello, e che dunque
la deroga concernente la condanna a pena pecuniaria assumeva
carattere di eccezionalità. Correttamente, dunque, la preclusione non si
era estesa, nel decreto di attuazione della delega, alle decisioni che
applicano la pena pecuniaria e condannano l’imputato, nel contempo,
anche al risarcimento del danno.
L’attuazione della delega legislativa – si è ribadito – non è limitata alla
mera scansione linguistica delle previsioni contenute nella legge di
delegazione. Le integrazioni non precluse dalla lettera della norma
devono essere valutate tenendo conto delle finalità ispiratrici della legge,
e verificando la compatibilità delle scelte attuative con gli indirizzi
generali della delega. Nella specie, la Corte ha valorizzato la particolare
pregnanza dei profili civili della responsabilità da reato nella
giurisdizione penale di pace, rilevando tra l’altro che la condanna al
risarcimento può riguardare somme superiori ai limiti che segnano la
competenza civile del giudice onorario.
Le peculiarità del processo penale di pace sono state poi riprese,
sempre nella medesima sentenza, per respingere una questione fondata
sull’art. 3 Cost., e sul rilievo che, nel giudizio ordinario, le sentenze di
condanna alla pena dell’ammenda sono sempre inappellabili da parte
dell’imputato. L’asimmetria sussiste, ma sarebbe appunto giustificata
dall’oggetto tipico del giudizio di pace, complessivamente finalizzato ad
una composizione dei conflitti interpersonali. Im ogni caso – ha
osservato la Corte – l’accoglimento della domanda del rimettente
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avrebbe indotto una asimmetria di segno opposto (consentendo di
appellare le condanne alla pena della multa solo nel giudizio ordinario).
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Restiamo sul campo delle riforme introdotte dalla cd. legge Pecorella,
ma abbandoniamo il tema delle impugnazioni, per dare conto della
decisione assunta dalla Corte relativamente al comma 1-bis dell’art.
405 c.p.p..
È la norma per la quale il pubblico ministero, in esito alle indagini,
doveva richiedere l’archiviazione quando sul fatto la Corte di
cassazione fosse intervenuta negando la ricorrenza di gravi indizi a
fini di applicazione d’una misura cautelare, e non fossero stati
successivamente acquisiti ulteriori elementi a carico dell’indagato.
Contro la disposizione – che coglieva un profilo del tutto accidentale
del processo e ne generalizzava le implicazioni – i giudici rimettenti
avevano proposto «mozioni contrapposte».
Secondo alcuni non aveva senso la commistione tra procedimento
incidentale e giudizio principale, tenuto conto d’una serie di notorie
circostanze: la Cassazione non valuta gli indizi, ma l’osservanza della
legge e la congruenza della motivazione; nel subprocedimento cautelare
potrebbero non essere confluiti tutti gli elementi a disposizione del
pubblico ministero; detti elementi, pur confluiti, potrebbero non essere
stati valorizzati dal giudice di merito. È notorio, d’altra parte, che il
giudizio cautelare assume forma storica, per quanto in chiave
probabilistica, mentre il criterio per il promovimento dell’azione è
essenzialmente dinamico, e comprende una prognosi sulle potenzialità
di sviluppo della prova nel dibattimento.
Altri rilevavano che, una volta assegnato rilievo al giudicato
cautelare, non sarebbe stato razionale limitarsi a quello indotto dalla
Cassazione, trascurando quello derivante dalla decisione del tribunale
del riesame e finanche quello connesso ad una decisione negativa del
giudice sulla richiesta cautelare (l’omessa sperimentazione di tutte le
impugnazioni potrebbe essere sintomatica della particolare attendibilità
del giudizio favorevole all’accusato).
In ogni caso, perché una circostanza assolutamente occasionale, cioè
l’avvio della procedura incidentale, avrebbe dovuto proteggere
dall’esercizio dell’azione un individuo che, nelle stesse identiche
condizioni di prova, potrebbe tranquillamente essere mandato a
giudizio, sol per il fatto che non vi è stata domanda cautelare (o la
stessa non è stata «insistita» al punto da indurre una pronuncia della
Cassazione)?
Le questioni cui ho fatto cenno sono state esaminate dalla Corte con
la sentenza n. 121 del 2009 (Amirante, Frigo), dichiarativa della
illegittimità costituzionale della norma in questione, per la ritenuta
violazione degli artt. 3 e 112 della Costituzione.
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La Corte ha posto in luminosa evidenza il ribaltamento logico e
sistematico operato dal legislatore, ed il connesso sovvertimento delle
regole di garanzia che tutelano la libertà dei cittadini e la doverosità del
perseguimento dei reati. Le interferenze tra giudizio principale e giudizio
incidentale sono regolate nel senso che il primo, a determinate
condizioni, può incidere sul secondo (scarcerazione in caso di
assoluzione, ecc.) e non viceversa.
La Corte non ha voluto escludere che, oggi, siano concepibili momenti
di contaminazione. Ma ha ritenuto manifestamente irrazionale quello
disciplinato dalla norma censurata, e per ben tre motivi:
- diversità tra le regole di giudizio che presiedono alla cognizione
cautelare e quelle che legittimano l'esercizio dell'azione penale. Questo
punto è particolarmente interessante per gli studiosi dell’udienza
preliminare: «alla luce dell'art. 125 disp. att. cod. proc. pen. - secondo cui
il pubblico ministero chiede l'archiviazione per infondatezza della notizia
di reato quando gli elementi acquisiti «non sono idonei a sostenere
l'accusa in giudizio» - la decisione sull'esercizio dell'azione penale si fonda
su una valutazione di utilità del passaggio alla fase processuale:
valutazione a carattere "dinamico", che tiene conto anche di quanto può
ritenersi ragionevolmente acquisibile nella fase dibattimentale, quale sede
istituzionalmente preordinata alla formazione della prova nel
contraddittorio delle parti e, dunque, ad un possibile sviluppo, in chiave
probatoria e ai fini della decisione di merito sulla regiudicanda, degli
elementi raccolti in fase investigativa […] Questa conclusione resta valida
anche dopo la legge 16 dicembre 1999, n. 479: l'arricchimento dei
contenuti dell'udienza preliminare e la modifica dell'art. 425 cod. proc.
pen., operati da detta legge […] non escludono, infatti, che la valutazione
dei gravi indizi di colpevolezza abbia tuttora «ben altra consistenza
qualitativa e quantitativa rispetto alla regula iuris propria del rinvio a
giudizio» (Cassazione, sezioni unite, 30 ottobre 2002, n. 39915)».
- eterogeneità della base cognitiva per i due giudizi: il pubblico
ministero fruisce di un potere selettivo riguardo agli elementi da
sottoporre al giudice della cautela (salvo che per quelli a favore
dell'imputato: art. 291, comma 1, cod. proc. pen.); al contrario, le
determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale debbono essere
prese sulla base di tutto il materiale investigativo. Ne deriva che la
decisione de libertate della Corte di cassazione può fondarsi su un
panorama probatorio diverso e anche più ridotto rispetto a quello da
sottoporre al giudice per il controllo su quelle determinazioni.
- estraneità del fumus commissi delicti all’oggetto proprio del
giudizio di cassazione: la Corte non valuta il quadro indiziario, ma la
congruenza di motivazione del provvedimento restrittivo, la quale può
risultare deficitaria anche in presenza di un quadro probatorio del tutto
sfavorevole all’interessato.
A poco serve – rileva la Corte – la residua possibilità per il giudice,
secondo quanto ritenuto da una giurisprudenza non del tutto
incontestabile, di respingere la richiesta di archiviazione e disporre la
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formulazione dell’imputazione. Se anche così fosse, la legge Pecorella
avrebbe introdotto «una irrazionale frattura tra le regole sulla domanda
e le regole sul giudizio». Essa costringerebbe infatti il pubblico ministero
a chiedere un provvedimento negatorio del proprio potere di azione
anche quando ragionevolmente convinto che, alla stregua della regola di
giudizio applicabile dal giudice, tale provvedimento non si
giustificherebbe. Inoltre risultava intollerabile la differenza di
trattamento introdotta tra soggetti colpiti dall’identica messe di indizi, a
seconda che fosse stata o non adottata una iniziativa cautelare nei loro
confronti: «la richiesta "coatta" di archiviazione, prevista dalla
disposizione censurata, finisce per trasformarsi in una sorta di sanzione
extra ordinem per le iniziative cautelari inopportune dell'organo
dell'accusa: sanzione peraltro inaccettabile sul piano costituzionale,
perché discriminante tra le posizioni degli indagati in rapporto ad
attività addebitabili all'organo dell'accusa».

A proposito di competenza territoriale, va ricordato che la Corte era
stata sollecitata su un tema di grande rilievo, anche sistematico, e cioè
lo spostamento sulla Procura «regionale» di Napoli, e sul giudice
corrispondente (istituendo per inciso, quanto alla funzione delle
indagini preliminari, l’inedita figura del gip collegiale»), della
competenza a procedere per reati concernenti i rifiuti commessi in
Campania (art. 3 del decreto-legge n. 90 del 2008, convertito con
modificazioni dalla legge n. 123 del 2008).
La questione è complessa, e coinvolge vari profili del diritto
processuale penale e di quello costituzionale, ponendo tra l’altro il
problema della legittimità di norme processuali che «trasferiscano» la
cognizione di procedimenti già in corso, in un contesto locale molto
limitato e con riguardo ad un numero relativamente circoscritto di
procedimenti.
Tuttavia non è il caso di occuparsene funditus nella sede presente.
Nel caso di specie la questione era stata sollevata dal giudice di Santa
Maria Capua Vetere in base alla sola norma d’urgenza, che disponeva
genericamente il mutamento di competenza per tutti i «reati riferiti alla
gestione dei rifiuti» ed ai «reati in materia ambientale». Successivamente
la legge di conversione ha introdotto un inciso, riferito alle «attribuzioni
del Sottosegretario di Stato» chiamato alla gestione dell’emergenza
rifiuti, che secondo la giurisprudenza della Cassazione è valso a
restringere di molto l’area dei reati per i quali è applicabile la nuova
disciplina. Di qui l’esigenza che il rimettente rivalutasse la rilevanza
delle questioni nell’ambito del suo procedimento, essendo ben
concepibile che, in caso di adozione dei criteri interpretativi ormai
correnti, la cognizione dei fatti per cui è processo sia rimasta propria del
suo Ufficio. La Corte ha dunque disposto la restituzione degli atti.
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Un problema di parità tra le parti, e di garanzia del diritto al
contraddittorio, si pone – a mio avviso con sempre maggiore evidenza –
con riguardo a quella che genericamente possiamo definire la vittima
del reato.
Con poche ed inadeguate battute si può notare come la posizione
della parte offesa, da sempre regolata in senso deteriore rispetto a
quella degli altri agenti del processo, sembri oggi ulteriormente
discriminata. Scrivendo il quinto comma dell’art. 111 Cost., il nuovo
«Costituente» ha trascurato che il contraddittorio non è solo una
garanzia per l’imputato, e che la progressiva incentivazione dei poteri
d’indagine conferiti alle parti private comporta contraddizioni
insopportabili, poiché solo una tra esse può «disporre» delle deroghe al
contraddittorio quale mezzo di formazione della prova.
La produzione della Consulta sull’argomento, per altro, è ancora
improntata ad insegnamenti tradizionali, e comunque non modifica un
quadro di sostanziale ostilità per le ragioni della vittima nel
procedimento penale.
Cominciamo da una questione molto tecnica, e di estremo dettaglio,
che concerne una particolare ipotesi di (non) citazione del
responsabile civile.
Con la sentenza n. 131 del 2009 (Amirante, Mazzella) la Corte ha
dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
83, comma 1, c.p.p., in combinato disposto con l'art. 1917, secondo
comma, c.c. - sollevata in riferimento agli artt. 32, primo comma e 35,
primo comma, della Costituzione - nella parte in cui, intervenuto il
fallimento del datore di lavoro, non consente l'autorizzazione alla
citazione,
nel
processo
penale,
come
responsabile
civile,
dell'assicuratore della responsabilità civile del datore di lavoro in
forza di contratto di assicurazione facoltativo, stante la rilevanza
prioritaria, in caso di infortunio sul lavoro, del diritto al ristoro del
danno all'integrità personale rispetto allo stesso diritto al lavoro.
La Corte ha inteso ribadire che il principio enunciato dal primo
comma dell'art. 35 Cost. nulla aggiungerebbe alle dichiarazioni
risultanti dall'art. 1 della Costituzione, nonché dal secondo comma
dell'art. 3 e dell'art. 4, primo comma, collocato com'e' all'inizio del titolo
III, solo come funzione introduttrice delle disposizioni che entrano a far
parte di questo. Esso vorrebbe, cioè, non già determinare i modi e le
forme della tutela del lavoro, ma solo enunciare il criterio ispiratore
comune alle disposizioni stesse, nelle quali ultime sono poi da ritrovare
le specificazioni degli oggetti della tutela che si vuole accordare.
Non sarebbe perciò pertinente riferirsi a tale parametro per sostenere
l'illegittimità della norma denunziata. Ad analoghe conclusioni la Corte
ha voluto pervenire riguardo alla denunciata violazione dell'art. 32,
primo comma, assumendo che il credito vantato dal datore di lavoro nei
confronti dell'assicuratore è estraneo alla tutela del diritto all'integrità
fisica del lavoratore.
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Concerne in senso pieno il diritto al contraddittorio della vittima del
reato una recente decisione, relativa alla irrilevanza del legittimo
impedimento quando si tratti del difensore della parte civile. E la
Corte ha voluto deliberare, ancora una volta, in base ad una concezione
della parte civile quale convitato «tollerato» nel processo penale,
meritevole di ogni messaggio dissuasivo non solo in ordine alla
costituzione, ma alla stessa permanenza quale parte del processo.
Si tratta della sentenza n. 217 del 2009 Amirante, Criscuolo. Il
rimettente aveva eccepito - in riferimento agli artt. 3, 24, primo e
secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione – circa la
legittimità costituzionale dell'art. 420-ter, comma 5, e dell'art. 484,
comma 2-bis, cod. proc. pen., sul presupposto, indiscutibile e non
discusso, che il difensore della parte civile, quand’anche sia
impossibilitato a partecipare all’udienza per un impedimento legittimo,
non ha diritto ad un rinvio dell’udienza medesima.
Secondo la Corte, la scelta legislativa di non estendere la garanzia
prevista per il difensore dell'imputato non sarebbe irragionevole.
Ciò in ragione del differente rilievo degli interessi di cui l'imputato e la
parte civile sono portatori, della diversa natura degli scopi perseguiti e
della eterogeneità delle posizioni processuali.
La non irragionevolezza della discriminazione dovrebbe essere
affermata anche con riguardo all'esigenza di tutelare l'interesse alla
speditezza del processo penale, che sarebbe compromesso dalla
previsione del diritto al rinvio anche per il difensore della parte civile (si
trascura forse qui che detta parte non è quella fisiologicamente
interessata ad una dilazione dei tempi processuali, e che comunque è
«ragionevole» la durata del processo che, nel minor tempo possibile,
consente comunque il pieno dispiegarsi del diritto di difesa).
Non sussisterebbe, poi, la lesione del diritto di difesa, sia perché il
difensore della parte civile può nominare un sostituto (facoltà per vero
accordata anche al difensore dell’imputato), sia perché l'esercizio
dell'azione civile nel processo penale non rappresenta l'unico strumento
di tutela giudiziaria a disposizione della parte civile, stante l'esistenza di
percorsi giudiziari alternativi. La facoltà, infine, per la parte civile di
trasferire, in ogni momento, l'azione per il risarcimento del danno
derivante dal reato in sede civile esclude ulteriormente pregiudizi agli
interessi di cui è portatrice. Come si vede, la ratio essenziale e più
«convincente» della sentenza è proprio quella tradizionale, ci già si è
fatto cenno in apertura.

Con la sentenza n. 184 del 2009, Amirante, Frigo, la Corte ha
risolto un’altra questione «storica» in materia di giudizio abbreviato, e
la decisione trascende di gran lunga il tema, pure importante, del
giudizio abbreviato, per investire la nozione di contraddittorio accolta
nel rinnovato art. 111 della Costituzione.
