Omofobia e vita quotidiana - Dipartimento di Scienze Umane per la

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Convegno Internazionale
LO SPAZIO DELLA DIFFERENZA
20-21 ottobre 2010
Sessione 2: Il corpo sbagliato. Lo spazio e i generi LGBTIQ
20 Ottobre 2010, ore 14.30-16.00
Aula Massa
Omofobia e vita quotidiana
Luca Trappolin e Tatiana Motterle (Università degli Studi di Padova)
L’analisi che proponiamo prende spunto dal Progetto Europeo Citizens in Diversity: A Four-Nation
Study on Homophobia and Fundamental Rights finanziato dal Fundamental Rights and
Citizenship Programme dell’Unione Europea per il periodo Gennaio 2010 - Giugno 20111. Il
Progetto è diretto dal Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Padova e vede la
collaborazione di equipe di sociologi e giuristi italiani, inglesi, sloveni ed ungheresi.
Il nostro intervento si focalizzerà sull’attività del team sociologico italiano e sulle interviste
individuali e collettive a giovani, donne e uomini di diversi orientamenti sessuali finora raccolte sui
temi della definizione dei concetti di omofobia e dell’esperienza quotidiana della violenza e della
discriminazione ai danni di persone omosessuali2.
L’obiettivo che ci proponiamo è di gettare luce sui sistemi di conoscenza che le narrazioni
individuali e le discussioni di gruppo contribuiscono a riprodurre, concentrandoci in particolare
sulla distinzione tra spazio eterosessuale e spazio della differenza lesbica e gay. Il primo emerge
come spazio non problematizzato (o pensato come non problematizzabile) dell’egemonia
maschile/eterosessuale, dunque come spazio pubblico i cui codici sembrano incorporati in vario
modo e secondo diverse logiche – compresa quella strumentale – anche nella definizione di sé come
lesbica o gay, del “proprio posto” nella società, delle strategie di resistenza e contrasto alla violenza.
Lo spazio della differenza lesbica e gay, invece, assume i caratteri dello spazio privato la cui
estensione va dallo spazio del desiderio (inteso come spazio intimo del soggetto) ai luoghi delle
relazioni affettive e dei legami primari nella propria comunità di riferimento.
Esemplificheremo la distinzione discorsiva tra pubblico e privato considerando due temi: 1) la
costruzione di un confine tra l’espressione legittima dell’omosessualità e quelle non legittimabili; 2)
la rappresentazione dei legami con le famiglie di provenienza come contesto di relazioni primarie.
Prima di procedere, però, è opportuno contestualizzare il nostro contributo nel quadro della ricerca
psico-sociale sull’omofobia.
La ricerca psico-sociale sull’omofobia
Il concetto di omofobia, la cui definizione risale alla seconda metà degli anni Sessanta del secolo
scorso, segna un importante mutamento nello studio psico-sociale dell’omosessualità nelle società
Occidentali, spostando l’attenzione dalla devianza dell’individuo omosessuale alle modalità
attraverso le quali il contesto sociale lo costruisce come tale.
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Informazioni sul Progetto sono disponibili nel sito www.citidive.eu.
Dal mese di Gennaio 2010 al mese di Agosto 2010 sono state realizzate 10 interviste qualitative con ragazzi e
ragazze delle scuole superiori della provincia di Venezia, 10 interviste in profondità con ragazze e donne lesbiche
residenti a Padova, 2 focus group a cui hanno partecipato le stesse donne, 1 focus group con studentesse
universitarie eterosessuali dell’Ateneo di Padova, 1 focus group con uomini di varie province del Veneto che fanno
parte di un gruppo di gay cattolici.
