Dispensa definitiva Prof. Miggiano - Digilander

CAPITOLO I
Appunti di sociologia della devianza
1.1 Definizione
1.2 Nascita della sociologia della devianza
1.3 Modello classico della devianza
1.4 Teorie a medio raggio
1.5 Teorie individualiste
1.6 Teoria dell’etichettamento
1.7 Etnometodologia
1.8 Dinamiche Centro-Periferia
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CAPITOLO II
Introduzione alle strategie di sicurezza
2.1 Strategie di sicurezza e modello di società
2.2 Fattori di complessità della questione sicurezza
2.3 Insicurezza soggettiva e oggettiva
2.4 Insicurezza e coesione sociale
2.5 Insicurezza e rapporto Stato/cittadini
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CAPITOLO III
I nuovi fattori di insicurezza
3.1 La frustrazione sicuritaria
3.2 L’avversione del cittadino moderno al rischio
3.3 L’andamento dei fenomeni di devianza
3.4 Insicurezza e sistema dell’informazione
3.5 L’andamento dei fenomeni di devianza
3.6 Rapporto tra fattori oggettivi e soggettivi
alla base del senso di insicurezza
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CAPITOLO IV
La polizia di prossimità
4.1 Modello strategico
4.2 Accesso alla risorsa Polizia
4.3 Attenzione alle fasce deboli
4.4 Attenzione alla vittima
4.5 Il partenariato
4.6 Forze di Polizia e territorio
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CAPITOLO V
Immigrazione e sicurezza
5.1 Immigrazione e modello di società:
la legislazione sull’immigrazione
5.2 I centri di permanenza temporanea
5.3 La clandestinità e la devianza
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CAPITOLO VI
Le mafie
6.1 Criminalità organizzata e sviluppo
6.2 La Mafia Siciliana
6.3 La ‘ndrangheta
6.4 La camorra
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6.5 La Sacra Corona Unita
6.6 La criminalità straniera
6.7 Le strategie antimafia
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CAPITOLO VII
Devolution e sicurezza
7.1 La riforma costituzionale e il modello di sicurezza
7.2 La frammentazione del sistema sicurezza
7.3 Le ambiguità del testo di riforma
7.4 Riforme e non avventure istituzionali
7.5 La privatizzazione del sistema sicurezza
7.6 Da vigilanza privata a sicurezza sussidiaria
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CAPITOLO VIII
Sicurezza e libertà civili
8. 1 La società sorvegliata
8.2 La libertà personale
8.3 La tutela della privacy
8.4 Lotta al terrorismo e tutela dei diritti
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CAPITOLO I
APPUNTI SI SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
1.2
Definizione
La devianza non esiste senza il riferimento alla norma, intendendo il termine norma
non nel senso strettamente giuridico, ma nel senso più ampio possibile (qualsiasi regola che
sia sentita come vincolante per una qualsiasi ragione).
Definizione della norma sociale: “Proposizione articolata e codificata -o anche
idea, rappresentazione collettiva che si può comunque esprimere in una proposizione- la quale
prescrive ad un individuo o ad una collettività, come elemento stabile e caratterizzante della
sua cultura o subcultura, o d’una cultura o subcultura aliena cui è in quel momento
esposto, la condotta o il comportamento più appropriati (cioè “giusti”) cui attenersi in una
determinata situazione, tenuto conto delle caratteristiche del soggetto, delle azioni da esso
eventualmente subite, e delle risorse di cui dispone; ovvero, in parecchi casi, l’azione da
evitare, anche se comporta sacrifici o costi di varia natura. La maggior parte delle norme
sociali sono caratterizzate dall’uso implicito o esplicito di verbi quali “si deve”, “bisogna”,
“è giusto che”, e del modo imperativo (“dite la verità”). Una classe particolare di norme
sociali, di rilevanza centrale in tutte le società, è formata dalle norme di diritto. La violazione
di una norma, chiamata devianza sociale, attira di solito una sanzione, la cui entità è
proporzionale all’importanza attribuita alla norma dalla collettività che vi si conforma.
Definizione della devianza sociale: “Atto o comportamento o espressione, anche verbale,
del membro riconosciuto di una collettività che la maggioranza dei membri della collettività
stessa giudicano uno scostamento o una violazione più o meno grave, sul piano pratico o su
quello ideologico, di determinate norme o aspettazioni o credenze che essi giudicano
legittime, o a cui di fatto aderiscono, ed al quale tendono a reagire con intensità
proporzionale al loro senso di offesa. Essenziale al significato di Devianza sociale è il
riferimento a una collettività determinata e al suo sistema di Diritto, poiché non esistono
“devianze” in sé, ma solamente definizioni sociali di ciò che è atto conforme o atto deviante.
Se le norme di due collettività cui un soggetto appartiene sono tra loro in conflitto, il
medesimo atto può apparire deviante rispetto alle norme di una, me del tutto conforme alle
norme dell’altra. La devianza ideologica rispetto a quella che un partito politico considera
l’ortodossia è detta piuttosto deviazionismo. A rigore, lo stesso concetto di devianza può
applicarsi a soggetti collettivi, ma tranne che nella sfera politica, dove è comune parlare di
deviazionismo di un gruppo o di un partito rispetto alla linea di un partito guida, il termine si
applica per lo più a individui”.
1.2
Nascita della sociologia della devianza
Il termine devianza fu introdotto in Sociologia per consonanza col termine deviazione
statistica. Siamo in pieno periodo positivista ed uno dei riferimenti teorici più importanti è
Quételet, che elabora il concetto di uomo medio e rivendica la necessità del ricorso a metodi
scientifici, in particolare il ricorso alla statistica, per quantificare e poi comprendere i
comportamenti ed i fenomeni sociali.
La norma statistica è il valore centrale della distribuzione di alcune caratteristiche. E
questa norma statistica, spostata sul piano sociale, diviene la normalità della Sociologia. È
normale il comportamento statisticamente più ricorrente. Immaginando una
rappresentazione della distribuzione dei comportamenti sociali su di un piano cartesiano, si
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ha come risultato una curva di Gauss, dove si può vedere bene anche la probabilità della
distribuzione dei comportamenti devianti, pochi e marginali, e la si può intendere anche
come rappresentazione di una
collocazione politica (sia nel
senso che al termine politica
diamo oggi sia nel senso di
collocazione
nello
spazio
urbano) della devianza. Si
raffigura così la dicotomia dello
spazio sociale tra Centro e
Periferia.
Ma torneremo su questo successivamente.
Ora, invece, tornando al clima positivista, bisogna sottolineare che è una tendenza,
questa dell’affermazione dei metodi statistici in particolare, ma in generale quantitativi, che
coinvolge non solo la Sociologia. Si diffondono studi antropometrici, psicometrici,
biometrici. Diventa quasi ossessivo il bisogno di ridurre a quantità misurabili tutti gli aspetti
della vita. Credo che questa possa inquadrarsi in un movimento più generale che coinvolge
l’intera Modernità e la caratterizza a fondo. Mi piace parlare di una progressiva
materializzazione dell’oggetto della scienza, quindi, per quel che riguarda l’uomo, riduzione
del fenomeno-uomo a fenomeno-corpo. È un lungo processo che sposta sempre più
l’attenzione sulla materialità della vita, con la nascita o la ripresa della clinica moderna, ma
anche della psicologia fisiologica, della fisiognomica, della criminologia positiva
(Lombroso), ecc.. Si vuole offrire un metodo inoppugnabile di studio alle scienze sociali e
alle scienze umane facendo ricorso al metodo della scienza positiva.
Personalmente vi vedo anche agire una nuova mentalità, molto legata all’illuminismo,
l’universalità della natura umana, tutti gli uomini valgono una unità, secondo i metodi
statistici, c’è l’affermazione di una unità di piano e non più una gerarchizzazione degli
uomini, che si riappropriano della loro natura. Tutti gli uomini sono punti appartenenti allo
stesso piano. Tutti hanno le stesse capacità in origine, la società deve permettere a tutti di
poter accedere ai ruoli loro più confacenti. I principi della nuova società sono libertà,
uguaglianza, fraternità. Cresce la fiducia nella possibilità plasmatrice dell’Educazione, della
Pedagogia. Come in ogni tempo di Nuovo Ordine, c’è bisogno di una Nuova Pedagogia,
sono diversi i Valori da far interiorizzare agli individui. Ma di questo sono ben coscienti gli
Illuministi e anche in risposta a questa esigenza si può concepire il progetto
dell’Enciclopedia, ad esempio. Ma, nonostante tutto, anche la Rivoluzione Francese ha i
suoi esclusi. Sono gli schiavi, ma anche i folli. Esclusione esterna (gli schiavi delle colonie),
Esclusione interna (cittadini minori). L’uscita dallo stato di minorità dell’uomo, elemento
caratterizzante l’Illuminismo secondo Kant, è dunque un’uscita parziale. Ci sono ancora
categorie di esclusi perché difformi dal modello riconosciuto di normalità.
Naturalmente finora ho voluto intendere il termine devianza nell’accezione più ampia
possibile, comprendente qualsiasi spostamento dal comportamento più ricorrente nella
rappresentazione della distribuzione dei comportamenti degli individui di una collettività su
un piano cartesiano.
Passeremo ora in rassegna alcuni modelli di analisi della devianza.
1.3
Modello classico della devianza
Uno dei primi sociologi ad occuparsi della devianza, pur non usando questo termine,
ma quello di anomia, fu Durkheim. Preoccupazione principale di Durkheim è stata quella
dell’ordine in una società. Egli distingue due tipi di società, società semplice e società
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organica, distinzione basata sulla differente divisione del lavoro sociale. Nel primo tipo di
società gli individui svolgono tutti lo stesso tipo di lavoro, non ci sono grosse differenze tra
gli individui e questo permette una forte stabilità nel gruppo, una coesione sociale che si
produce meccanicamente (solidarietà meccanica).
Problemi per tenere uniti i vari individui, che svolgendo lavori differenti dando luogo
ad una forte differenziazione dei ruoli, che può dar adito a richieste di differenziazioni
interne, ad una richiesta di gerarchizzazione degli individui e a spinte individualiste
disgregatrici dell’unità sociale. C’è bisogno di una forte socializzazione per far comprendere
ed interiorizzare agli individui i valori di una solidarietà organica, di essere tutti parte dello
stesso organismo e che ciascuno svolge una funzione vitale per la sopravvivenza di questo
organismo sovraindividuale (la società) che funzionando bene permette la pacifica
coesistenza ed il giusto riconoscimento delle esigenze di tutti. Le rappresentazioni collettive
svolgono una funzione importantissima nella sociologia di Durkheim, essendo assegnata alla
loro interiorizzazione la capacità di tenere insieme la società. Quando vanno in crisi queste
rappresentazioni (sia essa crisi positiva o negativa), vi è una forte tendenza all’anomia,
all’assenza dei riferimenti ai valori fondativi della socialità dell’uomo. Interessanti a tal
proposito le considerazioni che Durkheim fa nella sua ricerca sul suicidio. Durkheim
riconosce alla devianza il ruolo di motore della società. Essa è endemica alla società e può
essere considerata il laboratorio di nuovi valori di riferimento per la strutturazione di nuove
rappresentazioni sociali che mutano il quadro di riferimento per la coesione della Società,
permettendo magari di superare fasi di crisi e di recuperare -mutatis mutandum- la coesione
sociale.
Il modello offerto da Durkheim è un modello sociale ad ampio raggio, nel senso che
l’uomo non ha quasi spazio al di fuori dei processi di socializzazione. La dimensione sociale
investe ogni aspetto dell’uomo. Un modello teorico simile sarà ripreso da Parsons, che
parlerà in particolare di interiorizzazione dei ruoli, non essendo altro, per lui, il sistema
sociale che un sistema di ruoli. In tutti questi modelli prevale la colpevolizzazione del
deviante risultando la devianza non essere che una incompleta od inadeguata
socializzazione.
Per queste teorie si parla di una concezione ultrasocializzata dell’uomo.
Vi svolgono una funzione fondamentale, l’abbiamo visto, l’interiorizzazione dei valori
e dei modelli operativi (ruoli) offerti e riconosciuti dalla società, che permettono un esteso
controllo sociale. Ancora, nei momenti di crisi il deviante può assurgere a capro espiatorio
della crisi e rendere coesa la società nella risposta contro il nemico, il colpevole della crisi. È
questa una funzione che possiamo riconoscere, ad esempio, anche al sacrificio nelle società
antiche.
Una delle possibili critiche che possono muoversi a questo modello è la scarsa o nulla
considerazione della libertà di comportamento umano, vi è una lettura totalmente
funzionalista del comportamento e del ruolo dell’individuo, che non può non agire secondo
le norme legate al suo ruolo se non vuoi mettere in pericolo la riproduzione e la
sopravvivenza del Sistema Sociale, nel cui contesto soltanto è possibile dare un senso
all’agire umano. Questa immagine organicista della società porta con sé un modello
descrittivo della devianza e della risposta sociale alla devianza che possiamo definire
immunitario, particolarmente in voga nelle analisi dei fenomeni migratori. Come ogni
fuoriuscita dal ruolo può essere considerata in tale modello una patologia dell’individuo,
così la diffusione nella società di corpi estranei (i migranti) che non hanno ancora un ruolo
per loro definito, può essere vista come una patologia del Sistema Sociale. Si parla di fattori
di rischio per l’omeostasi della società, perché questi migranti sono portatori di valori altri,
differenti e sono portatori di rappresentazioni sociali di altre società. I meccanismi messi in
atto dalla società sono di due tipi: assimilazionisti o di esclusione. Coloro che si integrano,
assumendo il ruolo che viene loro offerto, restano nel corpo sociale, seppure ai margini,
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vengono tollerati. Coloro invece che non accettano di buon grado il ruolo marginale loro
offerto, fanno scattare le risposte repressive (espulsione). La metafora vale anche per la
devianza non originata dal fattore migrazione, naturalmente, si parla di alte temperature
sociali per le lotte sindacali (febbre), ad esempio, di risposte specifiche o generalizzate
(corpi speciali o forze dell’ordine “ordinarie”), ecc. Naturalmente bisogna sempre tener
conto che si tratta di una metafora e di un modello, seppur euristicamente utile, pur sempre
un modello ridotto e semplificato della società.
1.4
Teorie a medio raggio
Parliamo adesso di un altro tipo di teoria, detta a medio raggio perché non pretende più
offrire un modello di spiegazione totale della società, ma intende partire dalla
generalizzazione empirica su dati relativi ad ambiti concettualmente limitati. Come
rappresentate di questo modello prenderemo Merton.
Merton parte dalla distinzione tra mete (od obiettivi) culturali e mezzi istituzionalizzati
per il loro raggiungimento.
Le mete culturali sono gli interessi, gli scopi che si presentano come obiettivi legittimi
per tutti i membri della società (ricchezza, successo, prestigio, ecc.). Sono i valori positivi di
riferimento. I mezzi sono i modi legittimi per raggiungere gli obiettivi. Certo l’analisi di
Merton in questo caso sembra molto tagliata sulla società americana, sul sogno americano,
che ha alla base una considerazione positiva dell’ambizione ed una colpevolizzazione di
quanti rinunciano alle proprie ambizioni, ma d’altra parte, come detto, Merton generalizza i
dati riscontrati in un ambito ristretto e particolare e non vuole offrire un modello
onnicomprensivo della realtà sociale.
Merton ritiene che proprio il riferimento differente degli individui ai mezzi ed agli scopi
permetta si stendere una tipologia dei comportamenti devianti in questi termini:
1. deviante rispetto allo scopo che si prefigge;
2. deviante rispetto ai mezzi scelti per raggiungere lo scopo.
Ne discendono:
1. gli innovatori, coloro che, pur conformandosi agli scopi dominanti, sono devianti
rispetto ai mezzi usati per raggiungerli (in particolare coloro che si rivolgono al crimine per
raggiungere gli scopi. Merton ritiene questo un comportamento riscontrabile soprattutto
negli strati inferiori della società, che hanno poche possibilità legittime di successo, pur non
accettando un determinismo del comportamento deviante in base allo status sociale
dell’individuo);
2. i ritualisti, fedeli ai mezzi consueti, pur non condividendo gli scopi
“normali”(Merton ritiene riconducibili a tale tipologia esponenti della classe media
che hanno rinunciato al successo accontentandosi di quello che hanno, legandosi alla
lettera a tutte le regole e i modelli esterni di rispettabilità, rinunciando alla pericolosa
corso al successo);
3. i rinunciatari, che rifiutano mezzi, valori, scopi e norme (si può definirli, gli
appartenenti a questa tipologia, degli stranieri interni, perché pur vivendo nella
società, ne sono di fatto fuori, non condividendone i valori. Sono rassegnati a questa
loro condizione di estraneità alla società. Merton li individua nei mendicanti, negli
psicotici, nei drogati, nei diseredati, negli alcolisti, ecc.);
4. i ribelli, che mettono in discussione obiettivi e mezzi per affermarne di nuovi
(Merton parla di un processo di estraneità alla società anche in questo caso, ma
stavolta c’è la volontà di affermare un nuovo ordine sociale, una nuova struttura
sociale, basata sui riferimenti ad altri valori rispetto a quelli della società contestata.
La condizione per passare poi alla vera e propria azione rivoluzionari è
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l’organizzazione politica della contestazione e la disobbedienza totale ala struttura
sociale dominante. Merton sottolinea però che sono perlopiù i membri di un classe
dominante, anziché gli appartenenti agli strati oppressi, che organizzano i risentiti e
i ribelli in un gruppo rivoluzionario).
In questa tipologia, naturalmente, non si è tenuto conto del comportamento conforme,
definito da Merton il comportamento proprio di chi accetta e si conforma appunto ai mezzi e
agli scopi legittimi di una società.
