Ufficio Catechistico Diocesano - Tn
Anno Pastorale 2007-08
« ASCOLTA, POPOLO MIO »
Itinerario di catechesi per adulti
sulla Storia della Salvezza
1° SCHEDA - per l’Animatore
« SHEMA’ ISRAEL – Ascolta, Israele »
Messaggio centrale
Da sempre, il Dio di Israele, il Dio dei padri nostri, si rivela, parla e offre ad ogni uomo una storia
d’Amore e di Alleanza reciproca, libera e responsabile; è il prolungamento di una relazione
iniziatasi con il popolo di Israele e adempiuto in Cristo Gesù, Verbo fatto Uomo, che ancora oggi, si
rinnova e si realizza nella vita della Chiesa e, quindi, di ogni cristiano.
Anche noi, come accadde per primo al Popolo eletto, siamo di continuo chiamati a riscoprire la
nostra vocazione e il nostro rapporto con Dio Padre: una relazione totalizzante che deve tradursi in
nuove scelte di vita, e che si fonda sull’ascolto fedele della sua Parola.
Preghiera iniziale: invochiamo lo Spirito Santo
Re celeste, Consolatore,
Spirito di verità,
che sei presente in ogni luogo e tutto riempi,
Tesoro dei beni
e Datore di vita,
vieni e abita in noi,
purificaci da ogni macchia,
e salva, o Buono,
le anime nostre.
Amen.
(Liturgia Orientale)
Entriamo in argomento
Sembra una contraddizione, eppure, proprio nell’era in cui si può ampiamente sfruttare la
tecnologia straordinaria per comunicare -si pensi solo ai telefoni cellulari e alla posta elettronica- le
persone manifestano fame di relazioni profonde e sete di parole sensate.
“Fame e sete di che cosa? Fame e sete di chi?”
Anche Dio Padre, nostro Liberatore e Creatore di tutto, in questi tempi attende con amorosa e
nostalgia. Mediante il suo Figlio, con estrema delicatezza e gratuità ci esorta ancora: “Ecco, io sto
alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con
lui ed egli con me” (Ap 3,20).
 Riconosco, dentro e intorno a me, il bisogno di relazioni vere e parole significative?
 “Cosa” e “chi” può soddisfare e appagare questi bisogni profondi?
 In che misura, il mio rapporto con Dio investe, oltre alla fede, anche la mia vita, le mie
scelte,?
Ascoltiamo la Parola di Dio
Dal libro del Deuteronomio (6,4-9)
In quei giorni, Mosè parlò al popolo dicendo: 4«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il
Signore è uno solo. 5Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con
tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; 7li ripeterai ai tuoi figli,
ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai
e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra
gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte».
Parola di Dio.
 Cosa mi colpisce di più in questo Brano?
 Quali tratti di Dio emergono in questo Brano?
 Quali atteggiamenti e comportamenti sono richiesti al credente per vivere una storia di
alleanza?
 In che maniera Gesù Cristo illumina e completa la comprensione di questo Brano?
Approfondiamo la Parola di Dio
Il Deuteronomio è il quinto libro del Pentateuco: essendone l’ultimo, ha la funzione di concludere la
storia delle origini di Israele e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah.
Questo Libro, quindi, guarda in due direzioni: ricorda gli eventi del passato che hanno portato
Israele fino ai confini della regione che avrebbe reclamato come sua eredità, e guarda in avanti alla
vita che Israele dovrà condurre una volta in possesso della regione. Narra, inoltre, come Mosè, il
grande condottiero, terminò i suoi giorni di guida del popolo e scomparve dalla scena lasciando le
redini a Giosuè.
Il Deuteronomio è una reiterazione delle leggi e normative che il popolo aveva già ricevuto nel
deserto; la maggior parte del suo contenuto si trova già negli altri quattro Libri. Deuteronomio
significa, infatti, “seconda legge”. Le differenze nella nuova formulazione delle leggi non sono
sostanziali, ma si limitano a porre un nuovo accento sul genere di vita che il popolo è chiamato a
condurre.
