Storia di Collalto Sabino di Fabrizio Sebastiani

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Collalto Sabino
Alla fine del 1800 così si leggeva in una enciclopedia.
“Collalto.- Comune nella provincia dell’Umbria,
circondario di Rieti, mandamento di Orvinio.
Comprende le due frazioni di Ricetto e di San Lorenzo.
Ha una superficie di 2086 ettari.
Trovasi situato alla sommità di ameno colle, ove si
respira un’aria di sommo grado salubre e donde si gode di
un bell’orizzonte, e di una visuale pittoresca, scorgendosi da
colà circa ventiquattro paesi; giace all’estremità dell’alta
Sabina ed è l’ultimo paese della provincia Umbra in confine
colla comarca di Roma e con la provincia di Aquila”.
E’ posto alla distanza di 65 chilometri a greco da Roma,
di 51 a scirocco da Rieti e di 10 a levante da Orvinio”.
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Il giorno mercoledi 17 dicembre 1924, il giornale “Il
Mondo” pubblicava l’articolo, “Uno dei più alti paeselli della
Sabina”.
L’autore dell’articolo era Tulli Enrico nato a Collalto Sabino
il 25-4-1889 e morto a Roma il 30-9-1950.
Corrispondente del giornale “Il Tempo” e collaboratore di
altre testate, così scriveva per caratterizzare geograficamente
Collalto Sabino.
“Collalto Sabino è uno dei più alti e graziosi
paeselli della Sabina da poco ricongiunta a Roma,
appollaiato com’è sulla cima di una altura a 995 metri su
livello del mare con le sue case strette intorno al castello
medievale le cui mura e le cui torri si ergono ancora a
sfidare i venti e a dominare la campagna, a ricordare un
passato di eroismi e di lotte.
Da Collalto nelle giornate di sole lo sguardo giunge sino
al cuore della Sabina e dell’Abruzzo e abbraccia circa
trenta paesi.
Si sale a Collalto da Carsoli e per raggiungerlo debbonsi
attraversare fitte boscaglie di castani e quercie.
Di minuto in minuto mano mano che si avvicina la meta,
l’orizzonte si allarga.
Ecco a destra le cime nevose della catena di Monte
Velino; ecco a sinistra la vetta del Gennaro da cui si
domina Roma; ecco infine, per parlare soltanto dei punti
più caratteristici e conosciuti, il monte Cervia dalle falde
dirupate e prive di alberi e dietro di esso il monte
Terminillo, che ai primi freddi non tarda a incappucciarsi
di un candito manto.”
Attualmente il Comune di Collalto dipende dalla provincia di
Rieti ed è compreso nella regione Lazio.
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Le origini
Per poter collocare la storia di Collalto nel contesto
di quella Italiana, dobbiamo risalire a Carlo Magno.
Carlo Magno (742-814), Re dei Franchi, su richiesta del
Papa Adriano I (morto nel 795) invase l’Italia, occupandone il
centro
nord dopo aver sconfitto l’esercito Longobardo,
guidato da Re Desiderio (756-774), il 5 giugno del 774.
Nel 787 Carlo Magno donò al Papa Adriano I i ducati di
Viterbo e Spoleto.
Dall’unione di questi territori con il ducato di Roma,
denominato “Patrimonium Sancti Petri” (Patrimonio di San
Pietro), nacque lo “Stato Pontificio”.
Dopo questa donazione si hanno le prime notizie storiche di
Collalto (Collis Altus), che risalgono al X secolo.
Infatti Collalto nasce nel territorio del ducato di Spoleto
intorno all'anno 891 quando, per effetto delle scorrerie saracene,
le popolazioni della valle del Turano si ritirarono sui rilievi
montuosi.
Il borgo di Collalto si formò intorno alla torre
d’avvistamento o di difesa che è rimasta pressoché immutata.
Situata nel punto più alto del colle, nel tempo essa è diventata il
maschio del castello.
Il territorio molto accidentato ove è situato Collalto, ha
sicuramente influito sul suo destino storico, garantendone
sicurezza e inespugnabilità.
Nell’anno 910 il Papa Giovanni X (860-928) fece appello a
tutti i governanti “cristiani” affinché si opponessero
all’invasione saracena.
Nel giugno dello stesso anno i reatini e i sabini guidati da
Tachiprando o Archiprando di Rieti, sconfissero i saraceni nella
valle del Turano, precisamente nei pressi della città sabinoromana Trebula Mutuesca (l’attuale Monteleone Sabino).
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I saraceni subirono un’altra sconfitta a Bracciano da parte
degli abitanti delle città di Nepi e Sutri e costretti a
ripiegare verso sud, ma al Garigliano dovettero affrontare una
nuova battaglia contro un esercito formato da Sabini, Toscani,
Laziali, Spoletini e Greci (quest’ultimi governavano parte della
Puglia).
Tale esercito, capeggiato dal Papa, era coadiuvato dai
soldati dei ducati di Napoli, Gaeta e Benevento.
Dopo un duro assedio durato tre mesi, i saraceni furono
definitivamente sconfitti e i sopravvissuti alla battaglia
furono fatti schiavi.
Questa sconfitta determinò la fine dell’invasione saracena
nel centrosud d’Italia.
Nel VI secolo i Longobardi divisero l’Italia in 18 regioni che
comprendevano 36 ducati, ogni Duca poneva a comando delle
città principali, un ufficiale regio detto Castaldo o Gastaldo, il
quale governava il territorio, amministrava la giustizia,
presiedendo il tribunale, e comandava la guarnigione del
castaldato.
In origine Collalto si chiamava Castaldio, come il primo
castaldo che l’ebbe in possesso, in seguito prese il nome attuale
per la sua posizione orografica.
Il feudo cui apparteneva Collalto, era quello del Turano che
comprendeva: Collepiccolo (Colle di Tora), Castelvecchio
(Castel di Tora), Antuni, Ascrega (Ascrea), Offiano (castello
ormai diroccato), Pietraforte, Petescia (Turania), Malamorte,
etc.
XI Secolo
Nel secolo XI, a causa dell’aumento della popolazione del
borgo di Collalto, fu abbattuta la palizzata che fungeva da
recinzione e ne fu costruita una nuova in muratura con
l’aggiunta di torri, allargandone il perimetro.
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Nel secolo XI il castaldato di Collalto passò dalla
dipendenza dal ducato di Spoleto all’abbazia di Farfa.
L’abbazia di Farfa diede a sua volta il castaldato di Collalto
in enfiteusi (diritto reale in forza del quale un soggetto,
enfiteuta, esercita la signoria a tempo determinato o perpetuo,
con facoltà di successione, corrispondendo un canone in denaro
o in natura) ad un ramo dei conti dei Marsi, come lo indicano
vari documenti del cartario Farfense.
Alcuni storici sono convinti che la contea dei Marsi
comprendesse molte città ed abbracciasse l’intera provincia
Valeria ed inoltre, che Carlo Magno avesse nominato Conte
dei Marsi un suo Paladino, cui diede e conferì la contea
indipendente dal ducato di Spoleto.
I Marzi fecero di Collalto un caposaldo della loro proprietà,
perché, essendo ubicato ai confini del Regno di Sicilia con lo
Stato Pontificio, faceva di fatto parte di entrambi.
XII Secolo
Nell’anno 1122 il trattato di Worms (Germania) tra il Papa
Callisto II (morto nel 1124) e l’Imperatore del Sacro Romano
Impero Enrico V (1081-1125), sancì la fine delle lotte per le
investiture.
Con il trattato l’investitura dei vescovi tornò ad essere
prerogativa del Papa ed in cambio i possedimenti dell’abbazia
di Farfa furono ceduti all’Imperatore, il quale s’impegnò ad
essere “il difensore della chiesa”.
Così Collalto, nell’arco di un secolo, cambiò di nuovo
appartenenza; al ducato di Spoleto prima, a seguire all’Abbazia
di Farfa e per finire al Sacro Romano Impero.
Nell’anno 1153 il Papa Anastasio IV (morto nel 1154)
effettuò una visita pastorale presso tutte le chiese della zona di
Rieti.
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Dopo questa visita il Pontefice emanò una Bolla “ In
Eminenti” ove vi elencava tutte le chiese visitate, tra queste
risultava la “Pieve” ( chiesa) di Collalto, dedicata a Santa Lucia
definendola “Plebs” (parrocchia).
Inoltre fa menzione di un convento di suore dell’ordine delle
Clarisse ubicato vicino la chiesa di Santa Lucia, di cui
attualmente non rimangono tracce.
Questo
periodo
storico
collaltese
coincide con
l’avvento dei Normanni nell’Italia meridionale.
I Normanni, popolo guerriero di origini scandinave, erano
dediti a scorrerie piratesche ed a guerre d’espansione. Essi si
stabilirono nel IX secolo nel centro dell’Europa, esattamente
nella zona oggi conosciuta come Normandia, da dove partivano
per nuove conquiste.
Il Re dei Normanni, Roberto il Guiscardo, (1015-1085)
conquistò il Regno di Sicilia dopo aver sconfitto l’armata del
Papa Leone IX (1002-1053) a Civitate sul Fertone nell’anno
1053, ed in seguito subirono la stessa sorte i Longobardi, i
Bizantini, i Greci e i Saraceni (che governavano la Sicilia).
Nell’anno 1156 fu definita la frontiera politica che divideva
il territorio dei Normanni dai domini della chiesa, con
l’accordo stipulato tra il Re di Sicilia Guglielmo il Malo
(1120-1166) ed il Papa Adriano IV (1100-1159).
Il confine che divideva il Regno di Sicilia (governato dai
Normanni) dallo Stato Pontificio nella nostra zona, aveva un
andamento tortuoso e si estendeva sull’intera Piana del
Cavaliere fino al passo di Arsoli. Il confine terminava ai piedi
dei monti Sabini, mantenendo territori della Chiesa: Riofreddo,
Vallinfreda e Vivaro. All’imbocco della valle del Turano
comprendeva Poggio Cinolfo, ma escludeva Collalto e
Montagliano (o Montaliano); scavalcava quindi la dorsale
collinare che separa le valli del Turano e del Salto. Di
quest’ultima comprendeva, sul versante meridionale,
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Roccaberardi, Pescorocchiano, Macchiatimone e Varri, sul
versante settentrionale e l’intero territorio fino a Capradosso.
Nel XII secolo a Collalto, sempre in funzione
dell’aumento della popolazione del borgo, fu costruita una
seconda cinta muraria più ampia verso la valle del Turano.
Ci sono testimonianze che parlano di “uomini di Collalto”,
dei quali la storia ha tramandato i nomi: Gualtiero Oddone,
Rodolfo Gandolfo, Pandolfo di Collalto, i quali si distinsero per
il loro coraggio nelle diverse contese che opposero le varie
famiglie baronali per il possesso dei feudi.
Per riconoscenza dei servigi ricevuti dai collaltesi, i principi
normanni concessero a Collalto l’uso nello stemma, della rosa
normanna a cinque foglie arrotondate e bottone d’oro.
XIII Secolo
I collaltesi dimostrarono ancora una volta coraggio e
audacia nelle battaglie di Benevento (1266) e di Tagliacozzo
(23 agosto 1268).
Nella battaglia di Benevento si fronteggiarono gli eserciti di
Manfredi di Svevia (1232 1266), che fu sconfitto, e quello di
Carlo D’Angiò (1226-1285), fratello del Re di Francia Luigi
IX (1214-1270).
Nella battaglia di Tagliacozzo gli angioini comandati di
nuovo da Carlo D’Angiò ebbero il sopravvento sull’esercito
capitanato da Corradino di Svevia (1252-1268), Re di Sicilia e
di Gerusalemme.
Nella battaglia di Tagliacozzo parte dei collaltesi si schierò
nelle file dell’esercito di Corradino di Svevia e parte in
quelle di Carlo D’Angiò.
I collaltesi che combatterono nelle file dell’esercito
comandato da Corradino di Svevia e Federico di Baden
occuparono come milizia feudale, perciò di rango, il primo
gruppo nello schieramento sul campo di battaglia.
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I collaltesi invece che combatterono nelle file dell’esercito
comandato da Carlo D’Angiò e Francesco Brando di Valery si
posizionarono nella quarta schiera.
La battaglia fu combattuta nella località denominata Campi
Palentini, situata tra Magliano dei Marsi e Scurcola Marsicana.
Corradino di Svevia fu sconfitto determinando la fine del
dominio svevo in Italia e l’avvento di Carlo d’Angiò al trono
del Regno di Sicilia e di Gerusalemme.
Nello stesso anno (1268), dopo varie peripezie, Corradino di
Svevia fu catturato, condotto a Napoli e decapitato: aveva 16
anni.
A seguito del fallimento nel 1265 della VII Crociata, Papa
Clemente IV (inizio del XIII secolo-1268) chiamò a raccolta le
armi dell’Europa Cristiana.
Fu il Re di Francia Luigi IX (proclamato Santo dopo la sua
morte) ad organizzare e condurre, al grido “ Dio lo vuole”, la
nuova Crociata in Terra Santa, la VIII ed ultima.
Collalto che aveva stretto delle relazioni con Carlo
D’Angiò, partecipò alla VIII crociata con 86 cavalieri e 126
serventi (fanti); era l’anno 1268.
L’ottava crociata, dopo un inizio promettente, si rivelò
per i Crociati un disastro.
Fu negativamente decisivo per l’armata “cristiana” il lungo
assedio alla città di Tunisi, dove morì il Re Luigi IX con la
conseguente fine della spedizione.
E’ in questo periodo che si ha notizia della famiglia
“Collalto” (la quale acquisì il nome del borgo), che creò una
signoria territoriale, trasformatasi poi nel 1300, in baronia.
Nel periodo compreso tra il 1270 e 1280 Collalto, sotto la
guida di Gandolfo o Landolfo, primo signore del feudo,
partecipò attivamente alla politica della regione circostante.
Carlo D’angiò per punire il conte Mareri che aveva
parteggiato per Corradino di Svevia, lo spogliò di tutti i suoi
feudi e li donò a coloro che lo avevano sostenuto.
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Alla signoria di Collalto donò: Pietrasecca, Poggio Cinolfo,
Macchiatimone, Montefalcone e Rocca di Sotto.
In seguito a ciò risulta che Collalto nell’anno 1279 fu tassata
dal Regno di Sicilia per i possedimenti appena citati.
Con la donazione di Re Carlo D’Angiò a Gandolfo, Collalto
estese i confini della signoria; il feudo risultò così compreso tra
i monti Carsolani e la Valle del Salto.
Intorno al 1280 Collalto intraprese una controversia violenta
con Montagliano, antico castello con borgo, che si trovava ai
confini del suo territorio in località Ariana, ad altitudine
inferiore.
Nell’anno 1282, durante il Regno di Carlo D’Angiò, ci fu
una rivolta in Sicilia contro lo strapotere degli angioini,
ricordata dalla storia come “i vespri siciliani”, i quali furono
sostenuti dal Re Pietro III D’Aragona (1239-1285).
Il Re Carlo D’Angiò morì a Foggia il 7 gennaio 1285, gli
succedette il figlio che aveva il suo stesso nome.
L’erede al trono non poté prenderne possesso perché
prigioniero in Sicilia del Re Pietro III D’Aragona.
Carlo D’Angiò (1248-1309) fu liberato nel 1288 dopo il
trattato di Campoformio in virtù del quale agli Aragonesi venne
attribuito il Regno di Sicilia e al D’Angiò quello di Napoli, che
governò con il nome di Carlo II.
La guerra tra angioini e aragonesi riprese subito, poiché il Re
Carlo D’Angiò II volle tentare di riconquistare il Regno di
Sicilia.
Nel 1297 il Re Carlo D’Angiò II ordinò all’Alto Giustiziere
d’Abruzzo, Landolfo Franco di Capua, di cedere Collalto alla
curia Pontificia per punire il castaldo Oddone e suo fratello
Roberto, che avevano appoggiato la causa aragonese.
Relativamente a questo episodio esiste un’altra versione
storica: sembra che il Re Carlo D’Angiò II fece restituire alla
curia Pontificia da Oddone e Roberto, castaldi di Collalto, i
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castelli e le terre del Cicolano che avevano occupato
unitamente al principe Pietro Colonna e ai fratelli conti Mareri.
Collalto, trovandosi a cavallo del confine tra lo Stato
Pontificio ed il Regno di Napoli, divenne strategicamente e
militarmente importante; la zona alta del paese, quella
vicino la torre, divenne di conseguenza esclusivamente di
uso militare.
Per questa ragione ed anche perché la popolazione del borgo
era aumentata, verso la fine del XIII secolo fu necessario
costruire una nuova cinta muraria, l’attuale, sempre verso la
valle del Turano.
XIV Secolo
La guerra tra angioini e aragonesi dopo venti anni di
belligeranza, si concluse nel 1302 con la sconfitta di Carlo
D’Angiò II.
Con la pace di Caltabellotta del 1302 tra Carlo D’Angiò II e
Federico II D’Aragona (1272-1337), terminò definitivamente il
dominio degli angioini sul Regno di Sicilia e iniziò quello degli
aragonesi .
Nell’anno 1342 il sacerdote Bartolomeo De Angelis di
Poggio Cinolfo, rinunciò alla rettoria della chiesa di S. Pietro di
Bulgaretta, che con Ascrega (Ascrea) faceva parte della baronia
di Collalto sin dal secolo XII.
I fratelli Giacomo e Oduzio, signori di Collalto, diedero la
rettoria della chiesa di Bulgaretta, che era “jure patronato”
cioè di loro proprietà, ad un certo Don Angelo, il quale era già
reggente della chiesa di S. Nicola di Ascrega, anche questa
baronale.