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Il problema riguarda la utilizzabilità degli atti di indagine
difensiva. È particolarmente sentito nei casi in cui il difensore produce
gli esiti delle proprie investigazioni, che magari sconvolgono la base
cognitiva per il giudizio, ed immediatamente dopo chiede l’accesso
incondizionato al rito speciale. La richiesta, se non affetta da
inammissibilità procedurale, deve essere accolta dal giudice. Ed al
pubblico ministero, com’è noto, non spetta neppure quel diritto alla
controprova che le legge gli riconosce in una situazione
sostanzialmente assimilabile, e cioè quando il giudizio abbreviato viene
chiesto a condizione che il giudice ammetta la produzione difensiva.
La Corte era già stata più volte investita del tema, con una serie di
pronunce di inammissibilità non prive di indicazioni ermeneutiche, e
per altro ormai superate dal provvedimento più recente. Conviene
segnalare, comunque, che era stata già scartata una delle opzioni
dottrinali (talvolta riprese dalla giurisprudenza di merito), e cioè quella
della inutilizzabilità degli atti di indagine difensiva nel rito
abbreviato (sentenza n. 57 del 2005)
A ben guardare, si pongono due ordini di problemi, connessi ma
distinti. Il primo si concreta quando vi è una stretta sequenza tra
produzione difensiva e giudizio, così da investire il tema del diritto a
contraddire, con specifico riguardo all’ambito delle prove a sorpresa.
Un secondo profilo è più generale, e prescinde dalla stessa possibilità di
una reazione della pubblica accusa e delle parti eventuali del giudizio:
un atto formato unilateralmente viene utilizzato senza il consenso
della parte rimasta esclusa dalla sua assunzione, né quello diretto
(come può avvenire in caso di accordo sulla prova) né quello indiretto
che potrebbe esprimersi attraverso la partecipazione al negozio
introduttivo del rito, ormai notoriamente riservato al solo imputato.
Nel caso sottoposto alla Corte il rimettente aveva colto soprattutto il
secondo degli aspetti segnalati, tanto che il petitum si era risolto nella
richiesta che la Corte dichiarasse inutilizzabili gli atti di indagine
difensiva nel giudizio abbreviato. Ma la decisione è stata nel senso della
infondatezza della questione, sollevata con riguardo all’art. 442,
comma 1-bis, del codice di procedura penale, «richiamato dall'art. 556,
comma 1», del medesimo codice, in riferimento agli artt. 3 e 111,
secondo e quarto comma, della Costituzione, «nella parte in cui prevede
l'utilizzabilità, nel giudizio abbreviato, ai fini della decisione sul merito
dell'imputazione - in assenza di situazioni riconducibili ai paradigmi di
deroga al contraddittorio dettati dall'art. 111, quinto comma, Cost. degli atti di investigazione difensiva a contenuto dichiarativo,
unilateralmente assunti».
La Corte si è mossa notando come il rimettente abbia contestato in
generale il regime di utilizzabilità degli atti di indagini difensiva,
prescindendo da quella sequenza procedurale (produzione-ammissione
del rito-divieto di controprova) che provoca, in realtà, il vulnus più
vistoso per il principio di parità tra le parti e per il «diritto al
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contraddittorio» del pubblico ministero. Ciò implica per inciso – ed a mio
parere – che non può considerarsi chiusa (anche per l’avvertenza
espressa della Corte a questo proposito) una questione strettamente
connessa alla sequenza indicata, sebbene risulti assai difficile la sua
impostazione (quanto tempo prima del giudizio abbreviato devono
essere prodotti gli atti difensivi affinché non si possa parlare di prova «a
sorpresa per il pubblico ministero?).
Ciò premesso, la sentenza interviene con estrema decisione sulla tesi
della
doppia
accezione
del
contraddittorio
nel
sistema
costituzionale. Non è possibile riprendere qui il complesso dibattito
dogmatico, ed i precedenti (sempre meno «favorevoli») della stessa
Consulta, sulla relazione intercorrente tra il quarto ed il quinto comma
dell’art. 111 Cost. Nella prospettazione del rimettente il quarto comma
recepisce l’idea del contraddittorio come metodo, cioè come
strumento cognitivo particolarmente affidabile, con una valenza
oggettiva, in quanto tale non liberamente e indiscriminatamente
disponibile da parte dell’imputato. Una concezione strettamente
correlata, com’è ovvio, al principio di parità tra le parti sancito al
secondo comma dello stesso art. 111 Cost.. Questa stessa disposizione,
al quinto comma, configurerebbe deroghe a valenza soggettiva in
favore dell’imputato, fondate sulla sua volontà, e come tali non
suscettibili di produrre effetti a carico delle parti contrapposte.
Il rimettente ha preso spunto dalle critiche che illustri
processualpenalisti (soprattutto Glauco Giostra e Giulio Ubertis) hanno
formulato con riguardo alla riforma dell’art. 111 Cost., ed in particolare al
tenore del quinto comma, che sarebbe frutto di un «infortunio linguistico»
del legislatore costituente. La premessa del discorso è che il principio del
«contraddittorio nella formazione della prova», enunciato dal c. 4 dell’art.
111 Cost. con specifico riferimento al processo penale – c.d. contraddittorio
“forte”, il quale postula (al lume dell’opinione dominante) che le parti siano
poste in grado di partecipare attivamente al momento genetico della prova, e
non soltanto di formulare a posteriori valutazioni sull’elemento acquisito da
una di esse in assenza dell’altra (contrapponendosi, per tal verso, al più
generico principio dello svolgimento del processo in contraddittorio –
audiatur et altera pars – che a mente del c. 2 deve improntare ogni tipo di
processo) – rappresenterebbe una «garanzia metodologica oggettiva»:
garanzia basata sulla convinzione che la formazione della prova coram
partibus (e alla presenza del giudice) sia il metodo che offre le maggiori
chances di corretto accertamento dei fatti.
In quest’ottica, il contraddittorio nella formazione della prova, in quanto
valore funzionale al processo in sé, non sarebbe disponibile
“unilateralmente” da alcuna delle parti.
La previsione del c. 5 dell’art. 111 Cost. – allorché evoca una deroga
basata sul «consenso» – sarebbe giustificabile, sul piano logico, solo nella
prospettiva di dare ingresso a una fattispecie “vicaria”. Il consenso starebbe,
cioè, a dimostrare la «superfluità» del contraddittorio: potendosi
ragionevolmente presumere che la parte non rinuncerebbe alla elaborazione
dialettica della prova, ove ritenesse che quest’ultima possa condurre a
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risultati difformi, e a lei più favorevoli, rispetto a quelli forniti dall’atto di
indagine. Condicio sine qua non affinché il consenso possa operare in questa
direzione sarebbe, tuttavia, che esso promani dalla parte contrapposta a
quella che ha unilateralmente raccolto l’elemento di indagine, e che
risulterebbe, quindi, potenzialmente interessata ad escludere tale elemento
dal materiale probatorio. Di conseguenza, l’imputato potrebbe prestare il
suo consenso solo all’acquisizione degli elementi di indagine raccolti dal
p.m. (mentre il consenso del p.m. a tale utilizzo sarebbe implicito nel fatto
che si tratta di indagini da lui effettuate: onde si tratterebbe, in definitiva, di
una rinuncia concordata). Il medesimo ragionamento non potrebbe valere,
di contro, per le investigazioni difensive, risultando del tutto illogico – oltre
che contrastante con la stessa valenza tecnico-giuridica del vocabolo
«consenso» – che una parte possa abdicare al metodo del contraddittorio in
rapporto ad elementi da lei stessa unilateralmente raccolti. All’impiego delle
investigazioni difensive dovrebbe semmai consentire chi ha un interesse
potenzialmente contrario: ossia il pubblico ministero. Siffatta conclusione
verrebbe, d’altro canto, avvalorata dall’esigenza di una lettura coordinata
dei c. 2 e 5 dell’art. 111 Cost.: diversamente opinando, infatti, si
assisterebbe ad uno squilibrio tra le posizioni delle parti, inaccettabile al
lume del principio di parità sancito dal citato c. 2.
Ma la Corte è andata di contrario avviso, ed è opportuno darne
conto citando testualmente alcuni passi della motivazione:
La constatazione che il principio del contraddittorio nella formazione della prova,
enunciato dal primo periodo del quarto comma dell'art. 111 Cost., si traduca in un
«metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio» (sentenza n. 32 del 2002) - così da
evocare, secondo quanto affermato da questa Corte all'indomani della legge
costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, la «dimensione oggettiva» del contraddittorio
stesso (sentenza n. 440 del 2000) - non è, di per sé, dirimente circa le prospettive di
salvaguardia sottese alla garanzia in parola, configurata dal dettato costituzionale
come tipica ed esclusiva del processo penale. […] Come più di recente questa Corte ha
rimarcato, difatti, «a prescindere da qualsiasi considerazione sulla validità della
concezione oggettiva del contraddittorio», l'«enunciazione del quarto comma dell'art.
111 Cost., secondo cui nel processo penale "la formazione della prova è regolata dal
principio del contraddittorio", non comporta che il cosiddetto profilo oggettivo del
medesimo non sia correlato con quello soggettivo e non costituisca comunque un
aspetto del diritto di difesa», come attesta eloquentemente la circostanza che il
successivo quinto comma, «nell'ammettere la deroga al principio, fa riferimento
anzitutto al consenso dell'imputato» (sentenza n. 117 del 2007).
Catalogare i diritti sanciti dall'art. 111 Cost. in due classi contrapposte - ora, cioè,
tra le «garanzie oggettive», ora tra quelle «soggettive» - risulta in effetti fuorviante,
nella misura in cui pretenda di reinterpretare, in una prospettiva di protezione
dell'efficienza del sistema e delle posizioni della parte pubblica, garanzie dell'imputato,
introdotte nello statuto costituzionale della giurisdizione e prima ancora nelle
Convenzioni internazionali essenzialmente come diritti umani.
Il senso della scelta costituzionale, sul versante che qui interessa, è in realtà
immediatamente percepibile. Nel momento stesso in cui prevede una deroga basata sul
«consenso dell'imputato» (e non già sul «consenso delle parti» o della «parte
controinteressata»), ponendola per giunta al vertice della terna di ipotesi derogatorie
ivi contemplate, il quinto comma dell'art. 111 Cost. rivela chiaramente che il principio
del contraddittorio nel momento genetico della prova rappresenta precipuamente -
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nella volontà del legislatore costituente - uno strumento di salvaguardia «del rispetto
delle prerogative dell'imputato» (in questi termini, si veda la sentenza n. 29 del 2009).
[…] Questa ultima previsione non implica, tuttavia, che il legislatore ordinario sia
tenuto a rendere sistematicamente disponibile il contraddittorio nella formazione della
prova, prevedendone la caduta ogni qualvolta l'imputato manifesti una volontà in tale
senso. L'enunciato normativo - «la legge regola i casi [...]» - si atteggia difatti, per tale
verso, in termini permissivi: esso legittima, cioè, il legislatore ordinario a prevedere
ipotesi nelle quali il consenso dell'imputato, unitamente ad altri presupposti, determina
una più o meno ampia acquisizione di elementi di prova formati unilateralmente; e ciò,
in particolare, ove si intenda assecondare esigenze di economia processuale, lasciando
spazio - allorché il soggetto, nel cui precipuo interesse la garanzia è posta, ritenga di
potervi rinunciare - ad istituti idonei a contenere i tempi occorrenti per la definizione
del processo e le risorse in esso impiegate. Laddove è peraltro implicito che la
fattispecie debba essere comunque configurata in maniera tale da assicurare uno
svolgimento equilibrato del processo, evitando che la rinuncia al contraddittorio da
parte dell'imputato pregiudichi a priori la correttezza della decisione.
La Corte prosegue evidenziando i vari casi di accordo tra le parti sulla
base cognitiva del giudizio. Il principio di parità non impone la piena
reciprocità del consenso su ogni questione, perché questo
contrasterebbe con la lettera del comma quinto. Esso piuttosto
impegna «il legislatore ordinario ad evitare che i presupposti e le modalità
operative del riconoscimento all'imputato della facoltà di rinunciare alla
formazione della prova in contraddittorio determinino uno squilibrio
costituzionalmente intollerabile tra le posizioni dei contendenti o
addirittura una alterazione del sistema».
Ciò che non accadrebbe nel giudizio abbreviato: viene qui richiamata
dalla Corte la sua stessa giurisprudenza sul ruolo preminente del
pubblico ministero nella formazione del materiale cognitivo a monte
del giudizio speciale; viene richiamato, inoltre, il principio di
completezza delle indagini, per significare che il pubblico ministero,
se diligente, dovrebbe aver raccolto prima della richiesta di rinvio a
giudizio o della citazione a giudizio anche gli elementi utili per
contrastare l’iniziativa difensiva.
È particolarmente significativo un ulteriore passaggio della
motivazione, che evoca spunti mai del tutto approfonditi sulla
diminuita valenza epistemologica degli atti valutati nel giudizio
abbreviato: «in questa prospettiva lo stesso imputato, rinunciando al
contraddittorio nell'assunzione anche dei dati a sé favorevoli, rinuncia a
consolidarne la valenza probatoria ad un livello più alto e certo, quale è
indubbiamente quello appunto del contraddittorio». La Corte non intende
per altro distinguere l’affidabilità delle indagini difensive da quella delle
indagini ufficiali: estende piuttosto ad entrambe un giudizio di efficienza
dimostrativa diminuita, per l’assenza di un contraddittorio contestuale
alla formazione dell’atto probatorio.
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Restiamo sul terreno del giudizio abbreviato, per affrontare la
disciplina – di recente rivoluzionata dalla Corte – riguardante l’accesso
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al rito nel caso di contestazioni suppletive effettuate, nella sede
dibattimentale, sulla base di elementi già disponibili al tempo della
formulazione dei capi di accusa. Ciò che di seguito chiameremo, per
comodità, «contestazioni tardive».
Il problema è noto e risalente. L’intervento di modifiche
dell’imputazione nella fase dibattimentale può vulnerare la posizione
dell’imputato in una duplice prospettiva: alterando il quadro in base al
quale l’interessato aveva a suo tempo stabilito di non formulare
domande di patteggiamento o di rito abbreviato per i reati posti ad
oggetto della contestazione originaria; introducendo capi d’accusa per i
quali, data la progressione del giudizio oltre le soglie preclusive fissate
dalla legge, non potrebbe comunque essere richiesto l’accesso ad un rito
speciale. Il sacrificio dell’interesse difensivo può sembrare ineluttabile, o
almeno giustificabile, quando concerne contestazioni che non avrebbero
potuto essere effettuate in precedenza, perché sorrette, appunto, da
elementi di prova emersi solo nella fase dibattimentale del giudizio. Ma
la conclusione può essere opposta, nella stessa logica, riguardo a
contestazioni che avrebbero ben potuto essere modellate nel contesto
della citazione o del provvedimento di rinvio a giudizio, quando ancora
l’imputato avrebbe potuto tenerne conto nel valutare l’opportunità di
una richiesta di accesso ai riti.
La questione non riguardava, ormai da molti anni, gli istituti
dell’applicazione della pena su richiesta e dell’oblazione. Gli artt. 516 e
517 del codice di rito erano stati infatti dichiarati illegittimi nella parte
in cui non consentivano la richiesta di patteggiamento ove la
contestazione suppletiva intervenisse sulla base di elementi già acquisiti
al momento di esercizio dell’azione penale, oppure se a suo tempo v’era
stata richiesta dell’imputato rispetto alle contestazioni originarie
(sentenza n. 265 del 1994). Analogamente le norme sono state
dichiarate illegittime nella parte in cui non consentivano che l’imputato
potesse sollecitare l’oblazione per reati oggetto della contestazione
suppletiva, sempre che ricorressero le condizioni delineate agli artt. 162
e 162-bis c.p. (sentenza n. 530 del 1996). Alla base delle decisioni il
rilievo che le valutazioni difensive circa la convenienza del rito speciale
dipendono dalla impostazione che il pubblico ministero conferisce
all’accusa, cosicché, quando l’imputazione deve essere modificata per
un errore od una negligenza dello stesso pubblico ministero, la
preclusione dell’accesso al rito sarebbe ingiustificatamente lesiva del
diritto di difesa.