L’anomia risulta essere una disgiunzione tra gli scopi proposti dalla cultura e le
possibilità concrete per raggiungerli attraverso mezzi “normali”. Prevale solo la
considerazione dell’efficacia dei mezzi per il conseguimento dell’obiettivo. Quindi, una
volta interiorizzati gli obiettivi si cercano tutti i mezzi (anche illegali) per raggiungerli.
La teoria mertoniana ha avuto molto successo, attirando però anche molte critiche.
Alcune, come già accennato, si sono soffermate sulla mancata considerazione di tutti i nessi
che legano la struttura sociale a quella culturale, ma Merton era ben consapevole di questo
limite, endemico, potremmo definirlo, di una teoria a medio raggio, consapevolmente scelta
da Merton, scettico verso una possibilità di costruire una teoria onnicomprensiva dei sistemi
sociali. Comunque la teoria mertoniana ha ricevuto critiche anche per la mancata
considerazione dell’interazione dell’individuo con i gruppi con cui viene in contatto, per la
mancata considerazione di altri possibili fattori della devianza oltre la frattura
obiettivi/mezzi, per la visione monolitica del sistema di valori alla base della società,
presentato come sistema condiviso da tutti senza possibili spazi per culture altre, ecc.
1.5
Teorie individualiste
Passiamo ora all’analisi delle teorie che hanno posto la loro attenzione particolare
sull’individuo deviante ed hanno richiamato l’attenzione sulla necessaria considerazione
della interazione per l’analisi dei comportamenti individuali, in questo caso, devianti. In
realtà comprendiamo sotto questa denominazione autori che si rifanno a paradigmi diversi
ed anche tra loro conflittuali. Ciò che accomuna questi autori è un richiamo all’empiria, se
possiamo così dire, cioè ad una ricerca qualitativa, ad una ricerca che dà ampio rilievo alla
individualità delle azioni e delle motivazioni, che parte dalla considerazione dell’esistenza
dei conflitti all’interno della società ed alla devianza considerata come fenomeno costruito
socialmente. Tra i primi appartenenti a questo modello sociologico possiamo citare gli
esponenti della Scuola di Chicago, che hanno posto particolare attenzione all’individuo e
alla sua “carriera” di deviante, sulle interiorizzazioni degli atteggiamenti altrui, sulle
conseguenze dell’etichettamento e sul restringimento di chances per queste persone. Un
apporto importante della scuola di Chicago fu il cosiddetto teorema di Thomas, “se gli
uomini definiscono reale una situazione, essa è reale nelle sue conseguenze”. Cioè è
essenziale alla comprensione del comportamento degli attori sociali la definizione di una
situazione che essi stessi ne danno. Rispetto alla devianza ne discende che nessun individuo
è deviante senza che egli stesso definisca la sua situazione come tale. Dunque si sottolinea
con forza la non esistenza della devianza in sé e la necessità del riconoscimento da parte
degli attori sociali della devianza, non solo da parte del gruppo dominante, ma anche del
soggetto o gruppo etichettato come deviante.
È nell’ambito di questi studi che il termine devianza si allarga e diviene comprensivo
delle forme di comportamento che violano le norme penali e quelle sociali, fino a
ricomprendere gli “stili di vita diversi”, tutto ciò che è etichettato come difforme, eccentrico,
diverso e perciò condannato dalla maggioranza.
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Iterazionismo simbolico
L’interazionismo simbolico si fonda su tre premesse:
1. gli esseri umani si comportano verso le cose sulla base dei significati che le cose
hanno per loro;
2. questi significati sono un prodotto dell ‘interazione sociale che avviene nella società
umana;
3. questi significati sono modificati e manipolati attraverso un processo interpretativo
attuato da ogni individuo quando entra in rapporto con i segni che incontra.
L’interazionismo è detto simbolico perché gli uomini vivono immersi in un universo
dove gli stimoli che lo coinvolgono sono dotati di significati e valori che vengono appresi
attraverso il processo di comunicazione e di interazione sociale (simboli). I simboli sono il
patrimonio su cui si basa lo scambio e l’interazione tra gli individui. C’è quindi
un’inscindibile rapporto tra individui e società, considerati una unità inscindibile, in
rapporto di mutua interdipendenza. Il comportamento viene, in altre parole, considerato non
come qualcosa di determinato dalla forze esterne (forze sociali) né come determinato
semplicemente da forze interne (istinti, pulsioni, bisogni), ma frutto di una interpretazione
cosciente e socialmente derivata degli stimoli interni ed esterni.
1.6
Teoria dell’etichettamento
Abbiamo già richiamato in parte questa teoria che emerge con forza, ad esempio,
nell’opera Outsiders di Becker, che afferma: “I gruppi sociali creano la devianza istituendo
norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando queste norme a persone
determinate e attribuendo loro l’etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la devianza
non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto la conseguenza dell
‘applicazione di norme e sanzioni su chi è ritenuto “colpevole”. Il deviante è uno a cui
questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un
comportamento che le gente etichetta così”.
Di qui ne discende che il processo di costruzione della realtà va inteso nel senso di una
interpretazione della realtà, e che questo processo ha aspetti conflittuali, in quanto mette in
gioco il potere che i diversi attori hanno di imporre la propria interpretazione della realtà.
Termini della questione che riecheggiano motivi della filosofia di Nietzsche.
In questo contesto conviene inoltre richiamare la teoria della scelta razionale di
Homans, secondo cui l’uomo agisce per massimizzare i profitti, interiorizzando i
comportamenti che hanno avuto una ricompensa “rinforzo” e scartando quelli che non hanno
dato frutti “frustrazione”, impostazione che questa teoria trae dal comportamentismo di
Skinner, anche se Homans si richiama alla tradizione dell’utilitarismo anglosassone oltre che
all’economia neoclassica. Per Homans ogni interazione tra uomini si riduce ad uno scambio
in cui ciascuno cerca di massimizzare il proprio profitto riducendo al minimo i costi. Il
limite della teoria è che la razionalità della scelta è sempre limitata da fattori contingenti,
dalle informazioni disponibili e dalla relatività della “razionalità” nelle singole culture.
1.7
Etnometodologia
L’etnometodologia si propone di analizzare l’ovvio, il mondo della vita quotidiana
nella sua stessa quotidianità.
Ma seguiamo le parole di Garfinkel:
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“l’etnometodologia cerca di considerare le attività pratiche, le circostanze pratiche e il
ragionamento sociologico pratico come argomenti di indagine empirica, attribuendo alle
attività più ordinarie della vita quotidiana l’attenzione generalmente accordata agli eventi
straordinari, cerca di apprendere qualcosa su tali attività come fenomeni degni di studio in
quanto tali. La sua tesi fondamentale è che le attività attraverso cui i membri della società
producono e gestiscono situazioni quotidiane organizzate sono identiche ai procedimenti
usati dai membri per renderle “spiegabili” (account-able) […] osservabili e riferibili, cioè
disponibili come pratiche situate consistenti nel guardare e raccontare. Intendo dire anche
che tali pratiche costituiscono una realizzazione contingente e continua; che sono svolte e
fatte accadere come eventi nell’ambito di quelle stesse faccende quotidiane che
nell’organizzare esse descrivono; che, in quelle situazioni, sono eseguite da individui i quali
riconoscono, usano e danno per scontata la propria competenza, cioè la propria capacità,
la propria conoscenza e il proprio diritto a compiere tale realizzazione, dipendendovi
ostinatamente”. Ogni attività del soggetto, per gli etnometodologi, va analizzata a partire
dall’intenzionalità del soggetto. Siamo nell’ambito di una sociologia comprendente, che
rifiuta ogni determinismo causale. Resta però da dire che l’apporto principale
dell’etnometodologia alla sociologia della devianza in particolare, ma anche a tutta la
sociologia in generale resta sul piano metodologico. D’altronde già il nome tradisce la
volontà metodologica della teoria. Si sposta l’attenzione sulle intenzioni del soggetto
deviante, sulle sue costruzioni della realtà, sul punto di vista dell’agente. Qui si colloca
anche la differenza con l’interazionismo simbolico, più interessato alle dinamiche
individuo/gruppo.
Bisogna poi considerare l’atto deviante.
L’atto che una società considera deviante può anche essere considerato non deviante in
un altro contesto socio-culturale. Le norme, infatti, sono prodotti sociali che variano nello
spazio e nel tempo; riferendosi sempre alla norma la devianza, è logico che vari anch’essa a
seconda del contesto normativo di riferimento.
Ancora c’è da considerare i criteri di tolleranza per la devianza in una società a
seconda dei momenti storici. Generalmente nei momenti di crisi scatta una definizione rigida
dello spazio identitario, si richiama ai valori fondativi di una società con poco spazio di
tolleranza per la diversità e la differenziazione (si pensi ai momenti di guerra, quando si
chiama la popolazione a stringersi intorno alla bandiera, alla patria, al leader e scatta
facilmente l’accusa di tradimento per chi tenta di introdurre dei distinguo nell’accettazione
di questi valori e nella loro accettazione).
E’ funzionale al potere costituito chiamare tutti alla difesa dei valori patri e a generare
allarmi, giustificando comportamenti intolleranti verso ogni forma di devianza. Si può
definire anche radicalizzazione dello statuto identitario.
Si pensi all’immagine della Fortezza Europa contro l’invasione dei migranti ed in
particolare contro l’Islam. C’è una forte chiusura degli spazi dove prima poteva trovar posto
la diversità tollerata.
Nella figura si può immaginare “C” come il centro, la roccaforte inespugnabile
dell’identità, lo spazio “B” come lo spazio più prossimo al centro, dove c’è una
considerazione di non-conformità all’identità del centro che comporta blande sanzioni di
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esclusione e marginalizzazione; lo spazio “A” è lo spazio di esclusione più forte che arriva
fino al margine estremo di tolleranza, confina con lo spazio degli interventi di espulsione dal
Sistema Sociale. Nei momenti di tensione si può immaginare una radicalizzazione della
differenza tra centro “C” e zona “B” da una parte e zona “A” dall’altra, che trasforma il
confine tra “B” e “C” in un vero e proprio muro. Muro che in casi molto gravi può ergersi
anche tra lo spazio “C” e gli altri spazi. Perché -ed è questo il senso delle frecce che partono
dal centro “C”- è il centro che disegna i confini dello spazio sociale e li definisce
politicamente. È dal centro che si irradiano i valori di riferimento che gli appartenenti alle altre
zone devono interiorizzare se vogliono essere accettati come “cittadini” a tutti gli effetti.
Circa le risposte della società possiamo schematizzarle in due tipi: inclusive:
assimilazione, periferizzazione, differenziazione; ed esclusive: istituzionalizzazione.
Le risposte inclusive sono quelle che permettono il movimento e la visibilità nello spazio
condiviso, secondo però una considerazione differenzialista e di pura tolleranza.
Le risposte esclusive, sono quelle che escludono dalla visibilità sociale il deviante
(carcere, manicomi, espulsione).
1.8
Dinamiche Centro-Periferia
In periferia sono diffuse dinamiche più elastiche di tolleranza di quelle che il centro
definisce devianza, ma che a volte non sono che vere e proprie culture differenti, definite
subculture perché minoritarie o numericamente o nella rappresentanza politica, ma che
offrono statuti identitari che possono a loro volta irrigidirsi e chiudersi nei momenti di crisi
di rapporti con il centro (si pensi alle rivolte dei ghetti americani).
10
CAPITOLO II
INTRODUZIONE ALLE STRATEGIE DI SICUREZZA
2.1
Strategie di sicurezza e modello di società
L’obiettivo dell’insegnamento della materia di “Devianze e tecnologie educative e di
contrasto” è quello di fornire un soddisfacente livello di conoscenza degli strumenti e delle
strutture in materia di sicurezza.
In questo insegnamento verranno affrontate le questioni strategiche di visione
complessiva delle attività di polizia e sicurezza con lo sforzo di mettere in evidenza le
connessioni esistenti tra i singoli istituti e le singole iniziative.
L’insegnamento, però, più che porre l’accento sugli aspetti tecnici del funzionamento
delle strutture e degli strumenti di contrasto, pone una attenzione particolare alla funzione
che questi svolgono, al fine di favorire uno approccio strategico complessivo verso
l'investigazione, tema conduttore di questo Corso di Laurea.
L'investigazione ha un duplice compito, da un lato è funzionale al processo penale e,
quindi, al ripristino del principio di giustizia, dall’altro concorre, in maniera determinante,
alla produzione della sicurezza di un Paese.
L'investigazione e il processo penale hanno una funzione di giustizia, ma hanno
anche quella che generalmente si definisce di “prevenzione generale”. Infatti, quanto più
l’investigazione sarà adeguata ed efficace, tanto più il processo sarà veloce, il che
contribuirà allo sviluppo di una strategia anticrimine che permetterà di diminuire l’allarme
sociale rispetto ad un determinato fatto costituente reato.
Ogni particolare aspetto dell'attività di sicurezza ha una funzione determinante
rispetto al generale, in quanto permette di comprendere meglio verso quali orizzonti si
indirizza una società. La sua macroanalisi, infatti, permette di individuare strumenti capaci
di realizzare e mantenere un livello di sicurezza che sia considerato accettabile dalla
maggioranza dei cittadini.
Quando, però, si fa una scelta in materia di polizia, in materia di giustizia e
soprattutto in materia di sicurezza, si fa una scelta strategica, una scelta di priorità in
quanto le risorse a disposizione dei Governi non sono infinite. La scelta delle priorità
definisce un modello, un modello di sicurezza, un modello di polizia ed in ultima analisi un
modello di società.
2.2
Fattori di complessità della questione sicurezza
Vi sono comportamenti delinquenziali che possono riguardare tantissimi beni
materiali e immateriali, ma di fatto non esiste un Paese che sia in grado di fronteggiare,
allo stesso modo con lo stesso impegno, finanziario e organizzativo, qualunque tipo di
reato.
Quindi, se un Paese destina risorse all’usura, per fare un esempio, invece che al
contrasto dell’immigrazione clandestina, compie una scelta di modello di polizia e di
sicurezza, ma compie soprattutto una scelta di modello di società.
Destinare ingenti risorse al contrasto dell’immigrazione clandestina, a prescindere
dall’esistenza di situazioni di emergenza, ovviamente è il risultato di politiche di governo
dei flussi migratori.
Conseguentemente, per dirla in maniera abbastanza scettica, un Paese che impegna
molte risorse per il contrasto dei fenomeni criminali come il racket e l’usura, a prescindere
11
dalle contingenti emergenze, ritiene che la difesa dei propri cittadini da queste forme di
violenza capillare, che stanno dentro alla società, debba essere assolutamente perseguita.
Quindi, dietro ogni scelta di polizia e di sicurezza non ci sono mai solo questioni
tecniche, ma soprattutto modelli di società verso cui tendere. D’altra parte i modelli che si
vogliono proporre devono pur sempre restare coerenti al contesto di appartenenza, per
assicurare la corrispondenza tra le norme scritte del comportamento dei gruppi associati e
le istanze culturali che quei gruppi esprimono, in modo che il patto sociale sia il più
possibile universalmente riconosciuto e accettato.
Un comportamento deviante, infatti, viene represso, non soltanto perché determina
un allarme sociale in quel determinato momento storico, ma anche perché mette in
discussione qualcosa di più complesso, che è in ultima analisi il modello di società.
Si ritiene, allora, importante avere una consapevolezza chiara e netta del rapporto
che c’è tra l’attività di polizia, la società ed i processi di cambiamento che in essa si
generano, in quanto la questione sicurezza sta diventando sempre più complessa in Italia,
come nel resto del mondo.
Nell’immediato dopoguerra la questione sicurezza in Italia era molto meno
complessa di quella attuale, per una serie diversificata di fattori oggettivi e soggettivi.
Uno dei principali fattori oggettivi risiede nella maggiore povertà della società di
allora che implicava l’assenza di condotte predatorie che crebbero, invece, negli anni
successivi col diffondersi dell’opulenza. I comportamenti predatori sono i crimini di strada,
le rapine, gli scippi, i furti che, via via,vennero considerati e classificati sotto la voce
criminalità diffusa e di strada.
In una società più ricca come quella attuale è, infatti, fisiologico che aumentino i
comportamenti predatori nelle città più che nelle province e nelle campagne con il
conseguente aumento dell’insicurezza.
Un altro fattore oggettivo è costituito dalla diffusione imponente di sostanze
stupefacenti nel nostro Paese dagli anni ‘70 in poi, quand’ancora non se ne conosceva il
consumo di massa. In quegl’anni, la crescente offerta di sostanze stupefacenti incontrò il
diffondersi di un generalizzato disagio, specie in alcune fasce di età, con il successivo e
progressivo aumento della domanda.
L’aumento del livello di diffusione delle sostanze stupefacenti ha comportato il
rafforzamento in Italia della presenza, accanto ad una rete più o meno capillare di piccola
criminalità, del crimine organizzato, importatore di grandi quantità di droga.
I proventi del traffico della vendita degli stupefacenti sono stati, poi, utilizzati anche
per rafforzare le altre attività criminali, come l’infiltrazione nel sistema degli appalti, il
controllo capillare del territorio, attraverso il racket e l’usura e, l’avvio di una vera e propria
impresa legale mafiosa, che con l’utilizzazione di capitali recuperati a bassissimo costo
(rispetto al sistema ordinario d’impresa) ha alterato le condizioni di mercato.
Fondamentalmente sono questi i due fattori oggettivi (incremento dei livelli socioeconomici nell’immediato dopoguerra e diffusione massiccia di sostanze stupefacenti) che
con maggior incidenza hanno determinato il rafforzamento dei gruppi criminali in Italia e
che rendono oggi la sicurezza una questione abbastanza complessa.