Tra il 1300 e il 1400 a Collalto ci furono delle lotte interne,
le quali crearono una spaccatura che divise il castaldato in due
nuclei: una parte era controllata dalla contea dei Mareri
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compresa nel Regno di Sicilia, l’altra parte, come baronia,
dipendeva dallo Stato Pontificio.
Ci sono testimonianze scritte che affermano come in
quell’epoca la popolazione della baronia che si trovava nella
zona del Regno di Napoli fosse di 1322 famiglie con 6660
persone.
Aggiungendo coloro che abitavano nella zona dello Stato
Pontificio si raggiungeva la cifra di circa 10.000 persone.
Nei documenti del Regno di Napoli di quel periodo ,
Collalto era nominato come “Collaltus in Aprutio” (in
Abruzzo).
In alcuni documenti, risalenti all’anno 1355 e rinvenuti al
Vescovado Reatino, risulta che la “Baronia di Collalto” era
tassata per “le decime papali” (la tassa corrispondeva a un
decimo del reddito).
XV Secolo
Nel 1400 Collalto concluse da vincitore la controversia che
l’opponeva a Montagliano.
Ancora oggi gli anziani raccontano che Montagliano fu
completamente distrutto (Montajanni sfasciatu), cannoneggiato
dai bastioni del castello di Collalto.
La versione degli storici però sulla “distruzione” di
Montagliano, si distacca di molto da quella appena raccontata e
che è arrivata sino a noi come leggenda.
Da fonti storiche risulta che Montagliano non fu distrutto dai
collaltesi ma abbandonato spontaneamente e da quell’esodo
nacque un nuovo borgo nella baronia di Collalto; San Lorenzo.
Infatti il declino, con relativo abbandono del borgo, era
cominciato già prima della sua cessione in enfiteusi da parte
del principe Colonna al principe Orsini nell’anno 1437.
Dopo pochi anni dalla cessione si ha notizia del completo e
definitivo abbandono di Montagliano.
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La popolazione rimasta si trasferì a Collegiove, a S. Lorenzo
e a Collalto.
Il 15 giugno 1440 Antonuccio e sua sorella Vannozza,
signori di Collalto e figli di Oddone, vendettero , a causa di
problemi finanziari, Ascrega al conte Cola Mareri, la cui
famiglia già controllava i castelli di Rigatti, Marcetelli ed altri
nell’alta Sabina.
Essendo Collalto baronia soggetta alla giurisdizione del
Sacro Romano Impero, i due fratelli dovettero chiedere il
consenso per la vendita all’imperatore Alberto V D’Asburgo
(1397-1439).
Il consenso giunse attraverso un documento rilasciato a
Buda (Ungheria) il 14 ottobre 1439; esso conteneva la clausola
che Ascrega restasse feudo imperiale e fedele all’Imperatore.
Questa notizia, che per altro è documentata, lascia qualche
perplessità poiché fino a poco prima del 1440, il signore di
Collalto era Ludovico, Gaspare invece era il suo successore.
Il documento che attesta questa notizia è un codicetto
reatino redatto dal notaio della baronia Cola, che era anche
vicario del signore di Collalto.
Nel Diritto Romano il “codicetto” indica un tipo di
testamento che non è vincolato dal sistema di successione.
Da documenti redatti dal notaio Cola, risulta che Collalto
aveva giurisdizione su: Nespolo, Ricetto, San Lorenzo,
Collegiove, Paganico, Spanisco (Ospanisco), Villa Pacis (Pace),
Maclatemone (Macchiatimone), Civitella e Bacharecia
(Baccarecce).
Nel 1464 la famiglia Collalto perse la baronia a causa della
ribellione di Battista a Ferdinando I (1430-1494) Re
D’Aragona, di Sicilia e di Napoli.
Nell’anno 1499 Federico I D’Aragona (1451-1504), per
riconoscenza dei servigi ricevuti, donò la baronia di Collalto ai
fratelli Antimo e Ludovico figli di Cristoforo Savelli.
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Sul finire del XV secolo la famiglia Savelli, già feudataria di
Poggio Cinolfo, Tufo e Tonnicoda, cominciò a spadroneggiare
sulla popolazione di Collalto.
In questo periodo, per contenere lo strapotere dei Savelli e
difendere i diritti ottenuti nei secoli dai vari feudatari, si formò
la “Magnifica Comunità” di Collalto, costituita da un
consorzio di settantatre famiglie.
La Magnifica Comunità era costituita da una “Camera
super Barones”, composta dai rappresentanti di settantatre
famiglie chiamati i “Magnifici Priori”, capeggiati da un
“Governatore” che rimaneva in carica per sei mesi.
Veniva eletto inoltre il “Massaro” o “Depositario”, che
aveva l’autorità di rogare atti con la mansione di “pubblico
notaro”.
La Magnifica Comunità gestiva con il barone, la baronia.
XVI Secolo
Antimo Savelli partecipò a Roma nel 1511 con il principe
Pompeo Colonna, alla rivolta contro la Chiesa scaturita dalla
falsa notizia della morte di Papa Giulio II (1443-1513).
La rivolta fallì e Antimo Savelli fu costretto a fuggire da
Roma, raggiunse l’Imperatore del Sacro Romano Impero, Re
di Sicilia e di Napoli Carlo V (1500-1558), cui chiese e dal
quale ottenne aiuto e protezione, finendo per essere arruolato
nell’esercito imperiale.
Anni dopo Antimo Savelli, che si era distinto al servizio
dell’Imperatore Carlo V, ricevette da questi alcuni feudi in
Abruzzo: Pescorocchiano, Castelmenardo, Macchiatimone,
Roccaverruti e Leofreni.
Alcune fonti storiche invece indicano il figlio di Antimo,
Onorio, come beneficiario della donazione.
Nel 1555 era in atto una guerra che contrapponeva il
Pontefice Paolo IV (1476-1559) a Filippo II D’Aragona (152713
1598) Re di Sicilia e di Napoli; il barone Ludovico Savelli
che parteggiava per quest’ultimo raggruppò le sue truppe a
Collalto per prepararsi a sostenere la causa.
Il principe Fabio Colonna, anch’esso dalla parte degli
spagnoli, a causa d’intrighi interni alla sua alleanza, fu indotto a
sospettare che il barone Savelli avesse concordato
un'intesa segreta con il Pontefice.
Il barone Savelli, saputo il fatto, decise di distaccarsi dalle
truppe dei Colonna di cui era alleato e marciò, a capo del suo
esercito, contro tale capitano Moles, suo accusatore, il quale si
trovava nella città di Celle l’attuale Carsoli (Celle assunse il
nome di Carsoli il 31 gennaio 1608).
Dopo circa otto giorni di combattimento, all’arrivo di cento
archibugieri provenienti dal presidio dell’Aquila mandati in
aiuto del Moles dal principe Fabio Colonna, il barone Savelli
dovette abbandonare il campo di battaglia e fare ritorno a
Collalto.
Con atti di vendita datati 1555 e 1558, Cristoforo Savelli
cedette al fratello Ludovico parte della baronia di Collalto
comprendente i castelli di Castelmenardo, Pescorocchiano,
Pietrasecca, Macchiatimone, Rocca Veruta, Tonnicoda,
Leofreni, Tufo e Poggio Cinolfo.
Così la baronia di Collalto risultò divisa in due, quella di
Cristoforo Savelli, sotto lo Stato Pontificio, quella di
Ludovico Savelli, sotto la giurisdizione del Regno di Napoli;
questi avvenimenti coincisero con la definizione dei confini tra i
due Stati.
La divisione della baronia chiuse per Collalto un periodo di
doppia dipendenza, dallo Stato Pontificio e Sacro Romano
Impero da una parte e dal Regno di Napoli dall’altra.
Nel 1564 Cristoforo Savelli, a causa degli ingenti debiti
contratti, vendette al suocero Roberto Strozzi per 18.000 scudi,
la baronia comprendente Collalto, Collegiove, Nespolo,
Paganico, Ricetto e San Lorenzo.
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Roberto Strozzi era figlio del famoso banchiere fiorentino
Filippo e fratello di Piero che fu esponente di primo piano
nell’opposizione al regime tirannico dei Medici.
Il primo restauro del castello di Collalto fu effettuato da
Roberto Strozzi che, dopo precoce morte, lasciò la baronia in
eredità al figlio minore Leone.
Maddalena, rimasta vedova di Roberto Strozzi, vendette il
24 gennaio 1568 la baronia di Collalto per conto del giovane
figlio Leone, per la stessa somma con cui era stato comprato,
ad un altro nobile fiorentino Alfonso Soderini.
Costui, esule da Firenze a causa dell’ostilità dei Medici, era
provvisto di consistenti capitali.
Nella seconda metà del XVI secolo, Alfonso Soderini fece
ristrutturare il palazzo baronale in occasione del matrimonio di
un membro della sua famiglia con una dama della nobile
famiglia Mattei.
Il restauro conferì al castello le caratteristiche generali
esterne che si possono ammirare ancora oggi.
Il Soderini fece apporre lo stemma “partito” con le armi della
sua famiglia e dei Mattei, sulla porta d’ingresso al salone del
castello e sull’altare della chiesetta di Santa Maria, ubicata in
località “Vapinciuni” (Valle Pincioni), ove avvenne la
cerimonia religiosa.
Inoltre trasformò la rocca sovrastante il palazzo, in fortezza
d’artiglieria munita di un volume di fuoco eccezionale per
l’epoca, rendendola imprendibile, ad indicare un complesso
progetto militare, che andava oltre la semplice difesa della
residenza baronale.
Collalto, a coronamento di un periodo di mutamento delle
funzioni politiche e della configurazione territoriale della
baronia, in questa nuova realtà assunse un ruolo di maggior
rilievo anche per il fatto di trovarsi nella zona di confine dello
Stato Pontificio.
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Nel 1561 si ha notizia di una visita pastorale del Vescovo di
Rieti alla chiesa parrocchiale di Collalto, dedicata a S. Gregorio
Magno (Papa santo nato nel 540 e morto nel 604).
La chiesa di S. Lucia, sino ad allora parrocchia,
presumibilmente fu declassata e rimase solo per le
tumulazioni, anche perché ubicata lontano dalle mura baronali,
mentre quella di S. Gregorio situata all’interno di esse era
stata realizzata modificando il granaio del castello.
Nell’anno 1564 si ha notizia di un certo Latino Ciabatente
(soprannome), della famiglia Latini, fiduciario del barone e
dotato di un buon patrimonio fondiario.
La famiglia Latini ebbe gran rilievo nel settecento e
ottocento nella società di Collalto: a loro nome risultavano gran
parte dei terreni della baronia.
E’ alla fine del 1500 che la Magnifica Comunità di Collalto,
costituitasi alla fine del 1400, fu riconosciuta legalmente come
potere civico.
XVII Secolo
Nei primi anni del 1600 iniziò una controversia tra la
Communità di Petescia, appartenente al feudo di Canemorto
(Orvinio) retto dalla famiglia Muti, e quella di Collalto dei
Soderini, per questioni di confine.
La Communità di Petescia asseriva che il territorio di loro
competenza finiva oltre il fiume Turano verso Collalto,
mentre i Soderini ritenevano che proprio il fiume rappresentasse
il confine naturale.
Nell’anno 1615 Collalto contava 360 abitanti, San Lorenzo
130, Nespolo 450, Ricetto 260 e Collegiove 360.
Nel 1632 la famiglia Muti scambiò il feudo con quello
del principe Marc’Antonio Borghese.
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La famiglia Muti divenne proprietaria del feudo di Rignano
(Viterbo), mentre al principe Borghese andò quello di
Canemorto.
Nel frattempo la controversia tra le baronie era degenerata, i
“terrazzani” (contadini) collaltesi avevano costruito delle
palizzate per difendere i confini.
Durante la notte tali palizzate venivano spostate e con esse i
confini della baronia, a discapito dei petesciani.
A difesa del loro “possedimento” i collaltesi avevano per
giunta sparato colpi di archibugio uccidendo e ferendo dei
petesciani.
A tal proposito citiamo una testimonianza tratta da atti
giudiziari.
“Di quanto V.S. mi dimanda li posso dire per la verità
come hieri stando con Virgilio di Santo di Pietraforte e
Santo suo figlio e con Valerio di Petescia, mentre stavamo a
riponere il pesce in territorio di Petescia, che avevamo
pescato, all’improvviso dalla parte di dietro vennero a
dosso da sette a otto persone armate di archibugio e di
pugnali, et uno di essi che credo fosse lo sbirro si mise al
dosso al detto Virgilio di Santo al quale dette molte spontate
di archibugio per tutta la vita al peggio, con apparizione di
sangue e rottura di carne e di più si levorno, il pesce, che
preso fu in detto fiume di Petescia, le reti e i panni di detto
Virgilio, con braccare e sforzature di volerlo menare in
prigione. Li percotitori erano di Collalto.”
Deposizione di Antonio Valentini
Durante il papato di Urbano VIII Barberini (1568-1644)
furono soppressi i monasteri di: S. Angelo di Cervia e S.
Giovanni in Fistola.
Il monastero di S. Giovanni in Fistola era ubicato sul monte
omonimo a nord di
Collalto; a testimonianza di ciò
rimangono i ruderi ed una chiesetta che fu restaurata l’ultima
17
volta presumibilmente nel 1920 e che, ancora intorno al 1960,
era meta di pellegrinaggio.
Attualmente la chiesetta, ormai sconsacrata, si presenta
fatiscente ed è spesso utilizzata come ricovero di ovini.
Nell’anno 1636 il principe Borghese, pressato dai petesciani
esasperati, citò in giudizio Collalto presso il tribunale di Rieti
per “risolvere una volta per tutte” la questione dei confini.
Erano anni in cui tutto doveva venire dalla terra, quindi
occorreva difenderla con tutti i mezzi; purtroppo occorreranno
molti anni per risolvere la controversia.
Nel 1629 Nicola Soderini, succeduto ad Alfonso, era
talmente coperto di debiti che la Camera Apostolica fu
costretta ad assumere l’amministrazione della baronia a
tutela dei creditori.
Tra gli anni 1635-1640 la Camera Apostolica mise all’asta il
castello per liquidare i creditori.
Il 23 maggio 1641 vinse la gara d’asta, in competizione con
il principe Marc’Antonio Borghese, tale Giovan Battista
Honorati di Jesi
offrendo 102.000 scudi, nella forma
“dell’aggiudicazione per persona da nominare”.
Dopo la gara d’asta si seppe il nome del compratore, il
cardinale Francesco Barberini, nipote del Papa regnante Urbano
VIII, il quale si affrettò ad autorizzare la vendita in data 31
maggio 1641.
Il cardinale Barberini comprò il castello “non come
proprietà ecclesiastica ma come privata persona”, quindi il
31 maggio 1641, la baronia entrò a far parte del patrimonio
della famiglia Barberini.
Nell’atto di vendita del castello sono indicati
complessivamente la natura e l’estensione
dei
diritti
baronali; essi consistevano, oltre che nel possesso del territorio,
degli insediamenti e dei titoli, anche in estesi poteri
giurisdizionali e diritti signorili con “facoltà di ordinare,
comandare, imporre ed esigere qualsivoglia imposizione,
18
dazi, gabelle, risposte, servizi, pesi pecuniari, reali e
personali”.
Nell’atto di vendita non si fa menzione dello “jus primae
noctis” che era un “diritto” della nobiltà dell’epoca.
Il cardinale fece restaurare completamente ed abbellire
il castello.
Secondo quanto ha lasciato scritto un frate del Convento di
S. Francesco di Poggio Cinolfo, le stanze del palazzo baronale
erano rivestite di preziosissimi marmi; il salone aveva il soffitto
ornato con api d’oro (l’ape si trova nello stemma dei
Barberini)
e
il pavimento era ricoperto da un mosaico
raffigurante l’incendio di Troia.
Le pareti erano impreziosite da arazzi della manifattura
Barberini e da armature ed armi riccamente istoriate.
Nell’anno 1644 Collalto aveva 390 abitanti divisi in 65
famiglie.
Nel 1655 il cardinale Francesco Barberini acquistò da
Tommaso Mareri, il territorio comprendente il paese di
Marcetelli per la somma di 25000 scudi.
I nuovi possedimenti permettevano di esercitare nuovamente
un più esteso controllo, lungo il confine con il Regno di Napoli.
Nel 1662 Maffeo Barberini principe di Palestrina, nipote del
cardinale Francesco, acquistò dagli eredi di Pompeo Colonna
principe di Gallicano, tutti i beni da lui posseduti nel Regno di
Napoli, tra cui la contea dei Mareri.
Quando il principe Maffeo ereditò la baronia di Collalto,
sotto il suo dominio si ricostruì quella unità territoriale in
un'unica signoria delle valli del Salto e del Turano, che era
stata essenziale alle origini della baronia, anche se tale stato
di cose ebbe come effetto una maggiore coesione patrimoniale
e proficue opportunità economiche piuttosto che una migliore
gestione politica e strategica della frontiera.
19
XVIII Secolo
Nel 1705 Urbano Barberini principe di Palestrina, titolare
della baronia di Collalto, ancora una volta per debiti (causa
molto ricorrente), cedette la baronia ad un fratello, cardinale
Francesco, per una cifra dimezzata rispetto a quella pagata per
l’acquisto sessant’anni prima.
Il cardinale Francesco Barberini ebbe un ruolo importante
nella storia del castello di Collalto giacché fece eseguire, sia
nella fortezza che nel palazzo, lavori di riattamento e
miglioramento che sono ancora evidenti e caratterizzano
l’aspetto attuale.