Originariamente, il concetto si riferiva alla dimensione emozionale dell’avversione verso le persone
omosessuali (the dread of being in close quarters with homosexuals). In seguito, la ricerca psicosociale ha esteso la definizione di omofobia fino a comprendere anche le dimensioni cognitive
(pregiudizi e stereotipi anti-omosessuali) e comportamentali del fenomeno, ma al tempo stesso ha
fatto emergere una serie di aspetti critici, tra i quali:
a) l’indeterminatezza progressivamente guadagnata dalla definizione scientifica di omofobia (ad
esempio: l’avversione riguarda l’aspetto morale della sessualità omosessuale oppure i codici
culturali e le formazioni sociali promosse dalle comunità LGBT? E ancora: l’omofobia va intesa
solo come l’aspetto irrazionale dell’avversione anti-omosessuale?);
b) la difficoltà a mettere a fuoco le connessioni tra le diverse dimensioni del concetto, ovvero
quella emotiva/irrazionale, cognitiva e comportamentale.
Per un verso, i problemi legati al concetto di omofobia derivano dalla diffusione del termine al di
fuori della comunità scientifica (soprattutto in seguito alle mobilitazioni delle organizzazioni gay e
lesbiche) ed all’eterogeneità dei fenomeni ai quali è stato associato3. Per altro verso, un ruolo
rilevante va assegnato allo sviluppo di una riflessione sociologica su questi temi.
Partendo dal conflitto sociale innescato dalla voce pubblica delle organizzazioni gay e lesbiche, lo
sguardo sociologico ha reso più complesso l’ordine dei problemi interpretativi riferibili alla
definizione scientifica di omofobia. I punti principali della critica sociologica sono esplicitati nelle
parole di Valerie Jenness e Kendal Broad [1994, p. 419]: homophobia is only implicitly concerned
with institutionalized heterosexism, and not at all concerned with patriarchy4. Jenness e Broad
denunciano in primo luogo l’approccio decisamente individualizzante del concetto di omofobia
(homophobia is only implicitly concerned with institutionalized heterosexism) che limita il focus
dell’attenzione alla misurazione dell’omofobia tra la popolazione e all’individuazione delle variabili
socio-demografiche che la favoriscono. Si tratta di un approccio che in parte deriva dallo specifico
contesto disciplinare di riferimento, ma che può anche essere messo in relazione con la tendenza
all’individualizzazione che caratterizzava il contesto più generale degli studi dell’epoca – la fine
degli anni Cinquanta del secolo scorso – sulle relazioni razziali negli USA. In secondo luogo, gli
stessi autori segnalano come il concetto di omofobia sia stato formalizzato ed indagato
indipendentemente dalle strutture di potere responsabili dell’organizzazione sociale delle relazioni
tra uomini e donne, e dunque indipendentemente dall’intersezione tra l’orientamento sessuale e le
altre strutture (come il genere, ma anche la classe e la differenza etnica) della disuguaglianza
sociale.
La critica sociologica al concetto di omofobia si è manifestata attraverso la proposta di concetti
alternativi (ad esempio: heterosexism, homonegativity, homophobic-related violence, heterosexed
violence) in grado di evidenziare il carattere istituzionalizzato dell’omofobia e la sua capacità di
agire come principio organizzatore delle relazioni e delle strutture sociali. Da ciò, le direzioni di
ricerca sociologica hanno seguito vie distinte da quelle degli studi psico-sociali.
Relativamente al tema, le nostre riflessioni si ispirano a due tradizioni di ricerca: quella femminista
sulla violenza di genere e l’approccio critico dei Queer Studies. Si tratta di due approcci molto
diversi tra loro, ma che convergono nel prediligere l’analisi dei modi con cui la rappresentazione
discorsiva della violenza (nel nostro caso, di quella ai danni di lesbiche e gay) costruisce confini
simbolici che separano e gerarchizzano le relazioni tra diversi gruppi sociali definiti in base al
sesso, all’orientamento sessuale, alla diversità culturale. L’omofobia è quindi indagata come un
discorso che produce i criteri della sua intelligibilità e i caratteri delle soggettività che ne sono
implicate. Da questo punto di vista, la nostra analisi si concentra sugli effetti di costruzione sociale
innescati dalle narrazioni e dalle discussioni sui temi della violenza e della discriminazione ai danni
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L’aspetto dell’indiscutibile popolarità del concetto di omofobia nel dibattito pubblico meriterebbe una riflessione
specifica che in questa sede non possiamo sviluppare. Segnaliamo solamente come la legittimazione sociale di
questo termine possa essere letta come un indicatore dell’egemonia guadagnata dal paradigma dell’assimilazione (o
della “differenza assimilabile”) nelle dispute attorno al riconoscimento dei diritti delle persone LGBT.
