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Maria Cristina Gramolini e Eva Mamini, 2002. "Movimento lesbico: tecniche di
sopravvivenza e forme di resistenza", in: Nadia De Mond (a cura di) Donne in movimento,
Pisa: BFS, pp.
La condizione lesbica interessa donne di ogni estrazione culturale e sociale e di ogni continente,
dunque non è propriamente questione di classe, fatte salve le considerazioni sull’accesso ineguale
delle donne alla proprietà. Il lesbismo non è neppure sovrapponibile alle discriminazioni di razza o
di religione in quanto in questi casi il gruppo oppresso è al suo interno solidale, ha, o si è dato, dei
riferimenti culturali, dei miti di origine che forniscono ai membri senso di identità e di
appartenenza, mentre il lesbismo manca di solidarietà primarie (famiglia e comunità) e di tradizione
condivisa. A differenza di altre condizioni, inoltre, il lesbismo si può nascondere.
Come accade in altri gruppi minoritari e senza potere, il percorso politico delle lesbiche non è
omogeneo e nel movimento si registrano potenzialità innovative e ripiegamenti, identità collettiva
orgogliosa e atti di misconoscimento agiti l’una contro l’altra, separazione fra i soggetti che
conducono la riflessione teorica e l’area a cui si riferiscono. In questo articolo cercheremo di
ripercorrere sommariamente i mutamenti della situazione delle lesbiche negli ultimi trent’anni.
In Italia, come altrove, il lesbismo è stato esistenza negata. Più che apertamente perseguitato o
condannato, il lesbismo è risultato assente, un fatto non registrato, che non riguardava nessuno.
Difficilmente si trovano infatti donne che lo abbiano assunto apertamente, e le donne emancipate
del passato che lo hanno vissuto sono state spesso ignorate, dimenticate, smentite. Insomma non
sono state prese sul serio, le loro storie sono state fatte cadere nel vuoto, così che ogni lesbica è
stata resa inaccessibile alle altre lesbiche e per molto tempo ciascuna ha dovuto avventurarsi da sola
in un mondo altrimenti comune. Anche i difensori dell’ordine morale hanno preferito evitare di
additare esplicitamente il lesbismo, mentre si sono scagliati più volentieri contro l’omosessualità
maschile. La Chiesa cattolica, opprimente centro di propaganda e di costrizione sessista, si è
espressa ripetutamente per condannare le “unioni contro natura”, con atti ufficiali, come la Pastorale
per la cura delle persone omosessuali del 1986 e il Catechismo del 1992, e con interventi capillari
agiti dall’attuale papa, dai vescovi, dai sacerdoti. I giovani vengono tuttora raggiunti
dall’indottrinamento sulla sessualità cattolicamente corretta nei luoghi di aggregazione e anche
nella scuola pubblica, dove prestano servizio insegnanti di religione grazie al Concordato vigente.
Il virilismo di destra, per parte sua, ha diffamato preferibilmente il maschio omosessuale,
accostandolo al pedofilo e chiedendone l’allontanamento da certe professioni, ma è apparso più
reticente sulle lesbiche.
Scoprirsi gay significa doversi rispecchiare nel giudizio di degradazione pronunciato in nome dei
valori etici, mentre scoprirsi lesbica è ritrovarsi mancanti anche del supporto dell’immagine di
soggetto perverso, se non per via indiretta: si è piuttosto assurde, non si è, perché il lesbismo è un
vizio impossibile. Questa situazione ha portato molte persone, anche omosessuali, a ritenere
relativamente più favorevole la situazione delle lesbiche rispetto a quella dei gay: meno
stigmatizzata la lesbica, più tollerata la tenerezza fra donne, meno individuabile la colpa. Ma è un
po’ come ritenere le donne storicamente avvantaggiate rispetto agli uomini perché esentate dal
servizio militare. Per il sistema del controllo sui corpi, la gestione delle donne o degli uomini si
dimostra anche qui cosa differenziata: l’essere pensate come incapaci di soggettività, di iniziativa,
di responsabilità, di autonoma sessualità è una specificità che avvicina le lesbiche più alle donne
che ai gay. Nella società in cui viviamo l’esistenza delle lesbiche viene taciuta perché scomoda e
fuori luogo nella foto di famiglia del patriarcato e perché evidenzia che l’alleanza delle donne con
gli uomini non è inevitabile.