Questo breve passo, chiamato Shema' Israel, costituisce uno dei testi più famosi della tradizione
religiosa del popolo di Israele; da quando furono scritte fino ai nostri giorni, queste Parole sostengono, come preghiera quotidiana, il cammino del credente Ebreo, scandendo le ore del giorno,
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sottoponendo la sua persona all'evocazione ripetuta dell'assoluto di Dio. Sono Parole che
comandano al cuore e al corpo; dicono in breve tutta la Legge.
« Ascolta »
L'imperativo «Ascolta, Israele» segna l'inizio delle principali unità letterarie in cui è suddivisa la
sezione che va dal capitolo 5 al capitolo 11 compreso (cf. 5,1; 6,4; 9,1; e anche, con una variante,
10,12): ogni esortazione, ogni commento della Parola di Dio, comincia con il medesimo appello,
con l'invito ad ascoltare. È questa l'ingiunzione fondamentale, è il comando primo, basilare, che
regge, per così dire, il peso di tutte le altre Parole.
Mosè si rivolge a Israele e domanda che il popolo ascolti. Impone il silenzio. Il silenzio è la
condizione indispensabile perché una parola sia pronunciata in modo sensato; se, infatti, il rumore
sovrasta la voce, la parola è inghiottita e vanificata dalla confusione insignificante dei suoni. Una
parola detta e non intesa è come se non riuscisse a nascere. Il silenzio è il luogo nel quale la
parola si deposita e germina, perché è nel silenzio che si manifesta e si dispiega il desiderio di chi
parla e di chi ascolta; nella sospensione, nell'attesa, nella pausa c'è il segno di un cominciamento
che riproduce l'atto creatore: «Quando un silenzio tranquillo abbracciava ogni cosa, e la notte era
nel mezzo del suo corso, la tua Parola onnipotente, dal cielo, dal tuo trono regale, si lanciò...»
(Sap 18,14).
Mosè domanda il silenzio all'uditore; non chiede solo che ci sia assenza di rumore, egli vuole che
intervenga una decisione, un'attiva rinuncia a ogni altra voce, per concentrare orecchio e cuore in
una sola direzione, quella della bocca da cui esce la Parola di Dio. Ciò che impedisce di ascoltare
è sì il rumore esterno, ma è soprattutto il rifiuto interiore, spesso inconscio, di aprirsi all'altro, di
accoglierlo. Non c'è silenzio dentro il cuore quando esso è "pre-occupato", già abitato cioè da
mille ansie, da una legione di padroni che imperano e promettono, dalle tante voci della propria
vanità. L'imperativo di Mosè equivale a quello di chiudere la porta della stanza, e di far tacere la
paura e l'orgoglio del proprio cuore, per ascoltare Dio solo.
Nella tradizione sapienziale, il padre esorta ripetutamente il figlio in termini simili a questi:
«Ascolta, figlio mio, l'istruzione di tuo padre, e non disprezzare l'insegnamento di tua madre» (Pr
1,8; cf. anche 4,1.10.20; 5,1.7; ecc.). Il genitore personifica in un certo senso la Sapienza stessa, che
invita ad ascoltare così da ottenere la vita (Pr 8,1-36); la vita, infatti, è nella Parola, il padre
genera, parlando, alla vera vita, quella dello spirito. L'identico motivo si trova anche nella
tradizione profetica (Is 1,10; 8, 9; Ger 2,4; 5,21; Ez 2,8; 3,10; ecc.): colui che ha ascoltato la Voce
di Dio diventa l'interprete dell'appello fatto a Israele e a tutte le nazioni di accogliere il Signore e
il suo Messaggio. Nella Torah, il legislatore Mosè è come un padre e come un profeta: c'è, infatti,
una sola parola che faccia vivere, e questa è la parola di un uomo che incarna la Parola di Dio.
Dicendo: «Ascolta, Israele», Mosè vuole sollecitare l'attenzione del popolo a percepire nei detti
umani la Voce divina che si fa intendere là dove il cuore è in silenzio.