La questione sicurezza è stata influenzata anche da fattori soggettivi. Il primo di
questi è la sensazione di una minore protezione sociale. È noto che negli ultimi decenni, in
tutta l’Europa occidentale, si sono determinati profondi cambiamenti al sistema del welfare
che hanno inciso in maniera negativa sul sistema sociale, introducendo tagli anche
all’impianto della sicurezza sociale.
In alcuni Paesi all’introduzione dei tagli è corrisposta un’evoluzione del welfare, le
cui riforme hanno, comunque, garantito un alto livello di protezione sociale; protezione
che, invece, non è stata assicurata in altri Paesi come l’Italia. In ogni caso in questi anni è
12
cresciuta una certa incertezza di fondo (indicatore di una insicurezza più diffusa) le cui
radici affondano in quella minore protezione sociale.
Solo negli ultimi anni, nel nostro Paese, la preoccupazione dei cittadini nei confronti
della criminalità e della delinquenza è diventata oggetto di studi sociali. Gli studiosi
sostengono che il sentimento di insicurezza generalizzata sia dovuto all’incertezza per il
proprio futuro, il proprio lavoro, la propria salute. E ciò finisce per determinare, a livello
personale, anche una maggiore paura.
Le città e i grandi agglomerati metropolitani, che storicamente nascono anche con la
funzione di socializzare le paure, oggi paradossalmente conoscono la loro etorogenesi dei
fini. La complessità della società postmoderna ha pervaso tutti gli ambiti del vivere sociale,
finendo per determinare maggiori insicurezze.
Il secondo fattore soggettivo è legato al sistema dei mezzi d’informazione di massa:
radio, televisione, giornali, internet ecc. Nel villaggio globale dell’informazione
massmediatica, infatti, il cittadino che vive ad Aosta, in una realtà assolutamente sicura,
viene a contatto con i fatti di cronaca che accadono da un’altra parte del Paese e del
mondo. Pur non essendo la vittima diretta, egli si sentirà comunque più insicuro. La
dimensione spazio-temporale, contratta dai media, incide, infatti, su quella soggettiva,
aumentando così la percezione di insicurezza. Ed è cosi che aumenta la fascia di persone
che dichiarano di sentirsi più insicuri.
2.3
Insicurezza soggettiva e oggettiva
È probabile che anche in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, così come si è
detto prima, la paura personale della criminalità sia aumentata fortemente negli anni
‘70/’80, quando iniziava a crescere il tasso di furti, di rapine e di omicidi commessi ogni
anno.
Facendo riferimento all’indagine condotta dall’ISTAT, dal 1992 al 2001, però,
paradossalmente, la quota dei reati è nettamente diminuita. Ciononostante, un’ampia
fascia di popolazione si sente, via via, sempre più insicura e convinta che i fenomeni
criminali nel nostro Paese stiano aumentando.
La paura della criminalità, il timore di esserne colpiti e la conseguente insicurezza,
fanno parte, dunque, di un fenomeno che sta caratterizzando sempre più profondamente la
società contemporanea e comporta gravissime conseguenze sociali e psicologiche.
Molti ricercatori, inoltre, sottolineano come l’insicurezza possa, da un lato divenire
un fattore critico nei processi che determinano ansia e stress, dall’altro lato determinare
una limitazione dei comportamenti e dei movimenti delle persone, nonché modificare
sostanzialmente le relazioni sociali degli individui.
Quelli descritti sono essenzialmente i primi elementi che ci confermano qual’è la
complessità della questione sicurezza nel nostro Paese. Per questo chi ha la responsabilità
politica e tecnica della sicurezza di un Paese non può non porsi il problema di come
realizzare strategie che siano, allo stesso tempo, efficaci sia dal punto di vista del contrasto
dei fenomeni criminali che dal punto di vista della rassicurazione sociale.
Fino a qualche decennio fa, se in un piccolo quartiere o in una città aumentavano i
furti accadeva che si attivavano gli investigatori, si intercettava qualche piccola banda
locale, abbassando così, l’allarme sociale ed il problema veniva risolto. Tutto questo oggi
non è possibile. Le dinamiche sono molto più complesse, per cui chi ha la responsabilità
della sicurezza deve in ogni momento fare delle scelte di priorità, tenendo conto delle
risorse limitate e dei fattori fin qui enunciati.
Per citare un altro esempio mediatico, c’è stato un periodo in cui il lancio dei sassi
dai cavalcavia ha costituito un enorme fattore di allarme sociale.
13
L’identificazione ed il conseguente allarme del cittadino con questi avvenimenti
drammatici, piuttosto che con altri altrettanto gravi, come il sequestro di persona, è stato
sicuramente più forte. Questo è accaduto, perché, rispetto a quest’ultimo, sono veramente
pochi coloro che in esso possono identificarsi, mentre la probabilità di percorre
un’autostrada e divenire vittima del lancio di un sasso è molto più elevata.
A volte, quindi, le risorse e le attenzioni di chi ha la responsabilità della sicurezza si
concentrano su fenomeni che, se da un punto di vista criminale hanno un livello più basso
di pericolosità, da un punto di vista sociale possono produrre un forte allarme.
La complessità della questione sicurezza si gioca tutta sulla dicotomia insicurezza
oggettiva-reale e insicurezza soggettiva-percepita.
2.4
Insicurezza e coesione sociale
Il problema della sicurezza non può essere sottovalutato; non c’è, infatti, Paese nel
mondo occidentale che può permettersi questo lusso, perché esso è valutato ovunque ai
primissimi posti delle preoccupazioni dei cittadini.
A prescindere dal tasso di occupazione, in effetti, tanto nelle zone a basso tasso di
disoccupazione (2% nel Nord Est) quanto nelle aere che sfiorano il 27 %, come quella
della Calabria, l’insicurezza è comunque considerata una delle più importanti inquietudini
delle persone.
L’aspetto della sicurezza non può essere trascurato anche perché, molto spesso, è
direttamente collegato con il sentimento della paura, che da millenni è un fortissimo
elemento di condizionamento.
2.5
Insicurezza e rapporto Stato/cittadini
Il cittadino che ha paura è portato a mandare allo Stato il messaggio: “sono
disponibile a rinunciare ad una quota delle mie garanzie civili a condizione che tu mi possa
garantire!”.
Ciò può determinare una svolta anche in senso autoritario: dallo stato di natura allo
stato di diritto, allo stato dove qualcuno si offre volontario per garantire maggiore
sicurezza a condizione che si limitino le libertà civili. La questione è vecchissima: mentre
nel mondo antico il suddito era disposto a sacrificare qualsiasi libertà ad un sovrano che
potesse garantirgli la propria incolumità, della sua famiglia e dei suoi beni, nel mondo
moderno la maggiore conquista allo stato di diritto è esattamente il rispetto dei diritti
fondamentali della persona.
Si va rafforzando negli ultimi anni ed in particolare in Europa e in America l’idea
che, a fronte di pericoli sempre maggiori, come quelli determinati dal terrorismo, in fondo
sia necessario sacrificare una percentuale crescente di libertà civili, per garantire la
sicurezza di tutti.
Ecco quindi il cervellone elettronico che ascolta un numero incredibile di telefonate
e segnala automaticamente quelle che possono costituire un rischio; ecco il rilevamento
delle impronte digitali di tutti gli immigrati e non, da mettere sulla carta di identità; ecco la
banca dati del DNA; ecco che dall’occhio politico si passa all’occhio privato
dell’investigatore sino ad arrivare all’ultima, complessa e tortuosa tappa di questo
processo: l’occhio della telecamera, un Dio dell’obiettività che sempre ti vede e non
sbaglia, che scopre peccatori insospettabili.1
1
cfr. F. SIDOTI, La cultura dell’investigazione, Koinè Nove edizioni, Roma 2002, p. 25
14
Un Paese, allora, non può non porsi il problema dello sviluppo della fiducia da parte dei
cittadini. E questa si accresce non soltanto se lo Stato vince definitivamente contro il
crimine -cosa che sarebbe anche strutturalmente impossibile-, ma se il cittadino avrà la
sensazione che lo stesso stia affrontando la questione sicurezza, adottando le adeguate
strategie, capaci di realizzare quel mix di equilibrato tra rassicurazione e azione di
contrasto.
15
CAPITOLO III
I NUOVI FATTORI DI INSICUREZZA
3.1
La frustrazione sicuritaria
Fin qui si è affrontato il tema della complessità della questione sicurezza,
sottolineando come questa sia una delle problematiche di più difficile soluzione per la
società moderna.
È la complessità della questione sicurezza, infatti, a rendere insufficienti strategie
di intervento di carattere schematico e semplicistico che leggono la realtà in termini di:
sola repressione – sola prevenzione – solo sviluppo – solo risanamento – solo
rassicurazione. Ed è sempre questa complessità a richiedere un approccio olistico che
esprimendosi, invece, in strategie articolate, interviene non solo in modo efficace, ma è
anche percepito come tale dai cittadini.
Persino l’individuazione dei fattori di insicurezza diventa difficile data la
complessità dell’argomento. Il sociologo francese Robert Castel, infatti, si è recentemente
interrogato sul perché nelle società più sicure, le preoccupazioni relative alla sicurezza
rimangano onnipresenti. Egli conclude la sua analisi, rilevando che alla base di una
continua ricerca di protezioni vi sia una fondamentale avversione del cittadino moderno
verso qualsiasi tipo di rischio: economico, sociale o personale.
Un’avversione che produce una sorta di frustrazione sicuritaria, causata
dall’impossibilità di dominare tutti gli eventi imprevedibili della vita. Una sorta di
frustrazione che gli impedisce di sentirsi completamente sicuro. Una tesi, quella di Castel,
indubbiamente suggestiva che coglie uno dei paradossi della modernità: il dramma
psicologico di una società che non riesce a trarre dalla sua opulenza benefici significativi
sul terreno della sicurezza, anzi, è costretta a subire nuove forme di aggressione proprio
negli aspetti della vita sociale, dove si registra il più avanzato livello tecnologico (come
dimostra l’aumento esponenziale dei reati consumati attraverso internet). Tuttavia, alcune
obiezioni a questa tesi possono aiutarci a ragionare sui nuovi fattori di insicurezza,
condizione, questa, necessaria per tentare di proporre strategie sempre più efficaci.
3.2
L’avversione del cittadino moderno al rischio
La prima osservazione concerne la citata avversione al rischio, che sembra, però,
essere una costante della condizione umana, piuttosto che una caratteristica della modernità.
Semmai, la novità risiede nella delusione dei cittadini, per l’incapacità degli organismi
preposti, di garantire un livello di sicurezza adeguato alle loro aspettative. Delusione che a
sua volta produce ulteriore insicurezza.
Tutto questo conduce direttamente alla seconda osservazione: le società moderne,
nonostante siano costruite su varie forme di protezione civili e sociali, non sono
paradossalmente e necessariamente le società più sicure che siano mai esistite.
Determinante in questa valutazione non è solo la presenza più o meno visibile dei modelli
di protezione, ma soprattutto la percezione che il cittadino ha dell’insieme dei fattori che
contribuiscono a determinare un giudizio, che è sempre meno oggettivo e assoluto e sempre
più soggettivo e relativo. Si sta facendo strada, cioè, la consapevolezza che l’insicurezza è,
innanzi tutto, uno stato d’animo.
16
A questo proposito, l’analisi dell’etimo ci viene in aiuto: il termine sicuro -dal
latino securum, ossia senza cura, senza affanno- sta ad indicare una condizione soggettiva
della persona.
3.3
L’andamento dei fenomeni di devianza
Come già sottolineato, il grado d’insicurezza prescinde, spesso, da fattori oggettivi,
come l’andamento reale dei fenomeni criminali nel proprio quartiere o nella propria città ed
è condizionato soprattutto da fattori di natura soggettiva.
Accade così, ad esempio, che il cittadino di Aosta, membro del villaggio globale
dell’informazione, si scopra insicuro quanto quello di una città con un tasso di criminalità
molto più elevato della sua. Allo stesso modo una persona anziana, che vive da sola, può
richiedere l’intervento della polizia anche in assenza di un pericolo reale. Questo accade,
perché il senso di isolamento che lo attanaglia, aggiunto alla maggiore fragilità per le
condizioni sociali o di salute, altera le sua capacità di valutazione del rischio.
Si è già osservato come alla crescita del senso di insicurezza abbiano contribuito,
dal secondo dopo guerra in avanti, fattori oggettivi come la crescita della ricchezza del
paese e la diffusione, negli anni Settanta, delle sostanze stupefacenti.
A questi due fattori vanno aggiunti quelli relativi alle nuove dinamiche criminali,
determinate dalla crescente presenza nel territorio italiano delle mafie straniere (come
quella albanese) e alla loro capacità di scontrarsi e competere, ma anche di realizzare
accordi e sinergie con le mafie italiane, a cui la nostra opinione pubblica non era abituata.
Altro fattore oggettivo che ha inciso sul senso d’insicurezza è quello connesso al
minore controllo sociale che oggi viene esercitato sui singoli. Fattore, quest’ultimo,
determinato dalla trasformazione della famiglia italiana che da patriarcale, funzionale ad
una società rurale e incentrato sul controllo di ogni suo singolo membro, si è trasformata in
famiglia nucleare, funzionale alle esigenze di una società industriale, nella quale i rapporti
tra i singoli membri divengono meno incisivi.
Il processo di urbanizzazione ha, poi, decentrato i luoghi del controllo sociale dalla
piazza, centro di aggregazione e socializzazione dei borghi antichi, ai moderni e spesso
anonimi centri urbani, nei quali l’incidenza del controllo sociale è meno evidente e diretto.
La progressiva espansione urbanistica delle città e la conseguente diminuzione dei
legami sociali ha, ad esempio, favorito, lo sviluppo del senso di solitudine che è ormai
riconosciuto come uno dei più importanti fattori di insicurezza della popolazione anziana.
La solitudine si aggiunge in modo significativo agli altri fattori di natura soggettiva, che si
sono già indicati come il più generale sentimento di insicurezza derivante dalla minore
protezione sociale e il ruolo dei media, il cui peso sta crescendo anche rispetto
all’insicurezza.
3.4
Insicurezza e sistema dell’informazione
Recentemente l’osservatorio di Pavia ha segnalato un rapporto direttamente
proporzionale del tempo dedicato dai vari telegiornali nazionali e locali ai fatti di cronaca
nera e l’andamento del senso di insicurezza dei cittadini.
La puntualizzazione circa il peso che hanno oggi i fattori soggettivi sul sentimento
di insicurezza è importante, perché è all’origine della crescente attenzione che è stata
dedicata alle strategie di rassicurazione sociale, che solo a partire dagli anni Novanta hanno
influenzato le politiche di sicurezza urbana. E ciò spiega il ritardo che ancora oggi si
registra in Italia rispetto alla realizzazione di avanzate strategie di contrasto all’insicurezza
17
urbana, a fronte di una consolidata attenzione della maggioranza dei Paesi del mondo
occidentale, verso i temi della convivenza civile che ha consentito, già dal 1993,
l’approvazione di una proposta del Parlamento Europeo sui temi della criminalità comune.
Un ritardo che gli studiosi italiani stanno cercando di recuperare sul terreno dell’analisi
sociale e dell’andamento statistico del fenomeno criminale, ma che ancora grava,
pesantemente, sulla realizzazione di politiche non più emergenziali, ma fondate su stabili
pratiche di interventi integrati.
Questa esigenza si sta rafforzando al diffondersi di una più matura considerazione e
consapevolezza della tutela dei diritti, quale elemento su cui fondare il valore di piena
“cittadinanza”.
3.5
L’andamento dei fenomeni di devianza
Le mere strategie di “legge e ordine” sono uno strumento ormai inadeguato, perché
incapaci, da una parte, di cogliere la complessità delle ragioni che sono all’origine di una
difficile convivenza nelle aree metropolitane e dall’altra, di offrire soluzioni credibili e non
discontinue sul terreno della difesa dalla criminalità diffusa.
Una concezione moderna della sicurezza urbana richiede una strategia che non sia
di mera repressione, ma che si articoli in un complesso e articolato progetto culturale non
solo di prevenzione e controllo del territorio, ma anche di promozione dello stesso. Una
strategia di sicurezza che sappia incrociare le politiche sociali e quelle istituzionali, in
quanto la città sicura non è la città blindata, ma quella aperta, il più possibile vissuta e
partecipa. Una strategia che superi l’ottica della separatezza; una strategia globale che
faccia della specificità sociale, economica e criminale, delle diverse aree urbane, un punto
di riferimento permanente; una strategia che guardi al territorio, con i suoi diversi indici di
criminalità, i suoi diversi livelli di efficienza.
3.6
Rapporto tra fattori oggettivi e soggettivi alla base del senso di insicurezza
È il territorio, infatti, la variabile su cui costruire un’efficace sistema di difesa
dall’aggressione criminale. Esso sta lanciando, in questi anni, un avvertimento preciso: è in
corso una sorta di riorganizzazione del crimine, una sua diversa distribuzione nel Paese,
con un’espansione dei reati nelle regioni che fino agli anni ’80 avevano un basso livello di
criminalità generale. Dunque, anche se l’andamento generale della criminalità in Italia non
tende all’incremento, nessuna regione potrà considerarsi sicura. L’espansione e la
ridistribuzione delle attività delinquenziali, soprattutto in aree con minore pressione degli
organismi inquirenti e di polizia, evidenzia lo sviluppo delle organizzazioni criminali
autoctone e straniere.
È intuibile l’effetto stravolgente, anche se non facilmente percepibile, che questa
ridistribuzione del crimine potrebbe avere sul tessuto economico e sociale di aree sinora
considerate “tranquille”.
