CAPITOLO I Appunti di sociologia della devianza 1.1 Definizione 1.2 Nascita della sociologia della devianza 1.3 Modello classico della devianza 1.4 Teorie a medio raggio 1.5 Teorie individualiste 1.6 Teoria dell’etichettamento 1.7 Etnometodologia 1.8 Dinamiche Centro-Periferia 3 3 4 6 7 8 8 10 CAPITOLO II Introduzione alle strategie di sicurezza 2.1 Strategie di sicurezza e modello di società 2.2 Fattori di complessità della questione sicurezza 2.3 Insicurezza soggettiva e oggettiva 2.4 Insicurezza e coesione sociale 2.5 Insicurezza e rapporto Stato/cittadini 11 11 13 14 14 CAPITOLO III I nuovi fattori di insicurezza 3.1 La frustrazione sicuritaria 3.2 L’avversione del cittadino moderno al rischio 3.3 L’andamento dei fenomeni di devianza 3.4 Insicurezza e sistema dell’informazione 3.5 L’andamento dei fenomeni di devianza 3.6 Rapporto tra fattori oggettivi e soggettivi alla base del senso di insicurezza 1 16 16 17 17 18 18 CAPITOLO IV La polizia di prossimità 4.1 Modello strategico 4.2 Accesso alla risorsa Polizia 4.3 Attenzione alle fasce deboli 4.4 Attenzione alla vittima 4.5 Il partenariato 4.6 Forze di Polizia e territorio 20 21 22 22 23 23 CAPITOLO V Immigrazione e sicurezza 5.1 Immigrazione e modello di società: la legislazione sull’immigrazione 5.2 I centri di permanenza temporanea 5.3 La clandestinità e la devianza 27 27 29 CAPITOLO VI Le mafie 6.1 Criminalità organizzata e sviluppo 6.2 La Mafia Siciliana 6.3 La ‘ndrangheta 6.4 La camorra 31 31 32 33 6.5 La Sacra Corona Unita 6.6 La criminalità straniera 6.7 Le strategie antimafia 2 33 34 34 CAPITOLO VII Devolution e sicurezza 7.1 La riforma costituzionale e il modello di sicurezza 7.2 La frammentazione del sistema sicurezza 7.3 Le ambiguità del testo di riforma 7.4 Riforme e non avventure istituzionali 7.5 La privatizzazione del sistema sicurezza 7.6 Da vigilanza privata a sicurezza sussidiaria 38 38 39 41 41 41 CAPITOLO VIII Sicurezza e libertà civili 8. 1 La società sorvegliata 8.2 La libertà personale 8.3 La tutela della privacy 8.4 Lotta al terrorismo e tutela dei diritti 43 43 44 45 CAPITOLO I APPUNTI SI SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA 1.2 Definizione La devianza non esiste senza il riferimento alla norma, intendendo il termine norma non nel senso strettamente giuridico, ma nel senso più ampio possibile (qualsiasi regola che sia sentita come vincolante per una qualsiasi ragione). Definizione della norma sociale: “Proposizione articolata e codificata -o anche idea, rappresentazione collettiva che si può comunque esprimere in una proposizione- la quale prescrive ad un individuo o ad una collettività, come elemento stabile e caratterizzante della sua cultura o subcultura, o d’una cultura o subcultura aliena cui è in quel momento esposto, la condotta o il comportamento più appropriati (cioè “giusti”) cui attenersi in una determinata situazione, tenuto conto delle caratteristiche del soggetto, delle azioni da esso eventualmente subite, e delle risorse di cui dispone; ovvero, in parecchi casi, l’azione da evitare, anche se comporta sacrifici o costi di varia natura. La maggior parte delle norme sociali sono caratterizzate dall’uso implicito o esplicito di verbi quali “si deve”, “bisogna”, “è giusto che”, e del modo imperativo (“dite la verità”). Una classe particolare di norme sociali, di rilevanza centrale in tutte le società, è formata dalle norme di diritto. La violazione di una norma, chiamata devianza sociale, attira di solito una sanzione, la cui entità è proporzionale all’importanza attribuita alla norma dalla collettività che vi si conforma. Definizione della devianza sociale: “Atto o comportamento o espressione, anche verbale, del membro riconosciuto di una collettività che la maggioranza dei membri della collettività stessa giudicano uno scostamento o una violazione più o meno grave, sul piano pratico o su quello ideologico, di determinate norme o aspettazioni o credenze che essi giudicano legittime, o a cui di fatto aderiscono, ed al quale tendono a reagire con intensità proporzionale al loro senso di offesa. Essenziale al significato di Devianza sociale è il riferimento a una collettività determinata e al suo sistema di Diritto, poiché non esistono “devianze” in sé, ma solamente definizioni sociali di ciò che è atto conforme o atto deviante. Se le norme di due collettività cui un soggetto appartiene sono tra loro in conflitto, il medesimo atto può apparire deviante rispetto alle norme di una, me del tutto conforme alle norme dell’altra. La devianza ideologica rispetto a quella che un partito politico considera l’ortodossia è detta piuttosto deviazionismo. A rigore, lo stesso concetto di devianza può applicarsi a soggetti collettivi, ma tranne che nella sfera politica, dove è comune parlare di deviazionismo di un gruppo o di un partito rispetto alla linea di un partito guida, il termine si applica per lo più a individui”. 1.2 Nascita della sociologia della devianza Il termine devianza fu introdotto in Sociologia per consonanza col termine deviazione statistica. Siamo in pieno periodo positivista ed uno dei riferimenti teorici più importanti è Quételet, che elabora il concetto di uomo medio e rivendica la necessità del ricorso a metodi scientifici, in particolare il ricorso alla statistica, per quantificare e poi comprendere i comportamenti ed i fenomeni sociali. La norma statistica è il valore centrale della distribuzione di alcune caratteristiche. E questa norma statistica, spostata sul piano sociale, diviene la normalità della Sociologia. È normale il comportamento statisticamente più ricorrente. Immaginando una rappresentazione della distribuzione dei comportamenti sociali su di un piano cartesiano, si 3 ha come risultato una curva di Gauss, dove si può vedere bene anche la probabilità della distribuzione dei comportamenti devianti, pochi e marginali, e la si può intendere anche come rappresentazione di una collocazione politica (sia nel senso che al termine politica diamo oggi sia nel senso di collocazione nello spazio urbano) della devianza. Si raffigura così la dicotomia dello spazio sociale tra Centro e Periferia. Ma torneremo su questo successivamente. Ora, invece, tornando al clima positivista, bisogna sottolineare che è una tendenza, questa dell’affermazione dei metodi statistici in particolare, ma in generale quantitativi, che coinvolge non solo la Sociologia. Si diffondono studi antropometrici, psicometrici, biometrici. Diventa quasi ossessivo il bisogno di ridurre a quantità misurabili tutti gli aspetti della vita. Credo che questa possa inquadrarsi in un movimento più generale che coinvolge l’intera Modernità e la caratterizza a fondo. Mi piace parlare di una progressiva materializzazione dell’oggetto della scienza, quindi, per quel che riguarda l’uomo, riduzione del fenomeno-uomo a fenomeno-corpo. È un lungo processo che sposta sempre più l’attenzione sulla materialità della vita, con la nascita o la ripresa della clinica moderna, ma anche della psicologia fisiologica, della fisiognomica, della criminologia positiva (Lombroso), ecc.. Si vuole offrire un metodo inoppugnabile di studio alle scienze sociali e alle scienze umane facendo ricorso al metodo della scienza positiva. Personalmente vi vedo anche agire una nuova mentalità, molto legata all’illuminismo, l’universalità della natura umana, tutti gli uomini valgono una unità, secondo i metodi statistici, c’è l’affermazione di una unità di piano e non più una gerarchizzazione degli uomini, che si riappropriano della loro natura. Tutti gli uomini sono punti appartenenti allo stesso piano. Tutti hanno le stesse capacità in origine, la società deve permettere a tutti di poter accedere ai ruoli loro più confacenti. I principi della nuova società sono libertà, uguaglianza, fraternità. Cresce la fiducia nella possibilità plasmatrice dell’Educazione, della Pedagogia. Come in ogni tempo di Nuovo Ordine, c’è bisogno di una Nuova Pedagogia, sono diversi i Valori da far interiorizzare agli individui. Ma di questo sono ben coscienti gli Illuministi e anche in risposta a questa esigenza si può concepire il progetto dell’Enciclopedia, ad esempio. Ma, nonostante tutto, anche la Rivoluzione Francese ha i suoi esclusi. Sono gli schiavi, ma anche i folli. Esclusione esterna (gli schiavi delle colonie), Esclusione interna (cittadini minori). L’uscita dallo stato di minorità dell’uomo, elemento caratterizzante l’Illuminismo secondo Kant, è dunque un’uscita parziale. Ci sono ancora categorie di esclusi perché difformi dal modello riconosciuto di normalità. Naturalmente finora ho voluto intendere il termine devianza nell’accezione più ampia possibile, comprendente qualsiasi spostamento dal comportamento più ricorrente nella rappresentazione della distribuzione dei comportamenti degli individui di una collettività su un piano cartesiano. Passeremo ora in rassegna alcuni modelli di analisi della devianza. 1.3 Modello classico della devianza Uno dei primi sociologi ad occuparsi della devianza, pur non usando questo termine, ma quello di anomia, fu Durkheim. Preoccupazione principale di Durkheim è stata quella dell’ordine in una società. Egli distingue due tipi di società, società semplice e società 4 organica, distinzione basata sulla differente divisione del lavoro sociale. Nel primo tipo di società gli individui svolgono tutti lo stesso tipo di lavoro, non ci sono grosse differenze tra gli individui e questo permette una forte stabilità nel gruppo, una coesione sociale che si produce meccanicamente (solidarietà meccanica). Problemi per tenere uniti i vari individui, che svolgendo lavori differenti dando luogo ad una forte differenziazione dei ruoli, che può dar adito a richieste di differenziazioni interne, ad una richiesta di gerarchizzazione degli individui e a spinte individualiste disgregatrici dell’unità sociale. C’è bisogno di una forte socializzazione per far comprendere ed interiorizzare agli individui i valori di una solidarietà organica, di essere tutti parte dello stesso organismo e che ciascuno svolge una funzione vitale per la sopravvivenza di questo organismo sovraindividuale (la società) che funzionando bene permette la pacifica coesistenza ed il giusto riconoscimento delle esigenze di tutti. Le rappresentazioni collettive svolgono una funzione importantissima nella sociologia di Durkheim, essendo assegnata alla loro interiorizzazione la capacità di tenere insieme la società. Quando vanno in crisi queste rappresentazioni (sia essa crisi positiva o negativa), vi è una forte tendenza all’anomia, all’assenza dei riferimenti ai valori fondativi della socialità dell’uomo. Interessanti a tal proposito le considerazioni che Durkheim fa nella sua ricerca sul suicidio. Durkheim riconosce alla devianza il ruolo di motore della società. Essa è endemica alla società e può essere considerata il laboratorio di nuovi valori di riferimento per la strutturazione di nuove rappresentazioni sociali che mutano il quadro di riferimento per la coesione della Società, permettendo magari di superare fasi di crisi e di recuperare -mutatis mutandum- la coesione sociale. Il modello offerto da Durkheim è un modello sociale ad ampio raggio, nel senso che l’uomo non ha quasi spazio al di fuori dei processi di socializzazione. La dimensione sociale investe ogni aspetto dell’uomo. Un modello teorico simile sarà ripreso da Parsons, che parlerà in particolare di interiorizzazione dei ruoli, non essendo altro, per lui, il sistema sociale che un sistema di ruoli. In tutti questi modelli prevale la colpevolizzazione del deviante risultando la devianza non essere che una incompleta od inadeguata socializzazione. Per queste teorie si parla di una concezione ultrasocializzata dell’uomo. Vi svolgono una funzione fondamentale, l’abbiamo visto, l’interiorizzazione dei valori e dei modelli operativi (ruoli) offerti e riconosciuti dalla società, che permettono un esteso controllo sociale. Ancora, nei momenti di crisi il deviante può assurgere a capro espiatorio della crisi e rendere coesa la società nella risposta contro il nemico, il colpevole della crisi. È questa una funzione che possiamo riconoscere, ad esempio, anche al sacrificio nelle società antiche. Una delle possibili critiche che possono muoversi a questo modello è la scarsa o nulla considerazione della libertà di comportamento umano, vi è una lettura totalmente funzionalista del comportamento e del ruolo dell’individuo, che non può non agire secondo le norme legate al suo ruolo se non vuoi mettere in pericolo la riproduzione e la sopravvivenza del Sistema Sociale, nel cui contesto soltanto è possibile dare un senso all’agire umano. Questa immagine organicista della società porta con sé un modello descrittivo della devianza e della risposta sociale alla devianza che possiamo definire immunitario, particolarmente in voga nelle analisi dei fenomeni migratori. Come ogni fuoriuscita dal ruolo può essere considerata in tale modello una patologia dell’individuo, così la diffusione nella società di corpi estranei (i migranti) che non hanno ancora un ruolo per loro definito, può essere vista come una patologia del Sistema Sociale. Si parla di fattori di rischio per l’omeostasi della società, perché questi migranti sono portatori di valori altri, differenti e sono portatori di rappresentazioni sociali di altre società. I meccanismi messi in atto dalla società sono di due tipi: assimilazionisti o di esclusione. Coloro che si integrano, assumendo il ruolo che viene loro offerto, restano nel corpo sociale, seppure ai margini, 5 vengono tollerati. Coloro invece che non accettano di buon grado il ruolo marginale loro offerto, fanno scattare le risposte repressive (espulsione). La metafora vale anche per la devianza non originata dal fattore migrazione, naturalmente, si parla di alte temperature sociali per le lotte sindacali (febbre), ad esempio, di risposte specifiche o generalizzate (corpi speciali o forze dell’ordine “ordinarie”), ecc. Naturalmente bisogna sempre tener conto che si tratta di una metafora e di un modello, seppur euristicamente utile, pur sempre un modello ridotto e semplificato della società. 1.4 Teorie a medio raggio Parliamo adesso di un altro tipo di teoria, detta a medio raggio perché non pretende più offrire un modello di spiegazione totale della società, ma intende partire dalla generalizzazione empirica su dati relativi ad ambiti concettualmente limitati. Come rappresentate di questo modello prenderemo Merton. Merton parte dalla distinzione tra mete (od obiettivi) culturali e mezzi istituzionalizzati per il loro raggiungimento. Le mete culturali sono gli interessi, gli scopi che si presentano come obiettivi legittimi per tutti i membri della società (ricchezza, successo, prestigio, ecc.). Sono i valori positivi di riferimento. I mezzi sono i modi legittimi per raggiungere gli obiettivi. Certo l’analisi di Merton in questo caso sembra molto tagliata sulla società americana, sul sogno americano, che ha alla base una considerazione positiva dell’ambizione ed una colpevolizzazione di quanti rinunciano alle proprie ambizioni, ma d’altra parte, come detto, Merton generalizza i dati riscontrati in un ambito ristretto e particolare e non vuole offrire un modello onnicomprensivo della realtà sociale. Merton ritiene che proprio il riferimento differente degli individui ai mezzi ed agli scopi permetta si stendere una tipologia dei comportamenti devianti in questi termini: 1. deviante rispetto allo scopo che si prefigge; 2. deviante rispetto ai mezzi scelti per raggiungere lo scopo. Ne discendono: 1. gli innovatori, coloro che, pur conformandosi agli scopi dominanti, sono devianti rispetto ai mezzi usati per raggiungerli (in particolare coloro che si rivolgono al crimine per raggiungere gli scopi. Merton ritiene questo un comportamento riscontrabile soprattutto negli strati inferiori della società, che hanno poche possibilità legittime di successo, pur non accettando un determinismo del comportamento deviante in base allo status sociale dell’individuo); 2. i ritualisti, fedeli ai mezzi consueti, pur non condividendo gli scopi “normali”(Merton ritiene riconducibili a tale tipologia esponenti della classe media che hanno rinunciato al successo accontentandosi di quello che hanno, legandosi alla lettera a tutte le regole e i modelli esterni di rispettabilità, rinunciando alla pericolosa corso al successo); 3. i rinunciatari, che rifiutano mezzi, valori, scopi e norme (si può definirli, gli appartenenti a questa tipologia, degli stranieri interni, perché pur vivendo nella società, ne sono di fatto fuori, non condividendone i valori. Sono rassegnati a questa loro condizione di estraneità alla società. Merton li individua nei mendicanti, negli psicotici, nei drogati, nei diseredati, negli alcolisti, ecc.); 4. i ribelli, che mettono in discussione obiettivi e mezzi per affermarne di nuovi (Merton parla di un processo di estraneità alla società anche in questo caso, ma stavolta c’è la volontà di affermare un nuovo ordine sociale, una nuova struttura sociale, basata sui riferimenti ad altri valori rispetto a quelli della società contestata. La condizione per passare poi alla vera e propria azione rivoluzionari è 6 l’organizzazione politica della contestazione e la disobbedienza totale ala struttura sociale dominante. Merton sottolinea però che sono perlopiù i membri di un classe dominante, anziché gli appartenenti agli strati oppressi, che organizzano i risentiti e i ribelli in un gruppo rivoluzionario). In questa tipologia, naturalmente, non si è tenuto conto del comportamento conforme, definito da Merton il comportamento proprio di chi accetta e si conforma appunto ai mezzi e agli scopi legittimi di una società. L’anomia risulta essere una disgiunzione tra gli scopi proposti dalla cultura e le possibilità concrete per raggiungerli attraverso mezzi “normali”. Prevale solo la considerazione dell’efficacia dei mezzi per il conseguimento dell’obiettivo. Quindi, una volta interiorizzati gli obiettivi si cercano tutti i