Ascoltare equivale a obbedire. In ebraico, uno stesso verbo esprime questa duplice realtà; ciò
significa che l'ascolto ha senso pieno solo se sfocia nell'assenso, nella sottomissione alla parola ricevuta. Israele è il figlio che onora suo padre mediante l'esecuzione fedele della Legge; è il figlio
che assume la condizione del servitore, docile al comando, pronto all'obbedienza. In questa fedeltà
alla Parola consiste l'alleanza con Dio, e in Essa si dischiude l'accesso alla Fonte della vita.
« Ascolta, Israele »
Israele è il nome proprio del popolo di Dio. È un nome “divino”. In primo luogo, perché è stato
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conferito dal Signore a Giacobbe, dopo la lotta notturna al guado dello Iabbok, quando il patriarca
invocò e ricevette la benedizione (Gn 32,27-30); ogni figlio di Israele si sente chiamato e
benedetto da JHWH, il Signore, perché ognuno sa che porta il nome del padre amato ed eletto per
sempre dal suo Dio. In secondo luogo, Israele è un nome "teoforo": in ebraico significa «che Dio
mostri la sua forza», oppure, come è interpretato nel racconto della Genesi, «(l'uomo) è stato forte
con Dio», ha lottato con Lui e lo ha vinto (Gn 32,29; cf. Os 12,5). La forza di Dio è di lasciarsi
vincere dall'uomo per amore; è questo che ricorda continuamente il popolo di Dio pronunziando il
suo proprio nome.
Chi impone il nome è padre. Il Signore è, infatti, il Padre che parla a suo figlio Israele, servendosi
della voce di Mosè. Chiamare per nome suppone un rapporto personale; e poiché l'appello è
collegato con un imperativo, la chiamata equivale a una vocazione. Il comando «Ascolta, Israele»
dice, dunque, la condizione del popolo sottomesso al senso della sua vocazione, che è di obbedire
totalmente alla Parola del Padre.
« Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo »
Questa frase è una delle più celebri di tutto il Deuteronomio. Essa esprime in maniera sintetica tutto
il contenuto della Parola da ascoltare. La traduzione sopra riportata, tuttavia, non consente di
percepire la difficoltà del testo ebraico, che alla lettera suona così: «JHWH, il Signore, nostro Dio
JHWH, il Signore, uno». Come collegare i vari elementi della proposizione e quale senso
attribuirvi?
Non abbiamo qui propriamente un'affermazione di monoteismo; non si dice infatti «JHWH è il
solo Dio», ma che «JHWH, il Signore, è uno (solo)». Certo, indirettamente, vi è una chiara
opposizione tra la molteplicità delle divinità (gli dèi falsi, inesistenti) e l'unico vero Dio, JHWH,
il Signore, con un nome personale, il solo a esistere ed essere, anzi, il Dio Vivente. Tuttavia, è da
sottolineare la specificità della formulazione deuteronomica, che parla della unicità di JHWH, il
Signore; ciò permette un approfondimento della teologia del Deuteronomio, così da giungere a
una migliore comprensione di chi sia Colui che parla domandando obbedienza.