Se un esorcismo nega la possibilità lesbica in generale, è però vero che il lesbismo manifesto è
incorso nelle stesse punizioni riservate ai gay, che vanno dallo scherno, all’emarginazione, alla
patologizzazione, alla distruzione fisica. Le ritorsioni sono (state) condotte sia da singoli sia
collettivamente, in nome di valori religiosi o variamente terapeutici.
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In questo quadro la donna omosessuale, priva di un supporto valido per l’accoglimento di
un’immagine positiva di sé, a rischio di perdita della dignità di persona nel caso venga scoperta,
coglie l’occasione di camuffarsi in una tenera amica, in una single, vivendo una vita clandestina.
C’è un momento nella vita di alcune donne in cui si scopre di provare attrazione per le donne o, per
meglio dire, ci si innamora di una donna e spesso si pensa che sia un evento unico, accaduto perché
quella donna ha qualcosa di speciale. Ci si rende conto subito che è un fatto non previsto, sembra
che non accada a nessun’altra, è qualcosa di cui non si sente parlare se non con frasi allusive e
denigratorie, si comprende che è qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa da nascondere per non essere
derise o condannate.
Si può spiegare a chi non lo vive cosa si prova a sentirsi diverse? Soprattutto se questa diversità
viene considerata una depravazione, una cosa brutta e innominabile ma ancor peggio negata, se
siamo invisibili agli occhi del mondo?
Molti si sono chiesti se lesbiche si nasce o si diventa. Forse semplicemente si scopre di esserlo e
questo può accadere a cinque anni a quindici o a quaranta con implicazioni diverse.
Scoprirsi lesbiche, per esempio a quindici anni, significa guardarsi attorno e sentirsi differenti:
niente ti riguarda o parla di te, di quello che senti. Il tuo sogno d’amore non viene mai rappresentato
ed è anzi innominabile. Si vive una doppia vita ed una delle due è clandestina. In famiglia e con i
propri coetanei si tace l’innamoramento per la compagna di classe o il senso di disagio che si prova
in tante situazioni. Più o meno a quell’età molte cercano la parola omosessualità sull’enciclopedia e
sul dizionario perché non sanno dove altro leggere qualcosa che le riguardi. Durante l’adolescenza
può succedere di provare un forte senso di estraneità perché non ci si riconosce in quel processo di
identificazione nel ruolo di femmina previsto dalla società. Film, canzoni e libri parlano di grandi
amori eterosessuali e si è costrette a riciclare l’immaginario altrui cambiando le desinenze. I primi
amori, romantici e assoluti, se si ha la fortuna di viverli e non solo di sognarli, portano il peso della
disapprovazione universale.
La ricerca delle proprie simili diventa necessaria per sopravvivere: ogni persona ha bisogno di
qualcuno con cui confrontare esperienze ed emozioni, fantasie e progetti. Qualcuno con cui parlare
che capisca cosa stai dicendo perché prova le stesse cose. Però mettersi alla ricerca delle proprie
simili non è cosa semplice, soprattutto perché non si può chiedere aiuto a nessuno e non si sa da che
parte cominciare. La comunità lesbica è una sorta di mondo parallelo del quale non si trova la porta
d’accesso. Per questo ancora a molte tocca di consumarsi nel disagio e nella vergogna; poiché il
lesbismo è impronunciabile con gli amici, con la famiglia, con i colleghi, poiché il lesbismo è
introvabile nella cultura, nell’attualità, nella vita quotidiana di chi ci è vicino, per rompere
l’isolamento spesso ci si rivolge, volontariamente o per forza, alla psicoterapia dove capita di
trovare conferma alla paura di essere malate e dove comunque non si impara a comunicare la
propria differenza all’esterno.
Le lesbiche in Italia fino al passato recente affrontavano senza alternativa questa condizione e anche
coloro che riuscivano ad affermarsi in un qualunque ambito sociale pagavano il prezzo di elidere il
lesbismo, cioè si realizzavano malgrado il loro modo di amare, che doveva rimanere confinato in
una sfera privatissima e non divenire mai oggetto di parola, di riflessione né di scambio.