mezzi (anche illegali) per raggiungerli. La teoria mertoniana ha avuto molto successo, attirando però anche molte critiche. Alcune, come già accennato, si sono soffermate sulla mancata considerazione di tutti i nessi che legano la struttura sociale a quella culturale, ma Merton era ben consapevole di questo limite, endemico, potremmo definirlo, di una teoria a medio raggio, consapevolmente scelta da Merton, scettico verso una possibilità di costruire una teoria onnicomprensiva dei sistemi sociali. Comunque la teoria mertoniana ha ricevuto critiche anche per la mancata considerazione dell’interazione dell’individuo con i gruppi con cui viene in contatto, per la mancata considerazione di altri possibili fattori della devianza oltre la frattura obiettivi/mezzi, per la visione monolitica del sistema di valori alla base della società, presentato come sistema condiviso da tutti senza possibili spazi per culture altre, ecc. 1.5 Teorie individualiste Passiamo ora all’analisi delle teorie che hanno posto la loro attenzione particolare sull’individuo deviante ed hanno richiamato l’attenzione sulla necessaria considerazione della interazione per l’analisi dei comportamenti individuali, in questo caso, devianti. In realtà comprendiamo sotto questa denominazione autori che si rifanno a paradigmi diversi ed anche tra loro conflittuali. Ciò che accomuna questi autori è un richiamo all’empiria, se possiamo così dire, cioè ad una ricerca qualitativa, ad una ricerca che dà ampio rilievo alla individualità delle azioni e delle motivazioni, che parte dalla considerazione dell’esistenza dei conflitti all’interno della società ed alla devianza considerata come fenomeno costruito socialmente. Tra i primi appartenenti a questo modello sociologico possiamo citare gli esponenti della Scuola di Chicago, che hanno posto particolare attenzione all’individuo e alla sua “carriera” di deviante, sulle interiorizzazioni degli atteggiamenti altrui, sulle conseguenze dell’etichettamento e sul restringimento di chances per queste persone. Un apporto importante della scuola di Chicago fu il cosiddetto teorema di Thomas, “se gli uomini definiscono reale una situazione, essa è reale nelle sue conseguenze”. Cioè è essenziale alla comprensione del comportamento degli attori sociali la definizione di una situazione che essi stessi ne danno. Rispetto alla devianza ne discende che nessun individuo è deviante senza che egli stesso definisca la sua situazione come tale. Dunque si sottolinea con forza la non esistenza della devianza in sé e la necessità del riconoscimento da parte degli attori sociali della devianza, non solo da parte del gruppo dominante, ma anche del soggetto o gruppo etichettato come deviante. È nell’ambito di questi studi che il termine devianza si allarga e diviene comprensivo delle forme di comportamento che violano le norme penali e quelle sociali, fino a ricomprendere gli “stili di vita diversi”, tutto ciò che è etichettato come difforme, eccentrico, diverso e perciò condannato dalla maggioranza. 7 Iterazionismo simbolico L’interazionismo simbolico si fonda su tre premesse: 1. gli esseri umani si comportano verso le cose sulla base dei significati che le cose hanno per loro; 2. questi significati sono un prodotto dell ‘interazione sociale che avviene nella società umana; 3. questi significati sono modificati e manipolati attraverso un processo interpretativo attuato da ogni individuo quando entra in rapporto con i segni che incontra. L’interazionismo è detto simbolico perché gli uomini vivono immersi in un universo dove gli stimoli che lo coinvolgono sono dotati di significati e valori che vengono appresi attraverso il processo di comunicazione e di interazione sociale (simboli). I simboli sono il patrimonio su cui si basa lo scambio e l’interazione tra gli individui. C’è quindi un’inscindibile rapporto tra individui e società, considerati una unità inscindibile, in rapporto di mutua interdipendenza. Il comportamento viene, in altre parole, considerato non come qualcosa di determinato dalla forze esterne (forze sociali) né come determinato semplicemente da forze interne (istinti, pulsioni, bisogni), ma frutto di una interpretazione cosciente e socialmente derivata degli stimoli interni ed esterni. 1.6 Teoria dell’etichettamento Abbiamo già richiamato in parte questa teoria che emerge con forza, ad esempio, nell’opera Outsiders di Becker, che afferma: “I gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando queste norme a persone determinate e attribuendo loro l’etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto la conseguenza dell ‘applicazione di norme e sanzioni su chi è ritenuto “colpevole”. Il deviante è uno a cui questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un comportamento che le gente etichetta così”. Di qui ne discende che il processo di costruzione della realtà va inteso nel senso di una interpretazione della realtà, e che questo processo ha aspetti conflittuali, in quanto mette in gioco il potere che i diversi attori hanno di imporre la propria interpretazione della realtà. Termini della questione che riecheggiano motivi della filosofia di Nietzsche. In questo contesto conviene inoltre richiamare la teoria della scelta razionale di Homans, secondo cui l’uomo agisce per massimizzare i profitti, interiorizzando i comportamenti che hanno avuto una ricompensa “rinforzo” e scartando quelli che non hanno dato frutti “frustrazione”, impostazione che questa teoria trae dal comportamentismo di Skinner, anche se Homans si richiama alla tradizione dell’utilitarismo anglosassone oltre che all’economia neoclassica. Per Homans ogni interazione tra uomini si riduce ad uno scambio in cui ciascuno cerca di massimizzare il proprio profitto riducendo al minimo i costi. Il limite della teoria è che la razionalità della scelta è sempre limitata da fattori contingenti, dalle informazioni disponibili e dalla relatività della “razionalità” nelle singole culture. 1.7 Etnometodologia L’etnometodologia si propone di analizzare l’ovvio, il mondo della vita quotidiana nella sua stessa quotidianità. Ma seguiamo le parole di Garfinkel: 8 8 “l’etnometodologia cerca di considerare le attività pratiche, le circostanze pratiche e il ragionamento sociologico pratico come argomenti di indagine empirica, attribuendo alle attività più ordinarie della vita quotidiana l’attenzione generalmente accordata agli eventi straordinari, cerca di apprendere qualcosa su tali attività come fenomeni degni di studio in quanto tali. La sua tesi fondamentale è che le attività attraverso cui i membri della società producono e gestiscono situazioni quotidiane organizzate sono identiche ai procedimenti usati dai membri per renderle “spiegabili” (account-able) […] osservabili e riferibili, cioè disponibili come pratiche situate consistenti nel guardare e raccontare. Intendo dire anche che tali pratiche costituiscono una realizzazione contingente e continua; che sono svolte e fatte accadere come eventi nell’ambito di quelle stesse faccende quotidiane che nell’organizzare esse descrivono; che, in quelle situazioni, sono eseguite da individui i quali riconoscono, usano e danno per scontata la propria competenza, cioè la propria capacità, la propria conoscenza e il proprio diritto a compiere tale realizzazione, dipendendovi ostinatamente”. Ogni attività del soggetto, per gli etnometodologi, va analizzata a partire dall’intenzionalità del soggetto. Siamo nell’ambito di una sociologia comprendente, che rifiuta ogni determinismo causale. Resta però da dire che l’apporto principale dell’etnometodologia alla sociologia della devianza in particolare, ma anche a tutta la sociologia in generale resta sul piano metodologico. D’altronde già il nome tradisce la volontà metodologica della teoria. Si sposta l’attenzione sulle intenzioni del soggetto deviante, sulle sue costruzioni della realtà, sul punto di vista dell’agente. Qui si colloca anche la differenza con l’interazionismo simbolico, più interessato alle dinamiche individuo/gruppo. Bisogna poi considerare l’atto deviante. L’atto che una società considera deviante può anche essere considerato non deviante in un altro contesto socio-culturale. Le norme, infatti, sono prodotti sociali che variano nello spazio e nel tempo; riferendosi sempre alla norma la devianza, è logico che vari anch’essa a seconda del contesto normativo di riferimento. Ancora c’è da considerare i criteri di tolleranza per la devianza in una società a seconda dei momenti storici. Generalmente nei momenti di crisi scatta una definizione rigida dello spazio identitario, si richiama ai valori fondativi di una società con poco spazio di tolleranza per la diversità e la differenziazione (si pensi ai momenti di guerra, quando si chiama la popolazione a stringersi intorno alla bandiera, alla patria, al leader e scatta facilmente l’accusa di tradimento per chi tenta di introdurre dei distinguo nell’accettazione di questi valori e nella loro accettazione). E’ funzionale al potere costituito chiamare tutti alla difesa dei valori patri e a generare allarmi, giustificando comportamenti intolleranti verso ogni forma di devianza. Si può definire anche radicalizzazione dello statuto identitario. Si pensi all’immagine della Fortezza Europa contro l’invasione dei migranti ed in particolare contro l’Islam. C’è una forte chiusura degli spazi dove prima poteva trovar posto la diversità tollerata. Nella figura si può immaginare “C” come il centro, la roccaforte inespugnabile dell’identità, lo spazio “B” come lo spazio più prossimo al centro, dove c’è una considerazione di non-conformità all’identità del centro che comporta blande sanzioni di 9 esclusione e marginalizzazione; lo spazio “A” è lo spazio di esclusione più forte che arriva fino al margine estremo di tolleranza, confina con lo spazio degli interventi di espulsione dal Sistema Sociale. Nei momenti di tensione si può immaginare una radicalizzazione della differenza tra centro “C” e zona “B” da una parte e zona “A” dall’altra, che trasforma il confine tra “B” e “C” in un vero e proprio muro. Muro che in casi molto gravi può ergersi anche tra lo spazio “C” e gli altri spazi. Perché -ed è questo il senso delle frecce che partono dal centro “C”- è il centro che disegna i confini dello spazio sociale e li definisce politicamente. È dal centro che si irradiano i valori di riferimento che gli appartenenti alle altre zone devono interiorizzare se vogliono essere accettati come “cittadini” a tutti gli effetti. Circa le risposte della società possiamo schematizzarle in due tipi: inclusive: assimilazione, periferizzazione, differenziazione; ed esclusive: istituzionalizzazione. Le risposte inclusive sono quelle che permettono il movimento e la visibilità nello spazio condiviso, secondo però una considerazione differenzialista e di pura tolleranza. Le risposte esclusive, sono quelle che escludono dalla visibilità sociale il deviante (carcere, manicomi, espulsione). 1.8 Dinamiche Centro-Periferia In periferia sono diffuse dinamiche più elastiche di tolleranza di quelle che il centro definisce devianza, ma che a volte non sono che vere e proprie culture differenti, definite subculture perché minoritarie o numericamente o nella rappresentanza politica, ma che offrono statuti identitari che possono a loro volta irrigidirsi e chiudersi nei momenti di crisi di rapporti con il centro (si pensi alle rivolte dei ghetti americani). 10 CAPITOLO II INTRODUZIONE ALLE STRATEGIE DI SICUREZZA 2.1 Strategie di sicurezza e modello di società L’obiettivo dell’insegnamento della materia di “Devianze e tecnologie educative e di contrasto” è quello di fornire un soddisfacente livello di conoscenza degli strumenti e delle strutture in materia di sicurezza. In questo insegnamento verranno affrontate le questioni strategiche di visione complessiva delle attività di polizia e sicurezza con lo sforzo di mettere in evidenza le connessioni esistenti tra i singoli istituti e le singole iniziative. L’insegnamento, però, più che porre l’accento sugli aspetti tecnici del funzionamento delle strutture e degli strumenti di contrasto, pone una attenzione particolare alla funzione che questi svolgono, al fine di favorire uno approccio strategico complessivo verso l'investigazione, tema conduttore di questo Corso di Laurea. L'investigazione ha un duplice compito, da un lato è funzionale al processo penale e, quindi, al ripristino del principio di giustizia, dall’altro concorre, in maniera determinante, alla produzione della sicurezza di un Paese. L'investigazione e il processo penale hanno una funzione di giustizia, ma hanno anche quella che generalmente si definisce di “prevenzione generale”. Infatti, quanto più l’investigazione sarà adeguata ed efficace, tanto più il processo sarà veloce, il che contribuirà allo sviluppo di una strategia anticrimine che permetterà di diminuire l’allarme sociale rispetto ad un determinato fatto costituente reato. Ogni particolare aspetto dell'attività di sicurezza ha una funzione determinante rispetto al generale, in quanto permette di comprendere meglio verso quali orizzonti si indirizza una società. La sua macroanalisi, infatti, permette di individuare strumenti capaci di realizzare e mantenere un livello di sicurezza che sia considerato accettabile dalla maggioranza dei cittadini. Quando, però, si fa una scelta in materia di polizia, in materia di giustizia e soprattutto in materia di sicurezza, si fa una scelta strategica, una scelta di priorità in quanto le risorse a disposizione dei Governi non sono infinite. La scelta delle priorità definisce un modello, un modello di sicurezza, un modello di polizia ed in ultima analisi un modello di società. 2.2 Fattori di complessità della questione sicurezza Vi sono comportamenti delinquenziali che possono riguardare tantissimi beni materiali e immateriali, ma di fatto non esiste un Paese che sia in grado di fronteggiare, allo stesso modo con lo stesso impegno, finanziario e organizzativo, qualunque tipo di reato. Quindi, se un Paese destina risorse all’usura, per fare un esempio, invece che al contrasto dell’immigrazione clandestina, compie una scelta di modello di polizia e di sicurezza, ma compie soprattutto una scelta di modello di società. Destinare ingenti risorse al contrasto dell’immigrazione clandestina, a prescindere dall’esistenza di situazioni di emergenza, ovviamente è il risultato di politiche di governo dei flussi migratori. Conseguentemente, per dirla in maniera abbastanza scettica, un Paese che impegna molte risorse per il contrasto dei fenomeni criminali come il racket e l’usura, a prescindere 11 dalle contingenti emergenze, ritiene che la difesa dei propri cittadini da queste forme di violenza capillare, che stanno dentro alla società, debba essere assolutamente perseguita. Quindi, dietro ogni scelta di polizia e di sicurezza non ci sono mai solo questioni tecniche, ma soprattutto modelli di società verso cui tendere. D’altra parte i modelli che si vogliono proporre devono pur sempre restare coerenti al contesto di appartenenza, per assicurare la corrispondenza tra le norme scritte del comportamento dei gruppi associati e le istanze culturali che quei gruppi esprimono, in modo che il patto sociale sia il più possibile universalmente riconosciuto e accettato. Un comportamento deviante, infatti, viene represso, non soltanto perché determina un allarme sociale in quel determinato momento storico, ma anche perché mette in discussione qualcosa di più complesso, che è in ultima analisi il modello di società. Si ritiene, allora, importante avere una consapevolezza chiara e netta del rapporto che c’è tra l’attività di polizia, la società ed i processi di cambiamento che in essa si generano, in quanto la questione sicurezza sta diventando sempre più complessa in Italia, come nel resto del mondo. Nell’immediato dopoguerra la questione sicurezza in Italia era molto meno complessa di quella attuale, per una serie diversificata di fattori oggettivi e soggettivi. Uno dei principali fattori oggettivi risiede nella maggiore povertà della società di allora che implicava l’assenza di condotte predatorie che crebbero, invece, negli anni successivi col diffondersi dell’opulenza. I comportamenti predatori sono i crimini di strada, le rapine, gli scippi, i furti che, via via,vennero considerati e classificati sotto la voce criminalità diffusa e di strada. In una società più ricca come quella attuale è, infatti, fisiologico che aumentino i comportamenti predatori nelle città più che nelle province e nelle campagne con il conseguente aumento dell’insicurezza. Un altro fattore oggettivo è costituito dalla diffusione imponente di sostanze stupefacenti nel nostro Paese dagli anni ‘70 in poi, quand’ancora non se ne conosceva il consumo di massa. In quegl’anni, la crescente offerta di sostanze stupefacenti incontrò il diffondersi di un generalizzato disagio, specie in alcune fasce di età, con il successivo e progressivo aumento della domanda. L’aumento del livello di diffusione delle sostanze stupefacenti ha comportato il rafforzamento in Italia della presenza, accanto ad una rete più o meno capillare di piccola criminalità, del crimine organizzato, importatore di grandi quantità di droga. I proventi del traffico della vendita degli stupefacenti sono stati, poi, utilizzati anche per rafforzare le altre attività criminali, come l’infiltrazione nel sistema degli appalti, il controllo capillare del territorio, attraverso il racket e l’usura e, l’avvio di una vera e propria impresa legale mafiosa, che con l’utilizzazione di capitali recuperati a bassissimo costo (rispetto al sistema ordinario d’impresa) ha alterato le condizioni di mercato. Fondamentalmente sono questi i due fattori oggettivi (incremento dei livelli socioeconomici nell’immediato dopoguerra e diffusione massiccia di sostanze stupefacenti) che con maggior incidenza hanno determinato il rafforzamento dei gruppi criminali in Italia e che rendono oggi la sicurezza una questione abbastanza complessa. La questione sicurezza è stata influenzata anche da fattori soggettivi. Il primo di questi è la sensazione di una minore protezione sociale. È noto che negli ultimi decenni, in tutta l’Europa occidentale, si sono determinati profondi cambiamenti al sistema del welfare che hanno inciso in maniera negativa sul sistema sociale, introducendo tagli anche all’impianto della sicurezza sociale. In alcuni Paesi all’introduzione dei tagli è corrisposta un’evoluzione del welfare, le cui riforme hanno, comunque, garantito un alto livello di protezione sociale; protezione che, invece, non è stata assicurata in altri Paesi come l’Italia. In ogni caso in questi anni è 12 cresciuta una certa incertezza di fondo (indicatore di una insicurezza più diffusa) le cui radici affondano in quella minore protezione sociale. Solo negli ultimi anni, nel nostro Paese, la preoccupazione dei cittadini nei confronti della criminalità e della delinquenza è diventata oggetto di studi sociali. Gli studiosi sostengono che il sentimento di insicurezza generalizzata sia dovuto all’incertezza per il proprio futuro, il proprio lavoro, la propria salute. E ciò finisce per determinare, a livello personale, anche una maggiore paura. Le città e i grandi agglomerati metropolitani, che storicamente nascono anche con la funzione di socializzare le paure, oggi paradossalmente conoscono la loro etorogenesi dei fini. La complessità della società postmoderna ha pervaso tutti gli ambiti del vivere sociale, finendo per determinare maggiori insicurezze. Il secondo fattore soggettivo è legato al sistema dei mezzi d’informazione di massa: radio, televisione, giornali, internet ecc. Nel villaggio globale dell’informazione massmediatica, infatti, il cittadino che vive ad Aosta, in una realtà assolutamente sicura, viene a contatto con i fatti di cronaca che accadono da un’altra parte del Paese e del mondo. Pur non essendo la vittima diretta, egli si sentirà comunque più insicuro. La dimensione spazio-temporale, contratta dai media, incide, infatti, su quella soggettiva, aumentando così la percezione di insicurezza. Ed è cosi che aumenta la fascia di persone che dichiarano di sentirsi più insicuri. 