La contabilità del cardinale (tenuta in un libro apposito e
utilizzato nel 1710 fino al
1738, anno della sua morte),
registrava pagamenti eseguiti fin dal 1709, quando fu collocata
la scala a chiocciola nel maschio della rocca e fatta fondere la
campana per l’orologio collocato sul piccolo edificio che ancora
la sostiene.
Da allora e fino al 1714 i pagamenti per le opere nella rocca
si successero con regolarità ed erano destinati ai Maestri di
scalpello Giacomo Panizzola, Giovan Battista Rainaldi; e
Francesco Sommaruchi che lavorò più a lungo degli altri, in
qualità di capomastro muratore.
Dal 1712 i lavori si estesero al palazzo. Fin dall’inizio essi
furono diretti e controllati dall’architetto romano Giulio
Domenico Contini e occasionalmente anche dal padre Giovan
Battista, che già lavorava per i Barberini a Roma.
Sfortunatamente non è possibile dire quali interventi vennero
realizzati, perché le notizie in tal senso si sono perse.
I lavori di scalpellino dovettero almeno in parte riguardare
gli elementi in pietra della rocca con sopraincisa l’ape, stemma
dei Barberini, ma come si è detto non è possibile individuare, in
base alla documentazione contabile, quali opere murarie furono
eseguite.
20
L’epigrafe, datata 1712 e fatta porre dal cardinale Francesco
sopra l’arco di accesso al cortile interno del palazzo insieme
all’ape che decora la volta dell’androne d’ingresso, fa
presumere che in quel periodo i lavori si concentrassero in
quella zona; è documentata anche la fornitura di tegole,
mattoni e piastrelle prodotte a Petescia e la posa in opera di
lastre di piombo nella rocca.
La somma complessiva pagata, come si desume dalle
registrazioni
eseguite dall’anno 1709 all’anno 1714,
ammonta a circa 1060 scudi, ma forse tale somma non
indica la spesa effettivamente sostenuta.
I lavori mostrano comunque che l’interesse militare nella
baronia non era venuto meno; la rocca ospitava
una
guarnigione permanente che, nei primi tempi del governo del
cardinale Francesco, era composta da quattro soldati, un
sergente, un tamburino, un corriere e un bargello (comandante
di polizia) con uno sbirro (poliziotto), tutti stipendiati dal
prelato.
Il comando era affidato a un castellano che, per l’intero
periodo del possesso da parte del Cardinale Francesco, fu
Giuseppe Morena.
Costui in qualità di castellano ricopriva vari incarichi di
fiducia ed era responsabile dell’ordine pubblico.
Il cardinale Barberini si
preoccupava
anche
dell’equipaggiamento militare; nel 1710 fu registrato
il
pagamento di 13 dozzine di bottoni di ottone per giustacuori
destinati ai soldati di Collalto; più sostanziali gli acquisti di
armi, tra cui quattro cannoni di bronzo, poi posizionati sui
bastioni nel 1721.
Il cardinale dispose anche l’addestramento di una sorta di
milizia civica di Collalto, che doveva fare servizi di guardia agli
ordini del castellano.
Che la baronia dovesse trovarsi nella imminenza di
combattere lo si deduce dal repentino aumento del numero dei
21
soldati che divennero 25 nel dicembre del 1737, 44 con quattro
caporali nel gennaio dell’anno seguente, per toccare il numero
di 53 nell’aprile, e diminuire poi gradualmente fino ad una
trentina negli anni successivi.
L’allarme è probabilmente connesso con le vicende di
Napoli, dove appunto nel 1734 Carlo di Borbone (1716-1788)
andò a conquistare militarmente il regno, che poi governò con il
nome Carlo VII, sottraendolo agli Austriaci che lo avevano
governato per poco tempo.
Resta con ciò confermata la posizione di piazzaforte di
frontiera rivestita dalla rocca di Collalto.
Una notizia che risale al 1738 dà la misura
dell’attenzione che il cardinale Barberini dedicava alle funzioni
militari del paese.
Da un documento risulta che “la terra di Collalto era stata
ampliata in foggia di fortezza con nuova fabbrica
dal cardinale”, ciò solleva il dubbio che non solo la rocca, ma
anche l’abitato (la terra) fosse stato fortificato.
Anche la ristrutturazione del palazzo residenziale è
significativa, poiché lascia supporre l’intenzione di utilizzarlo
per i soggiorni del cardinale barone.
Nel 1793 finalmente si concluse la controversia sul confine
iniziata nel 1636 tra Collalto e Petescia.
Il Tribunale di Rieti con una sentenza stabilì infatti che il
confine che divideva i due paesi si trovava oltre il fiume
Turano, verso Collalto.
Si rese così giustizia al Principe Borghese e ai petesciani, chi
ne subì le conseguenze furono i terrazzani dei due feudi che per
157 anni si esasperarono a vicenda innalzando palizzate,
tagliando alberi o distruggendo i raccolti.
Alla fine della disputa si contarono 14 persone tra morti e
feriti.
22
Le spese che si affrontarono in quei 157 anni sicuramente
superarono il valore dei terreni ma a volte “Vale più un gusto
che un casale”, come recita un vecchio detto della zona.
Nel 1789 la Francia fu teatro della “Rivoluzione” che sancì
la fine del medioevo,
La trasformazione dello Stato francese da Monarchico a
Repubblicano determinò uno sconvolgimento che segnerà una
svolta nella storia dell’umanità.
Nella primavera del 1796 Napoleone Bonaparte (17691821), al comando dell’esercito di spedizione francese
denominato Armeè d’Italie, varcò le Alpi, occupò il nord
dell’Italia fino a Bologna ed invase parte dello Stato Pontificio.
Fallito il tentativo di armistizio con il Papa Pio VI (17171799),
il primo febbraio 1797, Napoleone invase i restanti
territori dello Stato Pontificio sbaragliandone l’esercito con
facilità, ma evitò di occupare Roma per non umiliare il
Pontefice.
Il 19 febbraio 1797, Napoleone concluse con il Papa
la pace di Tolentino, che sancì l’annessione di Avignone e
del ducato di Vanessino alla Francia.
Mentre Bologna, Ferrara e la Romagna furono cedute
alla Repubblica Cispadana.
In realtà la Repubblica Cispadana, nata nell’ottobre 1796,
già comprendeva la Romagna, Bologna e Ferrara.
Il parlamento della Repubblica Cispadana, che si era riunito
a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, tenne a battesimo il tricolore
Italiano.
Il deputato Compagnoni decretò “Che si renda universale
lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde,
Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella
Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti”.
Il 29 giugno 1797 nasceva la Repubblica Cisalpina che, il 9
luglio dello stesso anno, annesse la Repubblica Cispadana.
23
Nel 1797, a Roma durante una dimostrazione organizzata dai
giacobini romani, poi degenerata nella violenza, la cavalleria
papalina intervenne per riportare la calma.
Durante gli scontri che ne seguirono ci furono delle vittime
tra cui un generale dell’esercito Francese, L. Duphot.
A causa di questi eventi, l’11 gennaio 1798, il generale
Berthier, che era succeduto a Napoleone al comando
dell’Armeè d’Italie, mosse dalla Lombardia verso sud con il suo
esercito seminando terrore e operando saccheggi (come era
d’abitudine).
Il 10 febbraio, arrivato alle porte di Roma, si accampò in
attesa di sferrare l’attacco, ma il 15 febbraio la città capitolò e
venne occupata senza colpo ferire.
Il 15 febbraio 1798 con “l’Atto del popolo Sovrano libero e
indipendente” nasceva la Repubblica Romana, tenuta a
battesimo dai giacobini romani che in verità erano in numero
esiguo, appena 300.
Dopo l’instaurazione della Repubblica, il 17 febbraio 1798 il
Papa Pio VI fu arrestato e mandato in esilio a Valence in
Francia e qui, ormai ottantenne e di salute cagionevole, morì il
29 agosto 1799 senza più far ritorno a Roma.
Il governo d’occupazione francese divise lo Stato Pontificio
in otto Dipartimenti o Province: Tevere (con capitale Roma),
Cimino (Viterbo), Circeo (Anagni), Clitunno (Spoleto),
Metauro (Senigallia), Musone (Macerata), Trasimeno (Perugia)
e del Tronto (Fermo).
Uno dei primi atti del governo francese, che segnò l’inizio
della fine dei feudi, fu quello di cancellare i previlegi
feudali nella valle del Turano.
Con una lettera datata 4 brumaio, l’edile (magistrato)
Giovanni Latini comunicò al Ministro delle Finanze del
Dipartimento De Rossi, l’occupazione di Collalto da parte di
una compagnia di genieri dell’esercito francese, forte di 500
uomini.
24
Brumaio è terminologia del calendario istituito in Francia il
22 settembre 1792, nascita della Repubblica e coincide con il
giorno successivo al vero equinozio d’autunno, rimasto in
vigore fino al primo gennaio 1806.
I nomi dei mesi conosciuti vennero sostituiti con quelli che
erano in relazione alle caratteristiche specifiche legate alla
meteorologia e all’agricoltura: Vendemmiale (22 settembre 21
ottobre), Brumaio (22 ottobre 20 novembre), Frimaio (21
novembre 20 dicembre), Nevoso (21 dicembre 19 gennaio),
Piovoso (20 gennaio 18 febbraio), Ventoso (19 febbraio 20
marzo), Germinale (21 marzo 19 aprile), Floreale (20 aprile 19
maggio), Pratile (20 maggio 18 giugno), Messidoro (19 giugno
18 luglio), Termidoro (19 luglio 17 agosto) e Fruttidoro (18
agosto 16 settembre). I rimanenti cinque giorni vennero
chiamati “complementari”.
Il mese era diviso in decadi, i giorni erano trenta e si
chiamavano; primodì, secondodì, terzodì, quartodì,
quintodì….….decadì, etc.
Nel nuovo calendario furono completamente aboliti i Santi,
le ricorrenze religiose e le domeniche ed al posto di
quest’ultime vennero istituite feste patriottiche.
Tornando all’occupazione di Collalto, i soldati francesi si
presentarono al popolo collaltese con l’ordine scritto dal
Principe Barberini di consegnare loro la fortezza.
Cosi’ i soldati napoleonici occuparono Collalto senza colpo
ferire e fu l’inizio del periodo più buio per il castello.
I “genieri” lo depredarono di tutte le migliorie che i
Barberini avevano apportato: arazzi, armature, mosaici, marmi
e rivestimenti dei soffitti, il tutto venne spedito in Francia.
La fortezza fu smantellata e l’opera costò scudi 67,99,
come si legge nel documento ove sono riportate le spese
straordinarie sostenute in quell’anno dalla Comunità di Collalto.
25
Fu durante la prima Repubblica Romana che vennero
asportati e trasferiti a Roma i cannoni dalla fortezza di Collalto:
era l’anno 1798.
L’ordine di requisizione venne dal generale transalpino
Communeau, comandante di piazza, per evitare che i cannoni
finissero in mano agli insorti papalini.
La quantità dei cannoni non è certa: alcuni ricercatori storici
affermano che il numero ammontasse a 36.
In quegli anni di radicali cambiamenti, vi furono persone che
approfittarono della loro posizione per tornaconto personale; la
giustizia non era sempre ben servita, i magistrati non sempre
davano esempio di rettitudine e le ingiustizie erano all’ordine
del giorno.
Non solo i magistrati erano scorretti verso il popolo, ma le
stesse Autorità spesso non pagavano le somme ai privati
cittadini per i servigi resi; come avvenne a Luigi Di
Giovannantonio, o Di Giannantonio, di Collalto, che fu
costretto a chiedere giustizia.
Il querelante reclamava il pagamento di otto mazzi di corde
“folignate” e di due corde grosse “ossia canapi di mezza
fattura” usate per trasportare a Roma i cannoni asportati dalla
fortezza di Collalto per ordine del Generale Commeneau
“….ordinò la scuarnizione della fortezza di Collalto e
condurre li canoni in Roma e ordinò a molti il portare delle
corde per detto straporto…”.
Come la vicenda finì non è dato sapere; se al malcostume
imperante aggiungiamo la esosità delle richieste dell’esercito
Francese, che pretendeva dalle popolazioni sottomesse tutto
l’occorrente per il proprio esercito (vestiario, armi, derrate),
l’imposizione
dei tributi divenuti particolarmente pesanti,
risulta evidente il malcontento generale e il conseguente
rimpianto del tempo in cui c’era il Papa Re.
Libertè, Egalitè e Fraternitè le tre parole che stavano
cambiando il mondo, in Italia, per i fatti citati, di certo non
26
furono applicate ed onorate dall’esercito francese che ne era il
preteso ambasciatore.
Il 27-11-1798 le truppe borboniche del vicino Regno di
Napoli, di cui era Re Ferdinando IV (1759-1816) di Borbone,
marciarono su Roma e la liberarono.
La reazione delle truppe francesi fu immediata e vincente su
i borbonici, con il conseguente ripristino dei confini, ma
quest’azione servì ad unire i sudditi del Papa in una aperta
avversione per i repubblicani.
Nei primi mesi del 1799, quando la prima Repubblica
Romana (15 febbraio 1798-19 settembre 1799) aveva ormai i
giorni contati e l’esercito francese vacillava sotto i colpi delle
milizie borboniche al sud e dell’esercito austriaco al nord,
alcuni collaltesi presero parte attiva in un’azione di guerriglia.
Essi infatti si unirono
ai briganti, assoldati dal Re
Ferdinando IV e giunti numerosi dal vicino Regno di Napoli.
Insieme occuparono Castelvecchio (Castel di Tora),
Collepiccolo (Colle di Tora) ed Antuni.
Innalzando poi sui tre paesi la bandiera della rivolta,
sperando che il moto rivoluzionario si estendesse.
La reazione dell’esercito francese fu immediata e violenta,
una colonna di truppe partì da Rieti e liberò i tre paesi.
Era la fine di aprile, i francesi per rappresaglia
saccheggiarono Antuni, ritenuto l’unico paese che aveva
appoggiato i briganti.
Il 19 settembre 1799 i repubblicani romani e i francesi
furono sconfitti dalla coalizione dell’esercito borbonico e
austriaco.
Morto in esilio Papa Pio VI il 29 agosto 1799 i cardinali si
riunirono in conclave a Venezia. I borbonici approfittarono
dell’occasione e occuparono Roma.
Il 14 marzo 1800 fu eletto il nuovo Papa, Pio VII (17421823) il quale fece ritorno a Roma il 3 Luglio 1800 riprendendo
possesso della città.
27
XIX Secolo
Il giorno 11 Aprile 1803 la guarnigione francese abbandonò
Collalto, come si rileva da un atto di consegna della fortezza da
parte dell’ufficiale del genio Chabrix, al castellano cittadino
Antonio Palma.
Il 21 ottobre 1805 la flotta francese fu sconfitta a Trafalgar
per opera di quella inglese, guidata dall’ammiraglio Nelson.
Napoleone, avendo di fatto conquistato quasi tutta
l’Europa, tentò la carta dell’isolamento dell’Inghilterra per
costringerla alla resa, instaurando l’embargo e imponendo
l’adesione anche a tutti gli altri stati europei.
Poiché Roma si rifiutava di obbedire alla Francia, Napoleone
nel 1808 ne ordinò nuovamente l’occupazione.
L’esercito che difendeva Roma fu sconfitto e il 17 maggio
1809, con un decreto Imperiale, quel che rimaneva dello Stato
Pontificio fu annesso all’Impero francese.
L’ex Stato Pontificio fu scisso di nuovo, questa volta in due
Dipartimenti: il Trasimeno e il Tevere, ognuno dei quali era
diviso in Circondari (Capoluoghi).
Il Dipartimento “Tevere” aveva come Circondari: Roma,
Tivoli, Velletri, Viterbo, Frosinone e Rieti.
Il Circondario era ulteriormente diviso in Mandamenti o
Cantoni; Rieti ne aveva nove: Narni, Poggio Mirteto, Monte
Leone, Torri, Canemorto (Orvinio), Stroncone, Castel Vecchio
(Castel di Tora) e Magliano.
Il mandamento di Canemorto governava i Comuni di
Collalto con 1695 abitanti (comprese le frazioni), di Marcetelli
con 1915 abitanti, Petescia (Turania) con 1861 abitanti e
Pozzaglia con 912 abitanti.
La notte fra il 5 e il 6 luglio del 1809, con un “blitz”,
l’esercito francese, agli ordini del generale Miollis, occupò
28
il Quirinale, arrestò il Papa Pio VII e lo deportò prima in
Toscana, poi a Savona ove rimase fino al 1812.
L’arresto del Papa causò a Napoleone una forte
impopolarità; tra i cittadini si diffuse malcontento e un profondo
senso di risentimento.
I francesi iniziarono una vera e propria persecuzione contro
il clero e coloro che ricoprivano cariche pubbliche.
Tutti furono costretti ad un giuramento la cui la formula
era “Io giuro obbedienza alle
leggi, alla costituzione
dell’Impero e fedeltà all’Imperatore”.
Molti preti , frati e monache, per ossequio ed obbedienza al
Papa, rifiutarono il giuramento; come conseguenza subirono la
deportazione e la confisca dei beni.
Dei 31 Vescovi del dipartimento Tevere, 17 si rifiutarono di
giurare ed essendo alti prelati, le pene furono più severe, oltre la
confisca dei beni, vennero deportati in Francia ed in alcuni casi
subirono la condanna a morte per mezzo della ghigliottina.
I parroci di Nespolo e di Ricetto, Don Alfonso Latini e Don
Testa si rifiutarono di giurare e ne subirono le conseguenze,
mentre quello di Collalto accettò di sottomettersi al volere
francese.
Il 7 maggio 1810, Napoleone fece sciogliere tutti gli ordini
religiosi dei dipartimenti Tevere e Trasimeno.
