ASSEMBLEA DEI SACERDOTI Sala San Paolino – 18 gennaio 2001 La prima parola non può che essere quella di saluto: un biel mandi di dî a duç vualtris e di dîlu dal profont dal cûr! Nel momento stesso in cui mi è arrivata la notizia del mio trasferimento, il primo pensiero è andato certamente ai sacerdoti. Forse avete sentito dire che in me c’era tanta trepidazione nel venire a Udine e lo potete capire. Ma la trepidazione non era per i problemi, non era per la gente che avrei incontrato. Era proprio pensando al nostro presbiterio, pensando al compito che mi veniva affidato di essere punto di unione, di unità con tutti i sacerdoti che mi rendeva trepidante. D’altra parte è questo un compito inevitabile, proprio per poter vivere una dimensione reale di Chiesa; è necessario poter camminare insieme, poter procedere in comunione nella varietà e nella vivacità che è propria di questa Diocesi e di questo Clero. Ma riuscire ad essere centrum unitatis et caritatis non può non creare trepidazione. Ho fatto anche una piccola riflessione sulla cosiddetta Grazia di Stato. Io credo davvero che esista e la percepisco nel fatto che, quando si è messi in una situazione di particolare responsabilità, si avverte la necessità di chiedere questo dono, questo aiuto perché ci si accorge che da soli non è possibile operare; e senti che il Signore non ti lascia solo. Cos’è infatti che si può fare da soli? Come possiamo pensare creare unità, di camminare, di essere insieme se questo dono non è un dono che viene da Dio? Io ho chiesto questo dono, che il Signore riesca a farmi strumento di comunione e mi renda capace di vivere in comunione con tutti voi. A me pare di avere alcuni vantaggi e alcuni svantaggi a questo riguardo. I vantaggi sono dati dal fatto che ci conosciamo, ma questo può creare anche degli ostacoli, identificabili in “pregiudizi”. Per quanto mi riguarda, nonostante siano soltanto cinque gli anni passati lontano da questa comunità diocesana, penso di aver compiuto dei passi in avanti e che quindi qualche novità ci sia dentro di me. Vi invito a scoprirla! E io sono convinto che altrettanto è avvenuto per voi. Venendo in Diocesi, mi sono detto: la prima cosa da fare è scoprire il nuovo che qui è spuntato; conoscere i cambiamenti con desiderio di novità. Abbiamo camminato insieme, soprattutto quando ho svolto l’incarico di Vicario Generale e ho avuto tanti motivi di incontro e di conoscenza, però vorrei che ripartissimo con apertura alla novità. Io non penso di avere difficoltà a fare un po’ di tabula rasa sul passato, per presentarci nuovi gli uni verso gli altri. Diamoci questo vantaggio iniziale. Costruiamo come se partissimo adesso e allora il fatto di conoscerci già, diventerà soltanto un vantaggio, anziché portare con sé il limite di pregiudizi che io potrei avere verso di voi e voi potreste avere verso di me. Ho desiderato profondamente di essere libero, libero fino in fondo, e dar credito a ciascuno di voi per poter incominciare di nuovo, valorizzando tutte le qualità che avete, con il desiderio di confrontarci su quello che potremo fare camminando assieme. A questo proposito a me piace aprire una piccola parentesi. Desidero essere Vescovo per voi nel senso che il rapporto con ciascuno di voi ed ogni tipo di decisione che in qualche modo vi riguarda, passi attraverso di me. Avrò certamente collaborazioni, chiederò certamente il parere dei consultori, ad esempio, ma la decisione sarà sempre mia ed è una decisione che cercherò di prendere con l’interessato, dialogando e parlando con lui. Anche se all’inizio del dialogo, per necessità avrò in mente alcuni orientamenti, è nel confronto reciproco che essi troveranno la formulazione conclusiva che potrà essere anche diversa da quella che avevo all’inizio del dialogo stesso. Non vorrei mai dire: «Il Consiglio ha detto … il Collegio ha detto …». No. Se chiedo qualche cosa, lo chiedo perché in qualche modo la proposta è diventata mia ed è giusto che me ne prenda tutta la responsabilità. Penso che questo atteggiamento debba nascere da un atto di fede. Io l’ho sempre vissuto così nei rapporti con i miei superiori e credo che possa funzionare anche tra di noi. Io ho sempre pensato che ci troviamo nella logica dell’Incarnazione che faceva dire a Cristo: «Beato chi non si scandalizzerà di me» (Mt 11,6). Che Dio abitasse nell’umanità di Gesù di Nazaret faceva scandalo. Molte volte mi sono confermato in questo atteggiamento, anche ultimamente, quando mi è arrivata la comunicazione di tornare a Udine… È il Papa che nomina; il Papa ha certamente dei collaboratori, ma alla fin fine devo dire: «Questa per me è la volontà di Dio». Beato chi non si scandalizza di questo fatto. In