2.3 Insicurezza soggettiva e oggettiva È probabile che anche in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, così come si è detto prima, la paura personale della criminalità sia aumentata fortemente negli anni ‘70/’80, quando iniziava a crescere il tasso di furti, di rapine e di omicidi commessi ogni anno. Facendo riferimento all’indagine condotta dall’ISTAT, dal 1992 al 2001, però, paradossalmente, la quota dei reati è nettamente diminuita. Ciononostante, un’ampia fascia di popolazione si sente, via via, sempre più insicura e convinta che i fenomeni criminali nel nostro Paese stiano aumentando. La paura della criminalità, il timore di esserne colpiti e la conseguente insicurezza, fanno parte, dunque, di un fenomeno che sta caratterizzando sempre più profondamente la società contemporanea e comporta gravissime conseguenze sociali e psicologiche. Molti ricercatori, inoltre, sottolineano come l’insicurezza possa, da un lato divenire un fattore critico nei processi che determinano ansia e stress, dall’altro lato determinare una limitazione dei comportamenti e dei movimenti delle persone, nonché modificare sostanzialmente le relazioni sociali degli individui. Quelli descritti sono essenzialmente i primi elementi che ci confermano qual’è la complessità della questione sicurezza nel nostro Paese. Per questo chi ha la responsabilità politica e tecnica della sicurezza di un Paese non può non porsi il problema di come realizzare strategie che siano, allo stesso tempo, efficaci sia dal punto di vista del contrasto dei fenomeni criminali che dal punto di vista della rassicurazione sociale. Fino a qualche decennio fa, se in un piccolo quartiere o in una città aumentavano i furti accadeva che si attivavano gli investigatori, si intercettava qualche piccola banda locale, abbassando così, l’allarme sociale ed il problema veniva risolto. Tutto questo oggi non è possibile. Le dinamiche sono molto più complesse, per cui chi ha la responsabilità della sicurezza deve in ogni momento fare delle scelte di priorità, tenendo conto delle risorse limitate e dei fattori fin qui enunciati. Per citare un altro esempio mediatico, c’è stato un periodo in cui il lancio dei sassi dai cavalcavia ha costituito un enorme fattore di allarme sociale. 13 L’identificazione ed il conseguente allarme del cittadino con questi avvenimenti drammatici, piuttosto che con altri altrettanto gravi, come il sequestro di persona, è stato sicuramente più forte. Questo è accaduto, perché, rispetto a quest’ultimo, sono veramente pochi coloro che in esso possono identificarsi, mentre la probabilità di percorre un’autostrada e divenire vittima del lancio di un sasso è molto più elevata. A volte, quindi, le risorse e le attenzioni di chi ha la responsabilità della sicurezza si concentrano su fenomeni che, se da un punto di vista criminale hanno un livello più basso di pericolosità, da un punto di vista sociale possono produrre un forte allarme. La complessità della questione sicurezza si gioca tutta sulla dicotomia insicurezza oggettiva-reale e insicurezza soggettiva-percepita. 2.4 Insicurezza e coesione sociale Il problema della sicurezza non può essere sottovalutato; non c’è, infatti, Paese nel mondo occidentale che può permettersi questo lusso, perché esso è valutato ovunque ai primissimi posti delle preoccupazioni dei cittadini. A prescindere dal tasso di occupazione, in effetti, tanto nelle zone a basso tasso di disoccupazione (2% nel Nord Est) quanto nelle aere che sfiorano il 27 %, come quella della Calabria, l’insicurezza è comunque considerata una delle più importanti inquietudini delle persone. L’aspetto della sicurezza non può essere trascurato anche perché, molto spesso, è direttamente collegato con il sentimento della paura, che da millenni è un fortissimo elemento di condizionamento. 2.5 Insicurezza e rapporto Stato/cittadini Il cittadino che ha paura è portato a mandare allo Stato il messaggio: “sono disponibile a rinunciare ad una quota delle mie garanzie civili a condizione che tu mi possa garantire!”. Ciò può determinare una svolta anche in senso autoritario: dallo stato di natura allo stato di diritto, allo stato dove qualcuno si offre volontario per garantire maggiore sicurezza a condizione che si limitino le libertà civili. La questione è vecchissima: mentre nel mondo antico il suddito era disposto a sacrificare qualsiasi libertà ad un sovrano che potesse garantirgli la propria incolumità, della sua famiglia e dei suoi beni, nel mondo moderno la maggiore conquista allo stato di diritto è esattamente il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Si va rafforzando negli ultimi anni ed in particolare in Europa e in America l’idea che, a fronte di pericoli sempre maggiori, come quelli determinati dal terrorismo, in fondo sia necessario sacrificare una percentuale crescente di libertà civili, per garantire la sicurezza di tutti. Ecco quindi il cervellone elettronico che ascolta un numero incredibile di telefonate e segnala automaticamente quelle che possono costituire un rischio; ecco il rilevamento delle impronte digitali di tutti gli immigrati e non, da mettere sulla carta di identità; ecco la banca dati del DNA; ecco che dall’occhio politico si passa all’occhio privato dell’investigatore sino ad arrivare all’ultima, complessa e tortuosa tappa di questo processo: l’occhio della telecamera, un Dio dell’obiettività che sempre ti vede e non sbaglia, che scopre peccatori insospettabili.1 1 cfr. F. SIDOTI, La cultura dell’investigazione, Koinè Nove edizioni, Roma 2002, p. 25 14 Un Paese, allora, non può non porsi il problema dello sviluppo della fiducia da parte dei cittadini. E questa si accresce non soltanto se lo Stato vince definitivamente contro il crimine -cosa che sarebbe anche strutturalmente impossibile-, ma se il cittadino avrà la sensazione che lo stesso stia affrontando la questione sicurezza, adottando le adeguate strategie, capaci di realizzare quel mix di equilibrato tra rassicurazione e azione di contrasto. 15 CAPITOLO III I NUOVI FATTORI DI INSICUREZZA 3.1 La frustrazione sicuritaria Fin qui si è affrontato il tema della complessità della questione sicurezza, sottolineando come questa sia una delle problematiche di più difficile soluzione per la società moderna. È la complessità della questione sicurezza, infatti, a rendere insufficienti strategie di intervento di carattere schematico e semplicistico che leggono la realtà in termini di: sola repressione – sola prevenzione – solo sviluppo – solo risanamento – solo rassicurazione. Ed è sempre questa complessità a richiedere un approccio olistico che esprimendosi, invece, in strategie articolate, interviene non solo in modo efficace, ma è anche percepito come tale dai cittadini. Persino l’individuazione dei fattori di insicurezza diventa difficile data la complessità dell’argomento. Il sociologo francese Robert Castel, infatti, si è recentemente interrogato sul perché nelle società più sicure, le preoccupazioni relative alla sicurezza rimangano onnipresenti. Egli conclude la sua analisi, rilevando che alla base di una continua ricerca di protezioni vi sia una fondamentale avversione del cittadino moderno verso qualsiasi tipo di rischio: economico, sociale o personale. Un’avversione che produce una sorta di frustrazione sicuritaria, causata dall’impossibilità di dominare tutti gli eventi imprevedibili della vita. Una sorta di frustrazione che gli impedisce di sentirsi completamente sicuro. Una tesi, quella di Castel, indubbiamente suggestiva che coglie uno dei paradossi della modernità: il dramma psicologico di una società che non riesce a trarre dalla sua opulenza benefici significativi sul terreno della sicurezza, anzi, è costretta a subire nuove forme di aggressione proprio negli aspetti della vita sociale, dove si registra il più avanzato livello tecnologico (come dimostra l’aumento esponenziale dei reati consumati attraverso internet). Tuttavia, alcune obiezioni a questa tesi possono aiutarci a ragionare sui nuovi fattori di insicurezza, condizione, questa, necessaria per tentare di proporre strategie sempre più efficaci. 3.2 L’avversione del cittadino moderno al rischio La prima osservazione concerne la citata avversione al rischio, che sembra, però, essere una costante della condizione umana, piuttosto che una caratteristica della modernità. Semmai, la novità risiede nella delusione dei cittadini, per l’incapacità degli organismi preposti, di garantire un livello di sicurezza adeguato alle loro aspettative. Delusione che a sua volta produce ulteriore insicurezza. Tutto questo conduce direttamente alla seconda osservazione: le società moderne, nonostante siano costruite su varie forme di protezione civili e sociali, non sono paradossalmente e necessariamente le società più sicure che siano mai esistite. Determinante in questa valutazione non è solo la presenza più o meno visibile dei modelli di protezione, ma soprattutto la percezione che il cittadino ha dell’insieme dei fattori che contribuiscono a determinare un giudizio, che è sempre meno oggettivo e assoluto e sempre più soggettivo e relativo. Si sta facendo strada, cioè, la consapevolezza che l’insicurezza è, innanzi tutto, uno stato d’animo. 16 A questo proposito, l’analisi dell’etimo ci viene in aiuto: il termine sicuro -dal latino securum, ossia senza cura, senza affanno- sta ad indicare una condizione soggettiva della persona. 3.3 L’andamento dei fenomeni di devianza Come già sottolineato, il grado d’insicurezza prescinde, spesso, da fattori oggettivi, come l’andamento reale dei fenomeni criminali nel proprio quartiere o nella propria città ed è condizionato soprattutto da fattori di natura soggettiva. Accade così, ad esempio, che il cittadino di Aosta, membro del villaggio globale dell’informazione, si scopra insicuro quanto quello di una città con un tasso di criminalità molto più elevato della sua. Allo stesso modo una persona anziana, che vive da sola, può richiedere l’intervento della polizia anche in assenza di un pericolo reale. Questo accade, perché il senso di isolamento che lo attanaglia, aggiunto alla maggiore fragilità per le condizioni sociali o di salute, altera le sua capacità di valutazione del rischio. Si è già osservato come alla crescita del senso di insicurezza abbiano contribuito, dal secondo dopo guerra in avanti, fattori oggettivi come la crescita della ricchezza del paese e la diffusione, negli anni Settanta, delle sostanze stupefacenti. A questi due fattori vanno aggiunti quelli relativi alle nuove dinamiche criminali, determinate dalla crescente presenza nel territorio italiano delle mafie straniere (come quella albanese) e alla loro capacità di scontrarsi e competere, ma anche di realizzare accordi e sinergie con le mafie italiane, a cui la nostra opinione pubblica non era abituata. Altro fattore oggettivo che ha inciso sul senso d’insicurezza è quello connesso al minore controllo sociale che oggi viene esercitato sui singoli. Fattore, quest’ultimo, determinato dalla trasformazione della famiglia italiana che da patriarcale, funzionale ad una società rurale e incentrato sul controllo di ogni suo singolo membro, si è trasformata in famiglia nucleare, funzionale alle esigenze di una società industriale, nella quale i rapporti tra i singoli membri divengono meno incisivi. Il processo di urbanizzazione ha, poi, decentrato i luoghi del controllo sociale dalla piazza, centro di aggregazione e socializzazione dei borghi antichi, ai moderni e spesso anonimi centri urbani, nei quali l’incidenza del controllo sociale è meno evidente e diretto. La progressiva espansione urbanistica delle città e la conseguente diminuzione dei legami sociali ha, ad esempio, favorito, lo sviluppo del senso di solitudine che è ormai riconosciuto come uno dei più importanti fattori di insicurezza della popolazione anziana. La solitudine si aggiunge in modo significativo agli altri fattori di natura soggettiva, che si sono già indicati come il più generale sentimento di insicurezza derivante dalla minore protezione sociale e il ruolo dei media, il cui peso sta crescendo anche rispetto all’insicurezza. 3.4 Insicurezza e sistema dell’informazione Recentemente l’osservatorio di Pavia ha segnalato un rapporto direttamente proporzionale del tempo dedicato dai vari telegiornali nazionali e locali ai fatti di cronaca nera e l’andamento del senso di insicurezza dei cittadini. La puntualizzazione circa il peso che hanno oggi i fattori soggettivi sul sentimento di insicurezza è importante, perché è all’origine della crescente attenzione che è stata dedicata alle strategie di rassicurazione sociale, che solo a partire dagli anni Novanta hanno influenzato le politiche di sicurezza urbana. E ciò spiega il ritardo che ancora oggi si registra in Italia rispetto alla realizzazione di avanzate strategie di contrasto all’insicurezza 17 urbana, a fronte di una consolidata attenzione della maggioranza dei Paesi del mondo occidentale, verso i temi della convivenza civile che ha consentito, già dal 1993, l’approvazione di una proposta del Parlamento Europeo sui temi della criminalità comune. Un ritardo che gli studiosi italiani stanno cercando di recuperare sul terreno dell’analisi sociale e dell’andamento statistico del fenomeno criminale, ma che ancora grava, pesantemente, sulla realizzazione di politiche non più emergenziali, ma fondate su stabili pratiche di interventi integrati. Questa esigenza si sta rafforzando al diffondersi di una più matura considerazione e consapevolezza della tutela dei diritti, quale elemento su cui fondare il valore di piena “cittadinanza”. 3.5 L’andamento dei fenomeni di devianza Le mere strategie di “legge e ordine” sono uno strumento ormai inadeguato, perché incapaci, da una parte, di cogliere la complessità delle ragioni che sono all’origine di una difficile convivenza nelle aree metropolitane e dall’altra, di offrire soluzioni credibili e non discontinue sul terreno della difesa dalla criminalità diffusa. Una concezione moderna della sicurezza urbana richiede una strategia che non sia di mera repressione, ma che si articoli in un complesso e articolato progetto culturale non solo di prevenzione e controllo del territorio, ma anche di promozione dello stesso. Una strategia di sicurezza che sappia incrociare le politiche sociali e quelle istituzionali, in quanto la città sicura non è la città blindata, ma quella aperta, il più possibile vissuta e partecipa. Una strategia che superi l’ottica della separatezza; una strategia globale che faccia della specificità sociale, economica e criminale, delle diverse aree urbane, un punto di riferimento permanente; una strategia che guardi al territorio, con i suoi diversi indici di criminalità, i suoi diversi livelli di efficienza. 