Le sentenze in questione dimostrano, con evidenza, la serietà del
problema concernente la preclusione del rito abbreviato nel caso di
contestazioni «tardive». Tuttavia la giurisprudenza costituzionale, anche
nelle sue espressioni più recenti, non era giunta alla determinazione di
«estendere» al giudizio in questione il meccanismo di rimessione in
termini introdotto per il patteggiamento. In una fase iniziale, anzi, la
Consulta era parsa orientata nel senso che spettasse al legislatore, in
ragione del connotato discrezionale dei meccanismi di raccordo tra
giudizio ordinario e rito speciale, l’individuazione di una garanzia per
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l’imputato nei confronti delle variazioni apportate all’accusa senza
elementi di novità sul piano probatorio. Il concetto era stato ribadito
finanche nell’ambito della decisione che, invece, aveva imposto la
rimessione in termini per la richiesta di patteggiamento: la Corte aveva
dichiarato inammissibile un’analoga questione concernente il giudizio
abbreviato, prospettando ancora una volta la pertinenza alla
discrezionalità legislativa delle scelte utili ad assicurare la pur
necessaria tutela delle aspettative dell’imputato.
Nonostante l’atteggiamento che si è descritto era stata più volte
reiterata, negli ultimi anni, l’istanza di una sentenza manipolativa che
estendesse la possibilità di recupero del rito in caso di modifiche
«tardive» dell’imputazione. Si era però registrata, al proposito, una lunga
serie di pronunce di inammissibilità, non fondate sull’asserito carattere
discrezionale dell’addizione richiesta dai giudici a quibus, quanto
piuttosto su « vizi motivazionali » delle ordinanze di rimessione.
Era poi intervenuta l’ordinanza n. 67 del 2008, Bile, Flick, che
conviene citare espressamente anche perché evoca un aspetto della
questione particolarmente importante, perché proiettato sullo sfondo
più generale della ammissibilità di una domanda «parziale» di giudizio
abbreviato.
Esiste in effetti, nei casi di contestazione tardiva «aggiuntiva», una
duplice lesione degli interessi difensivi: quello concernente il nuovo
reato, per il quale il rito non ha potuto mai essere chiesto e mai potrà
esserlo; quello concernente il reato di originaria contestazione: qui la
facoltà di accesso è stata oggetto di rinuncia, ma in un contesto
successivamente modificato per effetto delle contestazione suppletiva,
con la possibilità che l’opzione iniziale risulti fortemente inopportuna
(ad esempio per la gravità assai maggiore del nuovo reato). Non sempre
è apparso chiaro che occorreva stabilire – sempre sul presupposto di
una “colpa originaria” del pubblico ministero – se la lesione del diritto di
difesa assumesse rilievo solo per il reato aggiuntivo, o se dovesse
ipotizzarsi una generalizzata rimessione in termini per tutte le
imputazioni. Ipotesi quest’ultima problematica, sia perché concernente
una scelta di rinuncia comunque effettuata dall’interessato, sia perché
suscettibile di incidenza sulle dinamiche fisiologiche del processo (il
p.m. potrebbe omettere la contestazione suppletiva proprio per evitare
l’effetto in questione).
Non a caso, in linea generale, le domande di abbreviato per
contestazione tardiva riguardano “solo” il reato posto ad oggetto della
contestazione medesima. Ma si introduce, per tal via, un nuovo
problema: quello della definizione del processo con due riti diversi.
Bene, con la citata ordinanza n. 67 del 2008 la Consulta aveva
toccato un ulteriore profilo dell’intricata questione, quello della
ammissibilità di richieste parziali di accesso al rito abbreviato. Il
problema è risolto dalla giurisprudenza in senso negativo (contro il
parere forse prevalente della dottrina). È chiaro però, per tornare al
nostro tema, come l’imputato il quale solleciti il rito abbreviato solo per
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il “nuovo reato” formuli una «richiesta parziale». La Corte ne aveva preso
atto per dichiarare inammissibile la questione sollevata dal giudice a
quo, il quale non aveva valutato questo aspetto del problema, e dunque
non aveva compiutamente dimostrato la rilevanza del dubbio
prospettato. Al di là della questione di procedura riguardante il giudizio
incidentale, è chiaro che la Corte, valorizzando un tale profilo, aveva
finito con l’accreditare la tesi della inammissibilità di richieste parziali
di giudizio abbreviato. Ma, come vedremo tra breve, c’è stato di recente
quello che potremmo addirittura definire un parziale revirement.
Fin qui, per inciso, abbiamo discusso della contestazione suppletiva
che aggiunga all’imputazione un nuovo capo di accusa. Quid per il
caso che il pubblico ministero, sempre a fronte di elementi già
desumibili all’atto della citazione o del rinvio a giudizio, modifichi
l’imputazione preesistente attraverso la contestazione di nuove
circostanze?
Con un provvedimento anche stavolta “nascosto” sotto le vesti
dell’inammissibilità manifesta per ragioni procedurali (inammissibilità
per altro evidentissima, dato che l’eccezione è stata formulata in vista
della mera eventualità d’una richiesta di giudizio abbreviato), la Corte
sembra aver anticipato un giudizio molto netto sulla questione.
Per porre ciascuno in condizione di verificare un tale assunto,
trascrivo il brano pertinente della citata ordinanza n. 67 del 2008: «che,
pertanto - a prescindere da ogni rilievo riguardo al merito delle censure, e
segnatamente quanto alla validità dell'assunto per cui, in rapporto ad
una circostanza aggravante quale la recidiva (basata sui meri precedenti
penali dell'imputato), la mancata tempestiva richiesta del rito alternativo
non comporterebbe la libera assunzione del «rischio» della sua
contestazione in dibattimento - la questione va dichiarata manifestamente
inammissibile (con riferimento ad analogo quesito, si veda l'ordinanza n.
129 del 2003)».
Come più volte anticipato, nel quadro descritto ha fatto recente
irruzione la sentenza n. 333 del 2009 (Amirante, Frigo), la quale ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p., nella parte
in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del
dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente
contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un
fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio
dell’azione penale. Inoltre, in applicazione dell’art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87 (cd. autorimessione), è stata dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 516 c.p.p., nella parte in cui non prevede la
facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio
abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento,
quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli
atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale.
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C’era anzitutto il problema di rilevanza tanto «sottilmente» posto dalla
ordinanza 67 del 2008. Altrettanto «sottilmente», il giudice rimettente ha
«costretto» la Corte ad entrare nel merito, prosciogliendo
anticipatamente l’imputato per il reato di originaria contestazione, e
dunque facendo in modo che la richiesta «tardiva» di accesso al rito
valesse potenzialmente ad esaurire l’intero giudizio. Ma ugualmente la
Corte ha voluto dare un segnale per i casi, ben più numerosi, in cui la
contestazione si aggiunge a reati ulteriori da definire con il medesimo
giudizio. Qui la presa di posizione è chiara ed innovativa:
a. La rimessione in termini riguarda unicamente la contestazione
aggiuntiva.
b. Non è «implausibile» la tesi che – solo in questo caso e dato il
carattere patologico della situazione regolata – la richiesta debba
considerarsi ammissibile anche se comporta una definizione parziale
del procedimento.
Proviamo ora a riassumere il ragionamento della Corte in punto di
legittimità della disciplina censurata. Punto di partenza è la (discutibile)
scelta delle Sezioni unite – e di una giurisprudenza ampiamente
maggioritaria – per la quale le contestazioni suppletive sono ammissibili
anche se tardive, cioè svolte sulla base di elementi di prova non
sopravvenuti all’atto di imputazione. L’opzione contraria avrebbe
naturalmente escluso il problema che ci occupa. Ebbene, la Corte ha
preso atto dell’orientamento in questione (non senza un tono di blanda
disapprovazione) e ne ha fatto il presupposto del proprio giudizio, pur
senza definirlo «diritto vivente».
Così stando le cose, il bilanciamento tra l’esigenza di garantire la
necessaria sensibilità dell’imputazione rispetto ai mutamenti del quadro
cognitivo, ed il diritto dell’imputato di accedere ai riti speciali, non può
trovare applicazione, attraverso la regola di inammissibilità della
richiesta, nei casi in cui la contestazione tardiva dipende dalla
negligenza (o peggio) del pubblico ministero.
Questa strada era già stata imboccata dalla Corte fin dal 1994, con la
citata sentenza n. 265. Si ricorda, nella decisione in commento, quanto
già rilevato in quel provvedimento ormai remoto: «quando, in
conseguenza “di una evenienza patologica del procedimento, quale è
quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del
reato in cui è incorso il pubblico ministero”, l’imputazione subisce “una
variazione sostanziale”, risulta “lesivo del diritto di difesa precludere
all’imputato l’accesso ai riti speciali”. In tale ipotesi, la libera scelta
dell’imputato verso il rito alternativo – scelta che rappresenta una delle
modalità di espressione del diritto di difesa (…) – risulta “sviata da
aspetti di ‘anomalia’ caratterizzanti la condotta processuale del pubblico
ministero”, collegati all’erroneità dell’imputazione (il fatto è diverso) o alla
sua incompletezza (manca l’imputazione relativa a un reato connesso),
riscontrabili già sulla base degli elementi acquisiti dall’organo dell’accusa
nel corso delle indagini».
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La preclusione dei riti alternativi nella situazione considerata era
stata ritenuta contrastante anche con l’art. 3 Cost., «venendo l’imputato
irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti
speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza
della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari
operata dal pubblico ministero nell’esercitare l’azione penale alla
chiusura delle indagini stesse».
All’epoca della decisione richiamata, la «manipolazione» degli artt. 516
e 517 c.p.p. non era stata estesa al rito abbreviato. Ma su quella
decisione – rammenta la Corte – aveva pesato una ritenuta
incompatibilità tra «procedura» tipica del rito e sede dibattimentale, oltre
che la necessità di un articolazione discrezionale (e dunque
necessariamente legislativa) del raccordo tra specialità del rito e
carattere «ordinario» della sede di svolgimento.
Le cose sono cambiate dopo la cd. legge Carotti, soprattutto in forza
del superamento del requisito di definibilità allo stato degli atti, e della
collegata previsione di procedure per l’integrazione probatoria nel rito
abbreviato. Ed ecco lo snodo decisivo: «a fronte dell’attuale assetto
dell’istituto, il giudizio abbreviato non può più considerarsi
incompatibile con l’innesto nella fase del dibattimento».
Anche questa non è certo una novità assoluta. Con la fondamentale
sentenza n. 163 del 2009, deliberata allo scopo di garantire il diritto di
accesso al rito (ed al corrispondente sconto di pena in caso di
condanna) mediante forme di sindacato sulla decisione negativa del
giudice delle indagini preliminari, la Corte aveva già creato le condizioni
per lo svolgimento del rito abbreviato nella sede dibattimentale.
Condizioni del resto ordinariamente ricorrenti, dopo la riforma del
giudice unico, nel caso di procedimenti a citazione diretta o per
direttissima. Ed ecco il passaggio conseguente: «tali rilievi risultano
estensibili, mutatis mutandis, anche alla fattispecie che qui interessa.
L’accesso al rito alternativo per il reato oggetto della contestazione
suppletiva “tardiva”, difatti, anche quando avvenga in corso di
dibattimento, risulta comunque idoneo a produrre un effetto di economia
processuale, giacché consente – quantomeno – al giudice del dibattimento
di decidere sulla nuova imputazione allo stato degli atti, evitando il
possibile supplemento di istruzione previsto dall’art. 519 cod. proc. pen.
(quale risultante a seguito della sentenza n. 241 del 1992 di questa
Corte).
Dunque «rimessione in termini» anche per il giudizio abbreviato, sia
nel caso di modifica dell’imputazione (questione «autorimessa», come
avvenuto nel 1994 per il patteggiamento) che nel caso di contestazione
d’un reato aggiuntivo. Soluzione del resto necessaria – aggiunge la Corte
– anche per eliminare la differenza di regime, in punto di recupero della
facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione
suppletiva “tardiva”, a seconda che si discuta di “patteggiamento” o di
giudizio abbreviato: differenza che, nell’attuale panorama normativo, si
rivela essa stessa fonte d’una discrasia rilevante sul piano del rispetto
dell’art. 3 Cost.
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Ancora sul rito abbreviato, va registrata sinteticamente una
pronuncia sollecitata in aderenza alle polemiche sulla «sottrazione alla
corte di assise» della cognizione di gravissimi delitti, con concomitante
affidamento dello ius dicere ad un giudice monocratico, quando si
proceda per tali delitti con giudizio abbreviato.
Era stata contestata la legittimità costituzionale dell'art. 438 cod.
proc. pen, - in riferimento agli artt. 1, 24, 25, 101, 102 e 111 Cost. nella parte in cui demanda al giudice dell'udienza preliminare lo
svolgimento del giudizio abbreviato anche nei procedimenti di
competenza della corte di assise.
Con la ordinanza 102 del 2009, Amirante, Frigo, la Corte ha
ribadito come il principio del giudice naturale, da intendersi come
quello prefigurato dalla legge secondo criteri generali, non priva il
legislatore della sua discrezionalità nell’individuazione del giudice
competente, tanto meno con riguardo ad una maggiore o minore
idoneità o qualificazione che possa essere attribuito all’uno od all'altro
organo
della
giurisdizione.
Va
esclusa,
in
particolare,
la
"costituzionalizzazione" della corte di assise come giudice naturale per i
reati di sua competenza, con qualunque rito siano svolti i relativi
processi, posto che spetta al legislatore ordinario stabilire i tempi e i
modi della partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia.
L'attribuzione della competenza al giudice dell'udienza preliminare non
è né arbitraria né irragionevole, restando nell'area delle scelte
discrezionali con cui il legislatore valorizza i connotati specifici del
giudizio abbreviato, al cui governo può bastare un giudice monocratico.
Inoltre, non vi è neppure una incompiuta predeterminazione per legge
della competenza, poiché non si configura una situazione in cui il solo
imputato sarebbe arbitro di scegliersi il giudice, posto che la scelta
dell'imputato riguarda il rito, con tutte le sue caratteristiche. Non si
configura nemmeno una lesione delle condizioni di parità delle parti,
visto che la scelta del rito non reca pregiudizio agli interessi di cui la
parte pubblica è portatrice. Infine, non sussiste lesione del diritto di
difesa, sotto il profilo dei criteri di valutazione della prova, che sono
identici sia per la corte d'assise nel giudizio ordinario che per il giudice
monocratico nel giudizio abbreviato.
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Una cospicua occasione di riflessione sulla natura della sentenza di
patteggiamento è data dalla sentenza n. 336 del 2009 (Amirante,
Grossi), di prima verifica della legittimità della riforma del 2001 circa gli
effetti della sentenza in discorso nell’ambito del giudizio disciplinare.
Come si ricorderà, a norma dell’art. 653, comma 1-bis, del codice di
procedura penale, la decisione irrevocabile di condanna assume
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efficacia di giudicato, nel giudizio per responsabilità disciplinare
davanti alle pubbliche autorità, quanto all’accertamento della
sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale ed alla affermazione che
l’imputato lo ha commesso. D’altra parte il comma 1-bis dell’art. 445
c.p.p., escludendo analoga efficacia nei giudizi civili e amministrativi, fa
espressamente «salvo quanto previsto dall’art. 653». Un combinato
disposto letto univocamente nel senso che la sentenza di applicazione
della pena svolge, nel giudizio disciplinare, la stessa efficacia di una
sentenza irrevocabile di condanna.
La decisione della Corte riguarda una questione sollevata dal
Consiglio nazionale forense, in sede giurisdizionale. Si ha notizia, per
inciso, che analoga questione è stata invece dichiarata manifestamente
infondata dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della
magistratura.