Nell’anno 1810 fu istituita dal governo Francese la leva
militare, a partire dai giovani nati nel 1789.
I soldati da arruolare erano in proporzione al numero
della popolazione, il cantone di Castelvecchio, che aveva 6954
abitanti, arruolò nel 1812, 14 soldati.
Nel 1811 il sottoprefetto di Rieti così scriveva, a proposito di
Collalto: “ E’ questa una delle comuni più povere di tutto il
circondario.
Dei nudi sassi, delle selve, e piccoli tratti di sterile terreno
formano il patrimonio.
Essi non hanno né strade, né commercio, né industria,
29
né risorse.
Chiusi tra mezzo alle gole di alcuni monti conosciuto
sotto il nome di baronia di Collalto, bloccati per una gran
parte dell’anno dentro le loro case dai ghiacci e dalle nevi,
essi menano una vita disgraziata, che sostengono con uno
scarso alimento di castagne e di formentone (polenta)”.
Nel 1811, anche se il sistema feudale non esisteva più, i
rapporti dell'amministrazione comunale con l’allora barone, il
principe Carlo Barberini, figlio secondogenito di Urbano, erano
buoni, e in merito a ciò non può sfuggire la menzione di un
episodio particolare; la parrocchia di S. Gregorio non avendo i
soldi per comprare la campana richiese ed ottenne in prestito
quella del castello.
Dopo la sconfitta di Napoleone (6 aprile 1814) Collalto
tornò al ricostituito Stato Pontificio retto allora da Papa Pio VII,
ed il principe Barberini ridivenne proprietario del castello,
ridotto al solo edificio dopo il saccheggio dei francesi.
Dopo il ritorno al potere, Papa Pio VII concesse a Collalto
ed altri paesi in difficoltà finanziarie, l’esenzione della tessa sul
macinato.
Nel novembre 1817 ci fu un riordinamento dell’assetto
territoriale della delegazione di Rieti (per questa ragione la
città venne creata provincia di III classe); Collalto, con i suoi
424 abitanti, fu considerato uno dei sei mandamenti retti
ciascuno da un governatore.
Il governatore esercitava la sua giurisdizione su un gruppo
di Comuni, retti da un Priore o Podestà.
Il Podestà aveva giurisdizione sul paese e sulle frazioni, ed
era coadiuvato da un “consiglio” cui furono chiamati a far
parte cittadini di ogni ceto sociale.
Il governatore di Collalto era il principe Barberini ed
estendeva la sua autorità alle frazioni di S. Lorenzo, Ricetto,
Nespolo e Collegiove.
30
Fino al 13 dicembre 1817 i baroni succedutesi nel tempo a
Collalto avevano esercitato sull’intero territorio tutti i diritti
feudali.
Questi consistevano in diritti sul pascolo invernale, sul
“ghiandatico” (l’utilizzo delle ghiande per il bestiame da parte
della popolazione) su tutti i terreni della baronia; su un
contributo di 10 scudi annui, da parte di ciascun paese, a titolo
di “pagarelle” e di 12 scudi ogni sette anni a titolo di “calcara”,
(l’autorizzazione per cavare pietre destinate a produrre calce).
Non potevano essere stipulati contratti di compravendita
senza la licenza del principe, al quale doveva essere corrisposta
una tassa pari al 8 % della stima del valore dei beni, oggetto di
transazione.
Il principe diveniva proprietario dei beni mobili e immobili
di tutti coloro che morivano senza eredi diretti; beni che
potevano essere rivendicati dai parenti più prossimi, previa
corresponsione del 30 % del loro valore.
Nel caso poi di erede figlia unica, in cambio dei beni mobili
e immobili il principe accordava una dote di 60 scudi.
Se invece l’erede rifiutava la dote e richiedeva i beni
dell’asse paterno, questi venivano alleggeriti da un prelievo pari
al 30% del loro valore.
In alcuni paesi della baronia era rimasta ancora in vigore la
consuetudine delle regalie; ogni famiglia doveva “regalare” al
principe una gallina e la spalla del maiale, ucciso durante
l’inverno.
Dopo il 13 dicembre 1817 però, il principe Don Francesco
Barberini, figlio di Carlo, rinunciò ufficialmente ai suoi
diritti feudali sul castello e sull’intera baronia.
I paesi di Collegiove e Nespolo, dopo questa rinuncia
chiesero ed ottennero di divenire Comuni dissociandosi così da
Collalto, al quale, come frazioni, rimasero S. Lorenzo e Ricetto.
31
A quei tempi le imprese pubbliche, sia commerciali che di
pubblica utilità, erano concesse in appalto annuale con gara
d’asta.
Per fare qualche esempio erano oggetto di appalto:
l’osteria, il macello, il forno, la pizzicheria, il diritto di pesca
nel fiume del Turano (il permesso di pescare in esclusiva in una
data zona del fiume), il bollatore di carni da macello (colui che
dava il consenso alla macellazione di animali e ne stabiliva la
qualità), il custode degli animali neri (colui che pascolava i
maiali, cioè il porcaro), etc.
La gara d’appalto era regolata dall’articolo 179 della legge
“Motu Proprio” (emanata il 28 ottobre 1817 dal Papa Pio VII
che regolamentava ogni tipo di commercio).
La legge a garanzia del regolare svolgimento delle gare,
prescriveva che dieci giorni dopo l’espletamento della prima
gara, questa fosse ripetuta.
Si dava quindi inizio a una nuova gara d’appalto con
l’accensione di una candela, detta “Vigissima”: allo
spegnimento della quale si dichiarava aggiudicata l’asta
all’ultimo offerente. La legge Motu Proprio recitava inoltre che,
coloro i quali rendevano un servigio alla popolazione
esercitando imprese di pubblica utilità, benché non conferite
con gare d’appalto, avessero diritto ad un equo compenso da
parte delle Autorità competenti.
In quei tempi i branchi di lupi erano numerosi nelle
nostre montagne e costituivano un grave pericolo per
l’incolumità delle persone e degli animali da pascolo.
Il danno economico per la pastorizia era enorme, quindi in
funzione della legge suddetta, era nato il pericoloso ed
affascinante mestiere del “luparo”.
Quando il luparo uccideva un lupo, riceveva dalle Autorità
un compenso pari a 15 scudi, che per quell’epoca era
un’ottima cifra, inoltre i contadini e i pastori gli offrivano,
riconoscenti, prodotti del loro lavoro.
32
Nell’anno 1829 a Collalto c’erano quattro chiese: la
parrocchia di S. Gregorio, Santa Maria, Santa Lucia, e quella
privata della famiglia Latini, la Madonna della Speranza; gli
abitanti erano 696 riuniti in 115 “fochi” (famiglie).
Nell’anno 1835 in Francia scoppiò un’epidemia di colera, o
“Morbo Asiatico” come si chiamava allora, a quel tempo
mortale.
L’infezione attraversò l’Italia, fino a giungere nella zona del
Turano tra la fine del 1836 e l’inizio del 1837.
Venne istituito un cordone sanitario in maniera capillare, al
confine con il Regno di Napoli e nel territorio nei pressi di
Roma ove si riscontrarono vari casi d’infezione.
Ad ogni passaggio di confine con il Regno di Napoli furono
costruite delle casermette con annessa “Officina di disinfezione
Sanitaria”, a presidio delle quali fu destinato un drappello di
quattro uomini al comando di un caporale.
Il personale addetto ai presidi era costituito da militari delle
truppe di confine e da guardie comunali, ma il più delle volte
da comuni cittadini; alcuni di essi erano volontari e
la
maggioranza era obbligata dalle autorità locali con il sistema
“fochale”, ossia uno per famiglia.
Collalto con il sistema “fochale”, contribuì al cordone con
100 guardie sanitarie.
Esse controllavano che le persone fossero munite del
certificato sanitario e che le merci e gli animali fossero
provvisti di bolletta di accompagno sanitaria.
In mancanza dei documenti scattava l’isolamento, per le
persone di dieci giorni, per le merci o il bestiame per un
periodo più lungo.
Le guardie sanitarie di Collalto, che controllavano per una
ragione logistica il confine con il Regno di Napoli nella zona
del Turano, si distinsero per la loro “negligenza”.
Si legge in un documento la seguente denuncia “Invece di
essere
assidui
in
guardia,
si
fanno
lecito
33
girovagare per la Commune e passare il tempo nelle
bettole gozzovigliando senza punto fare il loro dovere….”.
Il comportamento di tali individui fu a tal punto poco
corretto che vennero più volte rimproverati per aver infastidito
la cittadinanza con i loro canti notturni a squarciagola cui si
abbandonavano, a notte fonda, in preda ai fumi dell’alcool
uscendo dall’osteria.
I riflessi dello stato di grave emergenza determinato dal
colera, non tardarono a farsi sentire nella vita sociale ed
economica delle famiglie, la cui già precaria esistenza veniva
ancor più aggravata dalla mancanza delle migliori braccia per i
lavori nei campi e dal blocco dell’emigrazione stagionale verso
la campagna romana.
Nel novembre 1837 giunse da Roma l’ordine di smobilitare
i presidi sanitari; l’emergenza colera era finita ed il gran
pericolo scampato.
Nell’anno 1841 nella valle del Turano ci furono alcuni
tentativi di dissociazione di paesi appodiati (frazioni) dal loro
capoluogo.
In questo fermento fu coinvolto anche Collalto; due paesi
ad esso appodiati, Ricetto e S. Lorenzo, tentarono di distaccarsi
dal capoluogo per divenire Comuni autonomi.
I due paesi addussero, per rendere meritevole la loro
richiesta, una ragione logistica; l’impossibilità d’inverno di
raggiungere il capoluogo, per via di un torrente che in quel
periodo, per il notevole aumento delle acque, era difficile
guadare.
L’altra ragione era di carattere amministrativo; avendo
Ricetto una popolazione di 350 persone, poteva aspirare a
divenire “Communità Principale”, appodiando S. Lorenzo che
contava 250 persone.
Le spese sarebbero diminuite e ne avrebbe giovato
l’amministrazione, più semplice e più snella.
Il tentativo di distacco da Collalto però fallì.
34
Collalto, intorno alla metà dell’Ottocento, aveva
una popolazione di 722 persone che costituivano 248 “fochi”
(famiglie); 111 vivevano in campagna e i rimanenti 137, in 124
abitazioni che si trovavano all’interno delle mura baronali o nei
pressi di esse.
Il paese era suddiviso in due contrade, quella di “Piazza
della Chiesa” e quella di “Piazza Comunale”.
Le feste popolari erano celebrate il 10 agosto, in occasione
di S. Lorenzo ed il 16 dello stesso mese, per S. Rocco,
protettore degli appestati.
La festività dedicata a S. Rocco risale all’anno1669 quando
vi fu una pestilenza che anche a Collalto causò numerosi
decessi.
Il medico era di scavalco, (la sede della sua condotta non era
Collalto) e percepiva uno stipendio di 15 scudi annui, parte dei
quali veniva dato in natura (20 coppe di grano).
A Collalto si trovavano una farmacia di proprietà della
famiglia Latini, una bottega di ferri lavorati, una rivendita di
sali e tabacchi, un ferraro, un calzolaio, due sarti ed una mola a
grano, appartenente al principe Del Drago (Barone di Antuni).
Nell’anno 1853 il barone di Collalto era il principe Carlo
Felice Barberini figlio di Francesco, comandante della guardia
nobile del Papa.
Nell’anno 1856 il principe Barberini cedette alla principessa
Del Drago, come dote, il castello di Collalto.
A sua volta la principessa Del Drago, nel 1858, lo vendette
al conte Corvin Prendowski.
Il conte Prendowski era discendente, per ramo polacco, del
Re d’Ungheria Mattia Corvino, di nascita transilvano ed
amico dei Medici, signori di Firenze.
Lo stemma del Conte Prendowski era uguale a quello del Re
transilvano: un corvo nero che stringe nel becco un anello
d’oro.
35
Nel 1858 Collalto contava 1287 abitanti, unitamente a quelli
delle frazioni.
Nell’anno 1860 e sino a giugno 1861 il sindaco di Collalto
fu Giorgi Filippo.
Il 15 dicembre 1860 quando le truppe del nascente Regno
d’Italia occuparono Rieti, il marchese Gioacchino Napoleone
Pepoli, Regio Commissario Generale, abolì i mandamenti e
Collalto passò sotto la giurisdizione Umbra con riferimento
Perugia.
Il 13 febbraio 1861 Collalto fu assaltato e conquistato da
soldataglia, al comando del Generale Saverio Luvarà, ex
colonnello dell’esercito borbonico.
Il generale tenendo conto della posizione strategica di
Collalto, facilmente difendibile, contava di farne il suo quartier
generale.
Le truppe di questo sedicente “esercito” erano composte da
soldati borbonici sbandati, delinquenti comuni e da reparti
dell’esercito pontificio e mercenari, che dimostrarono tutto il
loro “valore” saccheggiando il paese e uccidendo persone
indifese.
Tale spedizione era stata decisa da nobili borbonici e da
seguaci del Papa, che non accettavano l’esito del plebiscito del
novembre 1860 che sanciva l’annessione della Sabina al Regno
d’Italia.
Tra i “colonnelli” del Luvarà vi erano, il famoso brigante
Chiavone, al secolo Luigi Alonzi (1823-1864) originario di
Sora e Giacomo Giorgi di Civitella Roveto, un avvocato
che condusse la guerriglia contro i piemontesi principalmente
nell’aquilano e nel teramano.
Su questo fatto di sangue esiste una relazione storica,
stampa datata 1865, redatta dal giudice di Canemorto,
Baldassarre Cenni, di cui riproduciamo la copia.
36
Il 13 febbraio 1861, giorno dell’aggressione di Collalto da
parte del generale Luvarà, il Re Francesco II di Borbone (18361894) fu definitivamente sconfitto a Gaeta dalle forze guidate
da Garibaldi.
Francesco II dopo la sconfitta riparò a Roma; questo evento
segnò la fine del dominio della dinastia dei Borbone sul Regno
delle due Sicilie che fu annesso al Regno d’Italia.
L’aggressione di Collalto fu uno degli ultimi episodi della
resistenza reazionaria borbonica e papalina all’avanzata nel sud
delle truppe del Regno d’Italia.
L’eco delle violenze e delle efferatezze perpetrate a Collalto,
da parte dei reazionari, suscitò profonda impressione e notevole
indignazione, non solo in Sabina, ma anche in Umbria.
A Perugia fu organizzato un Comitato Centrale per
raccogliere soccorsi in favore degli abitanti di Collalto, affinché
essi fossero risarciti dei danni subiti da parte delle “orde
reazionarie”.
Fu affisso un apposito manifesto con le indicazioni dei punti
di raccolta del denaro e l’invito ai cittadini ad esprimere la loro
solidarietà.
Nel 1861, per effetto del referendum già menzionato del
1860, la Sabina fu annessa al Regno d’Italia, sotto la
giurisdizione della provincia di Perugia.
Dall’anno 1861 al 1863 il sindaco di Collalto fu Pompei
Carlo, mentre, dal 20 luglio 1864 al 26 aprile 1869, fu Casini
Giovanni.
Il 31 dicembre 1861, nel “novello” Regno d’Italia, venne
effettuato il censimento della popolazione.
Rimasero escluse le popolazioni di ciò che restava dello
Stato Pontificio (la città di Roma, di cui era Papa Re Pio IX,
1792-1878) e del Regno di Venezia Trento e Trieste, ultimo
baluardo dell’impero austroungarico nel territorio italiano.
37
Dal censimento risultò che la popolazione italiana era
composta da circa 22 milioni di persone (precisamente
21.777.334).
Nello specifico emergono i seguenti dati: 5 milioni di
bambini di età inferiore ai 10 anni; 8 milioni di contadini; 1
milione tra possidenti e liberi professionisti; 4 milioni di
persone impiegate nell’industria; 4 milioni sono gli indigenti,
senza arte ne parte.
A Collalto si contarono 1506 persone (comprese le frazioni)
di cui 849 maschi e 657 femmine.
La ragione per la quale furono censiti i bambini era dovuto
al fatto che i 10 anni rappresentavano la soglia minima per
accedere nel mondo del lavoro.
Intorno al 1860 il voto non era un diritto di tutti, per potervi
accedere era necessario avere determinati requisiti; ne avevano
diritto solo gli uomini con età superiore ai 25 anni e dovevano
avere un reddito per il quale pagavano almeno 40 lire di tasse
annue.
Il salario di un contadino in quel periodo era di 50 centesimi
di lira al giorno (mezza lira) e l’orario di lavoro, a prescindere
dal periodo dell’anno, andava dall’alba al tramonto, come si
soleva dire “da stella a stella”.
Chi era impiegato nelle fabbriche (in Italia per la
maggioranza manifatturiere) lavorando dalle 14 alle 18 ore al
giorno percepiva la paga di 1 lira se uomo e 50 centesimi se
bambino o donna.
Nel 1863 i cittadini di Collalto con diritto di voto, iscritti
nelle liste elettorali del collegio di Poggio Moiano erano tre,
mentre nel 1866 diventarono quindici.
Il 13 luglio 1789, costituita dal Direttorio come propria
difesa, fu istituita in Francia la Guardia Nazionale.
Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone, molte Regioni
italiane adottarono l’istituzione della guardia nazionale, che
38
poteva essere costituita da volontari civili e veniva utilizzata per
servizio pubblico e in caso di grave emergenza.
La guardia nazionale collaltese, nell’anno 1866, era
composta di 113 militi attivi e 77 di riserva.
L’ufficio postale si trovava a Canemorto (Orvinio), dove
un apposito corriere, il procaccia (postino), stipendiato dal
Comune di Collalto, ritirava la corrispondenza tre volte la
settimana.