3.6 Rapporto tra fattori oggettivi e soggettivi alla base del senso di insicurezza È il territorio, infatti, la variabile su cui costruire un’efficace sistema di difesa dall’aggressione criminale. Esso sta lanciando, in questi anni, un avvertimento preciso: è in corso una sorta di riorganizzazione del crimine, una sua diversa distribuzione nel Paese, con un’espansione dei reati nelle regioni che fino agli anni ’80 avevano un basso livello di criminalità generale. Dunque, anche se l’andamento generale della criminalità in Italia non tende all’incremento, nessuna regione potrà considerarsi sicura. L’espansione e la ridistribuzione delle attività delinquenziali, soprattutto in aree con minore pressione degli organismi inquirenti e di polizia, evidenzia lo sviluppo delle organizzazioni criminali autoctone e straniere. È intuibile l’effetto stravolgente, anche se non facilmente percepibile, che questa ridistribuzione del crimine potrebbe avere sul tessuto economico e sociale di aree sinora considerate “tranquille”. Un maggiore indotto microcriminale ed un nuovo ed aggressivo gangsterismo urbano sono sovente i riflessi del controllo economico del territorio, che viene perseguito attraverso il reinvestimento di capitale illecito nelle attività immobiliari, nell’edilizia, nel terziario, nelle società finanziarie e nel potentissimo strumento di penetrazione che è rappresentato dall’usura. Affinché le grandi aree urbane, ma anche i piccoli centri dalle economie vivaci, siano in grado di resistere alle nuove dinamiche criminali sarà, allora, necessario, un progetto globale per la sicurezza urbana. Un progetto nazionale che sia anche strutturato 18 sulle reali esigenze di sicurezza; che definisca le priorità, perché non è indifferente impegnare risorse sul fronte del contrasto alla prostituzione, piuttosto che del racket o dell’usura; che organizzi le risorse, perché, nel Paese delle molte polizie, l’efficienza degli apparati è legata anche alla semplificazione del sistema; che realizzi il bilanciamento delle strategie, perché le attività criminali veramente insidiose sono quelle che non si vedono; che riorganizzi le garanzie, perché si può fornire maggiore sicurezza senza fare alcun passo indietro sul terreno della civiltà giuridica del Paese. Ed ancora, in un Paese con una letteratura imponente sull’autore del reato e che spesso sembra dimenticare il dramma e le difficoltà del reinserimento di chi ha subito un comportamento criminale, è necessario avviare un progetto che segni una svolta anche culturale, nell’attenzione verso il cittadino e verso le vittime dei reati. Da qui la necessità di una polizia di prossimità, più vicina alle persone ed alle insicurezze quotidiane, al territorio ed ai suoi cambiamenti. Una polizia che miri a garantire la sicurezza di tutti, ma che sappia anche guardare alle fasce deboli della società, agli anziani, in particolare, che per motivi fisici, psicologici ed economici hanno spesso una percezione ingrandita delle condizioni di pericolo, che alimenta la spirale paura, di isolamento. 19 CAPITOLO IV LA POLIZIA DI PROSSIMITÀ 4.1 Modello strategico La polizia di prossimità si identifica in quel sistema strategico di intervento delle forze di polizia nel territorio che è stato adottato negli ultimi quindici anni in alcuni paesi dell’Europa continentale, come la Francia, la Spagna e l’Italia. La polizia di prossimità ha come elemento distintivo il tentativo di ridurre le distanze tra gli Organismi di polizia e il cittadino, insieme a quello di realizzare una maggiore integrazione tra le politiche criminali, attinenti alla prevenzione e repressione dei reati e le politiche di sicurezza che hanno come destinatario la popolazione nel suo complesso. Quest’ultime riguardano, inoltre, l’insieme degli interventi economici, sociali, di prevenzione primaria e secondaria, di recupero e rieducazione che, promossi sul territorio, hanno l’obiettivo di elevare il senso di sicurezza dei cittadini. Per consentire una maggiore chiarezza degli argomenti trattati rispetto al delicato tema della prevenzione si preferisce passare in rassegna le principali tipologie di prevenzione elaborate in ambito scientifico. Nel corso degli anni, in ambito scientifico, è stato compiuto un notevole sforzo per addivenire ad una rigorosa definizione della prevenzione. Secondo la Selmini, la distinzione che, comunque, ha avuto più fortuna è quella tra azione di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, dove la prima è diretta ad eliminare o ridurre le condizioni criminogene preesistenti in un contesto fisico e sociale, quando ancora non si sono manifestati segnali di pericolo; la seconda comprende tutte le misure rivolte a gruppi ritenuti a rischio di criminalità; la terza interviene quando un evento criminale è già stato commesso per prevenire ulteriori ricadute.2 Deve precisarsi che la prevenzione primaria è ritenuta la forma ideale di prevenzione, perché si rivolge all’eliminazione di tutti i fattori criminogeni presenti nella società, mentre sul piano preventivo la meno soddisfacente risulta la terziaria, perché caratterizzata, in buona parte, da misure tipiche del sistema penale. Questa distinzione originaria viene arricchita di due nuovi aspetti: le vittime di reato e il contesto in cui si interviene. Viene così individuato uno schema più complesso che distingue tra azioni preventive primarie, secondarie e terziarie che siano orientate alle vittime, agli autori o al contesto: 1. prevenzione primaria orientata all’autore: vi rientrano misure quali la socializzazione, gli interventi educativi, le politiche per la famiglia e sociali in genere. Esempi concreti sono le campagne educative contro il vandalismo o per favorire il rispetto delle norme (tutto ciò che viene definito come educazione alla legalità); i programmi di prevenzione per l’infanzia, le campagne contro il bullismo ecc; 2. prevenzione secondaria orientata all’autore: comprende i programmi finalizzati ad evitare l’ulteriore sviluppo di tendenze o di predisposizioni alla criminalità e alla devianza dei gruppi cosiddetti a rischio. Esempi concreti sono le misure di prevenzione della devianza giovanile, il sostegno psicologico ai giovani e alle famiglie in difficoltà; 3. prevenzione terziaria orientata all’autore: comprende gli interventi finalizzati ad evitare la recidiva e attuati dal sistema correzionale o sociale attraverso i 2 R. SELMINI (a cura di), La sicurezza Urbana, Il Mulino, Bologna, 2004, pag. 223 20 servizi riabilitativi, la formazione per ex detenuti, il trattamento medico. In questo caso troviamo quindi anche misure tipiche del sistema penale; 4. prevenzione situazionale primaria: comprende l’insieme delle misure finalizzate ad intervenire sul contesto, rendendo più difficile il compimento dei reati. Gli esempi concreti sono le varie forme di protezione dei beni di tipo tecnologico e le misure architettoniche e urbanistiche; 5. prevenzione situazionale secondaria: è rivolta ai contesti considerati a rischio di criminalità e consiste in misure architettoniche e di difesa passiva, quali i programmi di sorveglianza del vicinato; 6. prevenzione situazionale terziaria: si rivolge alle aree dove la criminalità, la devianza e le inciviltà sono fenomeni ormai consolidati. Esempi sono i controlli di Polizia, il controllo delle licenze degli esercizi pubblici, la dislocazione intenzionale, cioè la concentrazione voluta di alcuni fenomeni o comportamenti in aree precise delle città, come nel caso dei quartieri destinati all’esercizio della prostituzione; 7. prevenzione primaria orientata alle vittime: comprende interventi di carattere generale, quali le campagne informative della popolazione sulla criminalità; 8. prevenzione secondaria orientata alle vittime: comprende azioni orientate ai gruppi che presentano un rischio di vittimizzazione più elevato, quali i corsi per autodifesa per le donne, le misure di protezione specifiche per gli anziani; 9. prevenzione terziaria orientata alle vittime: riguarda interventi verso coloro che hanno già subito un reato e comprende misure di sostegno economico o psicologico diretto alle vittime. Queste differenziazioni sono state oggetto di critica da parte di alcuni studiosi. Così se alcuni la ritengono poco utile sul piano operativo, altri la definiscono poco efficace anche sul piano teorico. Secondo il loro pensiero le politiche preventive dovrebbero basarsi soprattutto sulla differenza esistente tra i diversi fatti criminali, i diversi autori, le diverse motivazioni che portano all’atto criminale e suddividersi così in prevenzione situazionale, prevenzione dello sviluppo e prevenzione comunitaria.3 Sulla base del convincimento, sempre più radicato tra gli studiosi e gli esperti del settore, secondo il quale una moderna ed efficace strategia di sicurezza urbana, che sappia guardare contemporaneamente al contrasto dei fenomeni criminali ed alla riduzione della percezione di insicurezza, deve presupporre: un alto livello di accesso alla risorsa polizia, intesa più come servizio al cittadino che come funzione dello Stato; una particolare attenzione alle fasce deboli della società più esposte alla minaccia criminale ed al sentimento di insicurezza; una particolare attenzione verso il cittadino vittima di un reato; il rafforzamento degli strumenti di partenariato tra organi dello Stato e gli Enti locali; una presenza capillare delle forze di polizia nel territorio. 4.2 Accesso alla risorsa Polizia In relazione al primo profilo, l’accesso al servizio polizia sarà facilitato, in primo luogo, lì dove le strutture di pronto intervento saranno adeguatamente dimensionate, per numero di addetti e per mezzi a disposizione. In secondo luogo dove le forze dell’ordine considereranno risorsa strategica la comunicazione con il cittadino, sia quella centrale sia 3 R. SELMINI, ibidem, pag. 224 21 quella di livello territoriale. Infatti è considerato di fondamentale importanza fornire un flusso costante di informazioni sull’attività svolta e sull’offerta di servizi, non solo attraverso i tradizionali mezzi di comunicazione, ma sempre di più con gli strumenti informatici e con l’impiego internet in connubio con le attività degli uffici di relazione con il pubblico. Ancora, l’accesso al servizio di polizia sarà facilitato, se il numero degli uffici di polizia e la distanza tra di loro terrà conto dei fenomeni di sviluppo urbanistico, se non saranno presenti barriere architettoniche, se la qualità dei locali renderà non disagiata la permanenza negli stessi da parte di chiunque. Sarà facilitato, inoltre, se all’interno di ogni ufficio saranno chiaramente indicati i nomi e le funzioni di ogni operatore e soprattutto se il comportamento di quest’ultimi, dal punto di vista professionale e deontologico, si avvicinerà alle aspettative del cittadino utente. 4.3 Attenzione alle fasce deboli Una particolare attenzione alle fasce deboli della società più esposte alla minaccia criminale ed al sentimento di insicurezza (in particolare degli anziani) sarà possibile conseguirla se nel territorio urbano sarà visibile la presenza di operatori di polizia normalmente addetti al pattugliamento delle stesse zone, e, quindi potranno instaurare con i cittadini un duraturo rapporto di conoscenza e di fiducia, condizione essenziale per la riduzione del senso di insicurezza. Tale obiettivo, inoltre, sarà perseguito se sarà generalizzata la prassi della raccolta a domicilio delle denunce che le persone anziane o disabili non potranno esporre direttamente negli uffici di polizia. Sotto questo profilo è auspicabile che in sinergia con gli Enti locali, con i Comuni in particolare, si realizzino programmi di intervento mirati a ridurre la solitudine, primo dei fattori di insicurezza delle persone anziane. 4.4 Attenzione alla vittima La maggiore attenzione alle vittime dei reati, il terzo dei profili che si è delineato per contrastare i fenomeni criminali e per la riduzione della percezione di insicurezza, è un altro dei fattori distintivi di una filosofia di intervento della polizia di prossimità. Filosofia che considera fondamentale, per il ridimensionamento complessivo del senso di insicurezza, farsi carico di quel soggetto, la vittima, che, specie in Italia, è stata assolutamente trascurata, sul piano politico e scientifico, rispetto alla figura dell’autore del reato. Infatti, la prima vera inchiesta nazionale sulla vittimizzazione è quella dell’ISTAT del 1997, sviluppata comunque in ritardo rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale. Analogo ritardo è quello che più generale riguardante l’esigenza di tradurre in realtà specifiche strategie di sicurezza urbana. Una maggiore attenzione verso le vittime del reato è quella relativa al danno derivante in modo diretto dalla vittimizzazione. In questo caso si è centrato l’intervento sia sulla prima assistenza materiale (ad esempio l’intervento di un fabbro per la sostituzione di una serratura forzata) sia rispetto alla prima assistenza psicologica (qui l’esempio più evidente è quello della persona che ha subito violenza sessuale). A tutto ciò si aggiunge quella che gli esperti definiscono la “seconda vittimizzazione” che è rappresentata dagli effetti negativi che spesso il circuito giudiziario determina sulla persona che è stata vittima di un reato (anche qui l’esempio della violenza sessuale è calzante). Una maggiore attenzione che, sia nel danno diretto che nella seconda vittimizzazione, si dovrebbe 22 esplicare attraverso scelte di natura amministrativa che rinviano, comunque, ad una più generale problematica di natura legislativa che è quella dell’introduzione nel nostro sistema sanzionatorio penale di sanzioni direttamente risarcitorie nei confronti della vittima o della collettività (come l’obbligo di una prestazione lavorativa a specifico contenuto sociale). 4.5 Il partenariato Il quarto profilo, quello del rafforzamento degli strumenti di partenariato con gli Enti locali, trova il suo fondamento in un’idea di sicurezza non più delegata esclusivamente alle forze dell’ordine. Un approccio integrato ai problemi di sicurezza urbana, che è ormai indispensabile, se si vuol agire contro il crimine e contro le cause sociali del crimine. Questa forma di collaborazione tra Organi dello Stato ed Enti locali si è sviluppata nel nostro paese lungo due direttrici: 1. la prima è quella della partecipazione alle riunioni del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduto dal Prefetto, da parte del Sindaco del capoluogo di provincia, in maniera permanente e del Presidente della provincia e dei Sindaci dei singoli comuni, quando si affrontano tematiche attinenti alle loro specifiche competenze territoriali; 2. la seconda direttrice è quella della stipula di accordi tra Prefetture ed Enti locali, i cosiddetti protocolli di intesa sulla sicurezza, che mirano a definire le risorse complessive messe in campo tra i soggetti stipulanti, a indicare congiuntamente gli obiettivi prioritari e le strategie che ogni Ente si impegna a sviluppare e verificare periodicamente, anche attraverso la costituzione di specifici osservatori. I protocolli oltre a costituire uno specifico strumento di pianificazione delle attività di sicurezza, senza confusione di ruoli tra organi dello Stato ed Enti locali e, quindi nel pieno rispetto delle competenze previste dalla legge, sono anche complementari alla cosiddetta programmazione negoziata, cioè quell’attività che mira, attraverso i patti territoriali e i contratti d’area e gli accordi di programma (forme più avanzate di protocolli), a favorire condizioni di sviluppo e, quindi, ad incentivare la crescita economica ed occupazionale delle aree depresse del Paese. 4.6 Forze di Polizia e territorio Il quinto profilo, quello della presenza capillare delle forze di polizia nel territorio, costituisce la condizione di partenza, per lo sviluppo di una credibile strategia di polizia di prossimità. Senza una diffusa e capillare presenza delle forze di polizia non si potrà realizzare quel controllo, che è soprattutto conoscenza del territorio -e non semplice occupazione militare- che consente di rafforzare l’accesso al servizio polizia, di guardare alle fasce deboli della società, di garantire maggiore attenzione alle vittime dei reati, di incentivare il partenariato tra organi di polizia e gli Enti locali. È il territorio, con le sue specificità economiche, sociali e criminali, la dimensione sulla quale costruire progetti integrati di sicurezza delle città. Una presenza delle forze dell’ordine, dunque, che dovrebbe essere quantitativamente dimensionata, sulla base dei processi di urbanizzazione, economici e sociali delle diverse aree, qualitativamente aggiornata rispetto alle nuove dinamiche criminali, e dei fenomeni di globalizzazione del crimine. Tutto ciò costituisce la condizione 23 imprescindibile, per realizzare quella integrazione tra politiche criminali e politiche di sicurezza, uno degli obiettivi di fondo delle strategie di polizia di prossimità. Tutti gli uffici di polizia, ciascuno secondo la propria competenza, svolgono, in questo senso, un ruolo fondamentale, anche se è evidente che i commissariati di Pubblica Sicurezza e le caserme dell’Arma dei Carabinieri, per la loro diffusione nei grandi centri urbani e nelle province e per la molteplicità di funzioni svolte, rivestono un’importanza particolare dal punto di vista dell’offerta del servizio polizia a favore del cittadino. Generalmente, invece, si tende a confondere questa presenza con il solo poliziotto di quartiere, il quale svolge sicuramente un importante compito di prevenzione, ma resta solo uno dei segmenti di una complessa rete di controllo del territorio, che è fatta soprattutto di attività di vigilanza, di pronto intervento e di attività investigative. Infatti, questa figura di operatore, che pattuglia a piedi una parte del territorio urbano, che fornisce informazioni ai cittadini e instaura un rapporto di conoscenza permanente con gli abitanti di un quartiere, ha un raggio d’azione inevitabilmente limitato e, quindi, ha minori possibilità di intervento preventivo o repressivo. Di grande utilità è, invece, il ruolo che il poliziotto di quartiere svolge dal punto di vista della rassicurazione, e della instaurazione di un vero e proprio rapporto di fiducia con gli abitanti del quartiere. La rassicurazione è, in effetti, una componente essenziale di una moderna strategia di sicurezza, perché spesso, come abbiamo prima sottolineato, il senso di insicurezza del cittadino prescinde, dall’andamento oggettivo dei fenomeni criminali. Quindi, per contenerne gli effetti dell’insicurezza, sono richieste azioni specifiche, come la presenza visibile delle forze dell’ordine e la possibilità di accesso facilitato al servizio reso dalla Polizia. La fiducia, che viene anche dalla conoscenza reciproca e dal rapporto non episodico con l’operatore di polizia, è una componente importante di quelle strategie di coinvolgimento attivo del cittadino che sono alla base di una nuova cultura della prevenzione, che si colloca in buona parte al di fuori del sistema penale