Un maggiore indotto microcriminale ed un nuovo ed aggressivo gangsterismo
urbano sono sovente i riflessi del controllo economico del territorio, che viene perseguito
attraverso il reinvestimento di capitale illecito nelle attività immobiliari, nell’edilizia, nel
terziario, nelle società finanziarie e nel potentissimo strumento di penetrazione che è
rappresentato dall’usura.
Affinché le grandi aree urbane, ma anche i piccoli centri dalle economie vivaci,
siano in grado di resistere alle nuove dinamiche criminali sarà, allora, necessario, un
progetto globale per la sicurezza urbana. Un progetto nazionale che sia anche strutturato
18
sulle reali esigenze di sicurezza; che definisca le priorità, perché non è indifferente
impegnare risorse sul fronte del contrasto alla prostituzione, piuttosto che del racket o
dell’usura; che organizzi le risorse, perché, nel Paese delle molte polizie, l’efficienza degli
apparati è legata anche alla semplificazione del sistema; che realizzi il bilanciamento delle
strategie, perché le attività criminali veramente insidiose sono quelle che non si vedono;
che riorganizzi le garanzie, perché si può fornire maggiore sicurezza senza fare alcun passo
indietro sul terreno della civiltà giuridica del Paese.
Ed ancora, in un Paese con una letteratura imponente sull’autore del reato e che
spesso sembra dimenticare il dramma e le difficoltà del reinserimento di chi ha subito un
comportamento criminale, è necessario avviare un progetto che segni una svolta anche
culturale, nell’attenzione verso il cittadino e verso le vittime dei reati.
Da qui la necessità di una polizia di prossimità, più vicina alle persone ed alle
insicurezze quotidiane, al territorio ed ai suoi cambiamenti. Una polizia che miri a
garantire la sicurezza di tutti, ma che sappia anche guardare alle fasce deboli della società,
agli anziani, in particolare, che per motivi fisici, psicologici ed economici hanno spesso
una percezione ingrandita delle condizioni di pericolo, che alimenta la spirale paura, di
isolamento.
19
CAPITOLO IV
LA POLIZIA DI PROSSIMITÀ
4.1
Modello strategico
La polizia di prossimità si identifica in quel sistema strategico di intervento delle forze di
polizia nel territorio che è stato adottato negli ultimi quindici anni in alcuni paesi
dell’Europa continentale, come la Francia, la Spagna e l’Italia.
La polizia di prossimità ha come elemento distintivo il tentativo di ridurre le
distanze tra gli Organismi di polizia e il cittadino, insieme a quello di realizzare una
maggiore integrazione tra le politiche criminali, attinenti alla prevenzione e repressione dei
reati e le politiche di sicurezza che hanno come destinatario la popolazione nel suo
complesso. Quest’ultime riguardano, inoltre, l’insieme degli interventi economici, sociali,
di prevenzione primaria e secondaria, di recupero e rieducazione che, promossi sul
territorio, hanno l’obiettivo di elevare il senso di sicurezza dei cittadini.
Per consentire una maggiore chiarezza degli argomenti trattati rispetto al delicato tema
della prevenzione si preferisce passare in rassegna le principali tipologie di prevenzione
elaborate in ambito scientifico.
Nel corso degli anni, in ambito scientifico, è stato compiuto un notevole sforzo per
addivenire ad una rigorosa definizione della prevenzione. Secondo la Selmini, la
distinzione che, comunque, ha avuto più fortuna è quella tra azione di prevenzione
primaria, secondaria e terziaria, dove la prima è diretta ad eliminare o ridurre le condizioni
criminogene preesistenti in un contesto fisico e sociale, quando ancora non si sono
manifestati segnali di pericolo; la seconda comprende tutte le misure rivolte a gruppi
ritenuti a rischio di criminalità; la terza interviene quando un evento criminale è già stato
commesso per prevenire ulteriori ricadute.2 Deve precisarsi che la prevenzione primaria è
ritenuta la forma ideale di prevenzione, perché si rivolge all’eliminazione di tutti i fattori
criminogeni presenti nella società, mentre sul piano preventivo la meno soddisfacente
risulta la terziaria, perché caratterizzata, in buona parte, da misure tipiche del sistema
penale.
Questa distinzione originaria viene arricchita di due nuovi aspetti: le vittime di reato e il
contesto in cui si interviene. Viene così individuato uno schema più complesso che
distingue tra azioni preventive primarie, secondarie e terziarie che siano orientate alle
vittime, agli autori o al contesto:
1. prevenzione primaria orientata all’autore: vi rientrano misure quali la
socializzazione, gli interventi educativi, le politiche per la famiglia e sociali in
genere. Esempi concreti sono le campagne educative contro il vandalismo o per
favorire il rispetto delle norme (tutto ciò che viene definito come educazione
alla legalità); i programmi di prevenzione per l’infanzia, le campagne contro il
bullismo ecc;
2. prevenzione secondaria orientata all’autore: comprende i programmi
finalizzati ad evitare l’ulteriore sviluppo di tendenze o di predisposizioni alla
criminalità e alla devianza dei gruppi cosiddetti a rischio. Esempi concreti sono
le misure di prevenzione della devianza giovanile, il sostegno psicologico ai
giovani e alle famiglie in difficoltà;
3. prevenzione terziaria orientata all’autore: comprende gli interventi finalizzati
ad evitare la recidiva e attuati dal sistema correzionale o sociale attraverso i
2
R. SELMINI (a cura di), La sicurezza Urbana, Il Mulino, Bologna, 2004, pag. 223
20
servizi riabilitativi, la formazione per ex detenuti, il trattamento medico. In
questo caso troviamo quindi anche misure tipiche del sistema penale;
4. prevenzione situazionale primaria: comprende l’insieme delle misure
finalizzate ad intervenire sul contesto, rendendo più difficile il compimento dei
reati. Gli esempi concreti sono le varie forme di protezione dei beni di tipo
tecnologico e le misure architettoniche e urbanistiche;
5. prevenzione situazionale secondaria: è rivolta ai contesti considerati a rischio di
criminalità e consiste in misure architettoniche e di difesa passiva, quali i
programmi di sorveglianza del vicinato;
6. prevenzione situazionale terziaria: si rivolge alle aree dove la criminalità, la
devianza e le inciviltà sono fenomeni ormai consolidati. Esempi sono i controlli
di Polizia, il controllo delle licenze degli esercizi pubblici, la dislocazione
intenzionale, cioè la concentrazione voluta di alcuni fenomeni o comportamenti
in aree precise delle città, come nel caso dei quartieri destinati all’esercizio
della prostituzione;
7. prevenzione primaria orientata alle vittime: comprende interventi di carattere
generale, quali le campagne informative della popolazione sulla criminalità;
8. prevenzione secondaria orientata alle vittime: comprende azioni orientate ai
gruppi che presentano un rischio di vittimizzazione più elevato, quali i corsi per
autodifesa per le donne, le misure di protezione specifiche per gli anziani;
9. prevenzione terziaria orientata alle vittime: riguarda interventi verso coloro che
hanno già subito un reato e comprende misure di sostegno economico o
psicologico diretto alle vittime.
Queste differenziazioni sono state oggetto di critica da parte di alcuni studiosi. Così se
alcuni la ritengono poco utile sul piano operativo, altri la definiscono poco efficace anche
sul piano teorico. Secondo il loro pensiero le politiche preventive dovrebbero basarsi
soprattutto sulla differenza esistente tra i diversi fatti criminali, i diversi autori, le diverse
motivazioni che portano all’atto criminale e suddividersi così in prevenzione situazionale,
prevenzione dello sviluppo e prevenzione comunitaria.3
Sulla base del convincimento, sempre più radicato tra gli studiosi e gli esperti del settore,
secondo il quale una moderna ed efficace strategia di sicurezza urbana, che sappia guardare
contemporaneamente al contrasto dei fenomeni criminali ed alla riduzione della percezione
di insicurezza, deve presupporre:
 un alto livello di accesso alla risorsa polizia, intesa più come servizio al cittadino
che come funzione dello Stato;
 una particolare attenzione alle fasce deboli della società più esposte alla minaccia
criminale ed al sentimento di insicurezza;
 una particolare attenzione verso il cittadino vittima di un reato;
 il rafforzamento degli strumenti di partenariato tra organi dello Stato e gli Enti
locali;
 una presenza capillare delle forze di polizia nel territorio.
4.2
Accesso alla risorsa Polizia
In relazione al primo profilo, l’accesso al servizio polizia sarà facilitato, in primo
luogo, lì dove le strutture di pronto intervento saranno adeguatamente dimensionate, per
numero di addetti e per mezzi a disposizione. In secondo luogo dove le forze dell’ordine
considereranno risorsa strategica la comunicazione con il cittadino, sia quella centrale sia
3
R. SELMINI, ibidem, pag. 224
21
quella di livello territoriale. Infatti è considerato di fondamentale importanza fornire un
flusso costante di informazioni sull’attività svolta e sull’offerta di servizi, non solo
attraverso i tradizionali mezzi di comunicazione, ma sempre di più con gli strumenti
informatici e con l’impiego internet in connubio con le attività degli uffici di relazione con
il pubblico.
Ancora, l’accesso al servizio di polizia sarà facilitato, se il numero degli uffici di
polizia e la distanza tra di loro terrà conto dei fenomeni di sviluppo urbanistico, se non
saranno presenti barriere architettoniche, se la qualità dei locali renderà non disagiata la
permanenza negli stessi da parte di chiunque. Sarà facilitato, inoltre, se all’interno di ogni
ufficio saranno chiaramente indicati i nomi e le funzioni di ogni operatore e soprattutto se
il comportamento di quest’ultimi, dal punto di vista professionale e deontologico, si
avvicinerà alle aspettative del cittadino utente.
4.3
Attenzione alle fasce deboli
Una particolare attenzione alle fasce deboli della società più esposte alla minaccia
criminale ed al sentimento di insicurezza (in particolare degli anziani) sarà possibile
conseguirla se nel territorio urbano sarà visibile la presenza di operatori di polizia
normalmente addetti al pattugliamento delle stesse zone, e, quindi potranno instaurare con i
cittadini un duraturo rapporto di conoscenza e di fiducia, condizione essenziale per la
riduzione del senso di insicurezza. Tale obiettivo, inoltre, sarà perseguito se sarà
generalizzata la prassi della raccolta a domicilio delle denunce che le persone anziane o
disabili non potranno esporre direttamente negli uffici di polizia. Sotto questo profilo è
auspicabile che in sinergia con gli Enti locali, con i Comuni in particolare, si realizzino
programmi di intervento mirati a ridurre la solitudine, primo dei fattori di insicurezza delle
persone anziane.
4.4
Attenzione alla vittima
La maggiore attenzione alle vittime dei reati, il terzo dei profili che si è delineato per
contrastare i fenomeni criminali e per la riduzione della percezione di insicurezza, è un
altro dei fattori distintivi di una filosofia di intervento della polizia di prossimità. Filosofia
che considera fondamentale, per il ridimensionamento complessivo del senso di
insicurezza, farsi carico di quel soggetto, la vittima, che, specie in Italia, è stata
assolutamente trascurata, sul piano politico e scientifico, rispetto alla figura dell’autore del
reato.
Infatti, la prima vera inchiesta nazionale sulla vittimizzazione è quella dell’ISTAT
del 1997, sviluppata comunque in ritardo rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale.
Analogo ritardo è quello che più generale riguardante l’esigenza di tradurre in realtà
specifiche strategie di sicurezza urbana.
Una maggiore attenzione verso le vittime del reato è quella relativa al danno
derivante in modo diretto dalla vittimizzazione. In questo caso si è centrato l’intervento sia
sulla prima assistenza materiale (ad esempio l’intervento di un fabbro per la sostituzione di
una serratura forzata) sia rispetto alla prima assistenza psicologica (qui l’esempio più
evidente è quello della persona che ha subito violenza sessuale). A tutto ciò si aggiunge
quella che gli esperti definiscono la “seconda vittimizzazione” che è rappresentata dagli
effetti negativi che spesso il circuito giudiziario determina sulla persona che è stata vittima
di un reato (anche qui l’esempio della violenza sessuale è calzante). Una maggiore
attenzione che, sia nel danno diretto che nella seconda vittimizzazione, si dovrebbe
22
esplicare attraverso scelte di natura amministrativa che rinviano, comunque, ad una più
generale problematica di natura legislativa che è quella dell’introduzione nel nostro
sistema sanzionatorio penale di sanzioni direttamente risarcitorie nei confronti della vittima
o della collettività (come l’obbligo di una prestazione lavorativa a specifico contenuto
sociale).
4.5
Il partenariato
Il quarto profilo, quello del rafforzamento degli strumenti di partenariato con gli
Enti locali, trova il suo fondamento in un’idea di sicurezza non più delegata
esclusivamente alle forze dell’ordine. Un approccio integrato ai problemi di sicurezza
urbana, che è ormai indispensabile, se si vuol agire contro il crimine e contro le cause
sociali del crimine.
Questa forma di collaborazione tra Organi dello Stato ed Enti locali si è sviluppata
nel nostro paese lungo due direttrici:
1. la prima è quella della partecipazione alle riunioni del comitato provinciale per
l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduto dal Prefetto, da parte del Sindaco del
capoluogo di provincia, in maniera permanente e del Presidente della provincia e
dei Sindaci dei singoli comuni, quando si affrontano tematiche attinenti alle loro
specifiche competenze territoriali;
2. la seconda direttrice è quella della stipula di accordi tra Prefetture ed Enti locali, i
cosiddetti protocolli di intesa sulla sicurezza, che mirano a definire le risorse
complessive messe in campo tra i soggetti stipulanti, a indicare congiuntamente gli
obiettivi prioritari e le strategie che ogni Ente si impegna a sviluppare e verificare
periodicamente, anche attraverso la costituzione di specifici osservatori. I protocolli
oltre a costituire uno specifico strumento di pianificazione delle attività di
sicurezza, senza confusione di ruoli tra organi dello Stato ed Enti locali e, quindi
nel pieno rispetto delle competenze previste dalla legge, sono anche complementari
alla cosiddetta programmazione negoziata, cioè quell’attività che mira, attraverso i
patti territoriali e i contratti d’area e gli accordi di programma (forme più avanzate
di protocolli), a favorire condizioni di sviluppo e, quindi, ad incentivare la crescita
economica ed occupazionale delle aree depresse del Paese.
4.6
Forze di Polizia e territorio
Il quinto profilo, quello della presenza capillare delle forze di polizia nel territorio,
costituisce la condizione di partenza, per lo sviluppo di una credibile strategia di polizia di
prossimità. Senza una diffusa e capillare presenza delle forze di polizia non si potrà
realizzare quel controllo, che è soprattutto conoscenza del territorio -e non semplice
occupazione militare- che consente di rafforzare l’accesso al servizio polizia, di guardare
alle fasce deboli della società, di garantire maggiore attenzione alle vittime dei reati, di
incentivare il partenariato tra organi di polizia e gli Enti locali.
È il territorio, con le sue specificità economiche, sociali e criminali, la dimensione
sulla quale costruire progetti integrati di sicurezza delle città.
Una presenza delle forze dell’ordine, dunque, che dovrebbe essere
quantitativamente dimensionata, sulla base dei processi di urbanizzazione, economici e
sociali delle diverse aree, qualitativamente aggiornata rispetto alle nuove dinamiche
criminali, e dei fenomeni di globalizzazione del crimine. Tutto ciò costituisce la condizione
23
imprescindibile, per realizzare quella integrazione tra politiche criminali e politiche di
sicurezza, uno degli obiettivi di fondo delle strategie di polizia di prossimità.
Tutti gli uffici di polizia, ciascuno secondo la propria competenza, svolgono, in
questo senso, un ruolo fondamentale, anche se è evidente che i commissariati di Pubblica
Sicurezza e le caserme dell’Arma dei Carabinieri, per la loro diffusione nei grandi centri
urbani e nelle province e per la molteplicità di funzioni svolte, rivestono un’importanza
particolare dal punto di vista dell’offerta del servizio polizia a favore del cittadino.
Generalmente, invece, si tende a confondere questa presenza con il solo poliziotto di
quartiere, il quale svolge sicuramente un importante compito di prevenzione, ma resta solo
uno dei segmenti di una complessa rete di controllo del territorio, che è fatta soprattutto di
attività di vigilanza, di pronto intervento e di attività investigative. Infatti, questa figura di
operatore, che pattuglia a piedi una parte del territorio urbano, che fornisce informazioni ai
cittadini e instaura un rapporto di conoscenza permanente con gli abitanti di un quartiere,
ha un raggio d’azione inevitabilmente limitato e, quindi, ha minori possibilità di intervento
preventivo o repressivo.
Di grande utilità è, invece, il ruolo che il poliziotto di quartiere svolge dal punto di vista
della rassicurazione, e della instaurazione di un vero e proprio rapporto di fiducia con gli
abitanti del quartiere.
La rassicurazione è, in effetti, una componente essenziale di una moderna strategia
di sicurezza, perché spesso, come abbiamo prima sottolineato, il senso di insicurezza del
cittadino prescinde, dall’andamento oggettivo dei fenomeni criminali. Quindi, per
contenerne gli effetti dell’insicurezza, sono richieste azioni specifiche, come la presenza
visibile delle forze dell’ordine e la possibilità di accesso facilitato al servizio reso dalla
Polizia.