Il punto di svolta, come per altre questioni, è stata la stagione della contestazione generale degli
anni Sessanta e Settanta che ha messo sotto accusa tutti gli assetti di potere. Tuttavia anche nei
luoghi dove si sono progettate e sperimentate alternative egualitarie e libertarie, nella nuova sinistra
e nel femminismo, il silenzio sull’omosessualità è stato forte. Un silenzio-assenso, ci dicono oggi i
protagonisti di quegli anni, ma pur sempre indice di imbarazzo che ci rimandava il senso di essere
fuori posto, quanto meno portatrici di un elemento non rilevante, fuori dalla politica di cui lì si
immaginava il cambiamento.
Lascia sempre sbigottite ricordare che donne preparate politicamente, formate alla critica
materialista o al femminismo, la generazione che ha posto finalmente al centro “il privato è
politico”, abbiano potuto considerare che l’esclusione di milioni di cittadine, e di cittadini, dovuta a
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una condanna imposta dalla morale cattolica e reazionaria, non avesse rilevanza politica. Ma tant’è
e altrettanto pensavano una volta le lesbiche.
Le molte lesbiche che da allora si sono politicizzate non hanno raccolto volentieri la questione
senza nome nella quale erano implicate. Non sapendo dare espressione politica ai loro bisogni di
lesbiche, hanno speso se stesse in progetti magari più universali, occupandosi ad esempio di tutte le
donne, o di tutti gli sfruttati. Alcune cercano ancora di emanciparsi dalla condizione di soggetti
discriminati tramite l’attivismo politico nei movimenti antagonisti della sinistra o nel femminismo,
spesso però tacendo il proprio essere lesbiche o non dandogli significato.
Così facendo però si lascia cadere la contraddizione in cui si è coinvolte e implicitamente si
ammette che non di politica si tratta ma di problemi privati. Si continua a vivere la scissione fra una
vita ammissibile, di partecipazione e inserimento, e l’altra vita da non rivelare, perdendo il conto su
quale sia quella più vera.
Parallelamente al sociale alternativo, si è sviluppato negli anni un mondo a parte di gruppi amicali
di lesbiche, di locali particolari, di vacanze, di artiste amate perché sessualmente ambigue.
Amiche e conoscenti, sensibilizzate alla politica, si sono riunite in collettivi e hanno moltiplicato gli
appuntamenti di incontro per donne, creando quella che oggi chiamiamo “la comunità lesbica”:
un’area di socializzazione per l’uscita dall’isolamento. La comunità ha fornito alle lesbiche che
riuscivano a unirsi ad essa, in primo tempo rassicurazione, consolando le sopravvissute alle
violenze lungamente subite, poi elementi di legittimazione, articolando un discorso etico
affermativo del lesbismo. Trovare la comunità, le altre lesbiche, ha significato per molte di noi,
soprattutto all’inizio, avere finalmente un senso di appartenenza: un po’ come sentirsi a casa.
Spesso attraverso la comunità si passa da un sentimento di vergogna all’orgoglio per il proprio
modo di essere e si riesce più serenamente anche a dare una definizione di sé. Un ruolo importante
viene svolto spesso dal gruppo che permette di soddisfare il bisogno di socialità, di condividere e
superare le sofferenze vissute in solitudine, di accrescere la propria autostima e arrivare alla
conferma del proprio modo di essere.