Un unico JHWH, Signore. Questa dichiarazione di fede si spiega, in primo luogo, tenendo presente
la storia di Israele e il momento nel quale il Deuteronomio fu scritto. Alla morte di Salomone si era
creata una profonda frattura politica: le tribù del nord, con a capo Geroboamo, avevano proclamato
la secessione da Giuda e dal suo re Roboamo. Siamo nella seconda metà del X secolo; e a partire da
allora il popolo di Dio porterà il segno della divisione, sottolineata anche da pratiche cultuali
proprie ai due regni. Geroboamo, infatti, si era detto: «Se il popolo salirà a Gerusalemme per
compiervi sacrifici nel tempio, il cuore di questo popolo si rivolgerà verso il suo signore, verso
Roboamo re di Giuda» (1 Re 12,27); per questo mise in speciale valore due importanti santuari,
quello di Betel e quello di Dan, dislocati in posizione strategica nel territorio di Israele, dotandoli di
un sacerdozio proprio e di feste locali (1 Re 12,32-33). La molteplicità dei santuari sparsi nel
territorio di Israele, che facevano memoria di eventi collegati con la storia dei patriarchi o della
conquista (si pensi a Bersabea, Galgala, Sichem, ecc.), fu giudicata negativamente dai redattori del
Deuteronomio: una delle innovazioni più ragguardevoli del Libro (e della corrente spirituale che lo
ha ispirato) fu la prescrizione di abbandonare tutte le pratiche sacrificali fatte nelle diverse località,
e di compiere il culto nell'unico santuario "centrale" di Gerusalemme (Dt 12,4-12). Un unico
tempio diventava segno dell'unico Signore, di un unico popolo, di un'unica alleanza. Secondo il
Deuteronomio, con il passare del tempo, si era determinata una "baalizzazione" del Signore; il
Signore era cioè diventato come Baal, un dio locale, limitato a un territorio e in concorrenza con
coloro che pretendevano sovranità sulla regione vicina. Il santuario unico prescritto dal
Deuteronomio intendeva manifestare che vi è un unico Signore di tutto Israele, di tutto il paese e di
tutti coloro che vi abitano. Dato che il nostro Libro è scritto in un momento in cui le tribù del nord
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sono state ridotte a una provincia del regno assiro, e sono quindi prive di una loro entità politica
autonoma, l'appello all'unità religiosa ha anche un risvolto politico; non si tratta però di
nazionalismo giudaico, quanto piuttosto di promuovere, mediante accorgimenti istituzionali, l'unità
del popolo nella sua specifica relazione a JHWH, al Signore. La confessione di fede nell'unico
Signore porta, infatti, necessariamente con sé il desiderio dell'unità che diventa concreto ed efficace
nella misura in cui diventa obbedienza volontaria a un'unica legge e a un unico culto.
L'intento programmatico del Deuteronomio non si è limitato alla sfera cultuale e indirettamente a
quella politica. Lo sforzo del movimento deuteronomistico è stato soprattutto di natura culturale e
teologica. Le varie tribù e le diverse città di Israele erano portatrici di storie e di tradizioni
sapienziali specifiche; e ciascuna "famiglia" o clan vi si riferiva come a un patrimonio intangibile, capace di dare loro identità e senso. La corrente religiosa che ha prodotto il
Deuteronomio, basandosi sull'intuizione centrale che c'è un unico Signore, si è fatta carico di uno
straordinario lavoro di sintesi, che consisté nel dare figura unitaria alla storia di Israele,
collegando tutti gli eventi celebrati localmente in una trama e un disegno unico. Si tratta
dell'opera storiografica che va dal libro di Giosuè fino al secondo libro dei Re: in essa si mostra
che il solo Signore è all'opera negli eventi del mondo (Dt 32,12; cf. anche Is 43,10-12; Os 13,4)
portando a compimento quanto ha predetto per mezzo dei suoi servi, i Profeti; e fra tutti i popoli
Egli ha scelto Israele per manifestare il suo Nome, per rivelare nella sua storia che non c'è altro Dio
se non il solo Signore (Zc 14,9).
Un popolo, quello di Israele, è il mezzo, la mediazione, lo strumento per cui l'unico Signore può
manifestarsi alla universalità delle genti. La vocazione del popolo "eletto" consiste nell'obbedire al
Disegno divino, non solo proclamando a parole che «il Signore nostro Dio è il Signore unico», ma
soprattutto significando il senso di questa affermazione di fede mediante l'unità dei sentimenti e
della dottrina, mediante la coesione del corpo sociale. Vengono qui in mente le espressioni del
Nuovo Testamento che evocano una identica problematica, e dicono come l'unità sia il desiderio di
Dio e la sua opera per tutta la storia dell'umanità: c'è un Nome solo dato agli uomini nel quale è
possibile ottenere salvezza (At 4,12), noi tutti siamo le membra di un solo Corpo (Rm 12,4-5; 1
Cor 12,12-13), e soprattutto: «Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla
quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo
battesimo. Un solo Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è
presente in tutti» (Ef 4,4-6).