Va subito detto, tornando alla sentenza della Corte, che la
dichiarazione di infondatezza si è basata, in effetti, sulla erroneità dei
presupposti interpretativi che il CNF aveva posto a fondamento dei
propri dubbi di legittimità
Il rimettente aveva sostenuto che le due norme citate violerebbero il
principio di uguaglianza in due direzioni: indebita parificazione di
istituti differenti, posto che la sentenza di condanna si fonda su un
accertamento pieno del fatto, mentre quella di patteggiamento
esprimerebbe solo una verifica negativa circa la ricorrenza di ragioni per
il proscioglimento; indebita diversificazione di istituti analoghi, non
essendovi ragione di disciplinare l’efficacia della sentenza, in senso
opposto, da un lato nel giudizio disciplinare e, dall’altro, nei
procedimenti civili ed amministrativi.
Quanto al primo profilo, per sostenere la differenza «ontologica» tra
patteggiamento e condanna, il CNF ha citato gli orientamenti della
giurisprudenza, identificandoli anzitutto nel dictum della sentenza delle
Sezioni unite n. 3600 del 1997, secondo cui la sentenza di applicazione
della pena non avrebbe implicato la revoca della sospensione
condizionale in precedenza concessa per un altro reato. Si è
richiamata, inoltre, la cospicua (e non a caso risalente…)
giurisprudenza sulla inapplicabilità dell’istituto della revisione alla
sentenza di patteggiamento.
Ebbene, la Corte ha avuto buon gioco a rammentare, per un primo
verso, che le Sezioni unite hanno ribaltato il proprio orientamento ormai
da diversi anni (sentenza 29 novembre 2005, n. 17781/06). Con
motivazione diffusa (e, aggiungo, sofferta) è stato stabilito che la
sentenza di patteggiamento costituisce presupposto per la revoca di un
precedente provvedimento di sospensione condizionale. Quanto alla
revisione, è intervenuto in modo tranciante il legislatore del 2003,
modificando l’art. 629 c.p.p. allo scopo esplicito ed indiscutibile di
consentire detta revisione, appunto, anche nel caso di applicazione della
pena su richiesta.
Proprio tale riforma ha orientato la giurisprudenza ad un
ribaltamento dell’impostazione originaria, del resto congruo rispetto alla
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lettera della legge: non è questione di affinità o difformità «ontologiche»;
il legislatore, semplicemente, intende che la parificazione di
conseguenze sia un dato generale ed insuperabile, a meno che la legge
non introduca una specifica eccezione. Nota la Corte: «una logica (…) del
tutto antitetica rispetto a quella presupposta dal Collegio rimettente, il
quale, invece, muove dalla erronea tesi di ritenere che gli effetti del
patteggiamento debbano “ontologicamente” differenziarsi da quelli della
sentenza ordinaria, salvo le deroghe – espressamente previste – che
“assimilino” le conseguenze derivanti dai due tipi di pronunce».
Residua dunque, nella prospettiva del giudizio di legittimità
costituzionale, la sola necessità di una verifica di ragionevolezza delle
ipotesi di discriminazione (o non discriminazione) tra gli effetti delle due
sentenze, che muova dalla premessa di un sistema «omologante».
Secondo la Corte, la scelta riguardante il procedimento disciplinare è
positivamente ragionevole. Da un lato sarebbe mutata la
configurazione originaria del patteggiamento come rito circoscritto alle
vicende di criminalità “minore”. Anche per questo, il rito avrebbe
acquisito una base cognitiva fisiologicamente più ampia, tale da
sorreggere più ampi poteri dispositivi del giudice (almeno nei casi di
“patteggiamento allargato”), di talché una dilatazione degli effetti
«esterni» sarebbe congrua, specie se valutata alla luce della necessità di
prevenire contrasti di giudicati. Inoltre, la riforma del 2001 è stata
esplicitamente motivata anche dall’esigenza di consentire una più
adeguata tutela delle amministrazioni pubbliche dagli effetti
squalificanti della permanenza di persone assoggettate ad una sanzione
penale, anche molto rilevante. Nell’attuale disciplina, poi, la sentenza di
proscioglimento ex art. 129 c.p.p., pronunciata dal giudice a norma
del comma 2 dell’art. 444, produce effetti di giudicato nel procedimento
disciplinare: dunque l’analogo effetto attribuito alla decisione di
applicare la pena assicura una «simmetria» che vale, a sua volta, a
legittimare la scelta legislativa.
Quanto alla diversificazione degli effetti, asseritamente indebita,
rispetto ai giudizi civili ed amministrativi, la Corte ha messo in rilievo la
struttura, questa volta davvero «ontologicamente» diversificata, degli
istituti posti a confronto dal rimettente: «nel giudizio civile o
amministrativo di danno si versa in tema di giudizio contenzioso tra parti
pariteticamente contrapposte, per le quali gli effetti extrapenali del
giudicato di condanna devono ovviamente tenere conto della possibilità
che entrambe le parti abbiano avuto di “misurarsi” in contraddittorio in
sede penale». Ad esempio, un patteggiamento fondato sulla tesi del
concorso di colpa della vittima non potrebbe certo condizionare la difesa
degli interessi della vittima medesima nel giudizio civile concernente il
fatto. Nel procedimento disciplinare, di contro, non v’è una parte
portatrice di interessi propri, e la struttura del contraddittorio è
appunto simile, mutatis mutandis, a quella del giudizio penale.
Si può chiudere riferendo che la legittimità della disciplina era stata
contestata anche alla luce degli artt. 24 e 111, secondo comma, della
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Costituzione. Censure ritenute, a loro volta, infondate dalla Corte.
L’imputato sceglie liberamente il patteggiamento, consapevole dei
vantaggi e degli svantaggi dell’opzione. Se ritiene, sia pure al solo fine di
«accettare» un sanzionamento penale, di non contestare la sussistenza
del fatto e la propria responsabilità, è ben concepibile che possa fare
altrettanto, consapevolmente, rispetto ad un futura sanzione
disciplinare.

Poche battute per segnalare come la Corte abbia ribadito che
l’incidente probatorio, ricorrendo i presupposti indicati dalla legge,
può essere chiesto e celebrato anche dopo la fine delle indagini
preliminari, e fin nel corso dell’udienza preliminare (ordinanza n. 146
del 2009, Amirante, Criscuolo).
L’occasione si è posta perché il gip rimettente aveva considerato
inammissibile una richiesta proposta dopo il deposito degli atti ex art.
415-bis del codice di rito, e dunque ad indagine preliminare conclusa.
Per la verità, e nonostante il nome che il legislatore ha voluto conferire
all’atto che apre la fase di discovery (avviso di conclusione, appunto),
occorrerebbe stabilire nei dettagli in che senso, dopo il deposito, le
indagini siano davvero concluse. Ma la Corte non ha avuto bisogno di
affrontare il tema. Non solo, con la sentenza n. 77 del 1994, era stata
dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt. 392 e 393 cod. proc.
pen. «nella parte in cui non consentono che, nei casi previsti dalla
prima di tali disposizioni, l'incidente probatorio possa essere richiesto
ed eseguito anche nella fase dell'udienza preliminare». Con un
successivo provvedimento, l'ordinanza n. 249 del 2003, era stato
chiarito come la stessa soluzione dovesse considerarsi già imposta per
la fase compresa tra la conclusione delle indagini e l'inizio dell'udienza
preliminare: «non potrebbe non essere assicurata alle parti, anche in
tale fase, la facoltà di richiedere l'assunzione della prova in via di
incidente».
Un caso lampante di omessa sperimentazione di una interpretazione
adeguatrice la quale anzi, più che essere sperimentabile, doveva essere
adottata alla luce dei chiari segnali normativi e sistematici poi
richiamati dalla Corte.

Una porzione cospicua della recente produzione giurisprudenziale
della Consulta in materia di processo penale si riferisce al tema delle
prove.
Possiamo iniziare dalla prova dichiarativa, segnalando un quesito
posto mediante la rievocazione dello «spettro» della contestazione
acquisitiva, che è risultata del tutto anacronistica, ed ha indotto la
Corte ad una dichiarazione di infondatezza della questione sollevata
(sentenza n. 197 del 2009, Amirante, Frigo).
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Il rimettente aveva prospettato – con riferimento agli artt. 24 secondo
comma e 111 quarto comma della Costituzione - l’illegittimità del
comma 5 dell'art. 503 del codice di procedura penale, nella parte in
cui non prevede che «le dichiarazioni alle quali il difensore aveva diritto
di assistere assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria su
delega del pubblico ministero non possono essere utilizzate nei
confronti di altri senza il loro consenso, salvo che ricorrano i
presupposti di cui all'art. 500, comma 4, cod. proc. pen.». Inoltre era
stato censurato il comma 6 del medesimo art. 503, nella parte in cui
non prevede che «le dichiarazioni, rese [al giudice] a norma degli articoli
294, 299, comma 3-ter, 391 e 422 cod. proc. pen., non possono essere
utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso, salvo che
ricorrano i presupposti di cui all'art. 500, comma 4, cod. proc. pen.».
I quesiti di costituzionalità non coinvolgevano, dunque, l'intera
disciplina dei commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen., che prevedono
l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle sopra indicate
dichiarazioni, ove impiegate per le contestazioni all'imputato durante
l'esame a norma del comma 3 del medesimo articolo. Essi investivano,
piuttosto, lo specifico profilo dell'utilizzabilità di tali dichiarazioni come
prova dei fatti riferiti - oltre che nei confronti dell'imputato dichiarante anche nei confronti dei coimputati che non abbiano prestato il loro
consenso e il cui difensore non abbia potuto partecipare all'assunzione
delle dichiarazioni stesse; e ciò, anche fuori dei casi eccezionali previsti
dall'art. 500, comma 4, cod. proc. pen. con riguardo all'esame
testimoniale.
In realtà il giudice a quo si è mosso da una ricostruzione del quadro
normativo ormai anacronistica, dopo la riforma dell’art. 111 Cost., e
l’approvazione della legge 63 del 2001, sebbene il testo delle norme
censurate non abbia subito variazioni.
Conviene seguire testualmente l’esposizione della Corte:
[…] precise esigenze, non solo di lettura conforme al disposto dell'art. 111, quarto
comma, Cost., ma anche - e prima ancora - di coerenza sistematica, rispetto alla
regolamentazione complessiva della materia attualmente racchiusa nel codice di rito,
impongono di ritenere che il recupero probatorio per effetto delle contestazioni,
prefigurato dai commi 5 e 6 dell'art. 503 cod. proc. pen., non operi comunque ai fini
dell'affermazione della responsabilità di soggetti diversi dal dichiarante.
Al riguardo, va rilevato, anzitutto, che le regole generali per l'interrogatorio sono
state modificate dalla legge n. 63 del 2001. L'art. 64 cod. proc. pen. ora prevede che,
prima che abbia inizio l'interrogatorio, la persona deve essere avvisata che le sue
dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti e che, se renderà
dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a
tali fatti, l'ufficio di testimone. L'avvertimento indica al dichiarante la "sorte" che
avranno nel dibattimento le sue dichiarazioni, qualora non intenda avvalersi della
facoltà di non rispondere, e la norma è stata ritenuta da questa Corte applicabile
anche all'esame dibattimentale dell'imputato, sul presupposto dell'esistenza di una
«consistente serie di dati sostanziali i quali depongono per l'appartenenza dei due atti
processuali - l'interrogatorio e l'esame - a un medesimo genus» (ordinanza n. 191 del
2003).
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In tutti i casi, pertanto, in cui l'imputato - dichiarante erga alios - non versi in
situazione di incompatibilità a testimoniare (alla stregua, in particolare, dell'art. 197bis cod. proc. pen., introdotto anch'esso dalla legge n. 63 del 2001), trova diretta
applicazione la disciplina dettata dall'art. 500 cod. proc. pen. per l'esame
testimoniale: disciplina a fronte della quale le pregresse dichiarazioni difformi
dell'imputato sulla responsabilità altrui, lette per la contestazione, sono utilizzabili
dal giudice solo per valutare la credibilità del dichiarante e non costituiscono prova
dei fatti in esso affermati (comma 2), salvo ricorrano le speciali ipotesi previste dal
comma 4.
Ma la conclusione non può essere diversa neppure quando ricorra una situazione
di incompatibilità all'assunzione dell'ufficio di testimone.
Le regole sull'esame testimoniale, di cui al citato art. 500 cod. proc. pen.,
risultano attualmente richiamate, difatti - in luogo di quelle dell'art. 503 - anche
dall'art. 210 cod. proc. pen.: norma questa - parimenti oggetto di profonda revisione
da parte della legge attuativa dei principi del giusto processo - che fissa i modi con i
quali è possibile acquisire il contributo probatorio delle persone imputate in un
procedimento connesso o di un reato collegato, che siano incompatibili come
testimoni (quale, tra gli altri, l'imputato di concorso nel medesimo reato, nei cui
confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile: ipotesi ricorrente nel
giudizio a quo).
Dall'anzidetto rinvio si desume, dunque, che le dichiarazioni contra alios rese da
uno di detti imputati nelle fasi anteriori al giudizio, ancorché acquisite al fascicolo del
dibattimento a seguito di contestazione, hanno la stessa limitata valenza probatoria
delle precedenti dichiarazioni difformi utilizzate per le contestazioni nell'esame
testimoniale.
Questa Corte ha d'altro canto stabilito, fin dalla sentenza n. 361 del 1998, che le
disposizioni del citato art. 210 cod. proc. pen. - riferite testualmente alla sola ipotesi
nella quale nei confronti della persona da esaminare si proceda separatamente debbano applicarsi anche all'esame del coimputato nel medesimo procedimento su
fatti concernenti la responsabilità di altri, già oggetto di precedenti dichiarazioni rese
all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero. E
questo ad evitare una disparità di trattamento del tutto irrazionale, posto che «la
figura del dichiarante erga alios, sia esso imputato nel medesimo procedimento o in
separato procedimento connesso, è sostanzialmente identica, in quanto l'esame sul
fatto altrui viene condotto su un imputato che assume l'una piuttosto che l'altra veste
per ragioni meramente processuali e occasionali».

Sempre a proposito della prova dichiarativa, va segnalato un
provvedimento che, pur nel contesto di argomentazioni «ipotetiche» e
secondo uno sviluppo non agevolmente perscrutabile, contiene
riflessioni di rilievo sulle regole che determinano la veste processuale
del dichiarante nella sede dibattimentale. Si tratta della ordinanza n.
280 del 2009 (Amirante, Frigo).
Il rimettente si era in sostanza lamentato, censurando l’art. 210
c.p.p., del fatto che la normativa vigente gli imporrebbe di sentire come
testimoni (su richiesta della difesa) alcuni soggetti che avrebbero dovuto
quanto meno essere indagati per lo stesso reato ascritto agli imputati (si
tratta di agenti di polizia che avrebbero assistito, senza intervenire, al
pestaggio compiuto da altri agenti in danno di un arrestato).
Ragionando sui margini – ritenuti insussistenti – per una propria
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decisione di trasformare i testimoni in indagati per il medesimo
reato, il rimettente aveva ragionato sull’art. 63 c.p.p., argomentando
che la norma gli avrebbe fatto assumere una prova inutilizzabile, e però
non gli avrebbe consentito di modificare ab initio la veste dei dichiaranti,
dato che la giurisprudenza esclude l’applicabilità della sanzione
processuale per persone che non siano mai state iscritte, neppure dopo
le proprie dichiarazioni, nel registro degli indagati. Sul terreno – viene
detto chiaramente – è posta la questione di un possibile arbitrio del
pubblico ministero, che potrebbe garantire l’impunità in cambio di
prove dichiarative «testimoniali».
La Corte ha colto una intima contraddizione nel ragionamento del
rimettente,
conseguentemente
dichiarando
la
manifesta
inammissibilità della questione sollevata. Non si può dire
contemporaneamente – questo sembra l’addebito – che l’art. 63 c.p.p.
renderebbe le dichiarazioni da assumere comunque inutilizzabili, e che
però non legittimerebbe un provvedimento giudiziale che garantisca il
diritto di difesa del «falso» testimone disponendone l’assunzione ex
art. 210 c.p.p.. La Corte sembra dunque dire, pur nella forma ipotetica
che deriva dalla «mobilità» del presupposto (l’art. 63 vale anche in
assenza di iscrizione dell’interessato nel registro degli indagati), che il
giudice può stabilire per la prova dichiarativa un regime di
assunzione diverso da quello prospettato dalla parte richiedente.