Intorno all’anno 1880 nella valle del Turano furono costruiti
i cimiteri.
In precedenza le tumulazioni si effettuavano all’interno delle
parrocchie ubicate al di fuori delle mura dei castelli (extra
castrum), ove c’era anche la fonte battesimale, “la chiesa è il
grembo e la tomba del cristiano”.
La sepoltura nelle chiese avveniva in maniera molto
rozza ed era a pagamento.
Si scavava una buca nel pavimento, lasciato in parte o per
intero in terra battuta, vi si calava il defunto e si ricopriva alla
meglio, cercando di livellare il suolo.
Chi aveva possibilità finanziarie erigeva sopra la buca un
sepolcro, un monumento funebre come nei moderni cimiteri che
certamente non contribuiva al decoro della chiesa.
Questo sistema creava inconvenienti di non poco conto: il
pavimento risultava dissestato per via delle tumulazioni e
l’interno della chiesa ristretto per via dell’ingombro dei
sepolcri.
Le esalazioni inoltre che provenivano dal sottosuolo, specie
d’estate, sicuramente causavano non pochi problemi.
Collalto è stato il primo paese a costruire il cimitero, ”verso
il piano dalla parte che guarda Nespolo a poca distanza dal
paese….”, l’attuale, ed era l’unico ad avere uno spazio per i
non cattolici.
Nell’anno1895 il Conte Prendowski restaurò il castello, mal
ridotto dai francesi, dandogli un aspetto vagamente fiabesco.
39
Alla fine del XIX Collalto aveva circa mille abitanti.
XX Secolo
Alla morte del Conte Prendowski, che aveva sposato la
Marchesa Cavalletti, il castello passò in eredità al cognato,
Giuseppe Cavalletti.
Scapolo e gaudente, il Marchese Cavalletti amava le
donne tanto quanto odiava i bambini. Era frequente sentirlo
invocare Erode, se capitava in ambienti ove giocavano dei
fanciulli.
Nel 1915 scoppiò la Prima Guerra Mondiale, che terminò
nel 1918 con la vittoria della coalizione cui apparteneva
l’Italia.
Il prezzo pagato in vite umane fu alto ed anche Collalto
pianse i suoi figli morti: Tenente Blasi Dottore Gustavo,
Sergente Testa Luigi, Caporal Maggiore Giuseppini Domenico,
Soldati Angelini Benedetto, Censi Alfredo, Censi Benedetto,
Contiliani Angelo, Damiani Damiano, D’Antonio Aurelio,
D’Eliseo Domenico, De Santis Pietro, Di Casimiro Antonio, Di
Casimiro Bernardino, D’ulisse Giovanni, Di Mastropaolo
Francesco, Felli Settimio, Giorgi Filippo, Giorgi Giulio, Giorgi
Riccardo, Giuseppini Antonio, Giuseppini Enrico, Lugli
Bernardino, Macchia Alessandro, Peruzzi Francesco e Veneti
Sebastiano.
Nell’anno 1915 fu costruita la strada, sterrata, che collegava
la Via Turanense, dalla località Casabianca, a Poggio Cinolfo
quindi a Collalto; come manodopera furono utilizzati prigionieri
di guerra austriaci.
Nell’anno 1918 ci fu in Europa un’epidemia influenzale che
causò più morti della prima Guerra Mondiale.
Il nome che fu dato alla epidemia era “la
Spagnola”, conosciuta anche come “virus dei polli”,
40
poiché era stato dimostrato che esse avevano propagato il
contagio.
Alla soglia della vecchiaia, il marchese Cavalletti, stipulò un
vitalizio con il Capitano dei Carabinieri Ottavio Giorgi di
Petescia.
Costui applaudito cavaliere di concorsi ippici, aveva sposato
una ricca ereditiera americana, Claire Monfort, dalla quale ha
avuto due figli: Piero e Diana.
Il capitano Giorgi, avendo sostenuto finanziariamente il
marchese Cavalletti, divenne proprietario del castello alla morte
del nobile.
Da un articolo di giornale dell’anno 1921, si ha la notizia che
la corrispondenza per Collalto e paesi limitrofi, veniva ritirata
dal procaccia a Carsoli e non più ad Orvinio.
Il procaccia partiva da Collalto alle 6,30 del mattino per
arrivare alle 8 a Carsoli (evidentemente faceva il tragitto a
piedi), ritirava la posta e s’incamminava per la strada di ritorno
alle ore 9.
L’orario di questo servizio fu contestato dai comuni
interessati, per i notevoli ritardi.
Il disservizio era causato dal fatto che il treno proveniente da
Roma che trasportava la posta, giungeva a Carsoli alle ore 10
ma gli addetti alle Poste non provvedevano con solerzia allo
smistamento della corrispondenza che rimaneva in deposito fino
alle ore 8 del giorno dopo, orario di arrivo del procaccia.
Il corrispondente del giornale “il Tempo” Enrico Tulli, fece
presente in un suo articolo, che i responsabili delle Poste si
ostinavano a non dare risposta alle rimostranze dei comuni
interessati e di rivedere quindi modificare l’orario del servizio.
Non è dato sapere se la protesta produsse dei risultati.
Nello stesso anno, con l’interessamento dell’Onorevole
Cingolani, fu istituita una pratica per la richiesta di un mutuo
alla Cassa Depositi e Prestiti del Ministero dell’Interno, Sezione
Sanità, per la costruzione di un acquedotto a Collalto.
41
Nell’ottobre del 1923 venne concesso il prestito ed
iniziarono i lavori.
Nel 1926 terminati i lavori, l’acquedotto risultò della
lunghezza di circa otto chilometri ed univa Collalto a
Collegiove. L’opera fu realizzata dalla ditta Passalacqua.
Così finì il grande disagio delle donne collaltesi,
che per approvvigionarsi d’acqua erano costrette a percorrere
molta strada a piedi, con la conca, per raggiungere le fonti fuori
l’abitato di Collalto dove, per altro, erano costrette a lunghe e
noiose file (chiacchiere tra “comari” a parte).
L’anno 1927 fu di particolare importanza per Collalto poiché
cambiò regione d’appartenenza passando dall’Umbria al Lazio
e, di conseguenza, provincia.
Dalla provincia di Perugia passò a quella di Rieti, appena
nominata tale.
Tra gli anni 1932-34 i Giorgi-Monfort restaurarono il
castello, apportandovi piccole modifiche.
Il primo ottobre 1932 fu inaugurata la linea degli autobus, da
Collalto a Carsoli stazione ferroviaria e viceversa, gestita dalla
ditta Curci.
L’itinerario era: Collalto, ponte Giovannetti, Poggio Cinolfo,
Casabianca e Carsoli stazione, per un percorso di Km 13,500.
La vettura, che poteva contenere dalle 12 alle 15 persone a
viaggio, faceva due corse al giorno di andata e ritorno; una la
mattina e l’altra il pomeriggio, in orari che coincidevano con
quelli dei treni da e per Roma.
Nel periodo antecedente la seconda guerra mondiale furono
ospiti nel castello personalità del mondo politico e artistico:
fra gli altri il Principe ereditario dei Savoia , il trasvolatore del
polo nord Generale Nobile, l’attore Ettore Petrolini, il pittore
americano di origine danese Andersen.
Quest’ultimo, peraltro, fu assiduo frequentatore del paese
dove dimorò per molti anni nel periodo estivo, in via dello
Stradone.
42
L’Andersen prendeva in fitto un’abitazione di Di Bonifacio
Vittoria (1905-2001), ed era solito ospitare noti personaggi
quali lo stesso Nobile, il noto attore Vittorio Gassman ed altri.
Negli anni antecedenti la seconda Guerra Mondiale, era in
atto l’isolamento dell’Italia Fascista dalla gran parte degli Stati
Europei e della conseguente “autarchia”, per via delle sanzioni
cui era soggetta.
Pertanto nell’anno 1937, la ditta Terni, sotto la direzione
tecnica dell’ingegnere Rimini, iniziò i lavori per realizzare un
lago artificiale nella valle del Turano, per conto del consorzio
del Velino.
Il lago fu costruito nel tentativo di produrre due miliardi di
Kwh di corrente pari al 40% del fabbisogno Nazionale di allora,
per sopperire all’embargo dei produttori del carbone, il
combustibile più usato per produrre energia.
La diga di sbarramento fu costruita nella strettoia fra la valle
del Turano e Posticciola; era alta 79 metri, lunga 256 e larga 50
alla base.
Essa creava un bacino capace di contenere 150 milioni di
metri cubi di acqua.
Il lago nacque da un disegno complesso che onora la
genialità italiana, se si considera il periodo in cui venne
realizzato e fu completato nell’anno 1939; subito dopo
iniziarono i lavori per la realizzazione di un nuovo bacino,
l’attuale lago del Salto, nella zona del Cicolano.
Nel dicembre 1940 fu terminato il lago del Salto
comunicante con quello del Turano per mezzo di una galleria
lunga 9 Km del diametro di 3 metri, al fine di ottenere un
unico bacino, benché diviso dalle montagne.
Furono costruite inoltre un’altra galleria per unire il lago del
Salto a Cotilia e una conduttura all’interno di essa per il
trasferimento forzato dell’acqua che alimentava una centrale
idroelettrica.
43
Successivamente l’acqua si riversava nel fiume Velino,
quindi nel lago di Piediluco, alimentando inizialmente la
centrale di Galletto Popigno poi anche quella di monte
Argento presso Terni.
Dopo Terni l’acqua arrivava alla centrale di Narni, quindi
nel fiume Nera e, per la quinta e ultima volta era utilizzata per
creare energia prima di immettersi nel Tevere.
Se si vuole avere un’idea delle difficoltà che si
affrontarono e la “tecnologia” applicata per la realizzazione del
lago del Turano, si può attualmente percorrere la strada
costruita per congiungere la valle del Turano a Posticciola,
partendo dalla diga.
.
La strada fu tracciata con il metodo detto a “passo di mulo”,
procedendo nel seguente modo: caricarono sull’animale un
sacco di farina praticando un foro nella parte sottostante.
Il mulo, camminando lungo la costa della montagna lasciò
una scia bianca che indicò il percorso su cui lavorare e quando
un grosso sperone di roccia ne ostacolò il passaggio, si decise di
tagliarlo anziché scavare una galleria.
L’ostacolo fu superato a forza di colpi di mazza, rubando il
passaggio alla roccia con notevole difficoltà e fatica.
Una volta terminata la strada, del grosso sperone di roccia,
verso valle, rimase una sorta di dente canino alto almeno 20
metri, che ancora oggi fa bella mostra di sé come un
monumento.
Per realizzare il lago del Turano furono eseguiti molti
espropri, occupati ed allagati terreni con la conseguente
scomparsa delle colture di lino e canapa, che avevano trovato
nella zona l’habitat naturale ed erano fonte di guadagno per
molte famiglie.
Con il lino si poteva realizzare dell’ottima stoffa.
Con la canapa si ottenevano lenzuola e finissima biancheria,
come la “pelle d’uovo” (di cui solo le persone anziane possono
44
averne il ricordo) oppure dei comunissimi sacchi per il grano o
corde.
Nel 1940 l’Italia Fascista alleata alla Germania Nazista,
partecipò al conflitto in atto: la Seconda Guerra Mondiale.
La guerra finì nel 1945 con la sconfitta della coalizione cui
apparteneva l’Italia ed anche in questo caso Collalto pianse i
suoi morti:
Sergente Cimei Carlo, Soldati D’Iginio Andrea, Felli
Giuseppe, Porzi Andrea e la Camicia Nera Uri Carlo.
Il 31 ottobre 1954 fu terminata la costruzione del monastero
delle suore dell’ordine “Missionarie Catechiste di Gesù
Redentore” e accorpata la chiesetta dedicata a Santa Maria
situata in località Vapinciuni.
Nell’anno 1963 fu asfaltata la strada che dalla Turanense, in
località Casabianca, portava a Collalto, ma solo il tratto che
arrivava al confine regionale detto “le colonnelle”.
La località era così denominata per la forma cilindrica delle
pietre che in passato segnavano il confine con il regno di
Napoli.
Il secondo tratto di strada, quello che arrivava a Collalto, fu
realizzato nell’anno 1965 dalla ditta Genghini.
Alla morte del proprietario, Piero Giorgi Monfort nel 1988,
il castello è stato acquistato dalla società “Quattrostelle”, il cui
maggiore azionista è Massimo Rinaldi, figlio di Alessandra
Latini appartenente all’antica e facoltosa famiglia collaltese.
Massimo Rinaldi ingegnere e progettista elettronico,
ha raggiunto la notorietà nell’anno 1964 avendo, primo nel
mondo, ideato e realizzato una calcolatrice completamente
elettronica o come si diceva allora “transistorizzata”.
Egli ottenne negli anni seguenti altri successi con i suoi
progetti, uno degli ultimi in ordine di tempo, la realizzazione
della validatrice per il gioco del Totocalcio.
L’ingegnere Massimo Rinaldi ha voluto il radicale restauro
statico e architettonico del castello ponendo particolare cura nel
45
ricreare l’epoca di massimo splendore mediante decorazioni,
quadri e mobili antichi.
Il Comune di Collalto, come è già stato detto, attualmente
comprende le frazioni di Ricetto e S. Lorenzo, già antichi
borghi della baronia.
Ricetto, posto ai margini del territorio comunale ai confini
con Tonnicoda di Pescorocchiano e abbarbicato su un costone
di montagna, è l’ultimo centro abitato immerso in un ambiente
naturale particolarmente suggestivo.
L’origine del nome
sembra essere collegato alla
presenza di un insediamento militare nella zona avente la
funzione del “ricetto” o “ricettacolo” per la popolazione della
zona in caso di pericolo.
Ricetto, inoltre, che si trovava a poche centinaia di metri dal
confine con il Regno Di Napoli, è ricordato come rifugio o
ricettacolo di briganti, che potevano attraversare facilmente i
confini per sfuggire alla giustizia.
S. Lorenzo invece, nacque come borgo nel XV secolo,
quando gli abitanti di Montagliano abbandonarono il paese e
s’insediarono nel vicino territorio ospitati da un eremita che già
vi abitava e cominciando ad edificare le loro nuove case.
Siamo così giunti alla fine della ricerca storica su Collalto,
questa galoppata a ritroso nel tempo ci ha arricchito di una
nuova e piacevole conoscenza sulle nostre origini e sui nostri
avi.
Una volta usciti dal binario della storia, per completare il
quadro della conoscenza di Collalto, affrontiamo altri argomenti
di cui il paese è stato oppure è ancora protagonista.
Gli argomenti sono: le origine dei Sabini, le ricorrenze, le
tradizioni, le leggende, i costumi, il dottor Staffa, proverbi e
detti, dialetto, la cucina tipica e una poesia di un collaltese per
Collalto.
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Mi scuso in anticipo, se la trascrizione del dialetto non
risulterà corretta poiché, essendo “lingua” parlata e non scritta,
è difficile stabilirne l’esatta ortografia.
Origine dei Sabini
A conclusione della ricerca ritengo opportuno fornire notizie
sulle teorie relative all’origine del popolo dei Sabini.
Si crede che il capostipite dei Sabini e loro primo Re fosse
Saba o Sabo, uno dei primi pronipoti di Noè, denominato poi
Sango, Semone, Sabino, Santo e Dio Fidio, cioè uomo caro a
Dio e venerato dagli uomini per santo.
Saba sarebbe stato figlio di Regma, anche lui chiamato Saba
e Sango, il quale era nipote di Cus, a sua volta nato da Cam,
figlio di Noè.
Cus, Curino o Quirino, conosciuto anche sotto il nome di
Saturno, fu venerato come un nume nel Lazio, ove ebbe culto e
templi.
Non mancano coloro che affermano doversi ritenere
Noè stesso progenitore dei Sabini e comune patriarca delle
popolazioni d’Italia; vi fu persino chi ha asserito che fosse
morto a Roma sul colle Gianicolo e venerato sotto il nome di
Giano.
Ricorrenze
Le ricorrenze più “sentite” a Collalto attualmente sono: la
Madonna dell’Annunziata il 25 marzo, Sant’Antonio il 13
giugno, San Gregorio patrono del paese il 3 settembre, la
Madonna del Rosario la prima domenica d’ottobre e Santa
Lucia il 13 dicembre.
Intorno al 1960 le feste di Santa Lucia e della Madonna del
Rosario richiamavano a Collalto tanti fedeli dai paesi limitrofi.
47
Madonna dell’Annunziata
La ricorrenza della Madonna dell’Annunziata, che cade il 25
marzo, si celebra il sabato e domenica successivi alla data
suddetta.
La festa coinvolge, in particolare, tutte le bambine, le
ragazze di Collalto e il “festarolo” (il nucleo famigliare che ha
custodito in casa la statuina della Santa Vergine per l’anno
trascorso).
Le celebrazioni iniziano il sabato; partendo dalla casa del
festarolo, la statuina della Madonna viene portata in processione
fino alla parrocchia, San Gregorio, ove viene officiata la Santa
Messa.
Dopo il rito, la processione accompagna la statuina della
Madonna nella casa che l’ha ospitata per un anno, poi a tutti gli
invitati è offerta la cena.
La domenica mattina si riforma la processione, preceduta da
una doppia fila di bambine e ragazze vestite di bianco che a
modo di guardia d’onore, scortano la statuina della Madonna
per tutto il percorso.
Il corteo, raggiunta la parrocchia, fa una breve sosta, il
tempo di prendere la statua grande della Madonna che viene
condotta in processione portata a spalla da un gruppo di
volontari; si dirige quindi verso la chiesetta di Santa Maria dove
si celebra la Santa Messa.