La centralità del precetto: «Ascolta, Israele, ... il Signore è unico», è ribadita notando che esso
dice in positivo quanto è espresso sotto forma negativa dal primo comandamento del Decalogo:
«Non avere altri dèi di fronte a me». L'uomo è sempre tentato di idolatria, e in particolare di
ritenere che Dio non sia sufficiente a dargli vita e felicità. Per questa ragione il cuore uma no fa
convivere Dio accanto a qualcosa d'altro, un'altra "potenza" che completa e garantisce in modo
più sicuro ciò che si desidera. Il Signore Dio e Baal, Dio e mammona, il Signore e le realtà di
questo mondo. Dio diventa così una "cosa" fra le altre, magari la più importante (almeno in
teoria); ma il cuore è sempre diviso fra l'adesione al Signore e la preoccupazione per altre realtà.
Quando il Deuteronomio dice che il Signore è Unico, non invita semplicemente ad accordargli
una preferenza; dice che la relazione con Lui è l'Unica realtà necessaria (Lc 10,42) e che
nell'adesione esclusiva a Lui c'è la pienezza di vita.
« Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze »
Dal fatto che il Signore è Unico, deriva l'imperativo di amarlo con la totalità della persona, di
tutte le sue interiori risorse, senza residuo, senza riserve. Cuore, anima, forze: questa termino5
logia, tipica del Deuteronomio, vuole senz'altro sottolineare che Dio chiede un impegno
totalizzante.
In altri passi, la stessa integrale disponibilità è richiesta nel servizio del Signore Dio, il Signore,
(10,12; 11,13), nel praticare la Legge (26,16), nel cercare Dio e convertirsi a Lui (4,29; 30,2.10);
più frequentemente, è l'amore ad essere richiesto quale esigenza fondamentale di Israele (6,5; 13,4;
30,6; cf. anche 10,12 e 11,13).
Il termine "amore" è senz'altro desunto dalla sfera delle relazioni familiari. Il luogo tipico e
originario in cui si esperimentano i legami di affetto fra le persone è, infatti, proprio la casa, fondata sul rapporto amoroso fra i coniugi e fra genitori e figli. Il sentimento di totale appartenenza, la
gioia del dono reciproco, il desiderio disinteressato per il bene dell'altro dicono cosa sia l'amore in
verità. Questa terminologia è poi estrapolata e usata metaforicamente nel linguaggio politico del
Medio Oriente antico per dire la realtà e l'impegno di alleanza: il sovrano che stipula un patto con il
suo vassallo si considera come un padre che chiede al figlio fedeltà incondizionata, espressa
precisamente con il termine "amare". Il Deuteronomio, che si serve ampiamente del concetto di
alleanza e del suo linguaggio tipico, adotta anche il termine "amore" per qualificare la relazione
tra il Signore e il suo popolo: come JHWH, il Signore, ama Israele (7,8-9; 10,15), così Israele è
chiamato ad amare il suo Signore: è questa l'ingiunzione di base, il comandamento principale,
l'essenza stessa della Legge dell'alleanza.
Dalle osservazioni fatte finora, si vede che il verbo "amare" nel Deuteronomio ha una duplice
dimensione. Da una parte, fa riferimento alla sfera dei sentimenti, che muovono ad agire, e che
riempiono il presente con un senso di pienezza. Certo non è pensabile che l'Israelita provi nei
confronti di Dio, invisibile e trascendente, un’emozione paragonabile a quella che si può sentire
per la «carne della propria carne»; tuttavia, è impensabile che un uomo possa implicare tutta la
sua esistenza nell'adesione a una "persona" senza che siano messi in movimento il cuore, l'anima,
la passione interiore, la totalità del corpo e delle sue forze psichiche e spirituali.