Vediamo più da vicino il punto cruciale del provvedimento:
[…] come reiteratamente affermato dalla Corte di cassazione, difatti, l'art. 63, comma 2,
cod. proc. pen. attua una tutela anticipata delle incompatibilità con l'ufficio di testimone
previste dall'art. 197, comma 1, lettere a) e b), cod. proc. pen. nei confronti dell'imputato
in un procedimento connesso o di un reato collegato: incompatibilità che, a loro volta,
impongono che l'esame del soggetto avvenga nelle forme dell'art. 210;
[…] in questa prospettiva, ove si reputi - come mostra di fare il rimettente - che la
sanzione di inutilizzabilità prevista dall'art. 63, comma 2, cod. proc. pen. intervenga
anche quando il dichiarante non è mai stato iscritto nel registro delle notizie di reato, se
ne deve trarre un logico corollario: e, cioè, che il giudice, una volta delibata la
sussistenza a carico del soggetto di indizi di reità, non solo può, ma deve astenersi
dall'esaminarlo nella veste di testimone, giacché altrimenti darebbe adito proprio alla
«patologia» che la norma mira ad evitare (una precisa indicazione in tal senso si
rinviene nella sentenza della Corte di cassazione 24 aprile 2007-6 luglio 2007, n. 26258,
citata dallo stesso giudice a quo);
[…] se così è, peraltro - escluso che il contributo all'accertamento del fatto che il
soggetto può dare resti completamente "neutralizzato" - detto soggetto non potrebbe
essere sentito altrimenti che nelle forme dell'art. 210: dovrebbe valere, cioè, la medesima
soluzione applicabile nel caso in cui il teste, non già attinto in precedenza da indizi di
reità, renda, nel corso dell'esame dibattimentale, dichiarazioni "autoindizianti" (ipotesi
regolata dal comma 1 dell'art. 63, verificandosi la quale il dichiarante andrebbe assunto,
per l'appunto, nelle forme dell'art. 210);
[…] in conclusione, delle due l'una: o si ritiene che la sanzione di inutilizzabilità di cui
all'art. 63, comma 2, cod. proc. pen. colpisca anche le dichiarazioni rese al giudice del
dibattimento da chi non è mai stato formalmente imputato o indagato, ma allora bisogna
concludere che il giudice ha già il potere-dovere di sentire tale soggetto nelle forme
dell'art. 210, piuttosto che come testimone; oppure si nega al giudice tale potere-dovere,
ma allora bisogna ritenere - con la giurisprudenza dominante - che anche la sanzione di
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inutilizzabilità prevista dall'art. 63, comma 2, cod. proc. pen. non possa prescindere
dalla formale assunzione delle qualità in discorso: conclusione che farebbe peraltro
cadere uno dei presupposti fondanti delle censure di costituzionalità formulate dal
rimettente.

Ancora a proposito di prove, la sentenza n. 29 del 2009 (Flick,
Amirante) ha riconosciuto la compatibilità costituzionale della
disposizione (l’art. 238-bis c.p.p.) che consente la acquisizione di
sentenze irrevocabili a fini di prova dei fatti in esse accertati.
La disposizione, sopravvissuta alle riforme attuate per la realizzazione
del cd. giusto processo, in particolare mediante la legge n. 61 del 2001, è
stata attaccata dal Tribunale di Pinerolo per l’asserito suo contrasto con
i commi quarto e quinto dell’art. 111 Cost.: fuori dai casi di consenso
prestato dall’imputato, la prova deve formarsi nel contraddittorio tra
le parti, ed invece la norma censurata imporrebbe quale mezzo di prova
un provvedimento deliberato senza la partecipazione dell’interessato.
La questione, per la verità, era già stata dichiarata manifestamente
infondata sia dalla Cassazione che dalla stessa Corte costituzionale,
quest’ultima con l’ordinanza n. 159 del 1996. Non si poteva
sottovalutare, però, il fatto nuovo rappresentato appunto dalla riforma
dell’art. 111 Cost.
Ugualmente, e comunque, i Giudici delle leggi hanno ritenuto
infondata la nuova questione. La relativa sentenza valorizza in massimo
grado l’atteggiamento di estrema prudenza che la Cassazione ha
progressivamente assunto in punto di valutazione della sentenza
come fonte di prova, evidenziando la necessaria acquisizione di
elementi di riscontro (che avviene nel contraddittorio tra le parti) e la
possibilità che le parti conservano, comunque, di addurre prove
contrarie e di discutere l’attendibilità dell’accertamento.
Per altro verso – e sebbene in termini non tanto espliciti – la Corte ha
evidenziato che l’assunzione in contraddittorio non implica che
qualunque mezzo di rappresentazione di un fatto debba formarsi alla
presenza del giudice e delle parti, ché altrimenti non sarebbe possibile
neanche l’acquisizione di documenti. Ecco le parole specificamente
utilizzate:
Si può perciò desumere che la portata del principio del contraddittorio nella
formazione della prova va individuata in considerazione della specificità dei singoli
mezzi di prova. La sentenza irrevocabile non può essere considerata un documento in
senso proprio, poiché si caratterizza per il fatto di contenere un insieme di valutazioni
di un materiale probatorio acquisito in un diverso giudizio; tuttavia, neppure può
essere equiparata alla prova orale. Ne consegue che, in relazione alla specifica
natura della sentenza irrevocabile, il principio del contraddittorio trova il suo
naturale momento di esplicazione non nell'atto dell'acquisizione - nel quale, del resto,
non sarebbe ipotizzabile alcun contraddittorio, se non in ordine all'an
dell'acquisizione - ma in quello successivo della valutazione e utilizzazione. Una volta
che la sentenza è acquisita, le parti rimangono libere di indirizzare la critica che si
andrà a svolgere, in contraddittorio, in funzione delle rispettive esigenze. Nel corso
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del dibattito, ai fini della valutazione e utilizzazione in questione, non si potrà non
tenere conto del tipo di procedimento (ordinario, abbreviato, con accettazione della
pena) in cui la sentenza acquisita è stata pronunciata e, quindi, anche del
contraddittorio in esso svoltosi.
D'altra parte, la scelta del legislatore di consentire al giudice di apprezzare
liberamente l'apporto probatorio scaturente dagli esiti di altro processo conclusosi
con sentenza irrevocabile e di permettere correlativamente alle parti di utilizzare,
come elementi di prova, i risultati che da quella sentenza sono emersi - tutto ciò nel
quadro delle prospettive eventualmente contrapposte, da misurare, come si è detto,
nel contraddittorio dibattimentale - si salda logicamente alla scomparsa, nel nuovo
sistema processuale, della pregiudiziale penale: la quale, al contrario, proiettava in
termini di vincolatività il giudicato esterno nel processo "pregiudicato". Il tutto
sottolineando, per altro verso, come la libertà di valutazione del giudice che
acquisisce la sentenza irrevocabile, unita alla necessità di riscontri che ne confermino
il contenuto, rappresentino garanzia sufficiente del rispetto delle prerogative
dell'imputato, alla cui salvaguardia il parametro costituzionale invocato è stato posto.

Sempre a proposito di prove, non si può trascurare il fondamentale
capitolo delle intercettazioni telefoniche e, in genere, dei rapporti
tra indagine penale e riservatezza.
Possiamo partire da un aspetto, per altro, che solo per una certa
confusione concettuale – cui forse non restò estraneo neppure lo stesso
legislatore – può essere sovrapposto al tema dei limiti per i poteri di
indagine dell’Autorità e della polizia giudiziaria.
Tutti ricorderanno la vicenda, tuttora attualissima, dei cd. dossier
Telecom, cioè della presunta raccolta illegale di informazioni curata
anche da persone collegate alla citata azienda di telecomunicazioni. Si
ricorderà, in particolare, che dopo il sequestro dei presunti dossier il
Governo aveva modificato con decreto legge, poi convertito con
rilevantissime varianti, l’art. 240 c.p.p.
L’essenza della nuova disciplina, che secondo l’opinione corrente non
riguarda le intercettazioni condotte per conto dell’Autorità giudiziaria,
neppure quando illegittime ed inutilizzabili, consiste nella previsione di
un procedimento dai tempi assai ristretti, finalizzato alla distruzione
del materiale illecitamente raccolto. Si tratta di una scelta per molti
versi innovativa, perché la protezione della riservatezza di chi sia
rimasto vittima dell’attività di dossieraggio assume prevalenza assoluta,
e viene assicurata mediante la distruzione immediata e definitiva del
materiale raccolto. Con la conseguenza, però, di distruggere
irrevocabilmente la prova a carico dell’autore della illecita attività di
raccolta delle informazioni, e ciò oltretutto in un contesto poco garantito
per la struttura e la velocità del procedimento.
È noto che il gip di Milano (ma non solo), chiamato a fare
applicazione della disciplina proprio nel procedimento “Telecom”, ha
sollevato una complessa questione di legittimità costituzionale, in
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sostanza censurando l’art. 240, commi 3, 4, 5 e 6, del codice di
procedura penale, nel testo attualmente vigente per effetto del citato d.l.
n. 259 del 2006.
È sospettata di illegittimità, in particolare, la norma che dispone che i
supporti recanti dati illegalmente acquisiti a proposito di comunicazioni
telefoniche o telematiche, o informazioni illegalmente raccolte, vengano
distrutti in esito ad una udienza camerale celebrata dal giudice per le
indagini preliminari, e che in proposito venga redatto un verbale ove si
dia «atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione
illecita dei documenti (…) nonché della modalità e dei mezzi usati oltre
che dei soggetti interessati», e tuttavia venga omesso qualsiasi
«riferimento al contenuto degli stessi documenti, supporti ed atti». Una
tale disciplina violerebbe gli art. 24, secondo comma, e 111, commi
primo, secondo e quarto, della Costituzione: la procedura assume forma
camerale, con la partecipazione solo eventuale delle parti, pur
trattandosi in sostanza di predisporre una (per altro inefficace) prova
valevole per il dibattimento; inoltre, la distruzione dei supporti indicati,
e la concomitante assenza di riferimenti all’oggetto ed alla natura delle
informazioni illegalmente acquisite nel verbale destinato alla lettura
dibattimentale, pregiudicherebbero il diritto di difesa ed il diritto alla
prova del soggetto accusato dell’illecita raccolta, impedendo la verifica
del carattere riservato delle informazioni e, comunque, della loro
acquisizione mediante modalità illecite. Sarebbe ancora violato anche il
primo comma dell’art. 24 Cost., poiché la distruzione dei supporti, e la
concomitante assenza di riferimenti all’oggetto ed alla natura delle
informazioni illegalmente acquisite nel verbale destinato alla lettura
dibattimentale, pregiudicherebbero il diritto della persona offesa ad
agire in diritto per ottenere il risarcimento del danno subito. Violazione,
infine, dell’art. 112 Cost., in quanto la distruzione della prova del reato
connesso all’illecita acquisizione dei dati pregiudicherebbe l’efficace
esercizio dell’azione penale in relazione a tale reato.
La Corte ha deliberato, sulla questione appena riassunta, e su altre
due aventi analogo oggetto, con la sentenza n. 173 del 2009,
Amirante, Silvestri, che ha dichiarato la parziale illegittimità
costituzionale del riformato art. 240 c.p.p.
Vediamone anzitutto il complesso dispositivo.
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 240, commi 4 e 5, del codice di
procedura penale, nella parte in cui non prevede, per la disciplina del contraddittorio,
l'applicazione dell'art. 401, commi 1 e 2, dello stesso codice;
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 240, comma 6, cod. proc. pen., nella
parte in cui non esclude dal divieto di fare riferimento al contenuto dei documenti,
supporti e atti, nella redazione del verbale previsto dalla stessa norma, le circostanze
inerenti l'attività di formazione, acquisizione e raccolta degli stessi documenti, supporti
e atti.
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Il seguente materiale redatto dal Dott. Guglielmo LEO proviene da un incontro organizzato in
data 11 gennaio 2010 dalla Formazione Decentrata di Milano .
Non si può che rinviare alla lettura del provvedimento chi voglia
coglierne i molteplici aspetti, anche in chiave di bilanciamento tra valori
costituzionali. Per semplificare, in questa sede, si può dire che la Corte
ha valutato favorevolmente il punto di vista del rimettente milanese.
Il legislatore si è messo in una doppia logica di «anticipazione» e di
«sostituzione» della prova rappresentata dal supporto illegalmente
formato, con due scopi dichiarati, alla luce di un intento
costituzionalmente apprezzabile (quello di tutela della riservatezza della
vittima del dossieraggio): a) limitare il «trattamento» della fonte a fini di
prova del reato commesso fabbricandola, senza tolleranza verso un uso
dimostrativo riguardo a circostanze concernenti la vita privata della
vittima (in sostanza: prova dell’illecita captazione di un colloquio, ma
non del contenuto di quel colloquio, e men che meno dei fatti evocati nel
colloquio medesimo); b) anticipare questa attività «estrattiva», in modo
da eliminare al più presto, e nel modo più radicale, la prova delle
circostanze che non vanno pubblicate, lasciando in vita una
rappresentazione sostitutiva dell’attività di raccolta delle informazioni.
Questa logica è praticabile, nella prospettiva del diritto di difesa e del
principio di obbligatorietà dell’azione, solo se il procedimento di
assunzione della prova sostitutiva è sufficientemente garantito, e solo
se la prova sostitutiva risulta effettivamente tale: neutra, certamente,
sul contenuto del colloquio captato e sul relativo oggetto, ma piena ed
affidabile riguardo al reato di illecita captazione.
Il legislatore, anche quello della legge di conversione, ha fatto
tutt’altro, come si è visto anche sopra. Dal primo punto di vista, ha
costruito il procedimento sul modello dell’udienza camerale, che non
emula neppure lontanamente quelle garanzie del contraddittorio che
devono segnare l’assunzione di una prova con valenza dibattimentale:
può mancare perfino il pubblico ministero, non rileva il legittimo
impedimento del difensore, ecc.. Manca in questa sede lo spazio, ma
potrebbero aggiungersi le difficoltà derivanti dall’eccessiva speditezza
del rito, dalle incertezze sul regime di impugnazione del provvedimento
che lo conclude, ecc.
Dal secondo punto di vista, le cose sono andate anche peggio. Il
verbale sostitutivo doveva essere dettato «senza alcun riferimento al
contenuto degli stessi documenti, supporti, ed atti». La ratio della
previsione è evidente, ma anche più evidente è la sua irrazionalità.
Consideriamo un caso ipotetico, ispirato a quello sottoposto ad uno dei
tre rimettenti: quello cioè del supporto digitale che asseritamente
riproduca la registrazione effettuata occultamente dal marito di una
signora, nell’abitacolo della vettura in uso alla donna, mentre
quest’ultima si intratteneva con un presunto amante. È evidente che un
verbale che descrivesse il supporto sarebbe privo della minima utilità.
Per verificare la ricorrenza del reato di illecite interferenze (615-bis) si
dovrà stabilire, eventualmente con perizie foniche, a chi appartengano
le voci registrate, quale sia il luogo della conversazione (o della diversa
condotta) documentata, se per caso non fosse presente anche l’autore
della registrazione (il che, notoriamente, esclude in radice l’illiceità del
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fatto), ecc.. Insomma: è concepibile che il verbale sostitutivo non indichi
almeno l’identità delle persone presenti ed il luogo in cui si trovavano
(salvo il problema, per la verità enorme, delle modalità di accertamento
da parte del giudice della procedura di istruzione)?; ed allora, pur
magari omettendo di indicare il tenore della conversazione o della
diversa attività documentata (che per altro, in astratto, potrebbero
talvolta essere indispensabili), non si sarà fatto comunque riferimento al
«contenuto» (in breve: non si sarà detto al mondo che la moglie
dell’imputato vedeva il suo presunto amante?).