Terminata la cerimonia religiosa, la processione riprende il
suo cammino, la statua grande viene ricollocata nella chiesa di
San Gregorio, mentre quella piccola torna nella casa del
festarolo, infine agli invitati viene offerto il pranzo.
La sera, la statuina viene portata in parrocchia dove viene
“scartabellato” (estratto) il nuovo festarolo, il quale custodirà la
Madonna fino al successivo 25 marzo.
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Madonna del Rosario
La festività religiosa della Madonna del Rosario, che si
celebra la prima domenica di ottobre, ha origine antica.
Fu istituita dal Papa Gregorio XIII (1502-1585) in seguito
alla battaglia navale di Lepanto che fu combattuta e vinta
dalle forze “cristiane” su quelle turche la domenica del 7
ottobre 1571.
Si racconta infatti che, mentre infuriava la battaglia, molti
fedeli si riunirono per recitare il rosario e pregare per la
vittoria finale della flotta cristiana, denominata Sacra Lega.
Quest’ultima era composta da navi di tutte le potenze navali
Italiane.
Il Papa Gregorio XIII volle, per ricordare la vittoria di
Lepanto, che la prima domenica di ottobre di ogni anno a
venire, fosse dedicata alla Madonna del Rosario.
Venerdi Santo
Un’altra ricorrenza
religiosa
molto
sentita
dai
collaltesi, è la processione del Venerdi Santo, le cui origini sì
perdono nel tempo.
La processione, che coinvolge tutto il paese, ha subito nella
seconda metà degli anni 70 una modifica; è stata infatti
aggiunta una parte recitata, ai passi salienti della passione di
Cristo.
Lucilla Colasanti, coadiuvata da Franca Tulli e Adriana
Macchia, fu la prima che ne ha curato la regia della parte
recitata e della realizzazione dei costumi, riscuotendo i consensi
della popolazione.
Negli anni successivi sotto la guida di Giovanni Porzi che ha
apportato sostanziali modifiche alla parte recitata e ha reso
notevolmente suggestive le scene, la processione del Venerdi
Santo ha raggiunto buoni livelli, tanto è vero che attualmente
l’affluenza delle persone che si recano a Collalto per assistere
alla manifestazione è rilevante e i giudizi entusiastici.
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Sant’Antonio Abate
Il 17 gennaio ricorre la festività di S. Antonio Abate,
protettore degli animali.
A Collalto, fino a pochi anni fa, dopo la Santa Messa, il
sacerdote impartiva la benedizione agli animali domestici.
Terminata la funzione religiosa venivano distribuite delle
pagnottine di pane, una per “foco”, per conto della famiglia
Latini.
Si racconta che un anno, nei primi del 1900, non fu rispettata
la tradizione del dono del pane, ma in quello successivo venne
ripresa dalla famiglia Latini, poiché in quell’anno accaddero
degli strani incidenti e morirono alcuni animali.
Della tradizione sopravvive solo la donazione delle
pagnottine, sempre offerte dalla famiglia Latini.
Oggi l’abbandono della terra ha determinato una drastica
diminuzione degli animali come mucche, asini, muli, pecore,
etc etc, quindi la benedizione degli stessi è caduta in disuso.
La trasformazione in atto della struttura sociale è causa del
lento, costante ed irreversibile abbandono della terra da parte
dei collalltesi.
Madonna della Speranza
Il giorno 12 settembre, festa della Madonna della
Speranza, fino agli anno 70 era tradizione recarsi, muniti di un
recipiente, nei giardini del palazzo della famiglia Latini, anche
in questo caso promotori dei festeggiamenti; ai convenuti
veniva offerta della minestra di pasta, fave e cotiche ed una
fetta di pane.
Come già accennato, la tradizione è caduta in disuso.
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Dopo aver visitato tutte le famiglie, l’allegra compagnia si
riuniva per mangiare ciò che aveva raccolto.
La tradizione è ancora viva tutt’oggi, ma vi partecipano solo
i bambini.
Per lo stesso motivo si coprono, con un drappo viola, tutte
le immagini sacre, “cruci accappate”, per poi scoprirle due
giorni dopo, il sabato Santo.
In questo lasso di tempo i fedeli rimangono orfani del suono
amico delle campane che annunciano l’inizio delle funzioni
religiose.
Fino ai primi anni “60”, questa mancanza, veniva sopperita
con degli attrezzi rumorosi: “la raganella” e “iu retrecene”.
Per annunciare l’inizio della Santa Messa, il prete reclutava
dei volontari, sia bambini che adulti, dato che di “retrecene”
ne esistevano di due misure, una piccola e leggera e l’altra
grande più pesante.
Ciascuna delle persone reclutate armata di “raganella” o di
“retrecene” si dirigeva, ognuna in direzione diversa, verso i
limiti dell’abitato, suonando lo strumento assegnato e gridando
“alla chiesa, alla chiesa, sona ‘na vota”.
Dopo aver annunciato ai fedeli l’approssimarsi della Santa
Messa, questi novelli banditori tornavano sui loro passi per poi
ripartire suonando e gridando “alla chiesa, alla chiesa, sona
du vote”.
Quest’azione veniva ripetuta di nuovo al grido “alla chiesa,
alla chiesa, sona tre vote”, per la terza ed ultima volta.
Quindi anche durante la Santa Messa la “raganella” veniva
utilizzata, per sopperire al suono della campanella, laddove la
liturgia lo richiedeva.
“La raganella “ e “iu retrecene”
Il giovedi Santo ricorre l’anniversario della morte di Nostro
Signore Gesù, per questa ragione alle ore 12 tutte le campane e
campanelle delle chiese vengono legate, “attaccate”.
Alle ore 12 del sabato Santo, per commemorare la
“Resurrezione di Nostro Signore Gesù, vengono sciolte,
.”sciote”.
Calennemajo
Il primo di maggio è antica tradizione, a Collalto, fare un
rito propiziatorio, il “calennemajo” (calende di maggio).
Si prepara un bicchiere con del vino e una manciata di noci
sbucciate.
Prendendo nel pugno di una mano le noci, si pronuncia il
rituale: “San Filippo e Giacomo faccio a calennemajo se
Le tradizioni
La Pasquarella
Il 5 gennaio, per antica tradizione, era il giorno della
“Pasquarella” che coinvolgeva adulti e bambini che andavano
di casa in casa a richiedere e ricevere in dono ciò che le
famiglie potevano concedere come dolci, salsicce, vino, pane,
frutta etc etc.
La richiesta di doni veniva accompagnata da allegri canti:
Scenderemo giù in cantina
A spiulà la meglio ‘otte
Per questa allegra compagnia
Viva la Pasqua Pifania
Siamo quattro e non siamo otto
Tutti e quattro portiamo il fagotto
Siamo stanchi che è lunga la via
Viva la Pasqua Pifania
……………………………………………..
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moro vado a fonno sennò presto ritorno” detto questo si
debbono versare le noci nel vino.
L’espressione vuole significare che, riferendosi ai Santi
Filippo e Giacomo, se le noci vanno nel fondo del bicchiere la
persona che ha fatto il rito morirà, altrimenti vivrà.
Nel caso che le noci rimangono sospese al centro del
bicchiere, la persona sarà soggetta a qualche malessere.
Dopo aver constatato il responso del rito, si beve il
bicchiere di vino e si mangiano le noci.
Questa usanza potrebbe avere origine da un fatto accaduto
nel Regno di Napoli.
Una volta nel Regno di Napoli i traslochi venivano
effettuati solo un giorno dell’anno e nel mese di agosto.
Stando così le cose gli addetti ai traslochi, per guadagnare
di più, erano costretti ad un lavoro massacrante a causa dello
scarso tempo a loro disposizione.
Quindi la grande stanchezza sommata alla disidratazione,
dovuta al caldo del mese di agosto, erano causa di svariati
decessi tra gli addetti ai lavori.
Dopo tante proteste fu spostata la data dei traslochi e scelto
il mese di maggio, il giorno dedicato ai Santi Filippo e
Giacomo.
Oggi i Santi Filippo e Giacomo vengono ricordati il tre di
maggio.
Leggende
C’era una volta.…..….si racconta che…...…nonno mi
raccontava….
Ci sono degli episodi realmente accaduti tanti o tantissimi
anni fa, divenute poi nel tempo, leggende, oppure l’esatto
contrario.
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I quattro Vescovi
Un esempio simpatico e particolare è quello della leggenda
dei quattro Vescovi, della cui origine non si ha memoria,
l’unica cosa certa è che l’episodio potrebbe essere avvenuto nel
medioevo.
Si racconta quindi che ogni anno quattro Vescovi
consumavano un pranzo all’aria aperta in località S. Angelo,
sotto Poggio Cinolfo, non distante dal fiume Turano;
precisamente nei pressi della fonte detta oggi “dei sette
Vescovi”.
Nel punto suddetto convergevano e tuttora convergono i
confini di 4 paesi: Poggio Cinolfo, Collalto Sabino, Vivaro e
Petescia (Turania).
La tavola imbandita era posta sul punto d’incontro dei 4
confini e i commensali si sedevano ognuno sul terreno della
propria Diocesi; per Poggio Cinolfo il Vescovo dei Marsi,
per Petescia quello della Sabina, per Vivaro quello di Tivoli e
per Collalto Sabino quello di Rieti.
La ragione per la quale si tenevano questi convivi
non è dato sapere, rimane la particolarità dell’episodio.
San Giovanni in Fistola
A nord di Collalto, sulla vetta dell’omonimo monte, ci sono i
ruderi dell’abbazia di S. Giovanni in Fistola e la chiesetta, oggi
ridotta quasi un rudere.
Il 24 Giugno, festa di San Giovanni, un tempo gruppi di
fedeli si recavano alla chiesetta per assistere alla Santa Messa e,
dopo colazione, organizzavano giochi.
I fedeli però, per raggiungere la vetta del monte dovevano
sottoporsi ad un rituale che consisteva nel depositare sul
“macerone dei frati”, collocato a 60 70 metri dalla chiesetta,
un sasso raccolto strada facendo.
Il rituale serviva ad evitare di dover “incollare la vecchia”
(“incollare” sta per “mettere sulle spalle”)
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Il detto “incollare la vecchia” si riferisce ad una antica
leggenda, e racconta di una vecchia, di nome Cleomira,
guardiana di un tempio posto sul monte San Giovanni dedicato
alla Dea Vacuna (Dea del tempo libero):
Alcuni barbari attaccarono il tempio, lo depredarono, ed
uccisero la guardiana, la quale prima di morire invocò la Dea e
le chiese di punirli.
La Dea punì i barbari facendoli precipitare con i loro cavalli
in un burrone, vicino un fiume chiamato “Resfonnato” (Rio
Sfondato).
La vecchia guardiana fu seppellita nello stesso punto
dove ora sorge il già menzionato cumulo di sassi detto
“macerone dei frati” e la leggenda conclude dicendo “chiunque
affronta la salita e non si carichi di una pietra da depositare
sulla tomba, dovrà sopportare sulle spalle il peso
dell’anziana custode”.
Costume caratteristico
Per descrivere il modo di vestire delle donne collaltesi nei
secoli passati, ho trovato interessante trascrivere integralmente
un articolo di giornale, del già citato corrispondete Enrico Tulli,
scritto nel 1921.
“Costumi caratteristici dell’alta Sabina”
Tra le caratteristiche dell’alta Sabina Baronale, restano
ancora vive nel popolo la foggia di vestire e la cerimonia
nuziale.
Come tutti i costumi, quello sabino soddisfa pienamente
l’ambizione femminile e alla praticità della vita campestre.
L’abbigliamento si attiene a queste norme: veste ampia a
colori con crespe e grembiule (zigare) quasi sempre bianco;
busto esterno sempre colorato; corpetto liscio quasi sempre
di colore della veste con maniche corte sino al gomito;
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fazzoletto per le spalle (pannespalle) e per la testa (mantile)
dello stesso colore e stoffa del grembiule, fermato da uno
spillone detto spadino e da una spilla con ciondolo detto
tremantino.
Secondo la condizione sociale della donna, la foggia di
vestire può essere più o meno ricca, dalla veste di broccato e
pizzo a quella di cotone.
I colori preferiti sono, il verde, il rosso e il turchino.
L’eleganza sta nell’affinare la vita e nel portare calze a
fondo unito con puntini colorati.
Nei giorni di festa per andare alla Messa la donna
indossa mantile o pannespalle sempre bianco.
Il Dottor Attilio Staffa
Ritengo doveroso citare e giustamente inserire nel
contesto storico collaltese, un cittadino che il paese ricorda
con riconoscenza, il dottor Staffa Attilio, affinché nel tempo
non sia dimenticato.
Il dottor Staffa
nacque a Falconara Albanese
(Calabria) nel 1899 e giunse a Collalto nell’anno 1930 come
medico condotto.
Conquistò subito l’ammirazione e benevolenza della
popolazione per la sua alta capacità professionale e la sua
dedizione al malato, come accade per chi della medicina ha
fatto una missione scaturita da una vocazione.
In quegli anni la malattia che mieteva più vittime era la
tubercolosi; il dottor Staffa, che era specializzato in tisiologia,
ne divenne un esperto al punto tale che giunse ad avere in cura i
malati di 36 paesi del circondario.
Sono state tantissime le persone che sono guarite dalla
tubercolosi con le sue cure, inoltre la sua alta competenza gli
consentiva di curare con ottimi risultati anche le altre malattie.
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Il dottore Staffa aveva creato a Collalto la struttura Sanitaria
“Dispenseria Antitubercolare”.
Vicino la torre del castello faceva bella mostra di sé un
cartello con su scritto “Stazione Climatica” e la croce di S.
Andrea a lato: l’aria pulita dei mille metri di altezza dava effetti
benefici ai malati di TBC.
Con l’aiuto della sezione del partito fascista collaltese e, si
racconta, di una “bugia”, il dottor Staffa chiese all’Autorità
competente il macchinario per i Raggi X, erano gli anni
intorno al 1940.
La “bugia” consisteva nel fatto che, avendo in cura malati di
tubercolosi provenienti dai 36 paesi già citati, il dottore pensò di
farli figurare tutti residenti a Collalto.
L’elevato numero dei malati nel paese avrebbe infatti
certamente aumentato la possibilità di ottenere la macchina per i
Raggi X.
La popolazione collaltese non fu contenta della “bugia” del
dottor Staffa che presentava Collalto come un paese con un
eccessivo numero di malati di tubercolosi.
La nomea infatti ebbe come conseguenza il crollo della
richiesta dei mietitori nella campagna romana, provocando una
notevole perdita finanziaria.
Ci furono quindi accese proteste da parte della popolazione,
ma non modificarono la situazione e così il dottor Staffa ottenne
il desiderato macchinario per i Raggi X.
Lo stesso macchinario esisteva solo a Rieti; questo fattore
fece aumentare ulteriormente l’impegno del dottore, perché
sempre più numerosi si rivolgevano a lui pazienti bisognosi di
una radiografia.
Nell’anno 1960 il dottor Staffa lasciò Collalto per andare a
dirigere un ospedale a Rimini, in seguito quello dei Cavalieri di
Malta “Buon Pastore” di Roma.
Nel 1961 si ritirò dalla professione a causa delle
radiazioni che aveva assorbito lavorando con il macchinario dei
Raggi X.
Le radiazioni infatti gli causarono la deformazione delle
mani e minarono la sua salute in maniera irreversibile.
Il dottor Staffa andò a vivere ad Anzio dove morì il 10
novembre 1967.
Ora riposa nel cimitero di Collalto, il paese da lui tanto
amato e che tanto lo amò.
Proverbi e detti collaltesi
Chi non pòtte vatte j’asinu, vatté ju mmastu.
Non va a chiégli bene se non va a cacchiégli male.
Ha trovatu Cristu a mète e San Pietro a récoglie.
Tè’ la magnaóra bassa.
Acqua e chiacchiere ‘on fau frittégli.
Le cóse ‘nfrì ‘nfrì se nne révau ‘nfrà ‘mfrà.
Chi fa ‘n pórco j’allèva rassu, chi fa ‘n figliu j’allèva mattu.
Sotto la ficora ce nasce ju ficurigliu.
Chi nasce de caglina ‘nterra ruspa.
L’acqua ‘élla Rocca a nui ‘n ce tòcca.
O paglia, o raglia!
Si’ còmme la cóttóra: o tigni o cóci.
La vatta prescigliósa fégge i figli ciéchi.
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‘N so’ pe’ j’asini i convétti.
Quanno te dice male móccecanu pure le pecora.
Asinu che non védde mai bardella cent’anni se nne fégge
meraviglia.
‘Na calla è bòna pure quanno se mète.
Chi ‘n te conosce caru te sse compra.
Se piagno ‘on pòzzo ‘ngollà.’.
A magna’ chi magna magna, a beve tantu pirunu.
“Te conoscio mal’erba” disse ju cuiu alla urtica.
Lo sangue ‘on è acqua.
Dio te sarvi da tóniti e lampi e dalla fame dei musicanti.
Partita rarrivata ‘n fu mai vinta.
J’asinu repòrta la paglia e j’asinu se lla magna.
Pasqua ‘on vè’ se la luna de marzu pina ‘on è.
Natale aju macchióne, Pasqua aju cantóne.
Era de maiu e se fégge notte.
Se piove agli 4 abbrilante piove 40 giorni filante.
Te retòcca ju santu pure oi!
S’ha fattu prima ju mmastu e pó’ j’asinu.
Tè paura ma ‘on tremi.
Si’ più stupidu ‘ell’acqua ‘elle cucòzze.
A chi gli féda pure ju valle, a chi mancu la caglina!