e che guarda con attenzione ad altri soggetti e cioè gli Enti locali, i servizi sociali, le associazioni di rappresentanza e di volontariato, i singoli cittadini. In questo senso un interessante esperimento di prevenzione è quello in corso di realizzazione su iniziativa del sindacato dei pensionati, con il contributo di associazioni di volontariato, di organizzazioni che si impegnano sul terreno della diffusione della cultura della legalità e di esperti delle forze di polizia, per assicurare iniziative di informazione e formazione delle persone anziane, contro il rischio delle truffe nei loro confronti. Un tema, quello delle truffe agli anziani, di particolare attualità e che non può essere sottovalutato né dal punto di vista economico -perché spesso una truffa verso gli anziani vuol dire la sottrazione dei risparmi di una vita- né dal un punto di vista psicologico, perché il senso di vergogna, che a volte la truffa provoca nella vittima, può avere effetti devastanti. La vergogna, infatti, spesso spinge a non denunciare il reato, il che determina un buco nero sulle reali dimensioni del fenomeno, e qualche volta conduce ad esiti tragici, come nel caso di un pensionato di Milano che si è tolto la vita a causa di una truffa di circa trecento milioni delle vecchie lire. La polizia di prossimità non è, dunque, una semplice modalità organizzativa delle forze dell’ordine, ma è molto di più: è una filosofia di intervento, una nuova concezione dei rapporti tra politiche criminali e governo del territorio. Richiede una strategia articolata e una svolta culturale nelle Forze di Polizia, negli Enti locali e in fondo anche nei cittadini. Una svolta culturale indicata con grande efficacia dalle parole del Ministro dell’Interno francese Chevènement, ministro del paese che è in anticipo di almeno cinque anni rispetto al nostro nella introduzione della Polizia di prossimità. Diceva Chevènement: “E, tuttavia, l’anello debole del modo con cui la polizia di prossimità si sta realizzando in 24 Italia è esattamente la mancanza di una strategia articolata e duratura nel tempo, di una svolta culturale nei rapporti tra forze dell’ordine e cittadino, di un investimento all’altezza dell’obiettivo. Infatti, è proprio l’insufficienza delle risorse investite in questo programma che ha fatto si che si istituisse il poliziotto di quartiere, ma a scapito delle attività di contrasto al crimine, come quelle di controllo del territorio e di investigazione. Tutto ciò ha prodotto l’effetto paradossale di aver si realizzato una qualche attività di rassicurazione del cittadino, perdendo contemporaneamente una parte della conoscenza del territorio, sia dal punto di vista sociale che criminale. Perdita di conoscenza che ha finito per lasciare, rispetto al passato, spazi più ampi alla criminalità diffusa e, in molte aree del Paese, anche a quella organizzata e segnatamente mafiosa”. Dunque, il punto è che la polizia di prossimità è una strategia efficace di contrasto dell’insicurezza urbana, ma a condizione che sia complementare e non alternativa all’attività di contrasto al crimine. Diversamente si trasforma in qualcosa che è molto prossima alla propaganda, che come è noto non riesce ad arginare i fenomeni criminali e, nel medio periodo, finisce per non rassicurare nessuno. Il punto è che la polizia di prossimità diventa una filosofia innovativa del modo di affrontare le questioni di sicurezza urbana solo se favorisce il coinvolgimento di una pluralità di soggetti istituzionali interessati, a vario titolo, a questo problema. E, dunque, se favorisce quella diffusione del partenariato tra Organi dello Stato ed Enti Locali che è condizione essenziale per una strategia comune e garanzia, da parte degli organi centrali, di programmi che tengano conto della dimensione territoriale e, da parte degli Enti Locali, che il governo del territorio si realizzi, tenendo conto di un fattore centrale della vita delle comunità come la sicurezza. È interessante notare, a conclusione di queste osservazioni sulla polizia di prossimità, che in Europa si sceglieva questo modello di intervento sul versante dell’insicurezza urbana nello stesso periodo in cui Rudolph Giuliani, allora sindaco di New York, lanciava il suo programma anticrimine, denominato, come è noto “tolleranza zero”. Le differenze strategiche e culturali dei due programmi sono evidenti: 1. La polizia di prossimità fa leva: sulla prevenzione; sulle sinergie tra diversi soggetti istituzionali; su una rassicurazione fondata soprattutto sulla familiarità della presenza delle forze dell’ordine nel territorio. 2. La “tolleranza zero” fa leva: sulla repressione dura, anche dei piccoli reati; sul ruolo di punta delle forze di polizia in chiave d’ordine anche formale; su una rassicurazione fondata soprattutto sulle statistiche degli arresti. È evidente che la condizione delle grandi città statunitensi, da un punto di vista economico, sociale e criminale, difficilmente può essere paragonata ad una qualunque grande città Europea. Però, a diversi anni di stanza dall’avvio dei due programmi, non si può fare a meno di notare che mentre la polizia di prossimità è in fase espansiva in Europa, nel senso che cresce il numero dei Paesi che ne adottano la filosofia di fondo, adattandola, ovviamente, alle specificità nazionali, la “tolleranza zero”, negli Stati Uniti, è andata incontro a critiche sempre più feroci, soprattutto da parte dell’area Liberal di quel Paese. Ed è così che il calo dei reati è stato attribuito non all’efficacia di quel programma, ma a fattori ciclici dell’economia e cioè al fatto che i periodi di crisi economica e occupazionale hanno sempre portato con loro un aumento considerevole dei reati, e viceversa. 25 Quel programma è stato ribattezzato “intolleranza zero”, proprio perché in realtà, invece di combattere il crimine violento, si sarebbe rivelato come una strategia di contrasto della marginalità sociale e delle minoranze etniche. Uno strumento fondamentalmente di intolleranza razziale, come dimostrerebbero le uccisioni, da parte di alcune squadre anticrimine, di cittadini Afroamericani, considerati erroneamente armati, al momento del loro fermo. Il ripensamento in atto negli Stati Uniti verso la “tolleranza zero” è un monito per l’Europa che dovrebbe spingere ancora di più il Vecchio Continente verso programmi anticrimine fondati sulla prevenzione, sulla repressione del crimine violento e sull’uso delle politiche economiche e sociali, per rimuovere le cause profonde del disagio che può sfociare anche in comportamenti devianti. 26 CAPITOLO V IMMIGRAZIONE E SICUREZZA 5.1 Immigrazione e modello di società: la legislazione sull’immigrazione Il rapporto tra la legislazione sull’immigrazione e la sicurezza, nei paesi occidentali, destinatari negli ultimi decenni dei flussi migratori, è un tema particolarmente interessante dal punto di vista dello studio delle strategie di sicurezza. Interessante perché, in particolare in Italia, la legislazione non riguarda semplicemente la disciplina dei fenomeni migratori, ma fa anche riferimento ad un modello di sicurezza. Infatti, più che per un aggiornamento della normativa introdotta dalla legge Martelli, prima, e dalla cosiddetta Legge Turco-Napolitano, poi, l’attuale legislazione, aggiornata alla legge n. 189 del 2002 (Legge la Bossi-Fini) ed al suo Regolamento di attuazione, sembra concepita prevalentemente per fornire una risposta alla domanda di sicurezza. Si tratta di una risposta che, in buona sostanza, risente delle tendenze politiche e culturali prevalenti nell’Europa Occidentale della fine degli anni Novanta, ossia quelle conservatrici che, intercettando alcune forme di paura delle diversità e dei sentimenti xenofobi ha puntato, prevalentemente, il suo un progetto sull’equazione “immigrazione uguale criminalità” e sull’appello alla difesa dell’identità nazionale. Una risposta, dunque, che disegna una società tendenzialmente chiusa, sicura solo se è blindata, se esclude e se non accoglie. “Siamo al completo” era, appunto, lo slogan, di grande efficacia comunicativa, del leader olandese di destra ucciso in campagna elettorale qualche anno fa. Un vero e proprio manifesto politico che disegna in realtà una società impossibile, perché dovrebbe essere allo stesso tempo globale dal punto di vista economico e chiusa dal punto di vista sociale. Una società che diventa possibile nell’immaginario collettivo grazie alla paura, che da millenni è un potente strumento di condizionamento, specie dei ceti moderati. Ora l’esperienza di questi anni ci dice che costruire una disciplina dei fenomeni migratori, guardando esclusivamente alla sicurezza è la via più breve per ottenere un risultato poco soddisfacente su entrambi i fronti, in quanto si resta imprigionati in un’ottica soffocante di ordine pubblico che: 1. fa perdere di vista la dimensione mondiale dei fenomeni migratori e alimenta una sorta di illusione sicuritaria, l’idea, cioè, che un paese “fortino”, o addirittura un continente “fortino”, possa arginare la forza di questi fenomeni; 2. spinge a far confusione tra politiche economico-sociali e politiche repressive e quindi costringe le forze di polizia ad un ruolo di supplenza nel governo dei flussi migratori; 3. finisce per sottrarre risorse alle attività di prevenzione e repressione, riducendo così le capacità di difesa di una società dalla vera minaccia, cioè quella criminale. 5.2 I centri di permanenza temporanea Questo è ciò che sta accadendo, dal punto di vista della sicurezza, con la legge n.189/2002 (legge sull’immigrazione) che ha in realtà complicato e non semplificato il lavoro delle Forze di Polizia. 27 La legge, ad esempio, ha raddoppiato, dai trenta ai sessanta giorni, il periodo di trattenimento nei centri di permanenza temporanea, ma non ha previsto l’incremento del numero dei centri presenti nel territorio. Vediamo di descrivere alcune caratteristiche dei tredici centri di permanenza temporanea presenti sul nostro territorio. Innanzitutto, essi se pur sotto responsabilità del Prefetto, sono gestiti da enti privati come la Croce Rossa e le Misericordie. In secondo luogo sono sorvegliati dalla polizia che è tenuta ad impedire l’uscita degli “ospiti” ed a mantenere l’ordine. In terzo luogo, nei centri possono essere presenti, in orari prestabiliti, operatori di associazioni ed organizzazioni umanitarie che abbiano stipulato una convenzione con il prefetto per il sostegno degli “ospiti” del centro e la tutela dei loro diritti. Ora è noto che la legge 40 del 1998 che ha introdotto i centri di permanenza temporanea è stata oggetto, in questi anni, di forti critiche connesse a dubbi di costituzionalità. Tali strutture, infatti, trattengono gli stranieri per un periodo che oggi arriva a sessanta giorni, sulla base di un provvedimento di natura amministrativa emesso dal questore e non giurisdizionale, anche se sottoposto, entro le 48 ore, al controllo del giudice di pace per la convalida. Va rilevato, tuttavia, che i Centri di Permanenza Temporanea, per me giustamente considerati estranei alla cultura etica, politica e giuridica del nostro Paese, con tutti i dubbi di costituzionalità, restano uno strumento inevitabile, per la “gestione” di qualunque normativa sull’immigrazione. E questo perché l’espulsione di una persona, presente irregolarmente sul territorio dello Stato, sarà possibile soltanto se si accerterà la sua identità, la sua nazionalità e se il Paese di provenienza dello straniero lo riconoscerà come suo cittadino. Essi rappresentano, quindi, uno strumento inevitabile, perché la garanzia dell’effettività dell’espulsione si ha soltanto se nelle more di questi accertamenti la persona resta a disposizione dell’autorità competente. Non va comunque dimenticato che i Centri di Permanenza Temporanea hanno evitato l’introduzione, nel nostro ordinamento, di uno strumento ancora più grave dal punto di vista della compressione delle libertà personali, come il reato di ingresso clandestino. Ma se i centri restano uno strumento inevitabile, in attesa di efficaci soluzioni alternative, non è inevitabile, invece, il loro sovraffollamento, causa di un insufficiente livello della tutela dei diritti della persona. In più, e questo attiene più nello specifico alla nostra materia, il sovraffollamento dei centri di permanenza temporanea è causa anche della sottrazione di significative risorse di polizia per l’accompagnamento, in caso di pregiudicati, , verso centri situati a grandi distanze dal luogo del fermo. In assenza di un efficiente sistema di accordi bilaterali con i paesi di provenienza, che consentirebbe procedure più snelle di rimpatrio, il raddoppio dei tempi di permanenza nei centri si è rivelato un boomerang anche dal punto di vista della sicurezza. In primo luogo perché sottrae risorse al contrasto del traffico delle persone; in secondo luogo perché non impedisce che più del 20% delle persone trattenute siano comunque rilasciate allo scadere dei sessanta giorni, per mancata identificazione o assenza dei documenti di rimpatrio; in terzo luogo perché finisce per favorire il rimpatrio delle persone meno pericolose. Questo è un nodo strategico importante. Con l’attuale legislazione si espelle chi più è facile da espellere, cioè l’immigrato che è, si clandestino, ma non un delinque e, si finisce per rilasciare il pregiudicato per la cui espulsione è necessario il nulla osta di diversi uffici giudiziari che spesso non arriva entro i sessanta giorni previsti dalla legge. Una iniquità, ma anche un problema per la sicurezza, che ancora le norme penali della legge non hanno risolto ma, anzi, aggravato. Infatti, i destinatari dell’arresto obbligatorio (previsto in caso di violazione dell’ordine di allontanamento adottato dal questore, a seguito di precedente provvedimento di espulsione) sono ancora una volta le persone che si potranno fermare più facilmente, non legate ad 28 organizzazioni criminali e che saranno espulse, questa volta, dopo aver subito un arresto e una condanna alla reclusione (dal momento che la violazione di quell’ordine di allontanamento è diventato un delitto e non una contravvenzione). 5.3 La clandestinità e la devianza L’attuale normativa si sta rivelando inefficace non solo dal punto di vista delle espulsioni, ma persino dal punto di vista della gestione delle presenze regolari sul territorio dello Stato, perché dimezzando (rispetto alla legge 40) il periodo di validità del permesso di soggiorno dell’immigrato, crea una condizione di estrema precarietà. In questo modo, da una parte, si costringono gli immigrati ad una “processione” continua verso gli uffici di polizia, dall’altra parte crea un forte disagio nella classe imprenditrice soprattutto del Nord-Est (siamo oltre il 30%) che, impiegando una considerevole quota di immigrati nelle proprie attività, vorrebbe una maggiore regolamentazione degli stessi. Anche questo finisce per favorire la clandestinità. Pensiamo al caso dei lavori stagionali in agricoltura, per i quali i tempi di rilascio del permesso di soggiorno sono una condizione fondamentale per l’impiego della manodopera immigrata. Infatti, poiché i prodotti agricoli non aspettano i tempi della burocrazia, ogni ritardo nel rilascio del permesso costituisce un oggettivo invito all’impiego di manodopera irregolare. O, ancora, al caso del permesso per famiglie: i figli che compiono il diciottesimo anno di età, hanno a disposizione un tempo, cha va da sei mesi ad un anno, (tempo per attesa occupazione), al termine del quale, se non hanno trovato un lavoro, devono scegliere se separarsi dalla famiglia di origine o imboccare la strada della clandestinità. Non in ultimo il dimezzamento della validità del permesso di soggiorno, raddoppia l’impiego di risorse, umane e tecniche, delle forze di polizia impegnate nelle attività burocratiche, sottraendole così a quelle operative. Una linea, dunque, quella della precarietà, seguita fondamentalmente, anche, dal regolamento di attuazione che, per certi versi, rafforza, l’idea di precarietà, quando impone il rinnovo della carta di soggiorno confermando, inevitabilmente, l’idea di chiusura ad oltranza che costituisce l’architrave su cui poggia l’attuale legislazione sull’immigrazione. Il bilancio dell’efficacia dell’attuale disciplina dell’immigrazione rispetto alla sicurezza è, dunque, negativo. Lo è rispetto alle condizioni generali di sicurezza nel paese, dal momento che non ha impedito da una parte la crescita del numero dei reati e, dall’altra, non ha impedito, anche, la crescita del senso di insicurezza dei cittadini, come conferma l’ultimo rapporto CENSIS, che registra un più 7% nella spesa delle famiglie per la sicurezza privata. Quali, dunque, le modifiche a questa linea? Non con la stretta repressiva, come l’introduzione del reato di ingresso clandestino, perché un inasprimento penale si rivelerebbe sbagliato e inutilmente costoso dal momento che gli immigrati regolari commettono reati in una percentuale assolutamente analoga a quella degli italiani e, perché, finirebbe per accrescere, inutilmente, il numero dei carcerati di origine straniera, che è arrivato a circa il 30%, di cui il 94% è riferibile ad una popolazione clandestina, che, tra l’altro resta in carcere anche quando potrebbe beneficiare degli arresti domiciliari (li dove ovviamente si riconosca un domicilio!). Si sta diffondendo, ormai, negli ambienti scientifici e persino in quelli istituzionali, la convinzione, secondo la quale, per ridurre i fenomeni di devianza sia necessario ridurre l’area della clandestinità. In particolare, sul versante della gestione delle presenze regolari, riducendo drasticamente l’impiego di personale di polizia nelle attività burocratiche, si raggiungerebbe l’obiettivo di convertire queste risorse al controllo dell’effettivo possesso 29 dei requisiti per il permesso di soggiorno, anche e soprattutto a tutela dei diritti e della dignità degli immigrati. Da questo punto di vista, lo sportello unico che è stato introdotto dal regolamento, non sembra in grado di