Dai rilievi che precedono, e da molti altri, il rimettente milanese aveva
desunto che l’intera normativa dovesse essere eliminata.
È su questo piano che la Corte ha disatteso la sua domanda. Non è
illegittima in sé la scelta di creare un dispositivo di protezione della
riservatezza della vittima del dossieraggio. Illegittime sono le
disposizioni che pregiudicano il pieno dispiegarsi del diritto di difesa, di
azione, e del diritto alla prova.
Ed allora, se anticipazione della prova deve essere, questo avvenga
applicando le disposizioni tipiche di questa situazione, cioè le norme
sull’incidente probatorio, che sono appunto strutturate al fine di
garantire i diritti tipici della fase dibattimentale in un contesto che isola
ed anticipa il procedimento di assunzione della prova.
Nel contempo, se prova sostitutiva deve essere, allora così sia, e
quindi si rimuova la preclusione dei riferimenti, nel verbale sostitutivo,
ai «contenuti» del materiale sequestrato, quando gli stessi siano
«inerenti l'attività di formazione, acquisizione e raccolta degli stessi
documenti, supporti e atti».
Un’ultima notazione. La dichiarazione di inammissibilità della
questione sollevata dal giudice di Vibo Valentia esprime l’adesione della
Corte ad una soluzione interpretativa che esclude l’applicabilità della
procedura al documento che riproduca conversazioni tra presenti.
È una inspiegabile e grave carenza del tessuto protettivo eretto intorno
alla vittima del dossieraggio, rilevata (ma non emendata) già nel corso
dei lavori parlamentari.

Proseguiamo sul tema (in verità ancora evocato a sproposito) della
intercettazione di conversazioni, e segnatamente delle cd.
intercettazioni «ambientali» (cioè concernenti colloqui svolti tra persone
che comunicano senza l’ausilio di strumenti di teletrasmissione del
suono). Con una recentissima decisione – la sentenza n. 320 del 2009
(Amirante, Frigo) – la Consulta ha introdotto elementi potenzialmente
dirompenti nel dibattito sul cd. agente segreto attrezzato per il
suono: per la ipotesi, cioè, del soggetto che registri clandestinamente un
colloquio cui partecipa, avvalendosi di apparecchi posti a disposizione
dalla polizia giudiziaria, e dunque agendo, per restare ad un linguaggio
di risalente matrice dottrinale, quale longa manus degli inquirenti.
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Il dibattito sulla disciplina di queste fattispecie non si era mai del
tutto esaurito, ed ha ragione la Corte quando dice che non sono state
ancora indagate a sufficienza le implicazioni di due importantissimi
snodi nella produzione giurisprudenziale sul diritto alla riservatezza: la
sentenza delle Sezioni unite 28 maggio 2003, n. 36747, in
procedimento Torcasio, e la sentenza delle stesse Sezioni unite 28
marzo 2006, n. 26795, in procedimento Prisco.
Conviene «ripassare» brevemente i dicta di quelle storiche decisioni,
per cogliere appieno gli spunti offerti con la sentenza qui in esame.
Quanto alla Torcasio, due affermazioni fondamentali. La prima è che
ciascuno può registrare i colloqui di cui è partecipe senza
autorizzazione, producendo «documenti» spendibili nel processo a
norma dell’art. 234 c.p.p. La seconda è che la polizia giudiziaria non
può produrre prove in violazione dei divieti stabiliti dalla legge,
documentandole con registrazioni attinenti a propri «colloqui di
indagine», e poi introdurle nel processo attraverso il «varco» dell’art. 234
c.p.p.. Se un colloquio consiste di fatto nell’interrogatorio di un
soggetto, in violazione delle garanzie stabilite dall’art. 63 c.p.p., la
circostanza che sia stato «lecitamente» registrato non implica la
possibilità di produrre il relativo supporto, in violazione dell’art. 191
c.p.p. Ciò, tra l’altro, con elusione dei divieti di documentare aliunde le
stesse attività di indagine, come accade per il divieto di testimonianza
degli agenti di polizia sul contenuto delle dichiarazioni assunte nel
corso delle indagini.
La sentenza di questione non aveva approfondito – sostanzialmente
perché non ne aveva bisogno – un aspetto pure rilevantissimo, e cioè la
natura effettiva dei mezzi di documentazione di una attività di
indagine, che mai possono essere un «documento» a norma dell’art.
240 c.p.p.. Se la polizia giudiziaria svolge indagini, deve documentarle
mediante atti processuali, che sono soggetti alle sanzioni processuali
per il loro contenuto e/o per la forma che assumono.
Questo aspetto è emerso chiaramente con la sentenza Prisco, che
trattava il tema delle videoregistrazioni di situazioni riconducibili alla
sfera di riservatezza della persona, sebbene non collocabili in un
ambito domiciliare privato.
La Cassazione ha ribadito la possibilità per ciascuno di registrare
clandestinamente i propri colloqui, senza autorizzazione, producendo
«documenti» spendibili nel processo ex art. 234 c.p.p. Ciò tuttavia a
condizione che non si tratti di documentazione di atti
«processuali», cioè della registrazione effettuata per finalità di indagine
dalla polizia giudiziaria. In questo caso tutto dipenderà dal carattere
legittimo o non legittimo dell’indagine: quella consistente nella ripresa di
atti non comunicativi in ambito domiciliare privato è vietata ex art. 14
Cost. in assenza di una legge che la autorizzi, in nulla rilevando un
eventuale (illecito) provvedimento autorizzatorio; quella effettuata in
luogo pubblico è lecita, e non richiede provvedimento autorizzativo;
quella effettuata in ambito non domiciliare, ma caratterizzato da
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aspettative di riservatezza della persona, richiede una «autorizzazione
giudiziale» (non espressamente regolata dal codice), sul modello segnato
dall’art 14 della Costituzione ed al fine di assicurare «un livello minimo
delle garanzie».
È possibile una riflessione (estremamente sbrigativa) in via
preliminare. Tanto per l’agente segreto attrezzato per il suono, quanto
per le videoriprese, il disagio della giurisprudenza si è espresso sovente
nella richiesta, rivolta alla Consulta, di «estendere la disciplina delle
intercettazioni», in guisa da regolare la violazione delle riservatezza
alla luce delle garanzie stabilite appunto per le intercettazioni. In realtà,
soprattutto alla luce della sentenza Torcasio, l’eventuale esistenza di
un provvedimento autorizzativo per la registrazione non varrebbe a
legittimare forme illecite di indagine e di documentazione delle
attività di polizia giudiziaria. Per brevità: sembra chiaro che la p.g. non
potrebbe interrogare un indiziato per telefono, dopo aver ottenuto
l’autorizzazione ad intercettare le relative comunicazioni, in violazione
dell’art. 63 c.p.p., e poi introdurre l’atto nel processo quale
intercettazione «legittima» ex artt. 266 segg. c.p.p.
Occorre allora distinguere con lucidità ciò che riguarda la natura
dell’attività che deve essere documentata e ciò che riguarda la relativa
modalità di documentazione, che può trovare ostacoli a prescindere
dall’eventuale ammissibilità d’un atto di indagine.
Anche questa necessità è suggerita dal provvedimento della Consulta,
che è il caso ormai di commentare direttamente.
Il rimettente, come in tanti altri casi, chiedeva in sostanza alla Corte
di stabilire l’applicabilità delle norme in materia di intercettazione
all’attività di registrazione di un colloquio da parte di uno dei partecipi,
sul presupposto che il diritto vivente considera invece i supporti delle
registrazioni alla stregua di documenti ex art. 234 c.p.p.
La Corte ha voluto ricordare che la giurisprudenza non è del tutto
univoca per i casi in cui il partecipe del colloquio sia un agente di
polizia, o comunque un soggetto attrezzato dalla polizia giudiziaria.
Talvolta si è richiesta l’autorizzazione almeno per i casi di trasmissione
contestuale a distanza dei suoni captati. Per altro verso, si è sostenuto
che l’autorizzazione sarebbe comunque richiesta quando un qualunque
partecipe della conversazione ignora la registrazione in atto, ciò che
dovrebbe desumersi dalla lett. f) dell’art. 266 c.p.p., ove è regolato il
caso dell’intercettazione effettuata sulla linea della vittima di molestie
telefoniche.
Si tratta – potrebbe dirsi – di «conati», cioè di tentativi ancora
disorganici di ricostruire una disciplina delle attività di polizia
documentate clandestinamente attraverso riprese audio e video.
Mi pare che in tal senso si sia orientata implicitamente anche la
Corte, nel momento in cui ha rimproverato al rimettente una
perdurante concezione dei supporti prodotti dalla polizia, o col concorso
della polizia, alla stregua di «documenti» ex art. 234 c.p.p. Concezione
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per altro contraddittoria, perché – al fine di argomentare la necessità di
estendere l’oggetto della disciplina delle intercettazioni – lo stesso
rimettente ha sostenuto «esplicitamente che, alla luce della «chiara
distinzione» tracciata nel 2006 dal giudice di legittimità, la registrazione
fonografica eseguita da uno degli interlocutori d’intesa con la polizia
giudiziaria e con strumenti da essa forniti non costituisce più un
«documento», ma la documentazione di un’attività di indagine».
Allora - dice la Corte - se non sono documenti, perché questi
materiali dovrebbero essere trattati come documenti, pur in assenza di
un intervento manipolatorio della Corte medesima?
Perché, soprattutto, il giudice a quo non ha precisato «per quale
ragione, se ritiene che l’attività investigativa in questione contrasti con
diritti fondamentali, non reputi praticabile una soluzione analoga, mutatis
mutandis, a quella adottata dalle sezioni unite nella sentenza del 2006,
da lui stesso invocata a fondamento delle proprie censure»?.
A questo punto sarà chiaro perché la Corte ha dichiarato
inammissibile la questione: «la questione di legittimità costituzionale,
sollevata dal giudice a quo con riferimento ad una interpretazione della
norma censurata da lui non condivisa, mira nella sostanza ad ottenere
dalla Corte un avallo ad una diversa interpretazione, così evidenziando
un uso improprio dell’incidente di costituzionalità». Insomma, saremmo di
fronte al cd. quesito interpretativo.
Ma in questa sede ci interessano di più le implicazioni
«processualpenalistiche» della sentenza. Come sempre, le indicazioni
fondate su «addebiti» per omissione nei confronti del rimettente sono
indirette. Nel caso di specie sono anche prive del nitore che si è
registrato in altre circostanze. È difficile stabilire se la Corte consideri
concepibile la tesi che ogni registrazione clandestina di un colloquio
debba essere autorizzata con un provvedimento del giudice, anche
quando non costituisce intercettazione. A me sembrerebbe tesi ardita.
Forse la Corte intendeva suggerire lo studio della possibilità che le sole
registrazioni della polizia giudiziaria (o ad essa riconducibili)
debbano essere sempre autorizzate dal giudice. Tesi che introduce nel
codice una regola fondamentale della quale non v’è traccia positiva, ma
certamente più plausibile, anche se crea zone d’ombra (e se la polizia si
limitasse a suggerire la registrazione?).
In effetti, nel caso di specie come in molti altri, non opera il «limite»
individuato della Torcasio quanto alla natura dell’atto, che sarà anche
un atto di indagine, ma non vietato in quanto tale. Si può anzi dubitare
perfino del primo assunto, quando – come nella specie – non vi è alcuna
interazione, neppure indiretta, tra la polizia ed i partecipanti al
colloquio, che si svolge esattamente come si svolgerebbe se la polizia
non ne fosse informata (nel caso concreto era stata registrata
l’intimidazione portata da estorsori nel negozio della vittima).
L’attenzione di sposta allora sulla concepibilità di un diritto alla
riservatezza – che per altro si assume opponibile alla sola polizia
giudiziaria – delle attività che consistono direttamente di un reato,
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come nel caso di colloqui estorsivi. Va ricordato che la giurisprudenza
considera comunque utilizzabili gli esiti di intercettazioni quando
riguardano affermazioni per se stesse delittuosi. Ma l’analisi, qui,
trascenderebbe la funzione di queste note.

Passando al tema delle limitazioni cautelari del diritto alla libertà
personale, va ricordata una decisione in materia di obbligatorietà
dell’arresto per quanto concerne lo straniero indebitamente
trattenutosi nel territorio dello stato (reato di cui all’art. 14, comma 5ter, del T.U. in materia di immigrazione). Si tratta della sentenza n. 236
del 2008 (Bile, Silvestri), che ha dichiarato infondata la questione di
legittimità della norma che prescrive obbligatoriamente, invece che
quale mera facoltà della polizia giudiziaria, l’arresto dello straniero
responsabile dell’indebito trattenimento.
La Corte ha rilevato, richiamando i principi della legge delega, che
l’obbligatorietà dell’arresto può essere disposta in base a due criteri
essenziali. Il primo ha natura quantitativa e si basa sulla gravità del
reato, quale risulta dalle pene edittali, minima e massima, previste. Il
secondo ha natura qualitativa e si basa su «speciali esigenze di tutela
della collettività».
Al primo criterio si informa l'art. 380, comma 1, del codice di
procedura penale, che prevede l'arresto obbligatorio in flagranza per
reati puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e
nel massimo a venti anni. Al secondo criterio si informa il comma 2
dello stesso articolo, che contempla, accanto ai reati consumati, anche
quelli tentati, per i quali, ai sensi dell'art. 56 del codice penale, la pena è
diminuita da un terzo a due terzi.
Nel secondo dei casi considerati, i valori di pena possono essere
anche relativamente bassi, e non sono quindi gli stessi a giustificare la
misura, «ma le particolari esigenze di tutela della collettività, che vengono
apprezzate dal legislatore in rapporto ad una serie molteplice di elementi,
storicamente mutevoli e frutto di scelte di politica criminale non
censurabili in sede di controllo di legittimità costituzionale delle leggi, a
meno che non si tratti di opzioni manifestamente irragionevoli».
La manifesta irragionevolezza può essere rilevata o a seguito di
confronto con tertia comparationis omogenei o in esito alla constatazione
di una contraddizione intrinseca della norma censurata.
Nel caso che ci interessa manca una siffatta contraddizione (nel 2004
l’arresto fu dichiarato illegittimo perché non era poi consentita
l’applicazione di una misura cautelare, ma, com’è noto, i valori edittali
di pena per l’indebito trattenimento sono poi stati elevati proprio per
consentire la restrizione cautelare).
D’altra parte le pene previste per l’indebito trattenimento, come
appena si è detto, sono del tutto assimilabili ad alcune altre fattispecie
regolate dall’art. 380 comma 2 c.p.p. (ad esempio furto con strappo).
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La Corte ha ribadito «l'insufficienza delle censure di legittimità
costituzionale basate su “una comparazione tra norme concernenti misure
cautelari, condotta sul solo piano dell'offensività piuttosto che su quello,
più ampio, delle complessive esigenze che possono essere assicurate
attraverso le misure in questione» (sentenza n. 22 del 2007)”».
Piaccia o meno, dice in sostanza la Corte, ai reati connessi
all’immigrazione viene collegato un allarme rilevante, per una scelta
politica che non può essere sindacata fuori del caso di manifesta
irrazionalità.
La decisione appena riassunta è stata confermata in un successivo
provvedimento, relativo a questioni sollevate da ulteriori rimettenti. Si
tratta della ordinanza n. 67 del 2009 (Amirante, Silvestri). Ulteriori
questioni dello stesso segno devono ancora essere definite.

Ancora sul terreno delle misure cautelari, va segnalato un importante
e per altro non sorprendente intervento della Corte sul tema della
durata massima della custodia cautelare. Il problema riguardava, in
particolare, il rilievo del periodo di detenzione patito all’estero
nell’ambito della procedura cd del mandato di arresto europeo. La
Consulta è intervenuta sull’argomento, con pronuncia di illegittimità
costituzionale, mediante la sentenza n. 143 del 2008, Bile, Flick.