Antiviolence Activism and the (In)Visibility of Gender in the Gay/Lesbian and Women’s Movements, <<Gender &
Society>, vol. 8, no. 3, pp. 402-423.
di lesbiche e gay.
La distinzione tra pubblico e privato: la normalizzazione delle identità gay e lesbiche.
Le narrazioni dell’esperienza della discriminazione e della violenza da parte di lesbiche e gay, così
come le discussioni e i punti di vista delle persone eterosessuali, si basano sostanzialmente sulla
medesima struttura di plausibilità: la distinzione tra uno spazio pubblico egemonizzato dai codici
simbolici dell’eterosessualità e diversi spazi privati dove la differenza culturale gay e lesbica
emerge coma tale.
Tale struttura orienta il discorso sull’omofobia verso la distinzione tra due tipologie di avversione
anti-omosessuale, le quali si basano sulla costruzione di un confine tra “omosessuali accettabili” e
“omosessuali trasgressivi”. Si tratta di una distinzione che, seppure con accenti differenti, è presente
nei discorsi delle persone eterosessuali così come in quelli delle lesbiche e dei gay che abbiamo
coinvolto nella ricerca.
In una prima accezione, l’omofobia viene rappresentata come un sistema di conoscenza non
legittimabile perché non tiene conto della pluralizzazione delle forme sociali della sessualità
conseguente all’emersione delle identità gay e lesbiche. L’idea di arretratezza culturale che qualifica
i soggetti o i gruppi in questo senso omofobi poggia sull’ipotesi della normalità dei soggetti che ne
sono il bersaglio. Tale “normalità” consiste nell’espressione sociale dell’orientamento omosessuale
– unico spazio di differenza riconosciuto – secondo codici gender conventional.
In una seconda accezione, l’omofobia viene definita come una strategia culturale di opposizione
contro la presenza trasgressiva delle persone omosessuali nello spazio pubblico. L’idea della
trasgressione viene declinata principalmente sulle espressioni della sessualità che non rispettano la
corrispondenza tra sesso biologico e genere (ad esempio: l’effeminatezza dei gay e la mascolinità
delle lesbiche). L’aspetto interessante è che nei discorsi in cui questa seconda accezione emerge
l’indice non è più puntato contro le cerchie sociali dove l’omofobia è più diffusa, ma contro le
scelte espressive e di visibilità delle persone gay e lesbiche che la subiscono.
La distinzione tra pubblico e privato: i legami con la famiglia di origine.
Un secondo esempio in cui si articola la distinzione tra pubblico e privato è relativo alla
rappresentazione dello spazio della famiglia di origine. Quello della famiglia è spazio personale,
privato e carico di significati emotivi profondi ma anche luogo della riproduzione/rappresentazione
dello spazio pubblico e della sua struttura eteronormativa.
Il coming out in famiglia assume un valore pregnante e sono diverse le strategie per affrontarlo:
dalle nostre interviste a lesbiche e gay è emerso un bisogno diffuso di rivelarsi in famiglia, anche in
casi in cui l’esperienza è percepita come rischiosa. Questo desiderio è evidenziato anche in altre
ricerche italiane, ipotizzato come caratteristico del nostro Paese ma in realtà diffuso negli ultimi
anni anche, ad esempio, fra gay e lesbiche statunitensi.
Dalle narrazioni raccolte emerge che, a differenza di quanto accade all’interno delle cerchie amicali,
l’uscita dal closet con i familiari non si accompagna alla percezione e all’effettività del rischio di
troncamento dei rapporti. Non solo le/gli intervistate/i tendono a “giustificare” in qualche modo la
reazione negativa dei familiari (paure emotive, mancanza di conoscenza, età, cultura, contesto) ma
si sentono spesso in dovere di aiutarli ad “abituarsi alla cosa”.