La fiducia, che viene anche dalla conoscenza reciproca e dal rapporto non episodico
con l’operatore di polizia, è una componente importante di quelle strategie di
coinvolgimento attivo del cittadino che sono alla base di una nuova cultura della
prevenzione, che si colloca in buona parte al di fuori del sistema penale e che guarda con
attenzione ad altri soggetti e cioè gli Enti locali, i servizi sociali, le associazioni di
rappresentanza e di volontariato, i singoli cittadini. In questo senso un interessante
esperimento di prevenzione è quello in corso di realizzazione su iniziativa del sindacato
dei pensionati, con il contributo di associazioni di volontariato, di organizzazioni che si
impegnano sul terreno della diffusione della cultura della legalità e di esperti delle forze di
polizia, per assicurare iniziative di informazione e formazione delle persone anziane,
contro il rischio delle truffe nei loro confronti.
Un tema, quello delle truffe agli anziani, di particolare attualità e che non può
essere sottovalutato né dal punto di vista economico -perché spesso una truffa verso gli
anziani vuol dire la sottrazione dei risparmi di una vita- né dal un punto di vista
psicologico, perché il senso di vergogna, che a volte la truffa provoca nella vittima, può
avere effetti devastanti. La vergogna, infatti, spesso spinge a non denunciare il reato, il che
determina un buco nero sulle reali dimensioni del fenomeno, e qualche volta conduce ad
esiti tragici, come nel caso di un pensionato di Milano che si è tolto la vita a causa di una
truffa di circa trecento milioni delle vecchie lire.
La polizia di prossimità non è, dunque, una semplice modalità organizzativa delle
forze dell’ordine, ma è molto di più: è una filosofia di intervento, una nuova concezione
dei rapporti tra politiche criminali e governo del territorio. Richiede una strategia articolata
e una svolta culturale nelle Forze di Polizia, negli Enti locali e in fondo anche nei cittadini.
Una svolta culturale indicata con grande efficacia dalle parole del Ministro
dell’Interno francese Chevènement, ministro del paese che è in anticipo di almeno cinque
anni rispetto al nostro nella introduzione della Polizia di prossimità. Diceva Chevènement:
“E, tuttavia, l’anello debole del modo con cui la polizia di prossimità si sta realizzando in
24
Italia è esattamente la mancanza di una strategia articolata e duratura nel tempo, di una
svolta culturale nei rapporti tra forze dell’ordine e cittadino, di un investimento all’altezza
dell’obiettivo. Infatti, è proprio l’insufficienza delle risorse investite in questo programma
che ha fatto si che si istituisse il poliziotto di quartiere, ma a scapito delle attività di
contrasto al crimine, come quelle di controllo del territorio e di investigazione. Tutto ciò ha
prodotto l’effetto paradossale di aver si realizzato una qualche attività di rassicurazione del
cittadino, perdendo contemporaneamente una parte della conoscenza del territorio, sia dal
punto di vista sociale che criminale. Perdita di conoscenza che ha finito per lasciare,
rispetto al passato, spazi più ampi alla criminalità diffusa e, in molte aree del Paese, anche
a quella organizzata e segnatamente mafiosa”.
Dunque, il punto è che la polizia di prossimità è una strategia efficace di contrasto
dell’insicurezza urbana, ma a condizione che sia complementare e non alternativa
all’attività di contrasto al crimine. Diversamente si trasforma in qualcosa che è molto
prossima alla propaganda, che come è noto non riesce ad arginare i fenomeni criminali e,
nel medio periodo, finisce per non rassicurare nessuno.
Il punto è che la polizia di prossimità diventa una filosofia innovativa del modo di
affrontare le questioni di sicurezza urbana solo se favorisce il coinvolgimento di una
pluralità di soggetti istituzionali interessati, a vario titolo, a questo problema. E, dunque, se
favorisce quella diffusione del partenariato tra Organi dello Stato ed Enti Locali che è
condizione essenziale per una strategia comune e garanzia, da parte degli organi centrali,
di programmi che tengano conto della dimensione territoriale e, da parte degli Enti Locali,
che il governo del territorio si realizzi, tenendo conto di un fattore centrale della vita delle
comunità come la sicurezza.
È interessante notare, a conclusione di queste osservazioni sulla polizia di
prossimità, che in Europa si sceglieva questo modello di intervento sul versante
dell’insicurezza urbana nello stesso periodo in cui Rudolph Giuliani, allora sindaco di New
York, lanciava il suo programma anticrimine, denominato, come è noto “tolleranza zero”.
Le differenze strategiche e culturali dei due programmi sono evidenti:
1.
La polizia di prossimità fa leva:

sulla prevenzione;

sulle sinergie tra diversi soggetti istituzionali;

su una rassicurazione fondata soprattutto sulla familiarità della
presenza delle forze dell’ordine nel territorio.
2. La “tolleranza zero” fa leva:

sulla repressione dura, anche dei piccoli reati;

sul ruolo di punta delle forze di polizia in chiave d’ordine anche
formale;

su una rassicurazione fondata soprattutto sulle statistiche degli
arresti.
È evidente che la condizione delle grandi città statunitensi, da un punto di vista
economico, sociale e criminale, difficilmente può essere paragonata ad una qualunque
grande città Europea. Però, a diversi anni di stanza dall’avvio dei due programmi, non si
può fare a meno di notare che mentre la polizia di prossimità è in fase espansiva in Europa,
nel senso che cresce il numero dei Paesi che ne adottano la filosofia di fondo, adattandola,
ovviamente, alle specificità nazionali, la “tolleranza zero”, negli Stati Uniti, è andata
incontro a critiche sempre più feroci, soprattutto da parte dell’area Liberal di quel Paese.
Ed è così che il calo dei reati è stato attribuito non all’efficacia di quel programma,
ma a fattori ciclici dell’economia e cioè al fatto che i periodi di crisi economica e
occupazionale hanno sempre portato con loro un aumento considerevole dei reati, e
viceversa.
25
Quel programma è stato ribattezzato “intolleranza zero”, proprio perché in realtà,
invece di combattere il crimine violento, si sarebbe rivelato come una strategia di contrasto
della marginalità sociale e delle minoranze etniche. Uno strumento fondamentalmente di
intolleranza razziale, come dimostrerebbero le uccisioni, da parte di alcune squadre
anticrimine, di cittadini Afroamericani, considerati erroneamente armati, al momento del
loro fermo.
Il ripensamento in atto negli Stati Uniti verso la “tolleranza zero” è un monito per
l’Europa che dovrebbe spingere ancora di più il Vecchio Continente verso programmi
anticrimine fondati sulla prevenzione, sulla repressione del crimine violento e sull’uso
delle politiche economiche e sociali, per rimuovere le cause profonde del disagio che può
sfociare anche in comportamenti devianti.
26
CAPITOLO V
IMMIGRAZIONE E SICUREZZA
5.1
Immigrazione e modello di società: la legislazione sull’immigrazione
Il rapporto tra la legislazione sull’immigrazione e la sicurezza, nei paesi
occidentali, destinatari negli ultimi decenni dei flussi migratori, è un tema particolarmente
interessante dal punto di vista dello studio delle strategie di sicurezza. Interessante perché,
in particolare in Italia, la legislazione non riguarda semplicemente la disciplina dei
fenomeni migratori, ma fa anche riferimento ad un modello di sicurezza. Infatti, più che
per un aggiornamento della normativa introdotta dalla legge Martelli, prima, e dalla
cosiddetta Legge Turco-Napolitano, poi, l’attuale legislazione, aggiornata alla legge n. 189
del 2002 (Legge la Bossi-Fini) ed al suo Regolamento di attuazione, sembra concepita
prevalentemente per fornire una risposta alla domanda di sicurezza. Si tratta di una risposta
che, in buona sostanza, risente delle tendenze politiche e culturali prevalenti nell’Europa
Occidentale della fine degli anni Novanta, ossia quelle conservatrici che, intercettando
alcune forme di paura delle diversità e dei sentimenti xenofobi ha puntato,
prevalentemente, il suo un progetto sull’equazione “immigrazione uguale criminalità” e
sull’appello alla difesa dell’identità nazionale. Una risposta, dunque, che disegna una
società tendenzialmente chiusa, sicura solo se è blindata, se esclude e se non accoglie.
“Siamo al completo” era, appunto, lo slogan, di grande efficacia comunicativa, del
leader olandese di destra ucciso in campagna elettorale qualche anno fa. Un vero e proprio
manifesto politico che disegna in realtà una società impossibile, perché dovrebbe essere
allo stesso tempo globale dal punto di vista economico e chiusa dal punto di vista sociale.
Una società che diventa possibile nell’immaginario collettivo grazie alla paura, che
da millenni è un potente strumento di condizionamento, specie dei ceti moderati.
Ora l’esperienza di questi anni ci dice che costruire una disciplina dei fenomeni
migratori, guardando esclusivamente alla sicurezza è la via più breve per ottenere un
risultato poco soddisfacente su entrambi i fronti, in quanto si resta imprigionati in un’ottica
soffocante di ordine pubblico che:
1. fa perdere di vista la dimensione mondiale dei fenomeni migratori e
alimenta una sorta di illusione sicuritaria, l’idea, cioè, che un paese
“fortino”, o addirittura un continente “fortino”, possa arginare la forza di
questi fenomeni;
2. spinge a far confusione tra politiche economico-sociali e politiche
repressive e quindi costringe le forze di polizia ad un ruolo di supplenza nel
governo dei flussi migratori;
3. finisce per sottrarre risorse alle attività di prevenzione e repressione,
riducendo così le capacità di difesa di una società dalla vera minaccia, cioè
quella criminale.
5.2
I centri di permanenza temporanea
Questo è ciò che sta accadendo, dal punto di vista della sicurezza, con la legge
n.189/2002 (legge sull’immigrazione) che ha in realtà complicato e non semplificato il
lavoro delle Forze di Polizia.
27
La legge, ad esempio, ha raddoppiato, dai trenta ai sessanta giorni, il periodo di
trattenimento nei centri di permanenza temporanea, ma non ha previsto l’incremento del
numero dei centri presenti nel territorio.
Vediamo di descrivere alcune caratteristiche dei tredici centri di permanenza
temporanea presenti sul nostro territorio. Innanzitutto, essi se pur sotto responsabilità del
Prefetto, sono gestiti da enti privati come la Croce Rossa e le Misericordie. In secondo
luogo sono sorvegliati dalla polizia che è tenuta ad impedire l’uscita degli “ospiti” ed a
mantenere l’ordine. In terzo luogo, nei centri possono essere presenti, in orari prestabiliti,
operatori di associazioni ed organizzazioni umanitarie che abbiano stipulato una
convenzione con il prefetto per il sostegno degli “ospiti” del centro e la tutela dei loro
diritti.
Ora è noto che la legge 40 del 1998 che ha introdotto i centri di permanenza
temporanea è stata oggetto, in questi anni, di forti critiche connesse a dubbi di
costituzionalità. Tali strutture, infatti, trattengono gli stranieri per un periodo che oggi
arriva a sessanta giorni, sulla base di un provvedimento di natura amministrativa emesso
dal questore e non giurisdizionale, anche se sottoposto, entro le 48 ore, al controllo del
giudice di pace per la convalida.
Va rilevato, tuttavia, che i Centri di Permanenza Temporanea, per me giustamente
considerati estranei alla cultura etica, politica e giuridica del nostro Paese, con tutti i dubbi
di costituzionalità, restano uno strumento inevitabile, per la “gestione” di qualunque
normativa sull’immigrazione. E questo perché l’espulsione di una persona, presente
irregolarmente sul territorio dello Stato, sarà possibile soltanto se si accerterà la sua
identità, la sua nazionalità e se il Paese di provenienza dello straniero lo riconoscerà come
suo cittadino. Essi rappresentano, quindi, uno strumento inevitabile, perché la garanzia
dell’effettività dell’espulsione si ha soltanto se nelle more di questi accertamenti la persona
resta a disposizione dell’autorità competente.
Non va comunque dimenticato che i Centri di Permanenza Temporanea hanno evitato
l’introduzione, nel nostro ordinamento, di uno strumento ancora più grave dal punto di
vista della compressione delle libertà personali, come il reato di ingresso clandestino. Ma
se i centri restano uno strumento inevitabile, in attesa di efficaci soluzioni alternative, non
è inevitabile, invece, il loro sovraffollamento, causa di un insufficiente livello della tutela
dei diritti della persona. In più, e questo attiene più nello specifico alla nostra materia, il
sovraffollamento dei centri di permanenza temporanea è causa anche della sottrazione di
significative risorse di polizia per l’accompagnamento, in caso di pregiudicati, , verso
centri situati a grandi distanze dal luogo del fermo.
In assenza di un efficiente sistema di accordi bilaterali con i paesi di provenienza, che
consentirebbe procedure più snelle di rimpatrio, il raddoppio dei tempi di permanenza nei
centri si è rivelato un boomerang anche dal punto di vista della sicurezza. In primo luogo
perché sottrae risorse al contrasto del traffico delle persone; in secondo luogo perché non
impedisce che più del 20% delle persone trattenute siano comunque rilasciate allo scadere
dei sessanta giorni, per mancata identificazione o assenza dei documenti di rimpatrio; in
terzo luogo perché finisce per favorire il rimpatrio delle persone meno pericolose.
Questo è un nodo strategico importante.
Con l’attuale legislazione si espelle chi più è facile da espellere, cioè l’immigrato che è,
si clandestino, ma non un delinque e, si finisce per rilasciare il pregiudicato per la cui
espulsione è necessario il nulla osta di diversi uffici giudiziari che spesso non arriva entro i
sessanta giorni previsti dalla legge. Una iniquità, ma anche un problema per la sicurezza,
che ancora le norme penali della legge non hanno risolto ma, anzi, aggravato. Infatti, i
destinatari dell’arresto obbligatorio (previsto in caso di violazione dell’ordine di
allontanamento adottato dal questore, a seguito di precedente provvedimento di espulsione)
sono ancora una volta le persone che si potranno fermare più facilmente, non legate ad
28
organizzazioni criminali e che saranno espulse, questa volta, dopo aver subito un arresto e
una condanna alla reclusione (dal momento che la violazione di quell’ordine di
allontanamento è diventato un delitto e non una contravvenzione).
5.3
La clandestinità e la devianza
L’attuale normativa si sta rivelando inefficace non solo dal punto di vista delle
espulsioni, ma persino dal punto di vista della gestione delle presenze regolari sul territorio
dello Stato, perché dimezzando (rispetto alla legge 40) il periodo di validità del permesso
di soggiorno dell’immigrato, crea una condizione di estrema precarietà. In questo modo, da
una parte, si costringono gli immigrati ad una “processione” continua verso gli uffici di
polizia, dall’altra parte crea un forte disagio nella classe imprenditrice soprattutto del
Nord-Est (siamo oltre il 30%) che, impiegando una considerevole quota di immigrati nelle
proprie attività, vorrebbe una maggiore regolamentazione degli stessi.
Anche questo finisce per favorire la clandestinità. Pensiamo al caso dei lavori
stagionali in agricoltura, per i quali i tempi di rilascio del permesso di soggiorno sono una
condizione fondamentale per l’impiego della manodopera immigrata. Infatti, poiché i
prodotti agricoli non aspettano i tempi della burocrazia, ogni ritardo nel rilascio del
permesso costituisce un oggettivo invito all’impiego di manodopera irregolare. O, ancora,
al caso del permesso per famiglie: i figli che compiono il diciottesimo anno di età, hanno a
disposizione un tempo, cha va da sei mesi ad un anno, (tempo per attesa occupazione), al
termine del quale, se non hanno trovato un lavoro, devono scegliere se separarsi dalla
famiglia di origine o imboccare la strada della clandestinità. Non in ultimo il
dimezzamento della validità del permesso di soggiorno, raddoppia l’impiego di risorse,
umane e tecniche, delle forze di polizia impegnate nelle attività burocratiche, sottraendole
così a quelle operative.
Una linea, dunque, quella della precarietà, seguita fondamentalmente, anche, dal
regolamento di attuazione che, per certi versi, rafforza, l’idea di precarietà, quando impone
il rinnovo della carta di soggiorno confermando, inevitabilmente, l’idea di chiusura ad
oltranza che costituisce l’architrave su cui poggia l’attuale legislazione sull’immigrazione.
Il bilancio dell’efficacia dell’attuale disciplina dell’immigrazione rispetto alla
sicurezza è, dunque, negativo. Lo è rispetto alle condizioni generali di sicurezza nel paese,
dal momento che non ha impedito da una parte la crescita del numero dei reati e, dall’altra,
non ha impedito, anche, la crescita del senso di insicurezza dei cittadini, come conferma
l’ultimo rapporto CENSIS, che registra un più 7% nella spesa delle famiglie per la
sicurezza privata.
Quali, dunque, le modifiche a questa linea? Non con la stretta repressiva, come
l’introduzione del reato di ingresso clandestino, perché un inasprimento penale si
rivelerebbe sbagliato e inutilmente costoso dal momento che gli immigrati regolari
commettono reati in una percentuale assolutamente analoga a quella degli italiani e,
perché, finirebbe per accrescere, inutilmente, il numero dei carcerati di origine straniera,
che è arrivato a circa il 30%, di cui il 94% è riferibile ad una popolazione clandestina, che,
tra l’altro resta in carcere anche quando potrebbe beneficiare degli arresti domiciliari (li
dove ovviamente si riconosca un domicilio!).
Si sta diffondendo, ormai, negli ambienti scientifici e persino in quelli istituzionali,
la convinzione, secondo la quale, per ridurre i fenomeni di devianza sia necessario ridurre
l’area della clandestinità. In particolare, sul versante della gestione delle presenze regolari,
riducendo drasticamente l’impiego di personale di polizia nelle attività burocratiche, si
raggiungerebbe l’obiettivo di convertire queste risorse al controllo dell’effettivo possesso
29
dei requisiti per il permesso di soggiorno, anche e soprattutto a tutela dei diritti e della
dignità degli immigrati.