L’art. 33 della legge introduttiva dell’istituto (n. 69 del 2005)
prevedeva che il periodo di custodia cautelare sofferto all’estero, in
esecuzione del mandato di arresto europeo, fosse computato (solo) ai
sensi e per gli effetti dell’art. 303, comma 4, vale a dire ai soli fini del
computo della durata complessiva della custodia cautelare, e non anche
agli effetti della durata dei c.d. “termini di fase” della custodia stessa.
Ciò in quanto, come appena si è visto, la norma non richiama anche i
commi 1, 2 e 3 del citato art. 303 cod. proc. pen.
Conviene dire subito che questa regola era la stessa che
caratterizzava la disciplina dell’estradizione attiva, in quanto l’art. 722
c.p.p. espressamente limitava il computo della custodia all’estero «ai soli
effetti della durata complessiva stabilita dall’art. 303, comma 4».
Sennonché la Corte costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2004,
aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 722 c.p.p.,
proprio nella parte in cui non prevedeva che la custodia cautelare
subita all’estero in conseguenza di una domanda di estradizione
presentata dallo Stato venisse computata anche agli effetti della durata
dei termini di fase previsti dall’art. 303, ai commi 1, 2 e 3.
Insomma, con la norma censurata, pur approvata (poco) dopo la
sentenza, il legislatore aveva emulato la norma concernente la
procedura “parallela” dell’estradizione, senza tener conto che
quest’ultima contrastava con la Costituzione. Violando, per altro, la
Costituzione sotto un nuovo e diverso profilo, non essendo ragionevole il
peggior trattamento riservato a chi venga «catturato» in base alla nuova
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procedura rispetto a colui che viene perseguito attraverso la tradizionale
procedura estradizionale.
In effetti la Corte, con la sentenza citata, aveva già affermato il
principio della equivalenza tra detenzione cautelare all’estero in attesa
di estradizione e custodia cautelare in Italia. Alla luce di detta
equivalenza − si disse allora − «evidenti motivi di razionalità e coerenza
interna di sistema impongono di applicare alla custodia cautelare
all’estero la medesima disciplina prevista per la durata dei termini di
custodia cautelare in Italia»: dunque, di applicare, all’ipotesi di custodia
cautelare all’estero in attesa di estradizione, l’intero complesso
normativo relativo ai termini di custodia cautelare, ivi compresa la
disciplina dei c.d. “termini di fase”, previsti dall’art. 303, commi 1, 2, e 3
c.p.p., costituente asse portante del relativo reticolo di garanzie.
È ovvio che gli stessi principi dovessero investire la disciplina del
mae, ed anzi che la soluzione si imponesse a maggior ragione, dato che
la procedura, a differenza dell’estradizione, non mette in gioco alcun
rapporto intergovernativo, ma si fonda su rapporti diretti tra le varie
autorità giurisdizionali dei Paesi membri, con l'introduzione di un nuovo
sistema semplificato di consegna delle persone condannate o sospettate.
Ciò rende ancor più intollerabile un aggravio o un allungamento dei
tempi di consegna e disarmonica la conseguente obliterazione delle
garanzie in tema di carcerazione preventiva.
Dunque la Corte ha dichiarato « l'illegittimità costituzionale
dell'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (….) nella parte in cui non
prevede che la custodia cautelare all'estero, in esecuzione del mandato
d'arresto europeo, sia computata anche agli effetti della durata dei
termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, del codice di
procedura penale».
Per ulteriori questioni con il medesimo oggetto, sollevate
naturalmente prima della decisione appena citata, la Corte ha
dichiarato la manifesta inammissibilità, sul presupposto, già sopra
posto in luce, che la sopravvenuta dichiarazione di illegittimità della
norma censurata priva la questione, appunto, del suo oggetto
(ordinanza n. 60 del 2009 (Amirante, Saulle).

Ancora a proposito di libertà personale, un recente provvedimento –
ordinanza n. 287 del 2009 (Amirante, Criscuolo) – ha riguardato un
tema effettivamente problematico, cioè quello della durata della
restrizione cautelare di libertà in cui si sostanzia l’applicazione
provvisoria della misura di sicurezza del ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario.
Tuttavia la Corte si è fermata sulla soglia della manifesta
inammissibilità, posto che il rimettente, censurando gli artt. 206, 208 e
222 del codice penale, aveva confezionato una questione indeterminata
nell’oggetto, genericamente volta ad ottenere l’introduzione di limiti
massimi predeterminati della misura. Una scelta che la Corte ha
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ritenuto in contrasto con la natura del vincolo, e che comunque,
secondo il mio avviso, richiede articolazioni e scelte tecniche compatibili
solo con l’esercizio della discrezionalità legislativa.
La Corte ha comunque ricordato che il ricoverato non è privo di
garanzie in punto di durata della restrizione, alla luce del necessario
riesame semestrale della pericolosità sociale ai sensi dell'art. 72 cod.
proc. pen., richiamato espressamente dal disposto dell'art. 313, comma
2, cod. proc. pen.; che anche nella materia in esame non è ammesso
alcun automatismo, il che per inciso implica la «liberazione» del
ricoverato anche quando non sia trascorso il periodo minimo di
permanenza imposto dalla legge con riguardo al reato contestato; che
comunque per le misure di sicurezza è tollerabile, dal punto di vista
costituzionale, la mancanza di un termine massimo predeterminato,
come previsto per la custodia cautelare («questa Corte ha già chiarito
che i due istituti hanno natura e finalità diverse (ordinanza n. 148 del
1987), onde non è configurabile violazione dell'art. 3 e dell'art. 13,
quinto comma, Cost.».

Ci spostiamo, con un andamento per forza di cose non rettilineo,
verso il terreno della garanzia del diritto di difesa e del diritto al
contraddittorio, che la Corte di recente ha praticato con riguardo a
singoli aspetti del procedimento.
Possiamo iniziare dal tema dell’accesso difensivo agli atti, al fine di
segnalare una decisione la quale, pur scaturita da una questione
apparentemente «originale», ha finito col proporre alcune riflessioni non
banali sui criteri di formazione del fascicolo processuale, e
soprattutto sulle sanzioni processuali che possono scaturire dalla
violazione di quei criteri. Si tratta della sentenza n. 142 del 2009,
Amirante, Silvestri.
Il rimettente, un giudice chiamato a celebrare udienza preliminare,
si è lamentato che la legge (in particolare gli artt. 416 c.p.p., 130 disp.
att. e 3 reg. esec. c.p.p.) non preveda alcuna sanzione processuale per i
casi in cui il pubblico ministero, con la richiesta di rinvio a giudizio,
trasmetta un fascicolo disordinato, con indici sommari, con pagine
non numerate, con copertina che non reca indicazione della data di
presunta prescrizione del reato, ecc. Si sarebbero violati l’art. 24 della
Costituzione, ed anche il terzo comma dell’art. 111, poiché
comportamenti come quello indicato sottraggono alla parte il tempo
necessario a predisporre la propria difesa.
Ora, invece che rilevare una certa mancanza di “tono” della questione
posta dal rimettente, la Corte l’ha preso sul serio, e – pur spiegandogli
che la sanzione di nullità non è la conseguenza necessaria della
violazione di ogni norma processuale (dovendosi anzi bilanciare la tutela
dell’interesse presidiato con quella dei valori connessi alla progressione
del giudizio) – ha affermato una serie di principi che converrà tenere ben
presenti, e che vorrei elencare schematicamente:
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Il seguente materiale redatto dal Dott. Guglielmo LEO proviene da un incontro organizzato in
data 11 gennaio 2010 dalla Formazione Decentrata di Milano .
1. Il giudice che riceva un fascicolo non conforme alle regole
richiamate può sollecitare il pubblico ministero ad effettuare la
corretta sistemazione del stesso, in base all'art. 124 cod. proc. pen., che
fa obbligo ai magistrati, ai cancellieri e agli altri ausiliari di osservare le
norme processuali, la cui violazione, in aggiunta alle specifiche
conseguenze processuali, è causa di responsabilità disciplinare.
2. Nel caso che la questione sia posta ad udienza già iniziata, il
giudice può e deve disporre un rinvio per compensare lo spreco di
tempo imposto ai difensori.
3. È il passaggio più significativo. Se la cattiva organizzazione del
fascicolo è inemendabile o inemendata, al punto da incidere in modo
eccezionale sul regolare svolgimento del giudizio, «si deve ritenere che
l'irregolarità del fascicolo depositato equivalga ad omesso deposito,
con la conseguenza della inutilizzabilità degli atti e dei documenti non
trasmessi, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, o
addirittura della nullità ex art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc.
pen., ove si ritenesse, secondo altro orientamento interpretativo, che
«l'attività difensiva è in concreto compromessa dalla mancata
conoscenza degli elementi di indagine» (Cass. pen., sentenza n. 14588
del 1999)».
Restiamo per un momento sul terreno della udienza preliminare per
segnalare incidentalmente un provvedimento concernente gli effetti della
dichiarazione di nullità del decreto che dispone il giudizio.
Si tratta della ordinanza n. 331 del 2009 (De Siervo, Frigo),
dichiarativa della manifesta infondatezza di una singolare questione di
legittimità costituzionale, sollevata in sostanza al fine di lamentarsi
della necessità di ripetere l’intera udienza preliminare in caso di
annullamento del provvedimento di rinvio a giudizio in forza solo di un
errore nella indicazione del luogo di celebrazione dell’udienza
dibattimentale.
Il rimettente era partito appunto dall’assunto, piuttosto stravagante,
che l’annullamento del decreto comporti sempre e comunque la
necessità di celebrare ex novo l’udienza. Ovviamente la Corte gli ha
ricordato che il procedimento regredisce solo fino al punto in cui si è
determinata la nullità e che dunque, in caso di vizi formali del decreto
di rinvio a giudizio, il giudice dell’udienza preliminare non deve affatto
(e, aggiungo, non può) ricominciare dall’inizio. Il giudice, addirittura,
non potrebbe neanche rivedere la decisione conclusiva: egli deve
semplicemente deliberare un nuovo decreto che dispone il giudizio,
ovviamente correggendo il vizio determinatosi quanto al primo ed
analogo provvedimento.

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A proposito degli imputati minorenni, e sia pure nella forma
«indiretta» della indicazione di una soluzione adeguatrice che il giudice
rimettente avrebbe dovuto sperimentare prima di sollevare la questione
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proposta, la Corte ha operato un’importante puntualizzazione in
merito al procedimento che culmina con la sentenza dichiarativa del
difetto di imputabilità, in ragione dell’età inferiore ai 14 anni. È
evidente come da questa sentenza possano scaturire effetti negativi per
il minore, specie quando – come è ben possibile – gli viene applicata un
misura di sicurezza. Dunque il diritto di difesa non può
completamente soccombere di fronte all’esigenza, pure meritevole, che il
giudizio sia chiuso nella maniera più rapida e meno coinvolgente per il
minire.
Ecco alcuni passaggi della motivazione della sentenza n. 117 del
2009:
il minore infraquattordicenne ha interesse - morale e giuridico - a non vedersi
prosciolto da un reato inesistente o che non ha commesso solo in ragione della sua
giovanissima età […] in questa prospettiva, si è, in particolare, sostenuto da una
parte degli interpreti che, ai fini della pronuncia della sentenza di cui all'art. 26 del
d.P.R. n. 448 del 1988 nella fase delle indagini preliminari, occorra il consenso del
minore (almeno in presenza di una richiesta di applicazione provvisoria di misura di
sicurezza): e ciò analogamente a quanto stabilito con riguardo alla possibile
definizione del processo all'udienza preliminare dall'art. 32, comma 1, del medesimo
decreto, nel nuovo testo introdotto dall'art. 22 della legge 1° marzo 2001, n. 63, con
l'obbiettivo di adeguamento al principio e alle regole in tema di contraddittorio nella
formazione della prova espressi dall'art. 111, quarto e quinto comma, Cost.;
dovendosi notare - quanto alla disposizione del citato art. 32, comma 1 - che, pur a
seguito della declaratoria di parziale incostituzionalità recata dalla sentenza n. 195
del 2002 di questa Corte, l'esigenza del previo consenso del minore resta applicabile
in funzione della pronuncia delle sentenze di non luogo a procedere che
presuppongano un accertamento di responsabilità […] la più recente giurisprudenza
di legittimità ha, in effetti, specificamente affermato che la finalità perseguita dal
legislatore con la previsione dell'art. 26 del d.P.R. n. 448 del 1988 - quella, cioè, di
assicurare la rapida uscita del minore infraquattordicenne dal procedimento, in modo
da sottrarlo all'effetto stigmatizzante e traumatizzante che esso comporta - non può
travalicare l'interesse difensivo del minore stesso e, dunque, non esclude, ma implica
la necessità di adottare «un'interpretazione adeguatrice ai principi del giusto
processo, al fine di evitare che sia emessa una pronuncia virtualmente pregiudizievole
in quanto non pienamente liberatoria» (Cassazione, 22 maggio 2008, n. 23612).
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Restiamo ancora sul terreno della garanzia del diritto di difesa con
la ordinanza n. 281 del 2009 (Amirante, Criscuolo), dichiarativa della
manifesta inammissibilità di una questione sollevata a proposito all’art.
108 c.p.p., dall’ennesimo giudice esasperato per l’uso distorto della
facoltà di revoca o rinuncia al mandato difensivo, strumentale alla
richiesta, per finalità dilatorie, del termine a difesa garantito al nuovo
difensore (uso nella specie accompagnato anche da ripetute ricusazioni).
La soluzione «proposta» dal rimettente, per quanto la Corte abbia
voluto rimproverargli anche l’indeterminatezza del petitum, era chiara:
consentire al giudice il rigetto della richiesta di termine quando abbia
motivo di ritenere che la stessa non sia giustificata da effettive necessità
della difesa, ma da un mero intento dilatorio.
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È la vecchia questione dell’abuso delle garanzie. Se una porzione del
fenomeno è governabile attraverso scelte interpretative guidate dal
principio della ragionevole durata del processo, è chiaro che sul piano
generale la materia richiederebbe un ponderato intervento del
legislatore, per sua stessa natura caratterizzato da un elevato livello di
discrezionalità. Anche nel caso di specie, tra l’altro, sarebbero
necessarie scelte tecniche di dettaglio, ad esempio sugli strumenti di
sindacato della decisione di rigetto del giudice, in una materia con ogni
evidenza delicatissima (anche perché spinta al limite estremo della
valutazione giudiziale delle strategie difensive sotto il profilo della
«intenzione»).
Anche per questa ragione (e per quella ulteriore della insindacabilità
delle norme per gli effetti prodotti in ragione di situazioni patologiche),
la questione, come anticipato, non ha superato la soglia della
ammissibilità.
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Sempre a proposito del diritto di difesa, questa volta con riguardo
agli imputati stranieri, vanno segnalate nuove pronunce di
inammissibilità che la Corte ha deliberato riguardo ad un fenomeno che
per brevità, nelle relative discussioni, viene talvolta definito
«automatismo espulsivo». Si tratta in particolare della ordinanza n.
417 del 2008, Flick, Silvestri, e della ordinanza n. 111 del 2009,
Amirante, Silvestri.
La questione, che è complessa e richiederebbe una trattazione
dedicata, è stata proposta spesso, sempre con esito di inammissibilità:
sembra che i magistrati rimettenti fatichino ad individuarne le
condizioni di rilevanza, e comunque, forse anche per questo, stentino ad
elaborare in proposito una esposizione completa e convincente.
Il problema è noto. L’art. 13 del T.u. imm. regola l’espulsione dello
straniero che non abbia titolo a restare nel territorio dello Stato, e cerca
di realizzare un coordinamento tra le relative previsioni e le esigenze
connesse alla pendenza di un procedimento penale nei confronti
dello straniero medesimo. Per comodità e precisione, trascrivo le norme
più spesso denunciate, cioè i commi 3 e 3-bis del citato art. 13:
3. L'espulsione è disposta in ogni caso con decreto motivato immediatamente
esecutivo, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell'interessato.
Quando lo straniero è sottoposto a procedimento penale e non si trova in stato di
custodia cautelare in carcere, il questore, prima di eseguire l'espulsione, richiede il
nulla osta all'autorità giudiziaria, che può negarlo solo in presenza di inderogabili
esigenze processuali valutate in relazione all'accertamento della responsabilità di
eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e
all'interesse della persona offesa. In tal caso l'esecuzione del provvedimento è sospesa
fino a quando l'autorità giudiziaria comunica la cessazione delle esigenze processuali.