Possiamo individuare due strategie di gestione/elaborazione della propria identità omosessuale nei
rapporti con la famiglia d’origine:
1) Spazi separati: passing. Il passing consiste generalmente nel non esplicitare, non parlare
delle proprie esperienze di coppia, non dichiararsi, inventare un/a partner inesistente. Di fatto, tra i
nostri intervistati è una strategia praticata da chi non vive con i propri genitori. Lo spazio
gay/lesbico e quello della propria famiglia di origine sono tenuti ben distinti, ma in più esempi è
presente la tensione a farli coincidere prima o poi per sentirsi più tranquilli/e, quindi il desiderio di
svelarsi coi genitori rimane maggioritario.
2) Spazi sovrapposti. Le modalità della sovrapposizione – e anche il livello di porosità tra gli
spazi – avviene secondo varie modalità. In un primo caso, raccontato come “esperienza
privilegiata” e poco comune, la sovrapposizione si sviluppa in seguito alla strategia della visibilità
totale, in cui la propria identità è vissuta apertamente. In un secondo caso, il coming out è
raccontato come performance isolata e non reiterata (l’argomento viene toccato poco per non urtare
la sensibilità dei genitori). In questi casi i due spazi non sono totalmente sovrapposti e compresenti.
C’è una strategia di compromesso per la quale entro lo spazio familiare quello gay/lesbico è
presente ma silente. In un terzo caso, gli intervistati sostengono che “la cosa si sa” ma non è
dichiarata apertamente, che è accettata, “basta non dirla”. Ad esempio il partner di uno degli
intervistati è accolto in famiglia e presente agli incontri famigliari ma non è mai presentato come
compagno. Qui la strategia di compromesso è ancora più esplicita.
Nel contesto delle relazioni con la famiglia di origine, lesbiche e gay percepiscono l’obbligo di
mettere in atto strategie per giustificare la trasgressione dalla norma eterosessuale. L’importanza e
la necessità attribuite ai legami affettivi primari sembrano spingere gli/le intervistati/e ad essere più
pazienti e tolleranti di fronte alle reazioni negative dei genitori, reali o immaginate, modellando i
confini dei propri spazi identitari ad hoc e tentando di legittimarli esponendone gradualmente i
significati. Tali strategie portano alla messa in discussione all’interno delle famiglie degli stessi
codici simbolici eteronormativi che ne determinano il senso? Un ricerca sui membri di
un’associazione di genitori di gay e lesbiche5 mostra che l’elaborazione del coming out dei/lle
figli/e non fa che riprodurre i codici suddetti, spostando di poco il limite della “normalità” e
lasciando “dall'altra parte” le soggettività queer, ossia tutte le (omo)sessualità non normalizzate e
stigmatizzate come devianti.
Conclusioni
Il paradigma della violenza simbolica, ovvero l’incorporazione dei codici del dominio da parte dei
soggetti che da essi sono dominati, spiega certamente la limitazione della differenza LG all’interno
di spazi privati e la mancata problematizzazione dell’egemonia eterosessuale dello spazio pubblico.
Tuttavia, sempre seguendo il filo delle narrazioni che abbiamo raccolto, dalle strategie di
normalizzazione delle identità lesbiche e gay emerge una critica alle strutture ed i processi del
dominio eterosessuale. Il fatto di ribadire la “normalità” dell’essere lesbica o gay, prendendo anche
le distanze dagli stereotipi basati sulla trasgressione del gender, significa contrastare la pretesa
tipica del discorso omofobico di ridurre la complessità del soggetto alle rappresentazioni
stereotipate della sua differenza. Per quanto non segua i sistemi di significato che derivano dalle
mobilitazioni gay e lesbiche, le strategie della normalizzazione configurano comunque processi di
resistenza al discorso omofobico da parte di coloro che ne rappresentano il bersaglio.
5
Cfr. Fields J., Normal Queers: Straight Parents Respond to Their Children’s “Coming Out”, <<Symbolic
Interaction>>, 24 (2), 2001, pp. 165–187.
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