L’accoglienza e l’amicizia finalmente fruibili non sempre sono state idilliache: il peso delle
difficoltà patite continuava a riflettersi negativamente sui tentativi di creazione di spazi, di pensiero
e di politica in termini di fragilità dei legami progettuali. Pur in presenza di aspetti contradditori e
conflittuali dell’attivismo lesbico, negli ultimi trent’anni si sono concretizzati servizi che hanno reso
più vivibile la nostra vita perché hanno migliorato di molto la qualità del rapporto delle lesbiche con
se stesse e le opportunità di relazione, oltre a consentire l’uscita allo scoperto della trasgressione
lesbica. L’apertura di bar e circoli ricreativi, che può sembrare strano ma è evento pienamente
politico perché ha posto fine alla dispersione di individualità isolate alla ricerca, spesso penosa, di
una compagna in un mondo apparentemente tutto eterosessuale, ci ha trasformato in soggetti inseriti
in un tessuto sociale che, oltre a una compagna, ricercano interlocutrici con le quali esprimere idee,
cambiamenti, realizzazioni. Si è assistito all’attivazione di linee lesbiche amiche, cioè di counseling
telefonico per l’auto-aiuto alle lesbiche in difficoltà; alla crescita della produzione artistica, che ha
messo in circolazione un immaginario sconosciuto; alla nascita della stampa lesbica che ha fatto
affiorare la nostra storia e ci ha avvicinato a ciò che neppure speravamo esistesse: i precedenti
letterari, filosofici e politici del lesbismo di oggi. Tutto questo ha cambiato profondamente la vita di
migliaia di donne, e ancora deve completare l’opera di liberazione cominciata, raggiungendo chi
non ha avuto l’opportunità di entrare in contatto con le altre ma solo con la caricatura che di noi fa
la norma eterosessuale.
Si può dire che in una prima fase il lavoro politico del movimento lesbico è stato rivolto all’interno:
le attiviste lesbiche hanno prodotto solo per le lesbiche, indifferenti o ostili al sociale eterosessuale,
in gruppi lesbici o gay, nutrendosi di stili di pensiero e di vita maturati nello spazio separato,
femminista o omosessuale. Il tema dell’identità lesbica è stato centrale: per valorizzare ciò che era
stato infangato si affermava l’eccellenza del lesbismo e il rifiuto dell’eterosessualità: le stesse
femministe erano accusate di complicità con il patriarcato.
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Il consolidamento e la crescita della comunità lesbica si è articolato in tre ambiti fondamentali: la
socialità, la cultura, la politica.
Per rispondere al bisogno di socialità sono fiorite le attività di aggregazione. Il movimento lesbico
ha nel tempo organizzato settimane lesbiche e vacanze, aperto luoghi di ritrovo divenuti punto di
riferimento per molte, nei quali si è determinata una massa critica che ha permesso di intraprendere
iniziative culturali e politiche. I convegni e le produzioni culturali rispondono al grande bisogno di
narrazione e di rappresentazione del lesbismo. La costruzione di un immaginario che metta in scena
il nostro vissuto, così tanto negato o storpiato dalle false immagini della pornografia, è necessaria
per la crescita individuale e collettiva delle lesbiche. Negli anni si sono moltiplicati eventi lesbici
quali festival musicali, teatrali e cinematografici; stampa, editoria e infine internet hanno aperto
nuove possibilità di comunicazione ed espressione e oggi esistono trasmissioni radiofoniche e canali
televisivi a tematica omosessuale.
Obiettivo e strumento fondamentale della politica lesbica è sempre stata la visibilità. Per visibilità si
intende la scelta di dichiararsi lesbiche e questo riguarda sia le singole lesbiche sia i gruppi e le
associazioni lesbiche. Essere visibili significa non temere più che il lesbismo ci screditi, essere
accessibili per le altre lesbiche e riconosciute dal resto del mondo per quello che si è. Essere visibili
significa inoltre esistere come soggetto politico che si confronta con altri soggetti e si rapporta con
la realtà. La visibilità lesbica è strumento inevitabile per contrastare i pregiudizi e l’oscurantismo
nei nostri confronti, per fare spazio alle libere relazioni fra le donne e rompere il muro del silenzio.
La politica dei gruppi lesbici in un primo tempo è stata tiepida nei confronti delle lotte per i diritti
civili portate avanti soprattutto dai gay: la richiesta di matrimoni omosessuali sembrava ricalcare
una prospettiva di omologazione invece che di trasformazione dei rapporti fra le persone. Negli
ultimi anni la maggior parte delle associazioni lesbiche ha aderito alla campagna per il
riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso, pur nella consapevolezza che la coppia
stabile civilmente riconosciuta non è l’unico traguardo del movimento. Il familismo imperante
suggerisce qualche prudenza nella lotta per i diritti civili ma nel movimento ha prevalso la
convinzione che un riconoscimento giuridico delle relazioni omosessuali sarebbe un fatto
simbolicamente significativo e migliorerebbe la vita di tutte le persone omosessuali, comprese
quelle che non volessero avvalersi dell’istituto giuridico in questione.