risolvere il problema nel breve periodo, perché le amministrazioni interessate non dispongono di personale qualificato in grado di subentrare al personale di polizia, il quale continuerà a svolgere ancora per molto tempo un ruolo di supplenza. L’idea di un sistema informatico unico per la gestione delle procedure di rilascio e di rinnovo, evidentemente necessario per omogeneizzare le procedure delle diverse amministrazioni, non sembra ancora realizzabile, a causa dei tagli che le ultime finanziarie hanno apportato ai bilancio dello stato e a quello delle forze di polizia in particolare. In queste condizioni sarebbe utile l’adozione del modello adottato a Brescia, dove una quarantina di comuni si sono consorziati per fornire agli immigrati un servizio di prima informazione, di raccolta e prima valutazione della documentazione prodotta, della presentazione dei documenti alla questura, del ritiro e consegna del permesso di soggiorno agli interessati. Un modello che ha il pregio di trasferire gran parte delle attività burocratiche ai comuni, lasciando alle questure la decisione di merito, per garantire l’uniformità dei criteri su tutto il territorio nazionale. Sul versante delle espulsioni l’area della clandestinità si ridurrebbe: 1. rendendo più snello e permanente il rapporto con i paesi di provenienza per avere procedure di identificazioni e di rimpatrio più veloci; 2. riducendo il periodo di permanenza nei centri previsto dalla legge e ampliando il loro numero; 3. rafforzando il livello di rispetto dei diritti fondamentali della persona; 4. rafforzando, e non riducendo, come si è fatto con i tagli di risorse, l’azione di contrasto al crimine organizzato, perché la clandestinità si combatte soprattutto combattendo il traffico delle persone. Una filosofia evidentemente contraria a quella che ha prodotto l’equazione immigrazione uguale criminalità, perché questa equazione è una delle condizioni che impediscono processi di integrazione, favoriscono il controllo delle organizzazioni criminali sugli immigrati irregolari e rafforzano fenomeni di xenofobia e di razzismo. Questioni queste che stanno ormai strette dentro un orizzonte soltanto nazionale. Un’Europa che vuole essere qualcosa di più di “mercato e moneta” non può ignorare: 1. che non è indifferente il modello di società che vuol difendere; 2. che i processi di integrazione comunitaria dipendono anche dalle risposte che verranno date nel rapporto tra diritti e sicurezza, tra rispetto delle identità etniche e religiose e sicurezza. Una società consapevole di questa condizione è quella che non fa confusione tra flussi migratori (che sono un fenomeno strutturale delle moderne società che va governato innanzi tutto con strumenti economici e sociali) e terrorismo e criminalità (che utilizzano i fenomeni migratori per il raggiungimento dei loro obiettivi, e che vanno combattuti con strumenti e strategie comuni a tutta la comunità internazionale). In particolare sul versante del terrorismo non può essere sottovalutato che l’idea di scontro di civiltà favorisce, in realtà, uno degli obiettivi strategici del terrorismo di matrice fondamentalista, cioè l’allontanamento di qualsiasi contaminazione tra culture che devono, invece, restare diverse e lontane. Quest’idea, invece, che combattere finisce per rafforzare le ragioni di chi usa la violenza e la morte per conservare un mondo diviso in blocchi incomunicabili. Dunque, anche da questo versante della sicurezza, l’unica società in grado di neutralizzare il progetto terrorista è una società multietnica e globale, consapevole che potrà pretendere legalità se saprà considerare la diversità una ricchezza, la tolleranza un principio fondamentale e l’integrazione un obiettivo da perseguire. 30 CAPITOLO VI LE MAFIE 6.1 Criminalità organizzata e sviluppo Il tema delle mafie è fondamentale nell’ambito della questione delle strategie di sicurezza, perché nel nostro paese vi è la più alta concentrazione di organizzazioni mafiose di tutta l’Europa occidentale. Il che ha influito non soltanto sulla geografia criminale nel nostro paese, ma anche sulla vita economica, sociale e politica del paese. Il ruolo soffocante che le mafie svolgono nel nostro paese impone la ricerca continua di strategie politiche, economiche, giudiziarie, anticrimine integrate e complessive che devono inevitabilmente tenere conto dei mutamenti che avvengono all’interno delle singole organizzazioni mafiose e nel panorama complessivo del crimine. Affronteremo qui sinteticamente la questione dei recenti mutamenti avvenuti nel panorama mafioso, specie dal punto vista delle strategie, per passare poi ad affrontare specificamente il tema delle strategie di contrasto che sono state, o che dovrebbero essere adottate, dallo Stato. 6.2 La Mafia Siciliana Tra le mafie, per così dire, storiche del nostro paese, Cosa Nostra è certamente quella che ha conosciuto maggiore dinamicità negli ultimi decenni dal punto di vista delle strategie strettamente criminali, ma anche da quello delle strategie “politiche”. Il periodo che interessa al nostro studio è quello che va dai primi anni Novanta ad oggi, cioè dalla stagione delle stragi della mafia siciliana ai giorni nostri. Il momento culminante di quella stagione è stato quello della strage di Capaci del 23 maggio del 1992 (dove furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli operatori di polizia della scorta) e la strage di via d’Amelio a Palermo (dove furono uccisi Paolo Borsellino, e anche qui il personale di polizia della sua scorta). A queste stragi si arriva dopo un periodo, a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, di maggiore efficacia dell’attività antimafia: costituzione della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione Distrettuale Antimafia; processo di delegittimazione di una parte della classe politica della cosiddetta prima repubblica; consapevolezza da parte di cosa nostra che i legami politici fino a quel momento tessuti non erano più in grado di assicurare la protezione, specie sul piano dell’esito finale dei processi (omicidio dell’onorevole Salvo Lima). La linea che prevalse fu quella della trattativa diretta di Cosa Nostra con lo Stato per negoziare un modus vivendi accettabile per la Mafia. Così si spiegano attentati a strutture della Chiesa come quelli di Roma e Firenze, inusuali per Cosa Nostra, e diretti a rendere esplicita la minaccia eversiva della mafia e la volontà di ricorrere ad atti di terrorismo se lo Stato non avesse accettato un accordo. Si spiega l’uccisione di Falcone e Borsellino, visti come i maggiori oppositori a questo progetto. La strategia stragista non ottenne, almeno negli anni successivi, i risultati sperati. Nell’agosto del ’92 (varate le norme antimafia chieste da Falcone e altri magistrati sul trattamento dei collaboratori, sulle indagini che diventarono più celeri sullo snellimento del dibattimento) si realizzano nuove sinergie tra maggioranza e opposizione. 31 La Commissione Antimafia approva, per la prima volta, a larghissima maggioranza, una relazione sui rapporti tra mafia e politica. I risultati di questa linea non si fanno attendere. Infatti, si moltiplicano le collaborazioni da parte dei cosiddetti pentiti e si arrestano molti esponenti di spicco di Cosa Nostra che da quel momento cambiò strategia. Non è questa la sede per affrontare il tema del rapporto tra Cosa Nostra e il mondo politico dopo la stagione delle stragi e, quindi, guarderemo alle strategie strettamente criminali. Comincia l’inabissamento; si passa dallo scontro con i pentiti alla loro delegittimazione, si realizza il tentativo di far credere la mafia in crisi (Aglieri) e pronta ad una resa, si creano nuove sinergie con le organizzazioni transnazionali che trafficano in clandestini, grazie al controllo del territorio che ha Cosa Nostra. La Mafia diventa sempre più finanziaria e internazionale. Conserva grandi interessi con l’infiltrazione negli appalti pubblici, ma affina le sue tecniche di controllo del territorio, creando legami più stretti tra usura (che storicamente era controllata da piccoli gruppi criminali) e organizzazione mafiosa e aggiornando le tecniche di estorsione dal punto di vista della contropartita (anziché denaro servizi oppure obbligo di fornirsi presso determinate aziende) e dal punto di vista dell’entità dell’estorsione (pagare poco pagare tutti) col risultato un rafforzamento del controllo economico del territorio (si stima che a Palermo e Catania otto imprese su dieci subiscano il racket). 6.3 La ‘ndrangheta Una holding internazionale, dunque, tutt’altro che in crisi, se in generale gli organi investigativi ed uffici giudiziari concordano nel giudicare in crescita le attività del crimine organizzato. E questo vale in particolare per la ‘Ndrangheta, che è uscita pressoché indenne dalla stagione di lotta alla mafia fondata sui collaboratori di giustizia, grazie alla sua struttura chiusa, costruita su forti legami familiari, che gli consentono un controllo diretto delle persone e del territorio. Per la DIA la Mafia calabrese è l’organizzazione meno visibile, ma meglio strutturata e più diffusa, sia a livello nazionale che internazionale, con centrali che fanno riferimento sostanzialmente alla regione di provenienza. I clan calabresi, forti della loro struttura chiusa e controllata, hanno realizzato un sistema criminale complesso, ma estremamente dinamico, anche fuori dalle aree geografiche di origine. Le loro attività criminose sono rivolte prevalentemente al traffico internazionale delle sostanze stupefacenti, alle estorsioni, per le quali conservano il monopolio ed al riciclaggio del denaro sporco. La ‘Ndrangheta è l’organizzazione che conferma una crescente pericolosità criminale, perché: in grado di gestire con spiccata modernità il cambiamento; ha una particolare capacità nel cogliere i momenti favorevoli; contrariamente all’immaginario collettivo, utilizza con grande disinvoltura conoscenze e tecnologie; agisce nello scenario criminale anche attraverso accordi con le mafie straniere; è in grado di inquinare costantemente l’apparato dello stato e degli enti locali; è capace di infiltrarsi negli appalti per le opere pubbliche, attraverso la corruzione e una certa contiguità con le tante logge massoniche coperte presenti nella realtà calabrese. L’esigenza di condizionare a qualunque costo l’attività amministrativa degli enti locali è confermata dall’uso costante di intimidazioni e di attentati nei confronti di amministratori non accondiscendenti. 32 6.4 La camorra La camorra, a differenza della ‘ndrangheta, sta vivendo un periodo di grande scontro interno, con riferimento, in particolare, alla formazione di nuovi gruppi criminali legati prevalentemente al territorio e intenzionati a gestire in autonomia alcune attività illecite, prime fra tutte le estorsioni ed il traffico di attività illecite. La forzata convivenza nella stessa area di gruppi delinquenziali che si contendono aree limitate per la gestione delle attività illecite e la perdita di influenza sul territorio di uno dei principali sodalizi criminali, come la cosiddetta alleanza di Secondigliano, sono forse i fattori principali di un aumentato tasso di conflittualità interna che ha l’esempio più evidente nel violentissimo scontro a Napoli tra il clan di Lauro (del quartiere di Scampia) e i cosiddetti scissionisti. Una vera e propria mattanza quella di quest’ultimo anno a Napoli che conferma che quello della camorra è un fenomeno criminale complesso e radicato. Le vendette trasversali e le torture alle vittime ci dicono, infatti, che non siamo più di fronte al semplice gangsterismo urbano, ma ad un fenomeno sempre più vicino a quello mafioso e quindi ad un rafforzamento della pericolosità di questa organizzazione mafiosa. Un’organizzazione che se anche con vicende alterne, dovute all’altissima rissosità interna ha sempre mantenuto una fortissima influenza nel territorio. A partire degli anni Sessanta e Settanta ha costruito la sua rinascita con le attività illecite nel territorio prima sul contrabbando e poi sul traffico degli stupefacenti e che negli anni Ottanta, con la ricostruzione dell’Irpinia (in seguito al terremoto del 1980) ha sfruttato la sua grande occasione di stabilire un rapporto più organico con il mondo della politica e dell’amministrazione locale e l’economia legale che gli era mancata nell’arco della sua storia. Elemento questo che ha determinato un ulteriore salto di qualità criminale, perché accanto alle tradizionali attività illecite la Camorra ha messo in evidenza una crescente professionalità e, quindi, pericolosità nella gestione del rapporto tra lecito e illecito, tra economia legale ed illegale, come afferma la DIA in uno dei suoi ultimi rapporti al Parlamento. Una camorra che ormai da tempo sta uscendo dagli schemi tradizionali, e si sta facendo impresa, anche transnazionale, con il trasferimento di alcune attività illecite all’estero, e in particolare negli ultimi anni nei paesi dell’Europa dell’Est. Un’impresa che mantiene celata la propria vera identità attraverso la creazione di una costellazione di società guidate da incensurati che si controllano reciprocamente attraverso il controllo dei capitali sociali. Il che dovrebbe rendere meno ottimisti circa il fatto che anche in futuro la camorra, in modo scontato, possa mantenere questa sua caratteristica di grande frantumazione, litigiosità e temporaneità dei gruppi criminali. Tutti questi fattori hanno impedito fino ad ora la creazione di una catena di comando verticale, analoga a quella delle maggiori organizzazioni mafiose del paese come la Mafia e la ‘Ndrangheta, ma che non forniscono alcuna garanzia circa la possibilità che una maggiore compattezza interna non si possa realizzare nel futuro. 6.5 La Sacra Corona Unita La Puglia, costituisce attualmente, in ragione della sua posizione strategica, un vero e proprio crocevia dei traffici illeciti internazionali. I diversi gruppi criminali pugliesi agiscono in modo non omogeneo, ma hanno in comune la capacità di interagire con altre organizzazioni criminali anche straniere. I settori di maggiore interesse sono quelli del contrabbando (non soltanto dei tabacchi lavorati esteri), ma anche delle armi e delle auto di 33 grossa cilindrata, del traffico degli stupefacenti, dello sfruttamento della prostituzione, della manodopera in nero, della criminalità ambientale e degli appalti pubblici. Il crescente radicamento nelle province pugliesi dei gruppi criminali della Sacra Corona Unita sta rappresentando un grave rischio di condizionamento dell’attività economica lecita, per l’alterazione dei fattori di mercato che ne deriva, con riferimento alla concorrenza, alla manodopera ed alle disponibilità finanziarie. 6.6 La criminalità straniera Sul fronte della criminalità straniera è dalla metà degli anni Novanta che i rapporti del ministero dell’interno segnalano con sempre maggiore frequenza e attenzione la presenza attiva nel nostro territorio di gruppi criminali di altri paesi. Nella fase iniziale questi gruppi criminali occupavano i livelli più bassi delle attività criminali come spaccio di sostanze stupefacenti e sfruttamento della prostituzione, ma mostravano, comunque, grande capacità di inserimento nel nostro territorio, attraverso accordi con le mafie italiane e qualche volta anche attraverso lo scontro per il controllo di settori criminali. Il risultato negli ultimi dieci anni è una crescita preoccupante di questa presenza dovuta sostanzialmente a due fattori: uno di livello internazionale e cioè la globalizzazione dell’economia che ha fatto abbassare le barriere tra gli stati, l’altro interno. 