Il questore, ottenuto il nulla osta, provvede all'espulsione con le modalità di cui al
comma 4. Il nulla osta si intende concesso qualora l'autorità giudiziaria non provveda
entro quindici giorni dalla data di ricevimento della richiesta. In attesa della decisione
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sulla richiesta di nulla osta, il questore può adottare la misura del trattenimento presso
un centro di permanenza temporanea, ai sensi dell'articolo 14.
3-bis. Nel caso di arresto in flagranza o di fermo, il giudice rilascia il nulla osta
all'atto della convalida, salvo che applichi la misura della custodia cautelare in
carcere ai sensi dell'articolo 391, comma 5, del codice di procedura penale, o che
ricorra una delle ragioni per le quali il nulla osta può essere negato ai sensi del comma
3.
Come si vede, l’unica esigenza che riceve effettiva garanzia è quella
connessa all’utilità della presenza dello straniero per la prova di reati
concernenti terzi: una figura per così dire di collaboratore degli
inquirenti. Non ha invece rilevanza il diritto di partecipazione
dell’interessato al procedimento che lo riguarda – salvo il caso della sua
custodia in carcere – e si pone quindi un evidentissimo problema di
concreta attuazione del diritto di difesa. Il giudice non può negare il
nulla osta per assicurare allo straniero la possibilità di partecipare al
suo processo. E bisogna dire che la scelta legislativa – sia o meno
tollerabile dal punto di vista costituzionale – è inequivoca e
comprensibile: il diritto di difesa non è un accessorio eventuale del
processo, e deve essere sempre garantito; se la legge contemplasse la
possibilità di negare il nulla osta per la sua attuazione, ebbene il nulla
osta dovrebbe essere sempre negato, non essendo concepibile una
regolazione discrezionale da parte del giudice circa il diritto di
partecipazione al processo dell’imputato; tuttavia va detto con chiarezza
che la meccanica trasformazione della pendenza di un processo in
«titolo» per il rinvio dell’espulsione sarebbe una scelta strategica
dell’ordinamento, pertinente per sua natura alla valutazione legislativa.
La crisi del sistema è particolarmente evidente nei casi di giudizio
direttissimo, che poi sono la maggioranza, almeno quando si discute
della violazione delle leggi penali concernenti l’immigrazione.
Lo straniero è obbligatoriamente arrestato e presentato al giudice
del direttissimo tanto per la convalida che per la celebrazione del
giudizio di merito. Proprio in occasione della convalida, come si è visto,
il giudice è tenuto al rilascio del nulla osta all’espulsione
amministrativa. Ove venga applicata una misura restrittiva, o nel caso
che l’imputato consenta alla immediata celebrazione del giudizio, non si
pongono problemi particolari, almeno quanto al procedimento di
primo grado, dato che la posticipazione dell’espulsione è assicurata
almeno in via di fatto. Ma il problema esiste proprio nella maggior parte
dei casi, e cioè quando il giudice dispone la liberazione
dell’interessato e questi chiede la concessione del termine a difesa:
qui le probabilità che lo straniero venga espulso prima della
celebrazione del giudizio sono elevatissime. E d’altra parte – pur volendo
tacere delle relative difficoltà organizzative ed economiche – il
meccanismo «inventato» dal legislatore con l’art. 17 del T.u., e cioè lo
speciale permesso di rientro per ragioni di giustizia, è palesemente
inadeguato proprio a fronte dei ritmi di definizione del giudizio
direttissimo. È appena il caso di aggiungere che lo strumento della
sentenza di non luogo a procedere è inutilizzabile per il caso del
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giudizio direttissimo (almeno secondo l’opinione ampiamente
prevalente), e che la disciplina crea ulteriori spazi di irrazionalità,
connettendo all’espulsione un effetto «liberatorio» per reati anche gravi,
ed escludendo quello stesso effetto per reati che sembrerebbero
ragionevolmente meno significativi.
Questo essendo il problema, resta da dire della giurisprudenza della
Corte. Non è possibile in questa sede una ricostruzione del quadro dei
precedenti, che pure rivestirebbe grande interesse. Può dirsi in termini
generali, ad esempio, come molti rimettenti dimentichino che il loro
silenzio conduce alla formazione di un provvedimento autorizzativo
dell’espulsione (effetto che comunque sarebbe precluso da una
sospensione formale del relativo subprocedimento). Si riceve spesso, per
altro verso, una sensazione di astrattezza nell’approccio alla questione.
Talvolta ci si dimentica finanche di precisare che l’imputato non è
ricomparso all’udienza di rinvio, si tace sulle prospettazioni difensive, si
presume una connessione tra rilascio del nulla osta ed assenza –
una assenza futura ed ipotetica, sulla cui dipendenza da un
impedimento non si è forse riflettuto abbastanza – che rappresenta uno
dei nodi critici della questione (mai risulta – anche se la questione è
sollevata dopo il rilascio del nulla osta – se l’espulsione amministrativa
abbia poi avuto luogo, ecc.).
Paradigmatico il caso sotteso al primo dei due provvedimenti qui in
esame, ove il giudizio a quo si è svolto a tre anni dalla convalida
dell’arresto con contestuale liberazione dello straniero, dopo un rinvio a
nuovo ruolo, ed ove il rimettente ha trascurato di riferire non solo e non
tanto se l’imputato fosse assente (il che forse potrebbe darsi per
implicito), ma finanche se e come fosse stato instaurato nuovamente il
contraddittorio, e quindi come fosse stato nuovamente citato l’imputato,
che cosa avesse prospettato la sua difesa di fiducia, ecc.. Insomma, la
Corte non è stata messa in grado di comprendere se e perché il rilascio
del nulla osta avrebbe implicato il preteso vulnus al diritto di
partecipazione dell’interessato. Inoltre, e sia pure in un contesto
particolare, la Corte ha rilevato anche la tardività della questione,
essendo maturati nella specie in termini per il silenzio-assenso alla
espulsione.

Rapidamente su una questione che interessa, questa volta, i soli
giudici di pace, e per altro viene posta con notevole frequenza.
Riguarda il procedimento su ricorso immediato della persona offesa,
nella particolare ipotesi in cui il pubblico ministero ritenga il ricorso
inammissibile o l’accusa infondata. Stando agli artt. 25 e seguenti del
d.lgs. n. 274/00, il giudice che ritenga invece ammissibile e fondata la
richiesta della persona offesa procede senz’altro alla fissazione
dell’udienza. C’è però il problema dell’imputazione, visto che, stando
sempre alla lettera della legge, il pubblico ministero è tenuto a
formularla solo quando ritenga ammissibile e fondato il ricorso della
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vittima. Di qui i tentativi di vari giudici di pace affinché la Consulta, con
una sentenza manipolativa, colmasse questo evidente “buco” del
sistema.
La soluzione più ricorrente è stata quella della sollecitazione di una
sentenza additiva, relativamente all’art. 25, nella parte in cui non
impone la formulazione dell’imputazione, a cura del p.m., anche quando
trasmette il ricorso con parere di inammissibilità o comunque contrario
alla citazione.
Ma la Corte ha rifiutato la sollecitazione. Con l’ordinanza n. 361 del
2005 ha dichiarato manifestamente inammissibile una questione
assimilabile a quella appena evocata: «il giudice non tiene nel debito
conto che (...) la disciplina generale dell’imputazione coatta potrebbe
trovare applicazione anche nel caso in cui il giudice, dopo aver trasmesso
gli atti al pubblico ministero, ritenga di non condividere una eventuale
richiesta di archiviazione; pertanto, prima di affermare che non sarebbe
possibile altra soluzione conforme a Costituzione diversa da quella
prospettata in via additiva, il rimettente avrebbe dovuto utilizzare tutti i
poteri interpretativi che la legge gli riconosce».
In sostanza, il giudice che registra il parere contrario del p.m. sul
ricorso immediato, invece di provvedere come la legge sembra
richiedergli (cioè spedire la citazione «trascrivendo l’imputazione»), potrà
restituire gli atti allo stesso p.m. La Procura, se orientata negativamente
anche sul fondamento della notitia criminis, provvederà a formulare la
necessaria richiesta di archiviazione. A questo punto il giudice potrà
reagire, come sopra si accennava, con l’ordine di formulare
l’imputazione.
Con ordinanza n. 43 del 2007 la Corte ha ripetuto la declaratoria
d’inammissibilità per omessa sperimentazione dell’interpretazione
costituzionalmente orientata, richiamandosi all’orientamento ormai
consolidato nella giurisprudenza di legittimità, favorevole alla
restituzione degli atti al pubblico ministero che ha espresso il parere
contrario.
Il concetto è stato ribadito con l’ordinanza n. 114 del 2008, Bile,
Tesauro, che segnalo perché relativa ad un provvedimento relativamente
argomentato del rimettente, che presupponeva la lettura delle
precedenti ordinanze della Corte. Nondimeno, la questione è stata
ritenuta manifestamente infondata, a definitiva chiusura – credo – di
ogni prospettiva “costituzionale” di superamento di quella che
comunque, è una inutile complicazione scaturita dalla disattenzione del
legislatore. Sull’argomento si veda anche la ordinanza n. 321 del
2008, Bile, Tesauro, ove tra l’altro si ricorda, come in altre occasioni,
che il ricorso della persona offesa produce l’effetto della querela anche
nel caso, qui esaminato, di restituzione degli atti al pubblico ministero.
Sempre in materia di processo penale avanti al giudice di pace, vanno
segnalati un paio di provvedimenti che hanno in sostanza disatteso
l’aspettativa di interventi manipolativi sul regime di contenuta
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rilevanza della connessione a fini di determinazione della
competenza.
Un primo gruppo di ordinanze di rimessione lamentava, alla luce di
vari parametri costituzionali, che non si determini l’intervento del
giudice professionale quando la stessa persona sia imputata di più
reati, a competenza differenziata, legati dal vincolo della
continuazione.
La Corte, con la sentenza n. 64 del 2009 (Amirante, Frigo), ha
stabilito che la questione è infondata, pur non mancando di avanzare
critiche in punto di opportunità della scelta legislativa (scelta che
però sarebbe sindacabile della Corte, come è stato affermato in
numerosissimi casi proprio discutendo di regole di competenza, solo in
caso di manifesta irrazionalità, essendo la materia rimessa ad una
«ampia» discrezionalità del legislatore). La Corte si è resa conto, in
particolare, che la disciplina provoca in certi casi assurde duplicazioni
di procedimenti.
Nella specie la scelta legislativa è stata giustificata in quanto
finalizzata a «valorizzare le peculiarità della giurisdizione penale
del giudice di pace, la quale si connota - oltre che per la presenza di un
autonomo apparato sanzionatorio - anche e soprattutto per le accentuate
particolarità del rito, che, nei loro tratti di semplificazione e snellezza,
esaltano la funzione conciliativa del giudice onorario». Il legislatore ha
ritenuto che l’interesse al simultaneus processus dovesse prevalere solo
nel caso di concorso formale di reati, perché si fonda addirittura
sull’unità naturalistica della condotta. Proprio per tale ultima ragione si
è considerata infondata la comparazione, istituita dai rimettenti, tra il
trattamento del concorso formale e quello di altre forme di connessione.
Neppure si è accettata la censura fondata sul rilievo che, a differenza
di quanto attiene avanti al giudice professionale, diviene difficile
ottenere il riconoscimento della continuazione, posto che lo stesso può
comunque intervenire in fase esecutiva.
Una seconda ordinanza aveva posto, sempre con riguardo ai criteri
per la determinazione della competenza, una questione relativa alla
irrilevanza della connessione fondata sull’essere i reati commessi
dagli agenti gli uni in danno degli altri.
La Corte, con la ordinanza n. 69 del 2009 (Amirante, Frigo), ha
dichiarato la questione manifestamente infondata. In sostanza, il
rimettente ha confuso un caso concernente la riunione di procedimenti
con le fattispecie cd. di connessione eterogenea, cioè utile a
determinare spostamenti di competenza, ed ha costruito la sua
eccezione sulla pretesa disparità di trattamento tra i reati rimessi alla
cognizione del giudice di pace e quelli assegnati alla competenza del
giudice ordinario.
In realtà, come tutti sanno (o dovrebbero sapere), «né davanti al
giudice di pace, né davanti ai giudici superiori è prevista la possibilità di
procedere alla riunione di processi relativi a reati commessi da più
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persone in danno reciproco, in deroga alle ordinarie regole sulla
competenza per materia o per territorio».
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Ci spostiamo, a questo punto, sul terreno del procedimento di
esecuzione, per dare conto di una questione sollevata a proposito della
necessità che il giudice provveda di ufficio ad applicare l’indulto o
l’amnistia.
Il giudice rimettente aveva redatto un’ordinanza essenzialmente
mirata ad imporre che l’applicazione dei provvedimenti di clemenza sia
sollecitata dalla parte interessata. Veniva censurato in particolare il
combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 672 del codice di
procedura penale, nella parte in cui - secondo l'interpretazione
vincolante data dalla Corte di cassazione - prevede che «all'applicazione
dell'amnistia e dell'indulto si possa procedere "senza formalità", intesa
tale espressione come "d'ufficio"». La disciplina violerebbe gli artt. 3,
secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma,
101, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione. La Corte
tuttavia, con la ordinanza n. 255 del 2009 (Amirante, Frigo), ha
dichiarato la manifesta infondatezza della questione.
Queste in sintesi le ragioni:
- la disciplina non è irragionevole per contrasto con l’art. 212 del
d.P.R. 115 del 2002, perché tale norma impone la sola riscossione dei
crediti di giustizia esigibili, e tali non possono considerarsi quelli
relativi a pene pecuniarie estinte a seguito di concessione dell'indulto;
- l'art. 174, secondo comma, cod. pen., in forza del quale, «nel
concorso di più reati, l'indulto si applica una sola volta, dopo
cumulate le pene, secondo le norme concernenti il concorso di reati»,
non determina che dell'indulto si possa fruire per una sola condanna,
ma solo che il beneficio non può essere applicato in misura superiore
al massimo consentito; dunque non v’è interesse difensivo ad evitare
l’applicazione dell’indulto su pene di lieve entità per non «bruciare» il
beneficio rispetto ad altre condanne; d’altronde non spetta al
condannato decidere a quali pene debba applicarsi il condono, ma
deve il pubblico ministero, ai sensi dell'art. 663 cod. proc. pen.,
provvedere ad unificare le pene concorrenti, per poi applicare il
beneficio nella misura massima concedibile (il che esclude la
prospettata violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost.);
- neppure possono dirsi violati gli artt. 97, primo comma, e 101,
primo comma, Cost., in quanto la rinuncia ad un'entrata,
conseguente all'applicazione dell'indulto, deriva dalla legge, che il
giudice si limita solo ad applicare;
- il principio del contraddittorio non impone che esso si esplichi
con le medesime modalità in ogni tipo di procedimento e neppure
sempre e necessariamente nella fase iniziale dello stesso, onde non
sono in contrasto con l'art. 111, secondo comma, Cost. i modelli
processuali a contraddittorio eventuale e differito; di conseguenza,
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anche la procedura de plano prevista dalle norme impugnate per
l'applicazione dell'indulto è conforme al dettato costituzionale, proprio
perché attribuisce alle parti, una volta conosciuto il provvedimento
adottato d'ufficio, la facoltà di richiedere che la questione decisa sia
nuovamente sottoposta, in contraddittorio e nelle forme previste
dall'art. 666 cod. proc. pen., al vaglio del giudice dell'esecuzione;
- neppure sussiste lesione del principio di terzietà del giudice, sia
perché - in generale - esso non implica che il giudice non possa
adottare d'ufficio senza richiesta di parte decisioni su singole
questioni processuali, sia perché - nello specifico - il giudice
dell'esecuzione agisce sempre su sollecitazione esterna.
Roma – Milano, 7 gennaio 2010
GUGLIELMO LEO
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