E, tuttavia, è bene ricordare l'altro aspetto: "amare" appartiene al linguaggio giuridico, e come tale
esprime la sua verità nelle manifestazioni concrete, negli atti che esprimono rispetto, obbedienza,
fedeltà, servizio. Si potrebbe dire che l'amore è "valido", in senso giuridico, nella misura in cui non
è (solo) sentimentale, ma si concretizza in fatti precisi, che sono proprio quelli prescritti dalla
Legge. Chi ama osserva i comandamenti (Gv 14,23). L'opposizione tra "amare" e "odiare" – che
appare anche nel Decalogo (5,9-10) – esprime in modo semplificato ma efficace la scelta radicale
che sta di fronte a Israele; non ci sono mezze misure o percentuali di fedeltà: è una scelta di vita,
che prende tutta la persona per tutta la durata dell'esistenza. Si capisce facilmente questo discorso se
si pensa all'impegno sponsale: è amore vero quello di un marito verso la moglie quando non si
limita a qualche manifestazione di affetto o a un periodo determinato; solo se i due formano una
cosa sola, solo se la vita dell'uno è la vita dell'altro, abbiamo la realizzazione dell'amore. Così
nell'alleanza con Dio.
« Queste parole che oggi ti comando ti stiano fisse nel cuore »
Dall'amore per Dio si passa all'osservanza dei precetti. Ma non si abbandona la sfera
dell’interiorità; il legame tra i due aspetti è assicurato dal "cuore": amare il Signore con tutto il
cuore si esplicita, infatti, con il mantenere le sue Parole nel proprio cuore. Come già osservato
sopra, l'amore ha una valenza giuridica, ed è sinonimo di accettazione globale dei doveri imposti
da una relazione di alleanza.
Le "parole" a cui fa riferimento il Deuteronomio possono essere certo le "Dieci parole" del
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Decalogo, che riassumono quello che Dio ha ingiunto a Israele; ma, più probabilmente, questa
terminologia si applica all'insieme dei discorsi di Mosè e allo stesso libro del Deuteronomio, che
si intitola appunto: «Queste le parole...». Parole del Signore Dio e parole di Mosè fanno un
tutt'uno. Esse sono proposte "agli orecchi" del popolo (5,1; cf. anche 29,3; 31,11.28.30; 32,40)
convocato per "ascoltare" (6,4); ma l'udire non servirebbe a nulla se le parole non scendessero nel
cuore, accolte dall'amorosa intelligenza, se non vi fossero custodite nella memoria per diventare il
principio che muove e guida pensieri e operazioni.
I comandi sono prescritti "oggi". Non solo è così indicata la validità permanente delle Parole
pronunciate dal Signore e dal suo servo Mosè; ma in più si evidenzia che è nell'istante presente che
si gioca l'obbedienza e la scelta di Dio. La molteplicità dei precetti, lo sappiamo, trova il suo centro
unificatore nel primo e massimo precetto di amare Dio con tutto il cuore. Ma ciò rimane una
dottrina senza efficacia se essa non è la legge del cuore, se il cuore che vive adesso (vivere, infatti, è
essere nel presente) non si decide, in questo momento, per Dio, accogliendo ed eseguendo la sua
Parola.
« Le ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per
via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te le legherai alla mano come un segno, ti saranno
come un pendaglio tra gli occhi, e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte »
Dal cuore, che per l'antropologia biblica è la sede dell'intelligenza, dell'affetto e del progettare, la
Parola fluisce nella vita dell'Israelita. Poiché è stato accettato nella profondità vitale del suo
essere, il precetto si rende visibile nella quotidianità dell'esistenza, invadendola completamente. È
così che si ama il Signore con tutto il cuore.