6.7 Le strategie antimafia Quella delle strategie antimafia è una questione strategica centrale per la sicurezza, ma imprescindibile per lotta alle mafie. Le mafie non sono semplici organizzazioni criminali, ma holding finanziarie internazionali, soggetto politico, antistato. Per il peso che le mafie hanno sulla mancata crescita del Mezzogiorno sarebbe necessaria una legge obiettivo. Uno studio del CENSIS di qualche anno fa sul Mezzogiorno ha quantificato il costo della mafia sul mancato sviluppo: se il Mezzogiorno avesse avuto quelle risorse avrebbe colmato il divario con il Nord del Paese. Se si guarda alla congiuntura economica del mezzogiorno, la crescita generale del crimine organizzato appare ancora più allarmante: per la prima volta da anni la crescita del Mezzogiorno si è fermata. E in questo sviluppo frenato, per usare l’espressione dello stesso Ministero dell’Economia, il peso della criminalità mafiosa non può essere trascurato. Il peso di un’economia parallela a quella legale che altera le condizioni di mercato (disponibilità finanziarie, credito più costoso al sud +3,5%, concorrenza, manodopera), quando non tende ad espellere l’imprenditoria sana attraverso l’usura e le estorsioni, e abbassa il livello di attrazione degli investimenti. D’altronde come può attrarre investimenti un’area che alle difficoltà strutturali aggiunge la presenza della criminalità organizzata che è sempre più criminalità finanziaria? Il che non vuol dire che le organizzazioni mafiose abbiano messo da parte i tradizionali metodi di guadagno illegale, come le estorsioni, ma li ha aggiornati. Infatti, un pizzo più basso, ma pagato da molti, può spingere gli operatori economici taglieggiati a non ribellarsi e a non denunciare. E questo, assieme ad una preoccupante crescita dell’usura favorita anche dal maggior costo del credito al sud, rafforza il controllo economico del territorio. Non vi è dubbio che è sul terreno dello sviluppo che si vince o si perde la battaglia contro la mafia, perché specie nel Mezzogiorno è la fragilità del sistema economico a favorire la penetrazione del crimine mafioso come l’usura insegna. Ed è la minore coesione sociale a 34 favorire comportamenti illegali diffusi, come nel caso del contrabbando che fa vivere interi quartieri di alcune nostre città. Ma è altrettanto evidente che nel nostro Paese le politiche di sviluppo non hanno alcuna possibilità di attecchire se non sono sostenute da un impegno straordinario e permanente dello stato sul versante del contrasto al crimine. Un impegno per riaffermare la sovranità dello Stato, in quelle aree come Scampia, dove per entrare si viene perquisiti e non dalle forze dell’ordine, o come nelle tante città della Sicilia e Calabria, dove il controllo capillare di ogni attività economica, attraverso l’usura, le estorsioni, e l’infiltrazione negli appalti pubblici, quella sovranità ogni giorno mettono in discussione. Un impegno oggi sicuramente più difficile: per la strategia di inabissamento attuata da cosa nostra dopo la stagione delle stragi; per il tentativo insidioso di far credere la mafia in crisi; per il minor contributo da parte dei collaboratori di giustizia; per le difficoltà nel ricostruire ogni tensione ideale attorno ai temi dell’antimafia; ma soprattutto per indirizzi strategici nelle attività anticrimine che non hanno ottenuto i risultati auspicati. Sono i dati a registrare questo fallimento di obiettivo. Crescono tutti i reati e cresce, in fondo, anche l’insicurezza dei cittadini. Questo ci dice, forse meglio di ogni sondaggio, quel 7% in più che ogni famiglia italiana ha destinato alla sicurezza privata, secondo il rapporto 2004 stilato dal Censis. Un peso non secondario rispetto ai risultati al di sotto delle aspettative lo hanno alcune scelte strategiche, come l’aver puntato tutto sulla rassicurazione generica (poliziotto di quartiere e operazioni straordinarie come “Alto impatto” e “vie libere”), ma a scapito dell’azione di contrasto, questo è il punto e quindi meno pattuglie, per controllo del territorio e meno attività investigativa sul fronte anticrimine. Il risultato è stato aver perso progressivamente conoscenza del territorio e, quindi, capacità di intervento, lasciando così spazi di iniziativa alle organizzazioni criminali (si stima che a Palermo e Catania otto imprese su dieci siano colpite dal racket) e compromettendo persino le possibilità di rassicurazione dei cittadini (che sicuri oggi certamente non sono). Scelte sbagliate sono quelle che prevedono l’impiego di un numero spropositato di operatori in attività burocratiche. Infatti, la legge sull’immigrazione destina un numero altissimo di operatori di polizia alle attività burocratiche e sottrae risorse ai compiti operativi, soprattutto a quelli di contrasto del traffico delle persone, quindi, finisce per favorire la clandestinità anziché contrastarla. Strategie non all’altezza, perché fondate sull’idea singolare secondo la quale si può rafforzare l’azione delle forze dell’ordine, riducendo le risorse a disposizione e non avviando alcun processo di riforma, come le leggi finanziarie degli ultimi due anni che sulla sicurezza, e in particolare sull’attività antimafia, dove non si coglie un progetto chiaro e un investimento significativo. Risultano tagliati, di oltre il 20%, tutti i fondi delle forze di polizia, esattamente mentre sale l’allarme terrorismo e registriamo emergenze criminalità come quella di Napoli. Tagli che mettono in discussione persino il funzionamento ordinario delle strutture e impediscono processi di modernizzazione che non possono essere più rinviati sul versante dell’innovazione tecnologica e della formazione. Sono strategie insufficienti, perché fanno leva o su leggi manifesto (come quella sulla legittima difesa, che spinge il cittadino ad armarsi, sulla base di una dichiarazione di fallimento, cioè, quella dello stato che non riesce a proteggere il cittadino) o su vere e proprie avventure istituzionali, come con la devolution che, se approvata, frantumerebbe, con un costo enorme, un sistema sicurezza che ha invece bisogno di maggiore compattezza e coordinamento. 35 Il Mezzogiorno e il Paese hanno bisogno, sul versante antimafia, di un modello strategico alternativo che punti su due direttrici fondamentali: la capacità di intelligence nello scenario internazionale; e la rinconquista permanente del territorio alla legalità. Pensare globalmente e agire localmente è il requisito minimo che oggi si chiede ad un sistema sicurezza che, come il nostro, deve fronteggiare la più alta concentrazione di criminalità mafiosa dell’Europa occidentale. Per questo l’Italia dovrebbe rafforzare Europol ed Eurojust; ridare slancio alla capacità di coordinamento investigativo della DIA, sul versante dell’aggressione dei patrimoni illeciti (quell’uno per cento dei beni confiscati è un dato inquietante) su quello delle collaborazioni tra mafie italiane e mafie straniere, su quello del rischio, per il nostro sistema economico e sociale, che viene dalla presenza crescente nel nostro territorio delle organizzazioni criminali transnazionali. E, tuttavia, per avere questo nuovo slancio occorre arrestare quel processo di indebolimento, carsico, della direzione investigativa antimafia a cui stiamo assistendo, perché è la DIA la struttura che ha subito uno dei maggiori tagli di risorse dalla finanziaria di quest’anno. Vi è, dunque, la necessità di un modello strategico fondato sull’intelligence, ma anche sulla riconquista del territorio, perché anche per la mafia di oggi, quella finanziaria e internazionale, il rapporto con il territorio è irrinunciabile, per non trasformarsi in una semplice organizzazione criminale. È li che si controlla l’attività economica, anche con strumenti antichi, ma aggiornati come le estorsioni e l’usura; è li che si fa politica e si amministra una giustizia alternativa a quella dello Stato. Il territorio, dunque, è un punto di forza per la mafia, ma anche un grande limite e un’opportunità per lo Stato, ma a condizione che si punti ad un controllo che sia conoscenza e non semplice occupazione militare. É, dunque, necessario rafforzare l’attività investigativa delle forze di polizia nel territorio, cioè la capacità di decifrare i codici di comportamento delle cosche, di disegnare la mappa degli interessi e dei legami tra gli esponenti mafiosi delle varie famiglie. In una parola, la capacità di intervenire prima che, ad esempio, si realizzi completamente l’infiltrazione mafiosa nei lavori preliminari alla costruzione del ponte sullo stretto. Un obiettivo possibile, se si rafforzano i presidi di polizia nel territorio, se non si smantellano gli strumenti di indagine, come è successo con le rogatorie. Più in generale, si potranno contrastare i fenomeni di criminalità organizzata, se si mira ad un modello: 1. che consideri l’indipendenza della magistratura un bene prezioso per la democrazia del paese; 2. che punti alla legalità diffusa; 3. che non faccia confusione sulle reali priorità; 4. che sappia guardare contemporaneamente al contrasto del crimine organizzato e alla criminalità diffusa; 5. che progetti la modernizzazione delle forze di polizia; 6. che consideri strategico il partenariato e il ruolo degli Enti locali. E soprattutto se non si da il messaggio di smobilitazione, che è stato dato in questi anni, con il falso in bilancio, il mandato di cattura internazionale, la riduzione delle scorte ai magistrati e il taglio di risorse alle forze di polizia, perché a differenza della normale attività anticrimine nella lotta alla mafia il messaggio delle forze politiche di governo è determinante. Dopo la stagione delle stragi si può costruire una nuova tensione ideale attorno ai temi dell’antimafia se questa è percepita come una priorità. Si diffonde cultura della legalità se il cittadino percepisce che l’illegalità non paga e in altre parole percepisce che 36 nel nostro Paese chi vive illegalmente ha molte probabilità di incappare nelle maglie della giustizia, come dovrebbe succedere in un Paese normale. Un obiettivo, quest’ultimo, strategico per la difesa dello Stato di Diritto, ma possibile solo se ci sarà un rafforzamento vero del circuito giudiziario e delle forze di polizia e se la legalità è considerata, nell’azione di governo, un valore fondante della nostra identità nazionale, perché senza legalità non c’è sviluppo, ma soprattutto non c’è libertà. 37 CAPITOLO VII DEVOLUTION E SICUREZZA 7.1 La riforma costituzionale e il modello di sicurezza Quello sulla devolution è uno dei dibattiti più importanti dell’agenda politica del paese, perché ha riflessi diretti sull’impianto costituzionale, oltre che sugli aspetti fondamentali della vita dei cittadini, come la sicurezza e la giustizia. Per le forze politiche e sociali progressiste, e per il mondo delle istituzioni, il dibattito sulla devolution in materia di polizia non è un dibattito facile. Chi la propone, infatti, fa leva soprattutto sulle paure dei cittadini e questo è elemento sufficiente per trasformarla in una questione estremamente scivolosa. Delle tre modifiche costituzionali contenute nella devolution quella sulla polizia locale è la più “eversiva” dell’impianto costituzionale in quanto: incide su una materia, la sicurezza, considerata collante fondamentale dell’unità del paese; influisce direttamente su un’altra fondamentale funzione riconosciuta allo stato e cioè la giustizia; rispetto ai diritti fondamentali della persona, come quello della libertà individuale, crea le condizioni per trattamenti diversi nel paese; può costituire l’elemento scatenante di un nuovo e più soffocante centralismo. Infatti, la devolution in materia di polizia, specie senza il temperamento della clausola dell’interesse nazionale, determina una struttura a legame debole tra le istituzioni centrali e quelle locali. Una struttura controbilanciata dal rafforzamento, sul piano generale, del ruolo dell’esecutivo, in particolare attraverso i maggiori poteri riservati al presidente del consiglio. Ma la devolution i problemi li sta producendo già prima della sua approvazione. Alcuni sindaci si comportano, infatti, come se la modifica costituzionale fosse già operativa. Ed allora istituiscono unità cinofile nella loro polizia municipale in funzione anticrimine, oppure esercitano pressioni affinché la locale polizia provinciale intervenga al posto degli agenti della questura in una protesta di piazza connessa ad operazioni di sgombro di abitazioni e via pasticciando nell’ordinamento. Siamo di fronte, dunque, ad un’inquietante attivismo nell’agitare le questioni della Polizia Locale, ma siamo di fronte soprattutto ad un’azione che potremmo definire carsica, che sta intervenendo su alcuni segmenti del sistema con l’intenzione evidentemente di ridisegnarne l’architettura. Capire qual è il modello di sicurezza verso cui si sta andando è, dunque, essenziale per definire una strategia di modifica Costituzionale. Sarebbe, infatti, un errore pensare che questa del modello sia un’elegante questione accademica, in realtà è molto di più: è un fondamentale nodo politico e istituzionale, dal quale dipende la capacità del Paese di garantire la sicurezza dei cittadini e la tutela dei diritti fondamentali della persona. 7.2 La frammentazione del sistema sicurezza Definire oggi questo modello non è agevole, perché qualcuno vorrebbe farci guardare l’albero (cioè la singola modifica strisciante al sistema) e, invece, mai come in questo momento occorre saper guardare la foresta. E una visione di insieme oggi ci dice che le forze di centro destra puntano: 38 ad una maggiore libertà nella difesa privata; in tal senso si muoveva la proposta di una maggiore facilità nell’acquisto delle armi, in linea con il modello statunitense, proposta che non ha trovato accoglimento legislativo; alla costruzione di uno spazio più ampio per privatizzazione della sicurezza; infatti la legge sulla sicurezza sussidiaria ha come effetto principale lo sviluppo del mercato privato della sicurezza; ad una riduzione di risorse a sostegno del sistema di sicurezza pubblica; alla frammentazione del sistema di sicurezza; E, infatti, mentre altri paesi, sul versante della difesa, propongono la costituzione di un esercito europeo, la devolution, di fronte a fenomeni come la globalizzazione del crimine e di fronte all’esigenza, soprattutto italiana, di mettere a fattor comune interventi come quelli che riguardano il controllo delle frontiere, la lotta ai traffici e il governo dei flussi migratori, si muove verso la frammentazione del sistema delle forze di polizia, giudicandola a torto come una soluzione ai problemi di sicurezza del paese. 7.3 Le ambiguità del testo di riforma In realtà questo modello, complessivamente, costituirebbe un netto passo indietro per il nostro sistema di sicurezza. e, tuttavia, per dimostrarlo occorre, innanzi tutto, saper spiegare ai cittadini la portata delle modifiche costituzionali su questo versante, cosa non agevole perché i testi, sia quello della devolution sia quello delle modifiche al titolo quinto sono volutamente ambigui. È l’ambiguità, infatti, una delle maggiori criticità delle modifiche costituzionali, e cioè non un progetto definito sulle forze di polizia, ma semplicemente la disarticolazione del sistema esistente. La prima ambiguità sta nel concetto di Polizia locale. La devoluzione avrebbe effetti devastanti sul sistema delle competenze. Infatti, scartata l’ipotesi che voglia attribuire competenza legislativa esclusiva alle Regioni in materia di Polizia Amministrativa locale, perché questa competenza è già riconosciuta dall’attuale Titolo quinto della Costituzione, è da immaginare che la modifica voglia attribuire competenza legislativa esclusiva alle regioni in materia di polizia locale non solo amministrativa, ma anche di sicurezza. Il problema, però, è che questa competenza è attribuita dalla Costituzione allo Stato, e questo perché sul versante della prevenzione e del contrasto dei crimini, piccoli o grandi che siano, occorre “un’impostazione unitaria” della politica dell’ordine e della sicurezza pubblica e che “polizia locale non vuol dire sicurezza e ordine pubblico locale, perché unico è il testo delle leggi di pubblica sicurezza, unico il Codice Penale, unico il Codice di Procedura Penale La sola devolution entrerebbe, dunque, in rotta di collisione con l’intero impianto costituzionale in materia di sicurezza. Di qui il compito del disegno di modifica del Titolo Quinto della Costituzione, cioè quello di impedire gli effetti più eversivi che avrebbe la sola devolution sul versante della polizia, cioè l’invasione di campo in una funzione legislativa riservata allo Stato. Ma anche quello di rendere comunque possibili alcuni obiettivi individuati dai settori più oltranzisti, come l’attribuzione alle polizie locali di compiti prevalentemente di sicurezza e, dunque, la realizzazione delle polizie regionali, cioè il trionfo di un’idea di sussidiarietà, intesa non come complementarietà ma come sostituzione del pubblico con il privato, nel senso di privatizzazione di una parte della sicurezza pubblica. Nonostante le posizioni rassicuranti dell’ex Ministro dell’Interno, il rischio è che il disegno di legge di modifica del Titolo Quinto consenta di raggiungere alcuni dei veri 39 obiettivi della parte più oltranzista delle forze politiche che di recente guidano l’opposizione politica. Questo in quanto anche con l’attuale formulazione delle modifiche al Titolo Quinto della Costituzione è possibile costituire polizie regionali, o attribuire alle polizie locali prevalenti funzioni di sicurezza, magari limitate al contrasto dei reati di strada. Infatti, mentre nel primo comma dell’art. 2 della proposta di riforma si riconosce allo Stato la potestà legislativa esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza, con esclusione della polizia amministrativa locale, nel secondo comma dello stesso articolo si afferma che le Regioni, nel rispetto dell’interesse nazionale, esercitano la potestà legislativa esclusiva in materia di polizia locale, dunque, in una materia che non è la sola polizia amministrativa. Si è, quindi, di fronte ad un sistema che non esclude una competenza legislativa esclusiva regionale in materia di polizia locale di sicurezza, salvo lasciare all’interesse nazionale il compito di definirne i limiti, magari per tipologia di reato. E cioè ci troveremmo di fronte al pasticcio istituzionale, ma anche a quello operativo. Questo perché il modello a pluralità di forze di polizia, dove è prevista la possibilità che le polizie locali svolgano, in via prioritaria, attività di sicurezza e contrasto al crimine nel territorio, ha un senso in un sistema come quello statunitense, dove il doppio livello delle strutture di polizia è la diretta conseguenza della doppia qualifica, statale o federale, dei reati che quelle strutture devono prevenire e reprimere. In un sistema come il nostro, caratterizzato dalla riserva allo Stato di tutta la legislazione penale, introdurre le polizie regionali costituirebbe un pasticcio sul piano dell’ordinamento e determinerebbe un pericoloso passo indietro per il nostro sistema di sicurezza, per diverse fondate ragioni. La prima attiene al tema del coordinamento. Nel Paese delle tante polizie, civili e militari, generali e speciali, statali e locali, farne altre venti non sarebbe esattamente una cosa intelligente. Gli sforzi che si stanno compiendo per rafforzare la cooperazione di polizia in ambito Comunitario, determinante per contrastare ogni forma di criminalità, richiederebbe una semplificazione del nostro sistema e non un ulteriore crescita della confusione interna circa le competenze e, soprattutto, le responsabilità dei diversi organismi. La seconda ragione attiene all’efficacia della risposta. Spostare alle Regioni competenze che oggi sono dei Comuni vuol dire in realtà allontanarsi dai bisogni dei cittadini. Vuol dire accentrare e non decentrare attività che devono essere svolte con il maggior radicamento possibile nel territorio e la maggiore prossimità al cittadino, se si vuol rafforzare l’efficacia della rete di contrasto al crimine, garantendo quelle strategie di rassicurazione che sono imprescindibili in un moderno sistema di sicurezza pubblica. La terza ragione è connessa alle nuove dinamiche criminali ed ai processi di globalizzazione delle attività illecite. Persino quella nazionale è ormai una dimensione territoriale di per se insufficiente rispetto ai nuovi fenomeni criminali. Pensare globalmente e saper operare localmente dovrà essere sempre di più la linea strategica di un paese come l’Italia, che a causa della sua collocazione geografica e della radicata presenza di criminalità organizzata, è crocevia permanente di traffici illegali e meta di mafie straniere. Una quarta ragione attiene ai costi. Se parliamo di polizie vere e proprie le risorse necessarie non sembrano attualmente a disposizione, a meno che non si abbia in testa di incrementare significativamente la pressione fiscale sui cittadini delle regioni che scegliessero di costituire polizie regionali, oppure di regionalizzare la Polizia di Stato e lasciare un corpo militare, l’Arma dei Carabinieri, quale unica polizia generale nazionale, ovviamente senza altri precedenti nel mondo occidentale. Una quinta ragione riguarda il rischio di assicurare ai cittadini una sicurezza diseguale, a fronte del fatto che non tutte le Regioni potrebbero avere la capacità di spesa necessaria per istituire nuove strutture di polizia. 