Negli ultimi anni le manifestazioni per il 28 giugno, la giornata dell’orgoglio gay-lesbicotransessuale, hanno posto la visibilità al livello della comunicazione di massa e reso la comunità
accessibile per chi è al di fuori. Il World Pride 2000 di Roma è stata la più grande contestazione al
giubileo, e si è prodotta in un contesto in cui pochi osavano criticare la Chiesa. Le persone che
partecipano ai cortei per i diritti di gay, lesbiche e transessuali hanno trovato il modo per uscire allo
scoperto: la rivendicazione è quella dei diritti civili ma la conquista immediata è la presa della scena
pubblica per dire la propria dignità. In qualche modo la rivendicazione di diritti è strumentale al
bisogno di dire la propria esistenza, orgogliosamente: i pride sono di per sé una vittoria contro
l’oppressione interiorizzata. I coming out, cioè il venire fuori come lesbiche, sono stati gioiosi nei
pride e più ardui nella vita quotidiana quando si è sole nel proprio ambiente: la definitiva rinuncia
alla doppia vita e la ricongiunzione della nostra esperienza in una realtà intera ci hanno richiesto e
richiedono un grande coraggio in quanto comportano di sapere sostenere giudizi e silenzi tanto
pesanti quanto vasti.
Nelle nostre autodefinizioni politiche abbiamo usato successivamente categorie mutuate dal
femminismo, come la qualità femminile biofila, il matriarcato, la differenza sessuale e la pratica
della relazione, fino a che la sfida post-gender ha espresso una interpretazione costruzionista dei
nostri posizionamenti: l’identità non indicherebbe più ontologicamente “ciò che io sono”, ma più
provvisoriamente il dato di esperienza da cui muove il mio dire. Oggi alcune teoriche mettono in
crisi la nozione stessa di “comunità” evidenziandone il connotato irrazionalistico e sottolineando
che non a caso si tratta di un concetto in auge nelle teorie di destra: al posto di “comunità” è forse il
caso di parlare più illuministicamente di società lesbica, o di “scena lesbica” che ne rimarca il
carattere performativo.
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Ovviamente le fasi del movimento lesbico non sono scandite in modo netto: alcuni gruppi hanno
prefigurato in anticipo soluzioni che sono state adottate solo più tardi, così come altre aggregazioni
lesbiche si sono attestate su progetti di autoconsumo culturale anche quando la comunità si è aperta
al dialogo con la società critica. Resta però possibile delineare una traiettoria che va
dall’autoaffermazione identitaria reattiva, alla costituzione di un soggetto collettivo che vuole
iscrivere la libertà lesbica nella sfera pubblica. Infatti il balzo recente della presenza lesbica nel
pubblico dibattito dimostra che a molte di noi non basta più vivere in un mondo a parte, per quanto
confortevole e sospirato: nella comunità abbiamo imparato a rifiutare la solitudine e il silenzio come
destino, abbiamo imparato a riconoscere nell’infelicità lesbica il riflesso di rapporti sociali
omofobici e misogini, ci siamo rese conto che la paura si può trasformare in passione, e con questa
consapevolezza non possiamo accontentarci di accomodamenti che ci costringono a continuare
nella doppia vita.
Oggi cerchiamo di rispondere a domande più complessive e pensiamo che il nostro percorso possa
fornire un contributo all’elaborazione di un’idea di società più giusta, o come si dice nel movimento
dei movimenti di “un altro mondo possibile”.