Lo spazio, anzitutto, è occupato dall'obbedienza alla Parola: dalla casa alla strada, dal battente
della propria abitazione alle porte della città. Tutto è toccato: il luogo privato e quello pubblico, e
anche l'articolazione fra essi (rappresentata appunto dalla porta). È noto che gli Ebrei praticanti
fissano un astuccio contenente lo Shema' Israel (cioè, proprio le parole che stiamo commentando)
sullo stipite destro della porta d'ingresso delle loro case. Il senso del comandamento non si limita,
tuttavia, a questa pratica. Il fatto che la porta, che mette in comunicazione l'interno con l'esterno (e
viceversa), sia marcata dalla Legge è un simbolo per dire che nel passaggio da un ambito all'altro
non ci deve essere mutamento quanto all'obbedienza a Dio. La Parola, dal cuore viene alle labbra,
l'insegnamento parte dalla propria dimora e giunge fino a regolare le attività della città e
addirittura la sua "politica estera": c'è una coerenza di idee e di comportamenti che è espressione
dell'adesione all'Unico Signore.
Non solo lo spazio, ma anche il tempo è interamente preso dalla Parola. La "ripetizione" del
comandamento ai figli (v. 7) fa sì che la Legge e l'alleanza si incarnino nella durata storica, di generazione in generazione. Inoltre, il fatto che la Parola (posta nel cuore) prenda anche la forma dello
scritto (v. 10) significa che è destinata a una funzione pubblica e a durare nel tempo. E la Legge è
anche "iscritta" nelle istituzioni di Israele, che diventano lo strumento dell'obbedienza a Dio e, di
conseguenza, del "prolungarsi dei giorni" per il popolo dell'alleanza.
Non c'è attività dell'Israelita che non sia il dire questa Parola e comunicarla: seduto in casa o
camminando per la strada, nel dormire o nel vegliare, nel momento del progetto e nella esecuzione,
il figlio di Israele è occupato sempre dall'obbedienza. Gli Ebrei ortodossi, quando pregano, per
obbedire alla prescrizione del Deuteronomio, si legano i filatteri (piccole teche di cuoio che
contengono il testo dello Shema' Israel) sulla fronte e sul braccio. Dicendo che le Parole del
Signore devono stare "sulle mani" e "tra gli occhi", il legislatore Mosè, a nome di Dio, vuol
significare che l'operare dell'uomo, rappresentato dalla mano, e persino il suo desiderio,
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simboleggiato dall'occhio, devono essere sottomessi alla Legge. È la Parola del Signore ad essere
il "segno" indicatore, la norma da seguire, la traccia che orienta il cammino della vita.
È così delineata la missione affidata all'Israelita e al popolo tutto: la Parola interiore deve
diventare dinamismo che invade capillarmente tutta l'esistenza, fin nei suoi più piccoli dettagli.
Tutto il cuore, tutta l'anima e tutte le forze, così come tutto lo spazio e tutto il tempo, sono
necessari per dire l'amore verso il Signore. Non solo come un impegno personale, ma come un
compito da trasmettere quale preziosa eredità al figlio, alla generazione seguente: il bene unico e
necessario sta nell'aderire al Dio vivente.
(cfr. Pietro Bovati, Il libro del Deuteronomio, Ed. Città Nuova, Roma 1994, pp. 79-88.)
Ritorniamo alla vita
 Cosa ho scoperto di nuovo?
 Come accogliere e vivere questa Parola nella fede e nella vita?
 Quale piccolo impegno concreto posso assumermi durante questa settimana?
Preghiera finale
Ed ora, liberamente, ciascuno provi ad esprimere, in forma di preghiera spontanea, la propria
risposta al Signore che ci ha parlato ed interpellato con la sua Parola.
Terminate le preghiere individuali, si può concludere con questa Orazione:
O Dio, tu sei nostro Padre e noi siamo tua famiglia: apri le nostre menti all’ascolto e alla
comprensione della tua Parola, e donaci un cuore docile a quanto oggi ci dirà il tuo Spirito. Per
Cristo nostro Signore. Amen.
(Collette per le Ferie del T.O., 12)
NB: ricordiamo che la scheda-immagine a colori è disponibile in Internet sul sito dell’Arcidiocesi
di Trento (www.arcidiocesi.trento.it/catechesi).
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