40 Un’ultima, ma non secondaria, ragione è che nel Paese che ancora non ha sciolto il nodo dei rapporti tra politica, mafia ed affari, una polizia regionale con compiti anche di repressione penale dovrebbe essere guardata, specie in alcune aree, con forte preoccupazione da tutti i cittadini che non sottovalutano il peso che le forze di polizia hanno nel più generale controllo di legalità. 7.4 Riforme e non avventure istituzionali La devolution è, dunque, una risposta sbagliata sul terreno delle politiche di sicurezza e pericolosa su quello dell’ordinamento, e opporsi con fermezza è un dovere per chi vuole riforme e non avventure istituzionali. Doveroso è spiegare le ragioni del no alle avventure istituzionali a quei cittadini che andranno a votare al probabile referendum sospensivo conseguente alle modifiche costituzionali. Spiegarlo ai cittadini delle regioni governate dal centrosinistra, dove vi sono presidenti che spiegano che una polizia regionale sarebbe un problema e non una soluzione. ma anche e soprattutto spiegarlo ai cittadini delle regioni governate dal centrodestra, dove più facile è la strumentalizzazione della paura e quindi il condizionamento del voto. Ma per convincere non si possono utilizzare solo dei no. Occorre saper convincere il Paese che abbiamo bisogno di riforme e non di avventure istituzionali. che occorre attuare e non smantellare la costituzione sul versante della sicurezza, completando il processo di riforma dell’81, realizzando un sistema fondato sulla chiarezza delle funzioni delle diverse forze di polizia statali e locali, nell’interesse dei cittadini e degli stessi addetti, perché le ambiguità consentirebbero allo stato la fuga dalle responsabilità, determinerebbero l’impotenza degli enti locali e un ingiusto rischio professionale per gli operatori. Occorre, dunque, avviare la riforma delle polizie locali, attribuendo loro come funzione prevalente quella della polizia amministrativa e non di sicurezza, che è una funzione essenziale per il controllo di legalità, puntando sulla formazione degli operatori e l’innovazione tecnologica delle strutture, riconoscendo comunque l’esigenza una legge quadro nazionale per le polizie locali, perché ogni cittadino del nostro paese ha diritto di sapere dietro una divisa quali poteri e soprattutto quali doveri ci sono. 7.5 La privatizzazione del sistema sicurezza É necessario completare quel processo di riforma con il riordino della vigilanza privata in direzione un sistema integrato con le forze di polizia, che neutralizzi i rischi di una tendenziale privatizzazione della sicurezza attraverso la cessione di quote di attività di polizia locale. Rischi attuali, dal momento che in qualche disegno di legge regionale è prevista la possibilità di delega alle vigilanze private di funzioni attribuite alla polizia locale. 7.6 Da vigilanza privata a sicurezza sussidiaria La nuova legge sulla sicurezza sussidiaria apre una nuova dimensione del mercato della sicurezza. Novità questa in sé non negativa a condizione che non si cedano segmenti strategici delle attività di sicurezza che attengono ai diritti fondamentali del cittadino e che si pretendano elevati standard di qualità dalle imprese private. 41 Questo disegno legge, invece, non pretende un alto livello di qualità. E questo limite, accanto alla tendenziale cessione di attività di sicurezza a favore del privato disegnata dalla devolution, delinea una sorta di scambio tra qualità e quantità sul versante della sicurezza che va contrastato con decisione. Il processo di riforma avviato nell’81 si completerà: Realizzando un forte decentramento delle attività di polizia; Puntando ad un controllo del territorio che è conoscenza e non semplice occupazione; difendendo un’idea di polizia come professione sociale dai rischi della privatizzazione e del marketing territoriale. 42 CAPITOLO VIII SICUREZZA E LIBERTÀ CIVILI 8. 1 La società sorvegliata Il tema che affrontiamo in questo capitolo é quello del rapporto tra la sicurezza e libertà civili. Un tema non nuovo, quello del limite dei poteri di chi governa, ma che ha assunto nel mondo moderno, con l’affermazione dello stato di diritto, un’importanza crescente con riferimento all’insicurezza del cittadino, che a volte si trasforma in paura. Una paura che non può essere sottovalutata, perché una società che l’avverte è spinta ad invocare misure semplicemente repressive, a rinunciare ad una quota crescente delle proprie libertà civili e, quindi, a determinare, in ultima analisi, le condizioni per un cambiamento in senso autoritario nei rapporti tra stato e cittadino. Il fenomeno, come è noto, ha radici antiche. Per millenni, e in ogni civiltà, il suddito che ha avvertito una minaccia alla sua incolumità e a quella dei suoi familiari, o al possesso dei beni, ha invocato l’intervento di un sovrano che lo sapesse difendere, quasi sempre senza chiedere conto dei suoi metodi. Lo Stato moderno, invece, ha portato con se una maggiore attenzione verso le garanzie della persona, quando si trattato di assicurare l’ordinato vivere sociale. Ma fino ad un certo punto, evidentemente. visto che sarà proprio Thomas Hobbes, il primo teorico di una concezione laica e moderna dello Stato, a ritenere che soltanto lo stato assoluto, estremo nelle sue decisioni, può garantire protezione, e quindi sicurezza, ai suoi cittadini. Per lo Stato di diritto le cose sono, in realtà, un po’ più complesse, perché la maggiore conquista del cittadino moderno è esattamente il rispetto dei suoi diritti fondamentali. E, quindi, se lo Stato dovesse favorire, o anche solo accettare, il trasferimento del controllo di una parte significativa di questi diritti ai pubblici poteri, come prezzo per poter assicurare protezione, getterebbe inevitabilmente le basi per la sua delegittimazione. 8.2 La libertà personale Le Costituzioni dei Paesi occidentali hanno affrontato da tempo il tema delle garanzie sui provvedimenti restrittivi della libertà personale. La nostra Costituzione ha affermato l’esigenza del controllo giudiziario sui provvedimenti restrittivi eccezionalmente riconosciuti alle forze di polizia, come l’arresto in flagranza di reato. Ha fissato il principio del doppio grado di controllo specifico all’interno del processo penale sui provvedimenti restrittivi della libertà. La legge ha stabilito le condizioni in presenza delle quali è possibile limitare la libertà della persona. Lo ha fatto guardando, ovviamente, sia alle esigenze di giustizia (salvaguardare le condizioni che possano portare all’accertamento della verità processuale) sia alle esigenze di rispetto dei diritti fondamentali della persona, a partire dall’habes corpus, cioè il diritto all’integrità fisica e psichica della persona. Il risultato è che i casi che si collocano sul confine di questo sistema generale di tutela, nel nostro Paese, sono pochi. A titolo di esempio ricordiamo: o centri di permanenza temporanea, per gli immigrati clandestini; o arresto differito per i comportamenti violenti, penalmente rilevanti commessi allo stadio, o comunque connessi allo svolgimento delle manifestazioni sportive. Situazioni per le quali vengono manifestati forti dubbi di legittimità da parte di autorevoli costituzionalisti, ma che non mettono in discussione né i principi né l’impianto 43 complessivo delle garanzie civili che sono riconosciute nel nostro Paese. Principi sulla base dei quali, ad esempio, non hanno trovato cittadinanza istituti come: o il reato di ingresso clandestino, considerato in contrasto con in valori di solidarietà e civiltà giuridica ai quali si ispira il nostro ordinamento; o il fermo di polizia, giudicato in generale lesivo del principio del controllo giudiziario sui provvedimenti adottati dall’Autorità di polizia. 8.3 La tutela della privacy In realtà, il problema del rapporto tra sicurezza e garanzie civili oggi si pone soprattutto con riferimento alla tutela della privacy. L’11 settembre ha portato in superficie alcune tendenze che si erano già sviluppate nel decennio precedente, come quella che ha portato a considerare assolutamente normale, anche da esponenti della parte più garantista della società, l’inserimento delle proprie impronte digitali nei documenti di identità. In questa direzione, infatti, si muovono ormai diversi Paesi europei. Hanno incominciato a prendere piede idee come quella dell’uomo di vetro, cioè quella secondo la quale se una persona non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere. Un principio questo, come fa notare Stefano Rodotà, di matrice nazista ma comune a tutti i totalitarismi. Idee che l’11 settembre ha ovviamente rafforzato al punto da far ritenere da molti che la perdita o la forte compressione di certe libertà è l’inevitabile prezzo da pagare in cambio della sicurezza. Il 54% dei cittadini dell’Unione Europea giustifica il controllo delle telefonate per reprimere il terrorismo. Solo il 14% pretende che ci sia il controllo della magistratura. E vi è pure un 7% disponibile ad essere ascoltato comunque pur di contrastare i terroristi. Dunque, è la paura in generale, e quella del terrorismo in particolare, l’elemento che ha consentito una giustificazione crescente all’incremento esponenziale della sorveglianza, specie negli Stati Uniti da dove arrivano le nuove tendenze al rafforzamento della sorveglianza. Un incremento che in particolare riguarda la sorveglianza automatizzata, quella ininterrotta, sistematica impersonale e onnipresente. Come ha detto il sociologo statunitense David Lyon in un suo recente saggio sulla società sorvegliata, “grazie alle opportunità che ci vengono offerte dall’alta tecnologia la prevenzione dagli attacchi terroristici si sta identificando sempre di più con la sorveglianza”. E dunque videosorveglianza con riconoscimento facciale – biometria – carte intelligenti e poi Echelon – l’orecchio elettronico dei Servizi Statunitensi - e soprattutto banche dati, come quella alla quale sembra stiano lavorando gli organismi di sicurezza statunitensi, che attraverso l’elaborazione delle tracce elettroniche che ogni cittadino lascia, quando compra un qualunque bene o servizio, si è in grado di arrivare ad un profilo delle tendenze culturali, politiche o sessuali della persona. Oppure tecnologie come US-VISIT – un enorme database che in un prossimo futuro consentirà di controllare chi entra e chi esce dagli Stati Uniti. Il più ambizioso progetto di schedatura mai tentato nella storia, come risulta anche da normali informazioni di stampa, è attivo in tutti e 115 aeroporti internazionali americani più una dozzina di scali marittimi. registra l’impronta digitale e il volto del passeggero, poi li confronta con tutti i pregiudicati e possibili terroristi del mondo e poi li archivia per sempre in un database. Nel 2004 sono stati raccolti i dati di 23 milioni di persone. Per ora gli italiani e gli abitanti dei Paesi considerati amici non sono sottoposti a queste rilevazioni, meno che non chiedono di entrare negli Stati Uniti per un periodo superiore ai tre mesi. Ma per il futuro gli Stati Uniti hanno ottenuto l’impegno di questi paesi ad inserire nei passaporti 44 foto e impronte digitalizzate, pronte quindi per essere trasferite automaticamente in quel database. La banca dati che viene sempre più pressantemente richiesta dalle forze di polizia e da una parte della Magistratura in Italia è la banca dati del DNA, cioè un archivio centrale dei profili genetici, considerata necessaria ai fini investigativi – di intelligence – di costituzione della prova. Ma la questione forse più delicata è quella della costituzione di una banca dati generale e preventiva, cioè una sorta di schedatura genetica. In proposito occorre evidenziare i rischi della schedatura genetica e cioè che i dati genetici non sempre sono risolutivi e non è scongiurata la possibilità di errore e che c’è sempre il rischio di utilizzo del materiale biologico al fine di trarre informazioni che non riguardano solo l’impronta genetica indicata con un semplice codice a barre. Questa è una questione di grande delicatezza perché i dati genetici possono dare informazioni anche su tutto il gruppo biologico al quale appartiene la persona (genitori, figli, fratelli), hanno attitudine “predittiva” circa l’evoluzione della vita della persona. In Italia ancora fortunatamente il livello di tutela dei dati genetici è elevato. Il Garante della privacy, Stefano Rodotà, ha sostenuto che non bisogna abbandonarsi a derive tecnologiche. Di fronte ad un possibile futuro di sorveglianza integrale si pongono inevitabilmente alcuni interrogativi, come: l’affidabilità tecnica cioè la precisione dei sistemi di rilevazione; il rapporto tra costi e benefici di queste enormi operazioni di sorveglianza, sia in termini economici ma soprattutto in termini di tutela dei diritti fondamentali. Sotto il primo profilo i sistemi che vengono propagandati non sono certamente infallibili: margini di errore che vano dal 7% per le banche dati del DNA fino al 66% di alcuni sistemi biometrici statunitensi. Inoltre, coloro che sono interessati a falsificare le informazioni raccolte in modo automatizzato sono un numero enorme. Quindi è prevedibile che ogni progresso nei sistemi di identificazione sarà rapidamente controbilanciato dai progressi nella falsificazione delle informazioni. L’errore produce immediatamente conseguenze negative a volte pesanti come quelli connessi ad una banca generale del DNA. Rimediare preventivamente è quasi sempre impossibile. L’errore dei sistemi di sorveglianza ha un costo enorme dal punto di vista della persona normale. Ma l’errore ha anche dei costi economici diretti e indiretti: sottrae risorse che possono essere investite in altre strategie di sicurezza. La sicurezza è un processo e non un prodotto, è una catena tanto forte quanto il suo anello più debole, dice Bruce Schneier, l’inventore di uno dei più famosi algoritmi per la protezione dei dati. Al centro di qualunque attività di prevenzione e investigazione c’è l’uomo e non la macchina, la sua intelligenza, la sua capacità di distinguere ciò che è pericoloso da ciò che non lo è, la sua capacità di perseguire l’obiettivo della compressione minima dei diritti delle persone. 8.4 Lotta al terrorismo e tutela dei diritti Il vero problema di una democrazia, infatti, non è solo garantire sicurezza, ma è farlo senza tradire se stessa, è saper fronteggiare le vecchie e le nuove minacce, mantenendo fermo il primato del diritto e dei diritti. E questo vale in particolare per la sicurezza dagli attacchi terroristici. Il terrorismo internazionale si batte sicuramente con gli strumenti tecnici adeguati, ma anche con la cooperazione internazionale, con la cooperazione giudiziaria e di polizia e qui il nodo è soprattutto politico. Strumenti di cooperazione, come Europol ed Eurojust, 45 funzionano se sono il frutto di una concezione analoga di lotta al terrorismo ed alla criminalità e se sono comuni gli interessi, ma anche e soprattutto se sono comuni i valori che i paesi dell’unione vogliono difendere. Un’Europa che vuole essere qualcosa di più di “mercato e moneta” non può ignorare che non è indifferente il modello di società che vuol difendere, che i processi di integrazione comunitaria dipendono anche dalle risposte che verranno date nel rapporto tra diritti e sicurezza e tra rispetto delle identità etniche e religiose e sicurezza. Una società consapevole di questa condizione è quella che non fa confusione tra flussi migratori, che sono un fenomeno strutturale che va governato innanzi tutto con strumenti economici e sociali, e terrorismo e criminalità, che utilizzano i fenomeni migratori per il raggiungimento dei loro obiettivi, e che vanno combattuti con strumenti e strategie comuni a tutta la comunità internazionale. L’idea di scontro di civiltà favorisce, invece uno degli obiettivi strategici del terrorismo di matrice fondamentalista, e cioè l’allontanamento di qualsiasi contaminazione tra culture che devono, invece, restare diverse e lontane. Quest’idea invece che combattere finisce per rafforzare le ragioni di chi usa la violenza e la morte per conservare un mondo diviso in blocchi incomunicabili. Dunque, anche dal punto di vista della sicurezza, l’unica società in grado di neutralizzare il progetto terrorista è quella multietnica e globale, che consideri la diversità una ricchezza, la tolleranza un principio ispiratore e la legalità una necessità. Dopo l’11 settembre dagli ambienti conservatori è arrivata l’idea che per garantire sicurezza sia inevitabile un sacrificio crescente delle libertà civili. Per le società occidentali la scommessa è invece garantire sicurezza senza fare alcun passo indietro sul terreno della civiltà giuridica. Per questo la battaglia per il rispetto dei diritti fondamentali della persona, quella per la sicurezza e la legalità, in Italia e in Europa, diventa sempre di più battaglia per la difesa della qualità della nostra democrazia. 46