Da questo punto di vista, lo sportello unico che è stato introdotto dal regolamento,
non sembra in grado di risolvere il problema nel breve periodo, perché le amministrazioni
interessate non dispongono di personale qualificato in grado di subentrare al personale di
polizia, il quale continuerà a svolgere ancora per molto tempo un ruolo di supplenza.
L’idea di un sistema informatico unico per la gestione delle procedure di rilascio e
di rinnovo, evidentemente necessario per omogeneizzare le procedure delle diverse
amministrazioni, non sembra ancora realizzabile, a causa dei tagli che le ultime finanziarie
hanno apportato ai bilancio dello stato e a quello delle forze di polizia in particolare.
In queste condizioni sarebbe utile l’adozione del modello adottato a Brescia, dove
una quarantina di comuni si sono consorziati per fornire agli immigrati un servizio di prima
informazione, di raccolta e prima valutazione della documentazione prodotta, della
presentazione dei documenti alla questura, del ritiro e consegna del permesso di soggiorno
agli interessati. Un modello che ha il pregio di trasferire gran parte delle attività
burocratiche ai comuni, lasciando alle questure la decisione di merito, per garantire
l’uniformità dei criteri su tutto il territorio nazionale.
Sul versante delle espulsioni l’area della clandestinità si ridurrebbe:
1. rendendo più snello e permanente il rapporto con i paesi di provenienza per avere
procedure di identificazioni e di rimpatrio più veloci;
2. riducendo il periodo di permanenza nei centri previsto dalla legge e ampliando il
loro numero;
3. rafforzando il livello di rispetto dei diritti fondamentali della persona;
4. rafforzando, e non riducendo, come si è fatto con i tagli di risorse, l’azione di
contrasto al crimine organizzato, perché la clandestinità si combatte soprattutto
combattendo il traffico delle persone.
Una filosofia evidentemente contraria a quella che ha prodotto l’equazione immigrazione
uguale criminalità, perché questa equazione è una delle condizioni che impediscono
processi di integrazione, favoriscono il controllo delle organizzazioni criminali sugli
immigrati irregolari e rafforzano fenomeni di xenofobia e di razzismo. Questioni queste
che stanno ormai strette dentro un orizzonte soltanto nazionale.
Un’Europa che vuole essere qualcosa di più di “mercato e moneta” non può ignorare:
1. che non è indifferente il modello di società che vuol difendere;
2. che i processi di integrazione comunitaria dipendono anche dalle risposte che
verranno date nel rapporto tra diritti e sicurezza, tra rispetto delle identità etniche e
religiose e sicurezza.
Una società consapevole di questa condizione è quella che non fa confusione tra flussi
migratori (che sono un fenomeno strutturale delle moderne società che va governato
innanzi tutto con strumenti economici e sociali) e terrorismo e criminalità (che utilizzano i
fenomeni migratori per il raggiungimento dei loro obiettivi, e che vanno combattuti con
strumenti e strategie comuni a tutta la comunità internazionale). In particolare sul versante
del terrorismo non può essere sottovalutato che l’idea di scontro di civiltà favorisce, in
realtà, uno degli obiettivi strategici del terrorismo di matrice fondamentalista, cioè
l’allontanamento di qualsiasi contaminazione tra culture che devono, invece, restare
diverse e lontane. Quest’idea, invece, che combattere finisce per rafforzare le ragioni di chi
usa la violenza e la morte per conservare un mondo diviso in blocchi incomunicabili.
Dunque, anche da questo versante della sicurezza, l’unica società in grado di
neutralizzare il progetto terrorista è una società multietnica e globale, consapevole che
potrà pretendere legalità se saprà considerare la diversità una ricchezza, la tolleranza un
principio fondamentale e l’integrazione un obiettivo da perseguire.
30
CAPITOLO VI
LE MAFIE
6.1
Criminalità organizzata e sviluppo
Il tema delle mafie è fondamentale nell’ambito della questione delle strategie di
sicurezza, perché nel nostro paese vi è la più alta concentrazione di organizzazioni mafiose
di tutta l’Europa occidentale. Il che ha influito non soltanto sulla geografia criminale nel
nostro paese, ma anche sulla vita economica, sociale e politica del paese.
Il ruolo soffocante che le mafie svolgono nel nostro paese impone la ricerca
continua di strategie politiche, economiche, giudiziarie, anticrimine integrate e
complessive che devono inevitabilmente tenere conto dei mutamenti che avvengono
all’interno delle singole organizzazioni mafiose e nel panorama complessivo del crimine.
Affronteremo qui sinteticamente la questione dei recenti mutamenti avvenuti nel
panorama mafioso, specie dal punto vista delle strategie, per passare poi ad affrontare
specificamente il tema delle strategie di contrasto che sono state, o che dovrebbero essere
adottate, dallo Stato.
6.2
La Mafia Siciliana
Tra le mafie, per così dire, storiche del nostro paese, Cosa Nostra è certamente
quella che ha conosciuto maggiore dinamicità negli ultimi decenni dal punto di vista delle
strategie strettamente criminali, ma anche da quello delle strategie “politiche”.
Il periodo che interessa al nostro studio è quello che va dai primi anni Novanta ad
oggi, cioè dalla stagione delle stragi della mafia siciliana ai giorni nostri.
Il momento culminante di quella stagione è stato quello della strage di Capaci del
23 maggio del 1992 (dove furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo
e gli operatori di polizia della scorta) e la strage di via d’Amelio a Palermo (dove furono
uccisi Paolo Borsellino, e anche qui il personale di polizia della sua scorta).
A queste stragi si arriva dopo un periodo, a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e i primi
anni ‘90, di maggiore efficacia dell’attività antimafia:
 costituzione della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione Distrettuale
Antimafia;
 processo di delegittimazione di una parte della classe politica della cosiddetta prima
repubblica;
 consapevolezza da parte di cosa nostra che i legami politici fino a quel momento
tessuti non erano più in grado di assicurare la protezione, specie sul piano dell’esito
finale dei processi (omicidio dell’onorevole Salvo Lima).
La linea che prevalse fu quella della trattativa diretta di Cosa Nostra con lo Stato per
negoziare un modus vivendi accettabile per la Mafia. Così si spiegano attentati a strutture
della Chiesa come quelli di Roma e Firenze, inusuali per Cosa Nostra, e diretti a rendere
esplicita la minaccia eversiva della mafia e la volontà di ricorrere ad atti di terrorismo se lo
Stato non avesse accettato un accordo.
Si spiega l’uccisione di Falcone e Borsellino, visti come i maggiori oppositori a questo
progetto. La strategia stragista non ottenne, almeno negli anni successivi, i risultati sperati.
Nell’agosto del ’92 (varate le norme antimafia chieste da Falcone e altri magistrati sul
trattamento dei collaboratori, sulle indagini che diventarono più celeri sullo snellimento del
dibattimento) si realizzano nuove sinergie tra maggioranza e opposizione.
31
La Commissione Antimafia approva, per la prima volta, a larghissima maggioranza,
una relazione sui rapporti tra mafia e politica. I risultati di questa linea non si fanno
attendere. Infatti, si moltiplicano le collaborazioni da parte dei cosiddetti pentiti e si
arrestano molti esponenti di spicco di Cosa Nostra che da quel momento cambiò strategia.
Non è questa la sede per affrontare il tema del rapporto tra Cosa Nostra e il mondo
politico dopo la stagione delle stragi e, quindi, guarderemo alle strategie strettamente
criminali.
Comincia l’inabissamento; si passa dallo scontro con i pentiti alla loro delegittimazione, si
realizza il tentativo di far credere la mafia in crisi (Aglieri) e pronta ad una resa, si creano
nuove sinergie con le organizzazioni transnazionali che trafficano in clandestini, grazie al
controllo del territorio che ha Cosa Nostra. La Mafia diventa sempre più finanziaria e
internazionale. Conserva grandi interessi con l’infiltrazione negli appalti pubblici, ma
affina le sue tecniche di controllo del territorio, creando legami più stretti tra usura (che
storicamente era controllata da piccoli gruppi criminali) e organizzazione mafiosa e
aggiornando le tecniche di estorsione dal punto di vista della contropartita (anziché denaro
servizi oppure obbligo di fornirsi presso determinate aziende) e dal punto di vista
dell’entità dell’estorsione (pagare poco pagare tutti) col risultato un rafforzamento del
controllo economico del territorio (si stima che a Palermo e Catania otto imprese su dieci
subiscano il racket).
6.3
La ‘ndrangheta
Una holding internazionale, dunque, tutt’altro che in crisi, se in generale gli organi
investigativi ed uffici giudiziari concordano nel giudicare in crescita le attività del crimine
organizzato. E questo vale in particolare per la ‘Ndrangheta, che è uscita pressoché
indenne dalla stagione di lotta alla mafia fondata sui collaboratori di giustizia, grazie alla
sua struttura chiusa, costruita su forti legami familiari, che gli consentono un controllo
diretto delle persone e del territorio.
Per la DIA la Mafia calabrese è l’organizzazione meno visibile, ma meglio strutturata e
più diffusa, sia a livello nazionale che internazionale, con centrali che fanno riferimento
sostanzialmente alla regione di provenienza. I clan calabresi, forti della loro struttura
chiusa e controllata, hanno realizzato un sistema criminale complesso, ma estremamente
dinamico, anche fuori dalle aree geografiche di origine. Le loro attività criminose sono
rivolte prevalentemente al traffico internazionale delle sostanze stupefacenti, alle
estorsioni, per le quali conservano il monopolio ed al riciclaggio del denaro sporco. La
‘Ndrangheta è l’organizzazione che conferma una crescente pericolosità criminale, perché:
 in grado di gestire con spiccata modernità il cambiamento;
 ha una particolare capacità nel cogliere i momenti favorevoli;
 contrariamente all’immaginario collettivo, utilizza con grande disinvoltura
conoscenze e tecnologie;
 agisce nello scenario criminale anche attraverso accordi con le mafie straniere;
 è in grado di inquinare costantemente l’apparato dello stato e degli enti locali;
 è capace di infiltrarsi negli appalti per le opere pubbliche, attraverso la corruzione e
una certa contiguità con le tante logge massoniche coperte presenti nella realtà
calabrese.
L’esigenza di condizionare a qualunque costo l’attività amministrativa degli enti locali è
confermata dall’uso costante di intimidazioni e di attentati nei confronti di amministratori
non accondiscendenti.
32
6.4
La camorra
La camorra, a differenza della ‘ndrangheta, sta vivendo un periodo di grande scontro
interno, con riferimento, in particolare, alla formazione di nuovi gruppi criminali legati
prevalentemente al territorio e intenzionati a gestire in autonomia alcune attività illecite,
prime fra tutte le estorsioni ed il traffico di attività illecite.
La forzata convivenza nella stessa area di gruppi delinquenziali che si contendono
aree limitate per la gestione delle attività illecite e la perdita di influenza sul territorio di
uno dei principali sodalizi criminali, come la cosiddetta alleanza di Secondigliano, sono
forse i fattori principali di un aumentato tasso di conflittualità interna che ha l’esempio più
evidente nel violentissimo scontro a Napoli tra il clan di Lauro (del quartiere di Scampia) e
i cosiddetti scissionisti.
Una vera e propria mattanza quella di quest’ultimo anno a Napoli che conferma che
quello della camorra è un fenomeno criminale complesso e radicato.
Le vendette trasversali e le torture alle vittime ci dicono, infatti, che non siamo più
di fronte al semplice gangsterismo urbano, ma ad un fenomeno sempre più vicino a quello
mafioso e quindi ad un rafforzamento della pericolosità di questa organizzazione mafiosa.
Un’organizzazione che se anche con vicende alterne, dovute all’altissima rissosità
interna ha sempre mantenuto una fortissima influenza nel territorio.
A partire degli anni Sessanta e Settanta ha costruito la sua rinascita con le attività
illecite nel territorio prima sul contrabbando e poi sul traffico degli stupefacenti e che negli
anni Ottanta, con la ricostruzione dell’Irpinia (in seguito al terremoto del 1980) ha sfruttato
la sua grande occasione di stabilire un rapporto più organico con il mondo della politica e
dell’amministrazione locale e l’economia legale che gli era mancata nell’arco della sua
storia. Elemento questo che ha determinato un ulteriore salto di qualità criminale, perché
accanto alle tradizionali attività illecite la Camorra ha messo in evidenza una crescente
professionalità e, quindi, pericolosità nella gestione del rapporto tra lecito e illecito, tra
economia legale ed illegale, come afferma la DIA in uno dei suoi ultimi rapporti al
Parlamento.
Una camorra che ormai da tempo sta uscendo dagli schemi tradizionali, e si sta
facendo impresa, anche transnazionale, con il trasferimento di alcune attività illecite
all’estero, e in particolare negli ultimi anni nei paesi dell’Europa dell’Est.
Un’impresa che mantiene celata la propria vera identità attraverso la creazione di
una costellazione di società guidate da incensurati che si controllano reciprocamente
attraverso il controllo dei capitali sociali. Il che dovrebbe rendere meno ottimisti circa il
fatto che anche in futuro la camorra, in modo scontato, possa mantenere questa sua
caratteristica di grande frantumazione, litigiosità e temporaneità dei gruppi criminali.
Tutti questi fattori hanno impedito fino ad ora la creazione di una catena di comando
verticale, analoga a quella delle maggiori organizzazioni mafiose del paese come la Mafia e
la ‘Ndrangheta, ma che non forniscono alcuna garanzia circa la possibilità che una
maggiore compattezza interna non si possa realizzare nel futuro.
6.5
La Sacra Corona Unita
La Puglia, costituisce attualmente, in ragione della sua posizione strategica, un vero
e proprio crocevia dei traffici illeciti internazionali. I diversi gruppi criminali pugliesi
agiscono in modo non omogeneo, ma hanno in comune la capacità di interagire con altre
organizzazioni criminali anche straniere. I settori di maggiore interesse sono quelli del
contrabbando (non soltanto dei tabacchi lavorati esteri), ma anche delle armi e delle auto di
33
grossa cilindrata, del traffico degli stupefacenti, dello sfruttamento della prostituzione, della
manodopera in nero, della criminalità ambientale e degli appalti pubblici.
Il crescente radicamento nelle province pugliesi dei gruppi criminali della Sacra
Corona Unita sta rappresentando un grave rischio di condizionamento dell’attività
economica lecita, per l’alterazione dei fattori di mercato che ne deriva, con riferimento alla
concorrenza, alla manodopera ed alle disponibilità finanziarie.
6.6
La criminalità straniera
Sul fronte della criminalità straniera è dalla metà degli anni Novanta che i rapporti
del ministero dell’interno segnalano con sempre maggiore frequenza e attenzione la
presenza attiva nel nostro territorio di gruppi criminali di altri paesi. Nella fase iniziale
questi gruppi criminali occupavano i livelli più bassi delle attività criminali come spaccio
di sostanze stupefacenti e sfruttamento della prostituzione, ma mostravano, comunque,
grande capacità di inserimento nel nostro territorio, attraverso accordi con le mafie italiane
e qualche volta anche attraverso lo scontro per il controllo di settori criminali. Il risultato
negli ultimi dieci anni è una crescita preoccupante di questa presenza dovuta
sostanzialmente a due fattori: uno di livello internazionale e cioè la globalizzazione
dell’economia che ha fatto abbassare le barriere tra gli stati, l’altro interno.
6.7
Le strategie antimafia
Quella delle strategie antimafia è una questione strategica centrale per la sicurezza,
ma imprescindibile per lotta alle mafie.
Le mafie non sono semplici organizzazioni criminali, ma holding finanziarie
internazionali, soggetto politico, antistato. Per il peso che le mafie hanno sulla mancata
crescita del Mezzogiorno sarebbe necessaria una legge obiettivo. Uno studio del CENSIS
di qualche anno fa sul Mezzogiorno ha quantificato il costo della mafia sul mancato
sviluppo: se il Mezzogiorno avesse avuto quelle risorse avrebbe colmato il divario con il
Nord del Paese.
Se si guarda alla congiuntura economica del mezzogiorno, la crescita generale del
crimine organizzato appare ancora più allarmante: per la prima volta da anni la crescita del
Mezzogiorno si è fermata. E in questo sviluppo frenato, per usare l’espressione dello stesso
Ministero dell’Economia, il peso della criminalità mafiosa non può essere trascurato. Il
peso di un’economia parallela a quella legale che altera le condizioni di mercato
(disponibilità finanziarie, credito più costoso al sud +3,5%, concorrenza, manodopera),
quando non tende ad espellere l’imprenditoria sana attraverso l’usura e le estorsioni, e
abbassa il livello di attrazione degli investimenti.
D’altronde come può attrarre investimenti un’area che alle difficoltà strutturali
aggiunge la presenza della criminalità organizzata che è sempre più criminalità finanziaria?
Il che non vuol dire che le organizzazioni mafiose abbiano messo da parte i tradizionali
metodi di guadagno illegale, come le estorsioni, ma li ha aggiornati. Infatti, un pizzo più
basso, ma pagato da molti, può spingere gli operatori economici taglieggiati a non ribellarsi
e a non denunciare. E questo, assieme ad una preoccupante crescita dell’usura favorita
anche dal maggior costo del credito al sud, rafforza il controllo economico del territorio.
Non vi è dubbio che è sul terreno dello sviluppo che si vince o si perde la battaglia contro
la mafia, perché specie nel Mezzogiorno è la fragilità del sistema economico a favorire la
penetrazione del crimine mafioso come l’usura insegna. Ed è la minore coesione sociale a
34
favorire comportamenti illegali diffusi, come nel caso del contrabbando che fa vivere interi
quartieri di alcune nostre città.