La merla primaròla de’ marzu féda l’òva, d’abbrile so’
j’uccégli , de maju so’ più bégli.
Bee fa la pecora e j’upu se lla magna!
Se febbraru ‘n febbrarìa, marzu e abbrile rapparìa.
La pecora che fa bee perde j‘occone.
Chi l’ha messa, la lèva.
Addó ‘on ci sta ju guadagnu, la reméssa è certa.
La farina ‘eju diavuiu se nne va ‘n crusca.
Aju zappu ji fa male la trippa e la crapa strilla.
Acqua passata ‘on macina più.
Ju vattu che ‘on pòtte arriva’ allo lardu disse che sapea de
rancicu.
Finita la festa gabbatu ju santu.
E’ partitu asinu, è rivinutu pucittu.
‘N cuiu scì ‘n capu no.
Manca sempre ‘n sórdo a fa ‘na lira.
Alla Trinità se canta allo révenì.
Chi tróppo raru cerca, conciatura trova.
Trótto d’asinu póco dura.
Durasse ‘n signore a palazzu quantu dura la nève de marzu.
Chi penza a ora magna a témpo.
Bòtte, carcerati e trenta paui.
Chi giovane se governa vécchio mòre.
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Chi tè’ i sórdi mura, chi ‘on gli tè’ pittura.
Chi ‘n tè’ la casa, la cerca.
Chi lavora magna, chi ‘on lavora magna e beve.
Chi tè’ lo pane ‘n tè’ j’enti e chi tè’ j’enti ‘n tè’ lo pa’.
‘Na ‘ngustia caccia l’ara; tutt’e dua caccianu le mani dalle
saccòccie.
Quanno ju bòve ‘n vò’ ara’ ‘onn ara.
Chi béglio vo’ appari’ ca’ pena ha da pati’.
Quanno Céria se mette ju cappéglio ‘on scappa’ senza
j’ombréglio.
Piu rusciu e cane péttatu ammazzuju appena natu.
Ju bove disse curnutu aj’asinu e j’asinu ji respóse
récchióne.
Bruttu fume fa la pippa!
Quanno j’òmo sfurtunatu nasce, finu a quanno ‘on se lla
piglia ‘n cuiu ‘on la finisce.
Figli cichi guai cichi, figli róssi guai róssi.
Ju vattu male usatu quello che fa gli va pensatu.
A capo abballe s’arrucicanu pure li ciócchi.
L’óglio dagli sassi ‘on ce pò scappa’.
I sórdi mannanu l’acqua a capo ammónte.
Quanno tòneta de jennaru remitti la rusura aju pagliaru.
Anni e picchiéri ‘e vinu ‘on se contanu mai.
Chi ròtta è ‘n pórco, chi scoréa è ‘n signore.
Chi soménta spini s’ha da fa le scarpi bòne.
Tu parla quanno piscia la caglina.
Attacca j’asinu addó dice ju padrone.
Cristu fa le montagne pó’ ce fiòcca, fa i cristiani pó’
j’accòppia.
Lo pane ‘e j’ari tè’ 7 cróste e la più tòsta è la muglica.
Chi va co’ ju cioppo se ‘mpara a cióppeca’.
Ma’, Peppe me pizzica! Pizzica Pe’!
‘Na bòtta aju circhiu e una alla ‘ótte.
A ‘na parte ha da pènne ju mmastu.
L’acqua spalla i ponti e allaga i piani; penza che po’ fa aji
corpi umani!
Roma: i vécchi j’ammazza e gli giovani ji dóma.
Ju meglio sirricchiu aju capannu.
Lo tróppo attrippa.
Si’ mannatu ju corvo pe’ ciccia.
Chi ténéa ju fóco campò e chi ténéa lo pane se mòrse.
Si’ raccumannatu le pecora aj’upu.
I lavuri fatti de notte se revidu de giorno.
L’ora deju cazzu mattu passa a tutti.
‘On chiama’ San Duminicu prima de vede’ la sèrpe.
J’au misso a pane ‘e ranu.
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Sta a canzona’ i ciéchi.
Ce refa’, se vede ch’è dórge.
Chi ‘on tè’ gnente da fa se fa cazzótti aj’ócchi.
Tróppi vagli a canta’ ‘on se fa mai giorno.
Póchi, maliditti e subbitu.
La ruvina aji arruvinati ji passa a mmézzo alle cianghe.
Le pecore aj’upu e ju montone a sòreta.
Ju più pulitu tè’ la rogna.
Tu ‘on si’ de razza còrridóra.
Puzza de palle ‘ncatenate.
I préti so’ mercanti: se vinnu Pietro, Madonna e santi.
Puzza addó passa.
Se lavora pe’ campa’, ‘on se campa pe’ lavora’.
Ju figliu deju carzolaru va scauzu.
Da’ a beve aju prète che ju chiricu ha sete.
Peppe pe’ Peppe, me tèngo Peppe meo.
La vecchia che ‘on se voléa muri’, più sta più ne voléa sapi’.
E’ partitu pe’ frega’, è rivinutu fregatu.
Se vó’ j’agliu ‘ncaporatu a Natale ha da essse natu.
Chi ‘on è bóno pe’ ju re ‘n è bóno mancu pe’ la reggina.
La femmóna che zézzeca l’anca, se ‘n’è puttana póco ce
manca.
Ognunu sa sé e Dio sa tutti.
‘Na mamma po’ campa’ cénto figli, cénto figli ‘on so’ capaci
de campa’ ‘na mamma.
Le cóse c’allonganu piglianu viziu.
Quanno fiòcca a confettigli, póraccia la mamma co’ tanti
figli.
Ciéio a pecorelle, acqua a cottorélle.
Quanno tira tramontana batte ju cuiu alla campana.
Chi presta deserta.
Chi fa bene, appiccaju.
Ficca ju capu addó ju diavuiu s’appatólla.
‘On ‘ntrica’, ‘on tarda’ e ‘on fa la sicurtà, che te lla tòcca
paga’.
Chi se ‘mpiccia degli affari artrui, de tre parti ji nne
tòccanu dua.
Ju piru quanno è fattu casca sóio.
Dagli e dagli le cipolle diventanu agli.
E’ meglio un giorno a ardi’ che cénto a fumegà.
Ju vattu alla dispensa quello che fa penza.
La femmóna mannarina ‘on alleva né pórco né caglina.
La pigna crètta gira cént’anni pe’lla casa.
Alloggia quanno alloggia la caglina e quanno ju valle canta
tu cammina.
Omo de vinu ‘on vale un quattrinu.
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Dio te sarvi dagli póveri arriccati e dagli ricchi ‘mpoverati.
‘On t’affila’ a chi ha filatu e ‘on i’ ‘n’opera co’ chi c’è stato.
Pasqua Bifania tutte le fésti se porta via, arevè’ San
Binidittu se nne porta ‘n saccoccittu.
Chi dorme ‘on pècca, ma mancu magna!
Santa Barbera, Santa Lisabetta sarvatece da ogni saetta.
Quaranta molenari, quaranta macellari e quarant’osti so’
céntovinti ladri giusti giusti.
La caglina cieca la notte ruspa.
Un occóne bóno ‘on grassa, ma raffiata.
Rii, rii che mamma ha fatt’i gnocchi.
I frascaregli ‘mpeganu i piatti.
Chi rie de venardì, piagne sabbatu, domeneca e luneddì.
Gli guai della pigna ji sa iu copérchio che l’accappa.
‘N compagnia piglia moglie pure ‘n prete.
Chi della róbba dej’ari se veste, présto se spoglia.
Chi tè’ tanti quatrini tantu conta, chi tè’ la moglie bella
La ruvina è degli arruvinati.
sempre canta.
A chi tòcca ‘on se ‘ngrugna.
Se móru più abbacchi che pecore.
Tutte le mosche agli cavagli stracchi.
Se magna pe’ remagna’, se beve pe’ rebbeve.
Chi ‘on ‘ngrassa le scarpi, ‘ngrassa i carzolari.
‘On si bóno mancu pe’ cancegliu aj’órto.
Ogni morte è ‘na scusa.
La casa sea ‘on mena guerra.
Chi tróppo abbraccia nulla stregne.
Te sse ‘ncanala l’acqua pe’ ju canale.
Fa’ del bene a certa gente è còmme pista’ l’acqua aventro
aju mortale.
Ju létto allètta.
Fa’ del bene e scòrdatenne, fa’ del male e penzace.
Sta a cerca lavuru e prega Dio de ‘on trovagliu.
Co’ ju témpo e co’ la paglia se maturanu le nespole.
Iu ciéio a fa’ friddu e nui a trema’.
Scappa de fore e chiedi consigliu, reentra a casta e fa’
còmme te pare.
Alla fine se recontanu le pecore.
Chi tardi arriva male alloggia.
’On magna pe’ ‘on caca’.
Acqua e fóco Dio gli dia lóco.
Dopo tantu rie vè’ tantu piagne.
Chi me battezza m’è compare.
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Te va ju capu ‘n tridici.
Va a mette i prézzi alle saraghe.
Pure i puci téngo la tossa.
Meglio ‘na passonata forte che sette pianu pianu.
‘On si bóno a caccia ‘n aiuccu da ‘n buciu.
Si remastu più arreto della coa dej’asinu.
Ragno, ragno quantu m’abbusco tantu me magno.
Quigliu puzza più da vivu che da mórto.
Ciuì, ciuì quello che té’ ‘n mani ‘on te llo fa’ fui’.
La biastima gira, gira casca ‘n capu a chi la tira.
Du’ péi aventro a ‘na scarpa ‘n ce pózzo entra’.
Tutti i mórti si j’ha da piagne Marta, chi se la piagne Marta
quanno è mórta.
Ognunu all’arte sea e j’upu alle pecora.
Ecco ce remettemo l’unguénto e le pezze.
Quello che meo ‘on è, de mamma fosse.
Fa’ prima a zompagli ‘n capu che a giragli ‘ntorno.
Lo be’ ‘n se po’ dura’, lo male pe’ forza.
Chi vò’ fa’ ‘n bon rapugliu j’ha da somenta’ de lugliu.
Mai sabbatu senza sole, mai donna senz’amore.
Lo friddu de marzu sfonnò le corna aju bòve.
Una vòta passò Carlo pe’ Fucinu.
Ju cucule fa un’arte sòla.
Ogni bòtta ‘na ‘ntacca.
‘Nha fatte quant’e Carlo ‘n Francia.
Chi tantu a lavora’ e chi a tantu spassu, chi se beve lo vinu e
chi l’acqua deju fosso.
‘On è bóno né a fótte né a fa’ la guardia.
Chi aju piccu , chi alla pala e ju fesso alla carriola.
Co’ la róbba mea….e vè’ a bballe.
Aju cavagliu biastimatu ji reluce ju piu.
Se mòre prima ca’ asinu a ca’ pover’omo.
Una ne penza j’asinu e cénto j’asinaru.
Tè’ da fa più quigliu che chi se mòre de notte.
Chi cammina ‘nciampa, chi ferra ‘nchioa.
Ha refattu le sette chiese.
Chi vive de speranza, co’ pane e lengua pranza.
Me rengricca lo pa’ addó ‘on c’arrivo.
Commanna e fa’ da te si servitu còmme ‘n re.
Do ‘n cuiu aju vénto e faccio i figli volenno.
Chi desperatu vive, disperatu mòre.
Se era pecora mo’ mo’ magnea.
Quanno se mète se mète.
Madonna mea recacciace allo largu.
Lo sangue degli poveracci piace a tutti.
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Disse la merla aju turdu: “Senterrai ju botto se ‘on si
surdu!”.
Fatte la nomina bòna e po’ fa la zoccola.
E’ bella ma ‘on parla.
‘On te vurria esse mancu pedalinu.
‘On se cce vede mancu a biastima’.
Ammazza, ammazza è tutta ‘na razza.
Te vè’ ‘nacqua appresso…
Se la femmóna ‘on vò, j’omo ‘on po’.
Fa’ quello che ju prete dice, no quello che ju prete fa’.
E’ Bambinu o nonnè Bambinu?
Se sa quanno se parte, non se sa quanno s’arriva.
Chi non s’accomda da vivu… penza da morto!
Gli spinaci se recocio co l’acqua sea.
Fugni e fregne non se ‘nsegnanu a chiégli.
La coa è la più difficile da scorteca’.
Chi beve e chi se ‘mbriaca.
A Collautu unnici mesi de friddu e unu de friscu.
Prima de Natale né friddu né fame; dóppo Natale friddu e
fame.
Hau da piscià tutti addó piscia Giordano.
J’omo séi e ju pórco otto.
E’ cane de tutta caccia.
Febbraru giorno e notte è paru.
Quissi so’ sassi che’n se cóciu.
Non si bóno né a chiacchera’ né a statte zittu.
Non se move foglia che Dio non voglia.
Dialetto Collaltese
Sta a ‘nsegna’ la messa agli préti.
E’ meglio esse ‘nvidiati che compatiti.
Abballe
Ferragustu è capu d’immérno.
Abbotà
Acchiapò
Accottorati
Àccui
Àccule
Accurrùta
Ju pucinu reporta a spasso la iocca.
In guerra ogni buciu è trincea.
Arrivi sempre dóppo i fóchi.
Si gli sta a frana’ sempre la terra sotto i péi.
Acqua cotta
Afferraturu
T’aiutanu tutti a capu a bballe.