La nostra vicenda ci ha portato a contestare la pretesa naturalità della sessualità: è per costringere
donne e uomini a riprodurre determinati rapporti di gerarchia e dominio che si è costruito il dogma
dell’inclinazione eterosessuale degli umani. L’idea medievale della società tripartita secondo la
quale Dio aveva voluto che ci fossero tre ordini sociali, il clero che pregava per tutti, l’aristocrazia
che combatteva per tutti e i servi che lavoravano per tutti, e ribellarsi a quest’ordine, o sottrarvisi,
equivaleva a sacrilegio, delitto contro Dio e contro la Natura; l’idea razzista che proclamava
l’esistenza di razze superiori destinate a guidare l’umanità e a soggiogare razze inferiori; l’idea che
minoranze religiose attirassero o diffondessero epidemie; l’idea sessista che indicava nelle femmine
gli esseri più vicini al demonio; sono tutte costruzioni ideologiche utili a perpetuare certi rapporti
sociali, proprio come è costruzione ideologica quella che vuole che la Natura comanderebbe la
complementarità dei sessi. La naturalizzazione del dominio si esprime insomma anche nell’obbligo
di appartenenza ai due generi e nel regime dell’eterosessualità coatta che storicamente hanno dato
luogo a società a dominanza maschile, al patriarcato.
In realtà la coimplicazione di maschio e femmina nella riproduzione, il necessario coinvolgimento
dei due sessi nel generare un altro individuo, si danno secondo rapporti fra i sessi culturalmente
condizionati e sempre modificabili, come massimamente si dimostra oggi con la fecondazione
artificiale ma come è sempre stato, basti pensare alle trasformazioni storiche della famiglia. Gli
umani sono esseri simbolici: per noi qualunque atto naturale passa per i valori, i significati condivisi
o antagonistici. È quanto possiamo aggiungere all’elaborazione di un progetto di società liberata dal
dominio.
Le lesbiche si attivano politicamente perché vogliono liberarsi dalla clandestinità: vogliamo
ottenere rispetto, il diritto di amare, il riconoscimento delle nostre scelte, l’inviolabilità della nostra
persona, la cessazione di ogni ricatto contro di noi. Vogliamo insomma che non ci sia più una
minaccia incombente sulla nostra vita: non temere più di essere cacciate dal lavoro a causa del
nostro orientamento sessuale, non rischiare più di essere separate dalla nostra partner se perdiamo la
salute o la libertà, non subire la sottrazione dei nostri figli a causa della nostra omosessualità, non
venire contraddette nella nostra volontà se moriamo, non essere cancellate culturalmente, non essere
emarginate. È disumano vivere dovendo nascondere i propri affetti perché colpevolizzati ed è
disumano che si pretenda che continuiamo a farlo, come suggerisce la Chiesa e il perbenismo che in
questo solo caso ci offrirebbero una benevola indifferenza.
La libertà femminile è passata per l’affermazione della titolarità sul proprio corpo, della
responsabilità nelle scelte professionali, politiche, procreative, e non sarà pienamente affermata fino
a che non sarà plausibile che una donna possa anche amare un’altra donna.
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Con questo stato d’animo guardiamo a ciò che accade intorno a noi. Il mondo è attraversato da tante
prepotenze insopportabili che, guarda caso, si pongono come ineluttabili e naturali. Non vogliamo
assolutizzare la nostra contraddizione, ma vorremmo che lo sforzo collettivo per sconfiggere la
crudeltà economica, culturale, ecologica, razziale, etnica, contempli anche i soprusi esercitati per
motivi di orientamento sessuale e in questo senso possiamo dare un apporto di esperienza e di
conoscenza.
Il movimento dei movimenti è una speranza del nostro tempo contro la rassegnazione al pensiero
unico: ci sembra una modalità inedita che collega realtà differenti e le fa dialogare, componendo
pezzo a pezzo le aspirazioni degli oppressi e degli sfruttati.
Il movimento dei movimenti è un’occasione di confronto per tutti coloro che credono nella
necessità di un mondo non governato dalle leggi del neoliberismo e dalle logiche di guerra e
razzismo, un mondo che non lasci spazio all’intolleranza e all’esclusione sociale.
Forse è una strada per invertire dal basso la rotta della frammentazione, la deriva degli interessi
parziali e disgregati, per ricongiungere i dissidenti dell’Occidente con chi lotta nel resto del mondo.
In questo senso pensiamo che le lesbiche abbiano interesse a concorrere a questo movimento,
rinunciando all’identitarismo contrappositivo ed escludente, ponendosi invece in dialogo senza però
mai più rinunciare a dire la nostra differenza.
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