Ma è altrettanto evidente che nel nostro Paese le politiche di sviluppo non hanno
alcuna possibilità di attecchire se non sono sostenute da un impegno straordinario e
permanente dello stato sul versante del contrasto al crimine.
Un impegno per riaffermare la sovranità dello Stato, in quelle aree come Scampia,
dove per entrare si viene perquisiti e non dalle forze dell’ordine, o come nelle tante città
della Sicilia e Calabria, dove il controllo capillare di ogni attività economica, attraverso
l’usura, le estorsioni, e l’infiltrazione negli appalti pubblici, quella sovranità ogni giorno
mettono in discussione. Un impegno oggi sicuramente più difficile:
 per la strategia di inabissamento attuata da cosa nostra dopo la stagione delle
stragi;
 per il tentativo insidioso di far credere la mafia in crisi;
 per il minor contributo da parte dei collaboratori di giustizia;
 per le difficoltà nel ricostruire ogni tensione ideale attorno ai temi
dell’antimafia;
 ma soprattutto per indirizzi strategici nelle attività anticrimine che non hanno
ottenuto i risultati auspicati.
Sono i dati a registrare questo fallimento di obiettivo. Crescono tutti i reati e cresce,
in fondo, anche l’insicurezza dei cittadini. Questo ci dice, forse meglio di ogni sondaggio,
quel 7% in più che ogni famiglia italiana ha destinato alla sicurezza privata, secondo il
rapporto 2004 stilato dal Censis.
Un peso non secondario rispetto ai risultati al di sotto delle aspettative lo hanno
alcune scelte strategiche, come l’aver puntato tutto sulla rassicurazione generica (poliziotto
di quartiere e operazioni straordinarie come “Alto impatto” e “vie libere”), ma a scapito
dell’azione di contrasto, questo è il punto e quindi meno pattuglie, per controllo del
territorio e meno attività investigativa sul fronte anticrimine. Il risultato è stato aver perso
progressivamente conoscenza del territorio e, quindi, capacità di intervento, lasciando così
spazi di iniziativa alle organizzazioni criminali (si stima che a Palermo e Catania otto
imprese su dieci siano colpite dal racket) e compromettendo persino le possibilità di
rassicurazione dei cittadini (che sicuri oggi certamente non sono).
Scelte sbagliate sono quelle che prevedono l’impiego di un numero spropositato di
operatori in attività burocratiche. Infatti, la legge sull’immigrazione destina un numero
altissimo di operatori di polizia alle attività burocratiche e sottrae risorse ai compiti
operativi, soprattutto a quelli di contrasto del traffico delle persone, quindi, finisce per
favorire la clandestinità anziché contrastarla.
Strategie non all’altezza, perché fondate sull’idea singolare secondo la quale si può
rafforzare l’azione delle forze dell’ordine, riducendo le risorse a disposizione e non
avviando alcun processo di riforma, come le leggi finanziarie degli ultimi due anni che sulla
sicurezza, e in particolare sull’attività antimafia, dove non si coglie un progetto chiaro e un
investimento significativo. Risultano tagliati, di oltre il 20%, tutti i fondi delle forze di
polizia, esattamente mentre sale l’allarme terrorismo e registriamo emergenze criminalità
come quella di Napoli. Tagli che mettono in discussione persino il funzionamento ordinario
delle strutture e impediscono processi di modernizzazione che non possono essere più
rinviati sul versante dell’innovazione tecnologica e della formazione.
Sono strategie insufficienti, perché fanno leva o su leggi manifesto (come quella
sulla legittima difesa, che spinge il cittadino ad armarsi, sulla base di una dichiarazione di
fallimento, cioè, quella dello stato che non riesce a proteggere il cittadino) o su vere e
proprie avventure istituzionali, come con la devolution che, se approvata, frantumerebbe,
con un costo enorme, un sistema sicurezza che ha invece bisogno di maggiore compattezza
e coordinamento.
35
Il Mezzogiorno e il Paese hanno bisogno, sul versante antimafia, di un modello strategico
alternativo che punti su due direttrici fondamentali:
 la capacità di intelligence nello scenario internazionale;
 e la rinconquista permanente del territorio alla legalità.
Pensare globalmente e agire localmente è il requisito minimo che oggi si chiede ad un
sistema sicurezza che, come il nostro, deve fronteggiare la più alta concentrazione di
criminalità mafiosa dell’Europa occidentale. Per questo l’Italia dovrebbe rafforzare Europol
ed Eurojust; ridare slancio alla capacità di coordinamento investigativo della DIA, sul
versante dell’aggressione dei patrimoni illeciti (quell’uno per cento dei beni confiscati è un
dato inquietante) su quello delle collaborazioni tra mafie italiane e mafie straniere, su quello
del rischio, per il nostro sistema economico e sociale, che viene dalla presenza crescente nel
nostro territorio delle organizzazioni criminali transnazionali.
E, tuttavia, per avere questo nuovo slancio occorre arrestare quel processo di
indebolimento, carsico, della direzione investigativa antimafia a cui stiamo assistendo,
perché è la DIA la struttura che ha subito uno dei maggiori tagli di risorse dalla finanziaria
di quest’anno.
Vi è, dunque, la necessità di un modello strategico fondato sull’intelligence, ma anche
sulla riconquista del territorio, perché anche per la mafia di oggi, quella finanziaria e
internazionale, il rapporto con il territorio è irrinunciabile, per non trasformarsi in una
semplice organizzazione criminale. È li che si controlla l’attività economica, anche con
strumenti antichi, ma aggiornati come le estorsioni e l’usura; è li che si fa politica e si
amministra una giustizia alternativa a quella dello Stato.
Il territorio, dunque, è un punto di forza per la mafia, ma anche un grande limite e
un’opportunità per lo Stato, ma a condizione che si punti ad un controllo che sia
conoscenza e non semplice occupazione militare.
É, dunque, necessario rafforzare l’attività investigativa delle forze di polizia nel
territorio, cioè la capacità di decifrare i codici di comportamento delle cosche, di disegnare
la mappa degli interessi e dei legami tra gli esponenti mafiosi delle varie famiglie. In una
parola, la capacità di intervenire prima che, ad esempio, si realizzi completamente
l’infiltrazione mafiosa nei lavori preliminari alla costruzione del ponte sullo stretto. Un
obiettivo possibile, se si rafforzano i presidi di polizia nel territorio, se non si smantellano
gli strumenti di indagine, come è successo con le rogatorie.
Più in generale, si potranno contrastare i fenomeni di criminalità organizzata, se si mira
ad un modello:
1. che consideri l’indipendenza della magistratura un bene prezioso per la
democrazia del paese;
2. che punti alla legalità diffusa;
3. che non faccia confusione sulle reali priorità;
4. che sappia guardare contemporaneamente al contrasto del crimine
organizzato e alla criminalità diffusa;
5. che progetti la modernizzazione delle forze di polizia;
6. che consideri strategico il partenariato e il ruolo degli Enti locali.
E soprattutto se non si da il messaggio di smobilitazione, che è stato dato in questi
anni, con il falso in bilancio, il mandato di cattura internazionale, la riduzione delle scorte
ai magistrati e il taglio di risorse alle forze di polizia, perché a differenza della normale
attività anticrimine nella lotta alla mafia il messaggio delle forze politiche di governo è
determinante.
Dopo la stagione delle stragi si può costruire una nuova tensione ideale attorno ai
temi dell’antimafia se questa è percepita come una priorità. Si diffonde cultura della
legalità se il cittadino percepisce che l’illegalità non paga e in altre parole percepisce che
36
nel nostro Paese chi vive illegalmente ha molte probabilità di incappare nelle maglie della
giustizia, come dovrebbe succedere in un Paese normale.
Un obiettivo, quest’ultimo, strategico per la difesa dello Stato di Diritto, ma possibile solo
se ci sarà un rafforzamento vero del circuito giudiziario e delle forze di polizia e se la
legalità è considerata, nell’azione di governo, un valore fondante della nostra identità
nazionale, perché senza legalità non c’è sviluppo, ma soprattutto non c’è libertà.
37
CAPITOLO VII
DEVOLUTION E SICUREZZA
7.1
La riforma costituzionale e il modello di sicurezza
Quello sulla devolution è uno dei dibattiti più importanti dell’agenda politica del
paese, perché ha riflessi diretti sull’impianto costituzionale, oltre che sugli aspetti
fondamentali della vita dei cittadini, come la sicurezza e la giustizia.
Per le forze politiche e sociali progressiste, e per il mondo delle istituzioni, il dibattito
sulla devolution in materia di polizia non è un dibattito facile. Chi la propone, infatti, fa
leva soprattutto sulle paure dei cittadini e questo è elemento sufficiente per trasformarla in
una questione estremamente scivolosa.
Delle tre modifiche costituzionali contenute nella devolution quella sulla polizia
locale è la più “eversiva” dell’impianto costituzionale in quanto:
 incide su una materia, la sicurezza, considerata collante fondamentale dell’unità del
paese;
 influisce direttamente su un’altra fondamentale funzione riconosciuta allo stato e
cioè la giustizia;
 rispetto ai diritti fondamentali della persona, come quello della libertà individuale,
crea le condizioni per trattamenti diversi nel paese;
 può costituire l’elemento scatenante di un nuovo e più soffocante centralismo.
Infatti, la devolution in materia di polizia, specie senza il temperamento della
clausola dell’interesse nazionale, determina una struttura a legame debole tra le istituzioni
centrali e quelle locali.
Una struttura controbilanciata dal rafforzamento, sul piano generale, del ruolo
dell’esecutivo, in particolare attraverso i maggiori poteri riservati al presidente del
consiglio.
Ma la devolution i problemi li sta producendo già prima della sua approvazione.
Alcuni sindaci si comportano, infatti, come se la modifica costituzionale fosse già
operativa. Ed allora istituiscono unità cinofile nella loro polizia municipale in funzione
anticrimine, oppure esercitano pressioni affinché la locale polizia provinciale intervenga al
posto degli agenti della questura in una protesta di piazza connessa ad operazioni di
sgombro di abitazioni e via pasticciando nell’ordinamento.
Siamo di fronte, dunque, ad un’inquietante attivismo nell’agitare le questioni della
Polizia Locale, ma siamo di fronte soprattutto ad un’azione che potremmo definire carsica,
che sta intervenendo su alcuni segmenti del sistema con l’intenzione evidentemente di
ridisegnarne l’architettura.
Capire qual è il modello di sicurezza verso cui si sta andando è, dunque, essenziale
per definire una strategia di modifica Costituzionale. Sarebbe, infatti, un errore pensare che
questa del modello sia un’elegante questione accademica, in realtà è molto di più: è un
fondamentale nodo politico e istituzionale, dal quale dipende la capacità del Paese di
garantire la sicurezza dei cittadini e la tutela dei diritti fondamentali della persona.
7.2
La frammentazione del sistema sicurezza
Definire oggi questo modello non è agevole, perché qualcuno vorrebbe farci guardare
l’albero (cioè la singola modifica strisciante al sistema) e, invece, mai come in questo
momento occorre saper guardare la foresta. E una visione di insieme oggi ci dice che le
forze di centro destra puntano:
38

ad una maggiore libertà nella difesa privata; in tal senso si muoveva la
proposta di una maggiore facilità nell’acquisto delle armi, in linea con il modello
statunitense, proposta che non ha trovato accoglimento legislativo;

alla costruzione di uno spazio più ampio per privatizzazione della sicurezza;
infatti la legge sulla sicurezza sussidiaria ha come effetto principale lo sviluppo del
mercato privato della sicurezza;

ad una riduzione di risorse a sostegno del sistema di sicurezza pubblica;

alla frammentazione del sistema di sicurezza;
E, infatti, mentre altri paesi, sul versante della difesa, propongono la costituzione di un
esercito europeo, la devolution, di fronte a fenomeni come la globalizzazione del crimine e
di fronte all’esigenza, soprattutto italiana, di mettere a fattor comune interventi come quelli
che riguardano il controllo delle frontiere, la lotta ai traffici e il governo dei flussi
migratori, si muove verso la frammentazione del sistema delle forze di polizia,
giudicandola a torto come una soluzione ai problemi di sicurezza del paese.
7.3
Le ambiguità del testo di riforma
In realtà questo modello, complessivamente, costituirebbe un netto passo indietro per
il nostro sistema di sicurezza. e, tuttavia, per dimostrarlo occorre, innanzi tutto, saper
spiegare ai cittadini la portata delle modifiche costituzionali su questo versante, cosa non
agevole perché i testi, sia quello della devolution sia quello delle modifiche al titolo quinto
sono volutamente ambigui.
È l’ambiguità, infatti, una delle maggiori criticità delle modifiche costituzionali, e
cioè non un progetto definito sulle forze di polizia, ma semplicemente la disarticolazione
del sistema esistente.
La prima ambiguità sta nel concetto di Polizia locale. La devoluzione avrebbe effetti
devastanti sul sistema delle competenze. Infatti, scartata l’ipotesi che voglia attribuire
competenza legislativa esclusiva alle Regioni in materia di Polizia Amministrativa locale,
perché questa competenza è già riconosciuta dall’attuale Titolo quinto della Costituzione, è
da immaginare che la modifica voglia attribuire competenza legislativa esclusiva alle
regioni in materia di polizia locale non solo amministrativa, ma anche di sicurezza. Il
problema, però, è che questa competenza è attribuita dalla Costituzione allo Stato, e questo
perché sul versante della prevenzione e del contrasto dei crimini, piccoli o grandi che
siano, occorre “un’impostazione unitaria” della politica dell’ordine e della sicurezza
pubblica e che “polizia locale non vuol dire sicurezza e ordine pubblico locale, perché
unico è il testo delle leggi di pubblica sicurezza, unico il Codice Penale, unico il Codice di
Procedura Penale
La sola devolution entrerebbe, dunque, in rotta di collisione con l’intero impianto
costituzionale in materia di sicurezza. Di qui il compito del disegno di modifica del Titolo
Quinto della Costituzione, cioè quello di impedire gli effetti più eversivi che avrebbe la
sola devolution sul versante della polizia, cioè l’invasione di campo in una funzione
legislativa riservata allo Stato. Ma anche quello di rendere comunque possibili alcuni
obiettivi individuati dai settori più oltranzisti, come l’attribuzione alle polizie locali di
compiti prevalentemente di sicurezza e, dunque, la realizzazione delle polizie regionali,
cioè il trionfo di un’idea di sussidiarietà, intesa non come complementarietà ma come
sostituzione del pubblico con il privato, nel senso di privatizzazione di una parte della
sicurezza pubblica.
Nonostante le posizioni rassicuranti dell’ex Ministro dell’Interno, il rischio è che il
disegno di legge di modifica del Titolo Quinto consenta di raggiungere alcuni dei veri
39
obiettivi della parte più oltranzista delle forze politiche che di recente guidano
l’opposizione politica. Questo in quanto anche con l’attuale formulazione delle modifiche
al Titolo Quinto della Costituzione è possibile costituire polizie regionali, o attribuire alle
polizie locali prevalenti funzioni di sicurezza, magari limitate al contrasto dei reati di
strada. Infatti, mentre nel primo comma dell’art. 2 della proposta di riforma si riconosce
allo Stato la potestà legislativa esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza, con
esclusione della polizia amministrativa locale, nel secondo comma dello stesso articolo si
afferma che le Regioni, nel rispetto dell’interesse nazionale, esercitano la potestà
legislativa esclusiva in materia di polizia locale, dunque, in una materia che non è la sola
polizia amministrativa. Si è, quindi, di fronte ad un sistema che non esclude una
competenza legislativa esclusiva regionale in materia di polizia locale di sicurezza, salvo
lasciare all’interesse nazionale il compito di definirne i limiti, magari per tipologia di reato.
E cioè ci troveremmo di fronte al pasticcio istituzionale, ma anche a quello operativo.
Questo perché il modello a pluralità di forze di polizia, dove è prevista la possibilità che le
polizie locali svolgano, in via prioritaria, attività di sicurezza e contrasto al crimine nel
territorio, ha un senso in un sistema come quello statunitense, dove il doppio livello delle
strutture di polizia è la diretta conseguenza della doppia qualifica, statale o federale, dei
reati che quelle strutture devono prevenire e reprimere.
In un sistema come il nostro, caratterizzato dalla riserva allo Stato di tutta la
legislazione penale, introdurre le polizie regionali costituirebbe un pasticcio sul piano
dell’ordinamento e determinerebbe un pericoloso passo indietro per il nostro sistema di
sicurezza, per diverse fondate ragioni.
La prima attiene al tema del coordinamento. Nel Paese delle tante polizie, civili e
militari, generali e speciali, statali e locali, farne altre venti non sarebbe esattamente una
cosa intelligente. Gli sforzi che si stanno compiendo per rafforzare la cooperazione di
polizia in ambito Comunitario, determinante per contrastare ogni forma di criminalità,
richiederebbe una semplificazione del nostro sistema e non un ulteriore crescita della
confusione interna circa le competenze e, soprattutto, le responsabilità dei diversi
organismi.
La seconda ragione attiene all’efficacia della risposta. Spostare alle Regioni
competenze che oggi sono dei Comuni vuol dire in realtà allontanarsi dai bisogni dei
cittadini. Vuol dire accentrare e non decentrare attività che devono essere svolte con il
maggior radicamento possibile nel territorio e la maggiore prossimità al cittadino, se si
vuol rafforzare l’efficacia della rete di contrasto al crimine, garantendo quelle strategie di
rassicurazione che sono imprescindibili in un moderno sistema di sicurezza pubblica.