69
70
giù' in basso
pulire il grano dopo la trita
esclamazione di meraviglia
presi nel discorso, compatti
corda per legare le cose al basto
anelli di legno attaccati al basto
richiamo, per es. ” la iocca
accurruta i pucini”
zuppa di zucchine
arnese per uccidere i maiali
Affiaratu
Affilatora
Aggallettatu
Agghiaià
Alèstri
Alla serena
Allettatu
Ammacchiatu
Ammaglià
Ammannitu
Ammattucciatu
Ammattuta
Ammero
Ammone
Ammonte
Ammorgià
Appaglià
Appatollate
Appettata
Appicoglio
Appittiricatu
Aquiglioio
Arcone
Ardita
Arfiero
Arquigliu
Arrabbiuu
si dice di animale o di persone che cerca
di aggredire
spiraglio da cui passa una corrente di aria
Abbacchiato, con poco vigore
non si mastica oppure cosa faticosa
semi di una erba selvatica
lasciare qualcuno o qualche cosa all'aperto
di notte al freddo
persona a letto perché malata
persone o animali rifugiate nel folto degli
alberi
smorfie fatte con la bocca dai somari
preparato, allestito, appassito
sgualcito
incontrata per caso
legno ricurvo che serviva ad appendere i
maiali per la macellazione
pezzo di gamba posto sopra il ginocchio
del maiale
su in alto
non reagire
mettere da mangiare agli asini
detto di galline appollaiate
salita molto ripida
portato sulle spalle
qualcuno salito molto in alto senza
l’ausilio della scala
trapano a mano per bucare le botti
cassa di legno per conservare il grano
pecora femmina con la campana che
guida il gregge
detto di persona combattiva
boria (abbassa le penne)
esclamazione di disappunto
71
Arrone
Arzegogole
Assamera
Assassinatu
Attraccià'
Avà
Azzimelle
Barbaglie
Bardella
Barzotto
Barzu
Bibbigasse
Biferine
Braccioio
Callarozzo
Cama
Camele
Canalicchia
Cannelero
Cannelle
Capiti
Capizzinu
Capoccio
Capurriata
72
palo con dei rami che serviva come
sostegno per le viti
fare le moine
chiacchiericcio inconcludente
nel senso di bagnato
passare nel mezzo
esclamazione di stupore
dolci tipici natalizi
guanciali del maiale
lana che non si tosava sulla schiena
negli agnelli più giovani, fatica, sudata
si diceva di formaggio non ancora
indurito
legatura dei covoni
vecchie cucine con due o tre fornelletti
mucchi di neve fatti dal vento mentre
nevica
ramo dell'albero che sostiene la vite
grande paiolo nel quale bolliva l'acqua
usata per pelare il maiale
foglioline del grano separate dalla
trebbiatura
aggettivo dispregiativo
canalina che si metteva sotto lo zaffo
per raccogliere le gocce di vino
persona molto alta
canne infilate sulle dita per non tagliarsi
durante la mietitura
rami della vite
cordino che si legava attorno alle corna
dei buoi
nome dato ai funghi porcini di media
grandezza
colpo dato con la parte posteriore della
Cardamacchi
Carracciu
Carrapone
Caula
Cauticchia
Cautu
Cavicchia
Ceppe
Chioo
Ciaramegli
Ciaula
Cicciatu
Caocchia
Cocchi
Conceri
Concia
Conocchia
Crivella
Crivigliucciu
Cucchiari
Cucozzata
zappa
pelli di pecora che i pastori si mettevano
sul davanti
piccolo fosso in cui scorre l'acqua piovana
grossa pianta di castagno vuota con
apertura da un lato
rubinetto per la botte
tinozza piena di panni coperti di cenere
per l'ugada
buco per il passaggio delle galline
chiodo che ancora l’aratro al giogo
punta dell'aratro di legno alla quale si
attaccava la umera
chiodo di legno per fissare la coacchia
all'aratro
ghiaccioli che si formavano dai tetti
per lo scioglimento della neve
tipo di uccello, si dice anche di persone
che parlano molto
si dice quando dei frutti o dei semi
germogliano
attrezzo che serviva per tenere l'aratro
dritto
buccia dei chicchi di uva
anelli per legare la stanga dell'aratro al
giogo (juu)
pulitura al vento del grano
serviva per filare la canapa
piccolo trapano a mano
setaccio per pulire i legumi
castagne poco sviluppate all’interno
del riccio
durante il disgelo neve impastata con
l’acqua
73
Cupelle
Curioi
Dà picciu
Demollà
Dè ‘nfrascu
Ecc’attorno
Ennece
Ess’attorno
Fascittu
Fetane
Fianchelle
Fiucculia
Frascaregli
Frocette
Froscia
Fugnu 'nfraò
Funnacchiu
Furracchia
Gnaccara
Ha refattu faccia
Ieri addemà
Ierimmattina
Jonte
Juera
Jure
Juu
74
piccole botti da 5 e 10 litri
lacci per scarpe e scarponi fatti con cuoio
o pelle
iniziare a fare qualche cosa, afferrare una
persona per aggredire
mettere a bagno i panni prima di lavarli
pane o pizza fatti con farina di grano e di
mais
qui intorno
uovo, anche finto, che si metteva nel
nido delle galline per far fare le uova
li intorno
piccolo fascio di legna
deporre le uova
nome dato ai fianchi di persone o animali
quando nevica rado
pasto fatto di acqua e farina, veniva dato
alle partorienti
anelli che si mettevano al naso dei buoi
foglie secche cadute per terra
fungo “grifola frondosa”
depressione del terreno tra due colline
bastone spaccato sulla punta usato per
cogliere i grappoli di uva
pettegola, molto sciocca
si dice di persone che rispondono male o
di cose digerite male
ieri l'altro
ieri mattina
corde per legare i buoi durante l'aratura
punta di ferro per l'aratro di legno
scintille del fuoco
attrezzo che si metteva sul collo dei buoi
per legare la stanga
Labberone
Lamà
Lamatu
Lamatura
L'ara notte
Leccafarre
Lentala
Loc’ attorno
Loggio
Macinula
Mannarina
Mannati
Manocchio
Mantacittu
Marcatutu
Mastere
Mazzabugliu
Me ‘ncaglio
Mizzuro
Mascari
Mette a vau
Mmastejo
Mmastu
Mmolle
Moletta
Morcone
aggettivo dispregiativo di chi ha le labbra
grosse
Franare
Franato
Frana
ieri notte
schiaffo dato con molta forza
invito deciso a smettere di fare o dire
qualche cosa
li intorno
si dice di persona molto alta e un po’
addormentata
attrezzo per lavorare la canapa
donna che pensa troppo a se stessa ed
anche un po’ sciocca
spighe di grano che cadevano durante
la mietitura
fascio di grano
piccolo mantice per dare lo zolfo alle viti
epilessia
legni anteriori e posteriori dei masti
insieme di gente
cedo, mi abbandono
parte centrale della testa della botte
persone mascherate, usato anche come
dispregiativo
far passare le pecore in un varco per
la mungitura
secchio di legno per la vendemmia
basto
arnese per sistemare il fuoco acceso
intestino di maiale usato per fare i
sanguinacci o lo strutto
pezzo di bastone sporgente, ramo non
75
Morrone
Mrone
Munnuiu
Naticchie
Ncacazzatu
Ncagnati
Nca’nnoegli
Ncapunitu
Ncollate
Ncollatu
Ncordati
Ncottorate
Ndrillingu
Nebbiaru
Nfantigliole
Nfrociào
Nfrociatu
Ngrillatu
Ngrugnato
Nnoegli
Nsenecà
Nsugliatu
Ntincatu
Ntriminti
Nzippulà
76
tagliato alla congiunzione
terreno in discesa con molti sassi
vuol dire non al centro ma di lato
attrezzo che serviva per pulire il forno dalla
brace
ganci piccoli in legno che servivano per tenere
chiusi gli scuri
si dice di persona seduta senza fare niente
persone che non si parlano più
da qualche parte
deciso a fare quello che sta facendo ad
ogni costo
portare qualche cosa sopra le spalle
portato sopra le spalle
muscoli o cose rigidi come una corda
bagnata
si dice di cose cucinate e mangiate
malattia delle mucche “te pozza da un
ndrillingu”
nebbia molto fitta
malattia
sbattere o incastrare frontalmente
persona che ha sbattuto
si dice di un uomo che è eccitato
rimanere male, fare il muso lungo o
prendersela per qualche cosa
da nessuna parte
impicciarsi ed intromettersi nei
discorsi altrui
molto sporco o che si è rotolato per
terra
essersi irrigiditi per il freddo
nel mentre
fomentare facendo delle insinuazioni
durante l'inverno quando la temperatura
si alza e il ghiaccio si ammorbidisce
foglie della vite, detto anche di orecchie
Pampani
molto grandi
si dice quando animali o persone si
Pampanizze
impuntano o si alterano
piatto tipico fatto con salsicce e pizza
Panonta
cotta sotto il fuoco ed unta con il grasso
delle salsicce
pianta grassa commestibile
Pastenacici
terreno molto fangoso
Pastenaturu
gallinaio, casa delle galline
Patugliu
parte inferiore di un fungo, di un tronco o
Pecone
di una verdura
persona che per il sonno inizia a chiudere
Pennazzà
gli occhi
grossi fiocchi di neve
Pennecchie
persona molto alta
Pennelero
parti laterali della testa della botte
Pennelle
fare la maggese con la pertecara
Pertecà
aratro
Pertecara
pezzo di stoffa legato sotto la pancia dei
Pezza
montoni per non permettere la monta
nome dato alla cartoccia fatta con la vanga
Piantarrone
salsicce lunghe circa 1mt
Piegature
rami della vite che si legavano ai rami
Pieghe
dell'albero
piena di un fiume oppure acqua che
Pieme
scorre per strada dopo un temporale
grande assembramento di persone che
Pipinara
parlano
malattia che colpisce la lingua delle galline
Pipita
Pistacannavicchiu persona leggera e che non riesce a stare
ferma
Ota a mollore
77
Pizzuco
Pretorella
Primarola
Pulla
Puzzoio
Raganella
Rancata
Ranzoi
Ranzuischia
Rappoingà
Rasora
Razzinnà
Recapotatu
Recretta
Remissinu
Rincriccatu
Renfossà
Rentortà
Reppa
Resicu
78
bastone appuntito che serviva a forare il
terreno per piantare le piantine
sgabello con tre piedi che serviva per la
mungitura
pianta o animale che anticipa la stagione
della frutta o dell'accoppiamento
polvere che si produceva durante la
trebbiatura
piccolo pozzo nelle cantine
arnese rumoroso per sostituire le campane
nella settimana Santa
grano che si prendeva in una mano durante
la mietitura
tipo di precipitazione più dura della neve
ma più morbida della grandine
quando cade un particolare tipo di neve
(ranzoi)
cucire in modo frettoloso
arnese per raccogliere la farina quando si
impasta
fare sì che i piccoli animali bevano il latte
dalla madre
vuol dire che il vino è andato a male
ferita che non si rimargina
piccolo recinto all'aperto
messo in una posizione poco sicura
ed abbastanza in alto
interrare una vite per farne nascere
una nuova
mettere a bagno cose di legno tipo
botti o martelli per farli ingrossare
dislivello del terreno che sale quasi
verticalmente
ramo della vite con le gemme che
Respigne
Retrauiu
Retraula
Retrecene
Rincriccatu
Rimmelle
Rippiu
Risciui
Ronzane
Rostera
Rucella
Rusura
Saraminti
Sarvognunu
Saucione
Scacchià
Scapicollasse
Scarpurì
Scarracciatui
Scartocci
Schiariche
restava dopo la potatura
pianta commestibile con le foglie
leggermente spinose
arnese per ammucchiare il grano
oppure persona che cammina lentamente
attrezzo per lavorare la canapa
arnese rumoroso per sostituire le
campane nella settimana santa
messo in una posizione poco sicura
ed abbastanza in alto
pezzi di carne di maiale, appena macellato,
asportata per preparare il pasto per il
macellaio e i suoi collaboratori
erba infestante che cresceva nei campi
specie in mezzo al grano
pasta che si recuperava grattando la
tavola dopo aver impastato
grosse gocce di acqua che cola dai tetti
padella bucata usata per cuocere le
castagne
rimanenze di fieno nel pagliaio, fungo
rimanenze di fieno nel pagliaio
resti della potatura
esclamazione di preoccupazione
grossa pianta di salice
pulire la vite dai rami o anche
rottura di giunzioni o cuciture
cadere in malo modo o anche andare
di fretta
pulire gli zoccoli degli animali prima
che vengano ferrati
si dice di acqua uscita dal fosso
foglie che coprono la pannocchia
schegge di legno di diverse forme
79
Scicià
Scifa
Scinicarola
Sciuerghetta
Scommerdate
Scota
Scunocchiate
Scupellata
Scupigli
Scurà
Sdevezzatu
Sdraiozza
Seneca opp
Serpe rospara
Sfrizzui
Soa
Soeglio
Solletrone
Somentatu
Sommonnà
Soo
Sparra
Sparrozza
80
sgranare il mais o i legumi
piatto di legno di forma rettangolare
arnese per far uscire i chicchi dalla
spiga di grano
furba astuta ma buona
sporche di escrementi, si dice in
particolare delle pecore
manico di attrezzi di media lunghezza
si dice di cose animali persone che
sono rovinate piegate messe male
termine che di solito indica una
pianta cava
pianta simile alla ginestra
lavorazione delle castagne messe a
bagno per conservarle
cambiato strada, instradato, pronto per
la vita
detto di persona sfaticata
persona impicciona che si intromette
nei discorsi
pezzettini di grasso cotti per fare
lo strutto
animale che non procrea
bricco fatto di rame o di legno di
forma quadrangolare utilizzato per
attingere l’acqua
si dice di una brutta caduta
sparpagliato, seminato
tagliare l'erba nei campi di castagne
prima della raccolta
terreno incolto
fazzoletto piegato che le donne si
mettevano sul capo per trasportare pesi
grande fazzoletto a quadri utilizzato per
avvolgere il cibo per chi lavorava nei
campi
raggio di sole che colpisce una zona
Sperella
ristretta
tavola sulla quale si impastava o si
Spianatora
mangiava la polenta
tavola con le spondine usata per
Spresciareglio
spremere il formaggio
si dice quando il vino prende il sapore
Spuntatu
dell'aceto
arnese di legno per girare la polenta
Squagliareglio
o il formaggio
serratura
Staccetta
stalla molto piccola di solito usata per
Staglittu
maiali o galline
paletti che di solito si usavano nelle
Stajoi
recinzioni per gli animali
pianta del granturco che rimaneva
Stammuccu
nel campo dopo la raccolta
fascia del basto che passava sulla
Straccale
schiena e sotto la coda del mulo o asino
vento molto freddo
Strina
arnese per bucare cuoio o pelli
Subbia
tubo con il quale si soffia sul fuoco
Suffittu
per ravvivarlo
corda che serviva per legare i carichi
Susta
al basto
passare l'inverno
Svernà
Te tengu adetraziu ti additano e parlano di te
recipiente che si usava per l'ugada
Tina
sottopancia per tenere il basto sugli
Tirella
animali
pezzo di legno non completamente
Tizzone
bruciato
81
Toe
Toe
Trabuccu
Traglia
Traglione
Tutumagliu
Ugata
Umera
Ummejo
Urrina
Urzumeglio
Uvera
Vardarecchie
Vattirutu
Vau
Viareglio
Vinghi
Zappeteglio
82
tavole laterali della botte
sporgenze superiori “degliu mmastejo”
usate per legarlo
botola del pagliaio che corrisponde alla
mangiatoia della stalla sottostante, persone
che mangia molto “magni comme un
pagliaru a trabuccu”
arnese che si metteva sul b asto per
portare più covoni di grano
mucchi di grano che si preparavano
per la trebbiatura
persona poco sveglia
bucato lavato con la cenere
punta di ferro per l'aratro di legno
filetto di maiale posto nella cassa
toracica posteriormente
vento freddo che soffia quando nevica e
forma le biferine
gola o trachea
legno che teneva attaccato l'aratro ai buoi
aratro di ferro che gira quando i buoi
cambiano direzione
arnese fatto con due bastoni legati tra loro
alle estremità che si usava per la trita
varco attraverso il quale passavano le
pecore per la mungitura
nome del montone con la campana che
guida il gregge, piccolo sentiero
rami di salice usati per legare le viti
durante la potatura
piccola zappa usata per ripulire dalle
erbacce i campi seminati
Cucina tipica
Dopo aver appagato la mente con questa lettura, che ne dite
di fare un’altra escursione, questa volta per soddisfare lo
stomaco?
Andiamo a
scoprire alcune ricette antiche e
“povere”, tipici esempi della appetitosa cucina dei nostri
avi; poca spesa,…ma tanto piacere per il palato e lo
stomaco.
Quando la sfoglia si è un poco asciugata strapparla con le
mani (non esagerate nella grandezza); la pasta è pronta per
essere cotta in acqua abbondante e salata.
Per il condimento: soffriggere in una pentola aglio, olio e
peperoncino, quindi aggiungere prezzemolo e pomodoro.
Far bollire il sugo evitando di farlo restringere troppo, deve
essere un poco liquido, aggiungerlo alla pasta cotta, quindi
spolverare con del pecorino, e….buon appetito!
Ora per concludere in maniera piacevole questa visita alla
cucina collaltese vi propongo due dolci tipici.
Ciammiglitti co’ ju gélo
Sagne strappate
Dose per 4 persone.
Ingredienti
1 Kg di farina
aglio
olio
peperoncino
prezzemolo
un barattolo da 250 g. di pomodoro a pezzettoni
sale Q.B.
acqua Q.B.
Versare la farina sulla “spianatora” (la tavola per preparare
la pasta fatta in casa), formare una piramide, quindi fare un foro
al centro, aggiungere un pizzico di sale, acqua ed impastare.
Impastando aggiungere acqua tanta quanta “ne prende” la
farina, fino ad ottenere un impasto omogeneo, un poco
morbido.
Quando l’impasto è pronto avvolgerlo in un canovaccio e
lasciar riposare per un quarto d’ora.
Quindi stendere la sfoglia con un mattarello e far sì che essa
risulti poco spessa, 2 millimetri circa, e lasciarla “asciugare”.
83
Ingredienti
3 uova
1 cucchiaio di olio di oliva extra vergine
un pizzico di sale
un pizzico di semi di anice
farina Q.B.
Sbattere le uova aggiungendo olio, il sale e i semi di anice.
Versare della farina sulla spianatora, formando una
piramide, fare un foro al centro e versateci il composto già
battuto, quindi impastare.
L’impasto alla fine deve risultare morbido, la quantità della
farina necessaria è “quella che si prende”.
Tagliare l’impasto a strisce e arrotolarle ricavando dei
cilindri con il diametro di un centimetro e mezzo.
Tagliare le strisce a pezzi lunghi 10 centimetri, quindi unire
le due estremità formando una ciambella.
Mettere dell’acqua in una pentola e portarla all’ebollizione,
immergerci le ciambelle e lasciarle bollire per 4-5 minuti.
Scolare le ciambelle, fare un taglio trasversale sulla parte
superiore.
84
Per la cottura al forno utilizzare il piano centrale, la
temperatura deve essere di 200°, le ciambelle sono cotte quando
assumono un colorito dorato.
Preparazione dello sciroppo: in un recipiente versare una
tazza di latte, una di zucchero e una di acqua.
Mettere a scaldare il recipiente per sciogliere lo zucchero,
per poter controllare la giusta cottura, ungete con lo sciroppo il
polpastrello dell’indice e contrastatelo con quello del pollice, se
il liquido risulta appiccicoso è pronto.
Quando lo sciroppo è pronto, immergetevi le ciambelle e
mescolare per bene per far attecchire il caramellato, senza
togliere il recipiente dal fuoco.
Scolare i ciammiglitti co’ ju gélo e lasciarli freddare.
Poesia
Gustiamoci ora la lettura dei versi che un collaltese ha
dedicato al suo amatissimo Collalto.
Collalto
Rimiri di lassù tempo che scorre
Forte e bello a te muove lo sguardo
Luce e aria
di te sono amanti
La notte aperta
dolce riposo
Pastarelle con le nocchie
Ingredienti
3,5 etti di nocchie
3 etti di zucchero
3 albumi
Tritare le nocchie grossolanamente; montare a neve gli
albumi; unire zucchero e nocchie; amalgamare in un impasto
omogeneo.
Oliare una teglia e depositare l’impasto a cucchiaiate scarse.
Cuocere in forno ad una temperatura di 160° posizionando la
teglia al ripiano centrale per 20 minuti.
A cottura ultimata devono risultare leggermente dorate, dopo
di che ……buon appetito.
Son qui tutti i tuoi figli
han quiete nell’attesa
Scarmigliato e spoglio come vecchio
d’improvviso l’onde del giovane verde,
i colori d’autunno al tramonto
quieto e bianco d’inverno.
Luigi Di Bonifacio
La storia continua…..……………………
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86
Bibliografia
Collepiccolo e la valle del Turano
Autore Pietro Carrozzoni
Pereto
Autore Enrico Balla
Montaliano
Autori E. De Minicis, E. Hubert
Storia, architettura e restauro nel castello di Collalto
Sabino
Autori Vari
Rieti e la Sabina
Autore Renzo Di Mario
Rieti nel Risorgimento Italiano
Autore Angelo Sacchetti Sassetti
Ascrea inventario di un territorio
Autore Roberto Lorenzetti
Petescia Sabina oggi Turania
Autore Mario Iori
Castaldato di Collalto e Magnifica Comunità
Autore A. Latini
Santa Maria delle Grazie in Tufo
Autore Fulvio Amici
Reazione e brigantaggio nel Cicolano
Autore Domenico Luigini
Proverbi e detti collaltesi
Raccolta a cura della Pro Loco di Collalto
Memorie storiche della Regione
Equicola ora Cicolano
Autore Domenico Luigi
Luglio 2001
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