La terza ragione è connessa alle nuove dinamiche criminali ed ai processi di
globalizzazione delle attività illecite. Persino quella nazionale è ormai una dimensione
territoriale di per se insufficiente rispetto ai nuovi fenomeni criminali. Pensare globalmente
e saper operare localmente dovrà essere sempre di più la linea strategica di un paese come
l’Italia, che a causa della sua collocazione geografica e della radicata presenza di
criminalità organizzata, è crocevia permanente di traffici illegali e meta di mafie straniere.
Una quarta ragione attiene ai costi. Se parliamo di polizie vere e proprie le risorse
necessarie non sembrano attualmente a disposizione, a meno che non si abbia in testa di
incrementare significativamente la pressione fiscale sui cittadini delle regioni che
scegliessero di costituire polizie regionali, oppure di regionalizzare la Polizia di Stato e
lasciare un corpo militare, l’Arma dei Carabinieri, quale unica polizia generale nazionale,
ovviamente senza altri precedenti nel mondo occidentale.
Una quinta ragione riguarda il rischio di assicurare ai cittadini una sicurezza
diseguale, a fronte del fatto che non tutte le Regioni potrebbero avere la capacità di spesa
necessaria per istituire nuove strutture di polizia.
40
Un’ultima, ma non secondaria, ragione è che nel Paese che ancora non ha sciolto il
nodo dei rapporti tra politica, mafia ed affari, una polizia regionale con compiti anche di
repressione penale dovrebbe essere guardata, specie in alcune aree, con forte
preoccupazione da tutti i cittadini che non sottovalutano il peso che le forze di polizia
hanno nel più generale controllo di legalità.
7.4
Riforme e non avventure istituzionali
La devolution è, dunque, una risposta sbagliata sul terreno delle politiche di sicurezza
e pericolosa su quello dell’ordinamento, e opporsi con fermezza è un dovere per chi vuole
riforme e non avventure istituzionali.
Doveroso è spiegare le ragioni del no alle avventure istituzionali a quei cittadini che
andranno a votare al probabile referendum sospensivo conseguente alle modifiche
costituzionali. Spiegarlo ai cittadini delle regioni governate dal centrosinistra, dove vi sono
presidenti che spiegano che una polizia regionale sarebbe un problema e non una
soluzione. ma anche e soprattutto spiegarlo ai cittadini delle regioni governate dal
centrodestra, dove più facile è la strumentalizzazione della paura e quindi il
condizionamento del voto.
Ma per convincere non si possono utilizzare solo dei no. Occorre saper convincere il
Paese che abbiamo bisogno di riforme e non di avventure istituzionali. che occorre attuare
e non smantellare la costituzione sul versante della sicurezza, completando il processo di
riforma dell’81, realizzando un sistema fondato sulla chiarezza delle funzioni delle diverse
forze di polizia statali e locali, nell’interesse dei cittadini e degli stessi addetti, perché le
ambiguità consentirebbero allo stato la fuga dalle responsabilità, determinerebbero
l’impotenza degli enti locali e un ingiusto rischio professionale per gli operatori.
Occorre, dunque, avviare la riforma delle polizie locali, attribuendo loro come funzione
prevalente quella della polizia amministrativa e non di sicurezza, che è una funzione
essenziale per il controllo di legalità, puntando sulla formazione degli operatori e
l’innovazione tecnologica delle strutture, riconoscendo comunque l’esigenza una legge
quadro nazionale per le polizie locali, perché ogni cittadino del nostro paese ha diritto di
sapere dietro una divisa quali poteri e soprattutto quali doveri ci sono.
7.5
La privatizzazione del sistema sicurezza
É necessario completare quel processo di riforma con il riordino della vigilanza
privata in direzione un sistema integrato con le forze di polizia, che neutralizzi i rischi di
una tendenziale privatizzazione della sicurezza attraverso la cessione di quote di attività di
polizia locale. Rischi attuali, dal momento che in qualche disegno di legge regionale è
prevista la possibilità di delega alle vigilanze private di funzioni attribuite alla polizia
locale.
7.6
Da vigilanza privata a sicurezza sussidiaria
La nuova legge sulla sicurezza sussidiaria apre una nuova dimensione del mercato
della sicurezza. Novità questa in sé non negativa a condizione che non si cedano segmenti
strategici delle attività di sicurezza che attengono ai diritti fondamentali del cittadino e che
si pretendano elevati standard di qualità dalle imprese private.
41
Questo disegno legge, invece, non pretende un alto livello di qualità. E questo limite,
accanto alla tendenziale cessione di attività di sicurezza a favore del privato disegnata dalla
devolution, delinea una sorta di scambio tra qualità e quantità sul versante della sicurezza
che va contrastato con decisione.
Il processo di riforma avviato nell’81 si completerà:

Realizzando un forte decentramento delle attività di polizia;

Puntando ad un controllo del territorio che è conoscenza e non semplice
occupazione;

difendendo un’idea di polizia come professione sociale dai rischi della
privatizzazione e del marketing territoriale.
42
CAPITOLO VIII
SICUREZZA E LIBERTÀ CIVILI
8. 1
La società sorvegliata
Il tema che affrontiamo in questo capitolo é quello del rapporto tra la sicurezza e
libertà civili. Un tema non nuovo, quello del limite dei poteri di chi governa, ma che ha
assunto nel mondo moderno, con l’affermazione dello stato di diritto, un’importanza
crescente con riferimento all’insicurezza del cittadino, che a volte si trasforma in paura.
Una paura che non può essere sottovalutata, perché una società che l’avverte è spinta ad
invocare misure semplicemente repressive, a rinunciare ad una quota crescente delle
proprie libertà civili e, quindi, a determinare, in ultima analisi, le condizioni per un
cambiamento in senso autoritario nei rapporti tra stato e cittadino.
Il fenomeno, come è noto, ha radici antiche. Per millenni, e in ogni civiltà, il suddito
che ha avvertito una minaccia alla sua incolumità e a quella dei suoi familiari, o al
possesso dei beni, ha invocato l’intervento di un sovrano che lo sapesse difendere, quasi
sempre senza chiedere conto dei suoi metodi.
Lo Stato moderno, invece, ha portato con se una maggiore attenzione verso le
garanzie della persona, quando si trattato di assicurare l’ordinato vivere sociale. Ma fino
ad un certo punto, evidentemente. visto che sarà proprio Thomas Hobbes, il primo teorico
di una concezione laica e moderna dello Stato, a ritenere che soltanto lo stato assoluto,
estremo nelle sue decisioni, può garantire protezione, e quindi sicurezza, ai suoi cittadini.
Per lo Stato di diritto le cose sono, in realtà, un po’ più complesse, perché la
maggiore conquista del cittadino moderno è esattamente il rispetto dei suoi diritti
fondamentali. E, quindi, se lo Stato dovesse favorire, o anche solo accettare, il
trasferimento del controllo di una parte significativa di questi diritti ai pubblici poteri,
come prezzo per poter assicurare protezione, getterebbe inevitabilmente le basi per la sua
delegittimazione.
8.2
La libertà personale
Le Costituzioni dei Paesi occidentali hanno affrontato da tempo il tema delle
garanzie sui provvedimenti restrittivi della libertà personale. La nostra Costituzione ha
affermato l’esigenza del controllo giudiziario sui provvedimenti restrittivi
eccezionalmente riconosciuti alle forze di polizia, come l’arresto in flagranza di reato. Ha
fissato il principio del doppio grado di controllo specifico all’interno del processo penale
sui provvedimenti restrittivi della libertà. La legge ha stabilito le condizioni in presenza
delle quali è possibile limitare la libertà della persona. Lo ha fatto guardando, ovviamente,
sia alle esigenze di giustizia (salvaguardare le condizioni che possano portare
all’accertamento della verità processuale) sia alle esigenze di rispetto dei diritti
fondamentali della persona, a partire dall’habes corpus, cioè il diritto all’integrità fisica e
psichica della persona.
Il risultato è che i casi che si collocano sul confine di questo sistema generale di tutela, nel
nostro Paese, sono pochi. A titolo di esempio ricordiamo:
o centri di permanenza temporanea, per gli immigrati clandestini;
o arresto differito per i comportamenti violenti, penalmente rilevanti commessi allo
stadio, o comunque connessi allo svolgimento delle manifestazioni sportive.
Situazioni per le quali vengono manifestati forti dubbi di legittimità da parte di
autorevoli costituzionalisti, ma che non mettono in discussione né i principi né l’impianto
43
complessivo delle garanzie civili che sono riconosciute nel nostro Paese. Principi sulla
base dei quali, ad esempio, non hanno trovato cittadinanza istituti come:
o il reato di ingresso clandestino, considerato in contrasto con in valori di solidarietà
e civiltà giuridica ai quali si ispira il nostro ordinamento;
o il fermo di polizia, giudicato in generale lesivo del principio del controllo
giudiziario sui provvedimenti adottati dall’Autorità di polizia.
8.3
La tutela della privacy
In realtà, il problema del rapporto tra sicurezza e garanzie civili oggi si pone
soprattutto con riferimento alla tutela della privacy.
L’11 settembre ha portato in superficie alcune tendenze che si erano già sviluppate
nel decennio precedente, come quella che ha portato a considerare assolutamente normale,
anche da esponenti della parte più garantista della società, l’inserimento delle proprie
impronte digitali nei documenti di identità. In questa direzione, infatti, si muovono ormai
diversi Paesi europei. Hanno incominciato a prendere piede idee come quella dell’uomo
di vetro, cioè quella secondo la quale se una persona non ha nulla da nascondere non ha
nulla da temere. Un principio questo, come fa notare Stefano Rodotà, di matrice nazista
ma comune a tutti i totalitarismi. Idee che l’11 settembre ha ovviamente rafforzato al
punto da far ritenere da molti che la perdita o la forte compressione di certe libertà è
l’inevitabile prezzo da pagare in cambio della sicurezza.
Il 54% dei cittadini dell’Unione Europea giustifica il controllo delle telefonate per
reprimere il terrorismo. Solo il 14% pretende che ci sia il controllo della magistratura. E
vi è pure un 7% disponibile ad essere ascoltato comunque pur di contrastare i terroristi.
Dunque, è la paura in generale, e quella del terrorismo in particolare, l’elemento che
ha consentito una giustificazione crescente all’incremento esponenziale della
sorveglianza, specie negli Stati Uniti da dove arrivano le nuove tendenze al rafforzamento
della sorveglianza. Un incremento che in particolare riguarda la sorveglianza
automatizzata, quella ininterrotta, sistematica impersonale e onnipresente.
Come ha detto il sociologo statunitense David Lyon in un suo recente saggio sulla
società sorvegliata, “grazie alle opportunità che ci vengono offerte dall’alta tecnologia la
prevenzione dagli attacchi terroristici si sta identificando sempre di più con la
sorveglianza”. E dunque videosorveglianza con riconoscimento facciale – biometria –
carte intelligenti e poi Echelon – l’orecchio elettronico dei Servizi Statunitensi - e
soprattutto banche dati, come quella alla quale sembra stiano lavorando gli organismi di
sicurezza statunitensi, che attraverso l’elaborazione delle tracce elettroniche che ogni
cittadino lascia, quando compra un qualunque bene o servizio, si è in grado di arrivare ad
un profilo delle tendenze culturali, politiche o sessuali della persona. Oppure tecnologie
come US-VISIT – un enorme database che in un prossimo futuro consentirà di controllare
chi entra e chi esce dagli Stati Uniti.
Il più ambizioso progetto di schedatura mai tentato nella storia, come risulta anche
da normali informazioni di stampa, è attivo in tutti e 115 aeroporti internazionali
americani più una dozzina di scali marittimi. registra l’impronta digitale e il volto del
passeggero, poi li confronta con tutti i pregiudicati e possibili terroristi del mondo e poi li
archivia per sempre in un database.
Nel 2004 sono stati raccolti i dati di 23 milioni di persone. Per ora gli italiani e gli
abitanti dei Paesi considerati amici non sono sottoposti a queste rilevazioni, meno che
non chiedono di entrare negli Stati Uniti per un periodo superiore ai tre mesi. Ma per il
futuro gli Stati Uniti hanno ottenuto l’impegno di questi paesi ad inserire nei passaporti
44
foto e impronte digitalizzate, pronte quindi per essere trasferite automaticamente in quel
database.
La banca dati che viene sempre più pressantemente richiesta dalle forze di polizia e
da una parte della Magistratura in Italia è la banca dati del DNA, cioè un archivio centrale
dei profili genetici, considerata necessaria ai fini investigativi – di intelligence – di
costituzione della prova. Ma la questione forse più delicata è quella della costituzione di
una banca dati generale e preventiva, cioè una sorta di schedatura genetica. In proposito
occorre evidenziare i rischi della schedatura genetica e cioè che i dati genetici non sempre
sono risolutivi e non è scongiurata la possibilità di errore e che c’è sempre il rischio di
utilizzo del materiale biologico al fine di trarre informazioni che non riguardano solo
l’impronta genetica indicata con un semplice codice a barre.
Questa è una questione di grande delicatezza perché i dati genetici possono dare
informazioni anche su tutto il gruppo biologico al quale appartiene la persona (genitori,
figli, fratelli), hanno attitudine “predittiva” circa l’evoluzione della vita della persona. In
Italia ancora fortunatamente il livello di tutela dei dati genetici è elevato. Il Garante della
privacy, Stefano Rodotà, ha sostenuto che non bisogna abbandonarsi a derive
tecnologiche.
Di fronte ad un possibile futuro di sorveglianza integrale si pongono inevitabilmente
alcuni interrogativi, come:
 l’affidabilità tecnica cioè la precisione dei sistemi di rilevazione;
 il rapporto tra costi e benefici di queste enormi operazioni di sorveglianza, sia
in termini economici ma soprattutto in termini di tutela dei diritti
fondamentali.
Sotto il primo profilo i sistemi che vengono propagandati non sono certamente
infallibili: margini di errore che vano dal 7% per le banche dati del DNA fino al 66% di
alcuni sistemi biometrici statunitensi. Inoltre, coloro che sono interessati a falsificare le
informazioni raccolte in modo automatizzato sono un numero enorme. Quindi è
prevedibile che ogni progresso nei sistemi di identificazione sarà rapidamente
controbilanciato dai progressi nella falsificazione delle informazioni.
L’errore produce immediatamente conseguenze negative a volte pesanti come quelli
connessi ad una banca generale del DNA. Rimediare preventivamente è quasi sempre
impossibile. L’errore dei sistemi di sorveglianza ha un costo enorme dal punto di vista
della persona normale. Ma l’errore ha anche dei costi economici diretti e indiretti: sottrae
risorse che possono essere investite in altre strategie di sicurezza.
La sicurezza è un processo e non un prodotto, è una catena tanto forte quanto il suo
anello più debole, dice Bruce Schneier, l’inventore di uno dei più famosi algoritmi per la
protezione dei dati. Al centro di qualunque attività di prevenzione e investigazione c’è
l’uomo e non la macchina, la sua intelligenza, la sua capacità di distinguere ciò che è
pericoloso da ciò che non lo è, la sua capacità di perseguire l’obiettivo della compressione
minima dei diritti delle persone.
8.4
Lotta al terrorismo e tutela dei diritti
Il vero problema di una democrazia, infatti, non è solo garantire sicurezza, ma è
farlo senza tradire se stessa, è saper fronteggiare le vecchie e le nuove minacce,
mantenendo fermo il primato del diritto e dei diritti. E questo vale in particolare per la
sicurezza dagli attacchi terroristici.
Il terrorismo internazionale si batte sicuramente con gli strumenti tecnici adeguati,
ma anche con la cooperazione internazionale, con la cooperazione giudiziaria e di polizia
e qui il nodo è soprattutto politico. Strumenti di cooperazione, come Europol ed Eurojust,
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funzionano se sono il frutto di una concezione analoga di lotta al terrorismo ed alla
criminalità e se sono comuni gli interessi, ma anche e soprattutto se sono comuni i valori
che i paesi dell’unione vogliono difendere.
Un’Europa che vuole essere qualcosa di più di “mercato e moneta” non può ignorare
che non è indifferente il modello di società che vuol difendere, che i processi di
integrazione comunitaria dipendono anche dalle risposte che verranno date nel rapporto tra
diritti e sicurezza e tra rispetto delle identità etniche e religiose e sicurezza.
Una società consapevole di questa condizione è quella che non fa confusione tra
flussi migratori, che sono un fenomeno strutturale che va governato innanzi tutto con
strumenti economici e sociali, e terrorismo e criminalità, che utilizzano i fenomeni
migratori per il raggiungimento dei loro obiettivi, e che vanno combattuti con strumenti e
strategie comuni a tutta la comunità internazionale.
L’idea di scontro di civiltà favorisce, invece uno degli obiettivi strategici del
terrorismo di matrice fondamentalista, e cioè l’allontanamento di qualsiasi
contaminazione tra culture che devono, invece, restare diverse e lontane. Quest’idea
invece che combattere finisce per rafforzare le ragioni di chi usa la violenza e la morte per
conservare un mondo diviso in blocchi incomunicabili.
Dunque, anche dal punto di vista della sicurezza, l’unica società in grado di
neutralizzare il progetto terrorista è quella multietnica e globale, che consideri la diversità
una ricchezza, la tolleranza un principio ispiratore e la legalità una necessità.
Dopo l’11 settembre dagli ambienti conservatori è arrivata l’idea che per garantire
sicurezza sia inevitabile un sacrificio crescente delle libertà civili. Per le società
occidentali la scommessa è invece garantire sicurezza senza fare alcun passo indietro sul
terreno della civiltà giuridica. Per questo la battaglia per il rispetto dei diritti fondamentali
della persona, quella per la sicurezza e la legalità, in Italia e in Europa, diventa sempre di
più battaglia per la difesa della qualità della nostra democrazia.
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