questo senso, anche per voi, la volontà di Dio passa ora attraverso questa povera testa. Restano comunque due impegni: da parte mia, quello di cercare di capire il più possibile la situazione per scegliere con avvedutezza; da parte vostra, l’obbligo di dare a me tutti quegli elementi che mi permettono di formulare un giudizio adeguato. Non considero virtù il fatto che un sacerdote, per spirito di falsa obbedienza, non faccia presente aspetti, situazioni particolari, che possono essere determinanti per formulare un certo tipo di proposta. È molto importante che avvenga un confronto vero, perché sento in coscienza di dovere in qualche modo avere tutti gli elementi che mi permettano di dire: «Ho fatto il possibile per discernere, ma ora attraverso questa povera testa passa questa conclusione». E credo che questo possa aiutarci a vivere con maggiore serenità, perché diventa tremenda la responsabilità del Vescovo, quando chiede qualcosa a un sacerdote. A noi insegnavano una volta che si è fortunati quando si obbedisce, perché, ci dicevano, se si obbedisce non si sbaglia mai, perché è chi comanda che ha tutta la responsabilità. Proviamo allora a condividerla: io opero in coscienza; cioè, se ritengo corretta una soluzione è giusto che io la proponga, altrimenti andrei contro coscienza. Vi chiedo, però, di poter illuminare sempre questa mia coscienza attraverso il vostro contributo. Scusate questo lungo excursus, ma a me sembrava importante per stabilire i rapporti tra di noi in clima di schiettezza e procedere speditamente sul cammino che stiamo facendo in questa nostra bella Chiesa udinese. La definisco proprio bella, perché certe cose si vedono meglio quando si è lontani da una realtà che quando si è dentro. Io ho cominciato a comprendere meglio il valore della nostra Piccola Patria proprio quando ero fuori a contatto con i Bellunesi che hanno un complesso di inferiorità, perché sono una piccola entità e si sentono emarginati nel grande Veneto, e considerano privilegiata anche la situazione del Friuli. Effettivamente bisogna che ci rendiamo conto maggiormente della ricchezza che questa Diocesi porta con sé, sia in rapporto alla sua storia passata, sia in riferimento alla sua realtà presente. Dico questo non per insuperbire, ma per renderci responsabili dei doni che Dio ci ha dato. Oggi infatti siamo chiamati ad operare in una situazione che ci porta a toccare con mano il cambiamento di cultura, di mentalità della nostra gente. Su questo non occorrono lunghi discorsi, giacché conosciamo tutti chiaramente come la situazione nostra, della nostra gente, del nostro Friuli non è più quella della nostra infanzia. Un cambiamento così radicale richiede certamente a ciascuno di noi un immenso sforzo di comprensione per riuscire a possedere un linguaggio comprensibile che permetta di trasmettere agli altri i valori di sempre, i valori di Cristo. Il primo passo della nuova evangelizzazione implica infatti prima di tutto la ricerca di un linguaggio che possa essere comprensibile all’uomo di oggi. Vi è, però, anche un altro aspetto: cercare da parte nostra di avere gli elementi, gli strumenti per capire anche la cultura odierna, i suoi limiti e i suoi valori. Se non abbiamo questi strumenti, arrischiamo di buttar via, come si suol dire con una frase un po’ banale, il bimbo con l’acqua sporca. Il mondo di oggi è infatti portatore di grandi valori che vanno compresi, e di enormi distorsioni sulle quali siamo chiamati a fare discernimento. Quindi, dobbiamo fare uno sforzo impegnativo, perché la comprensione della nuova mentalità è premessa necessaria per ben operare. Ci troviamo, inoltre, di fronte ad un’altra emergenza che ci tocca molto più da vicino. Si tratta della diminuzione del clero. Questo è un grosso problema che dobbiamo affrontare; un problema che sentivo abbastanza forte già prima di andar via, ma che evidentemente cinque anni dopo si ripresenta con maggior urgenza. Per affrontarlo noi dobbiamo veramente metterci insieme. Non si può oramai pensare di risolvere un problema di questo genere semplicemente dando a un prete una parrocchia in più, e poi un’altra ancora, senza cambiare modo di fare pastorale, perché questo non ha futuro e porta il sacerdote ad esaurirsi anche psicologicamente. Dobbiamo studiare alcune strade diverse. Fino a cinque anni fa, avevamo parlato di sforzarci di creare una maggiore sinergia soprattutto all’interno delle Foranie. Ne discuteremo. Non conosco il cammino fatto in questo tempo, perché cinque anni sono tanti anche per la vita di una Diocesi e io non ho più seguito il vostro cammino dopo essermi trasferito a Belluno. Mi riprometto, pertanto, a cominciare proprio dai prossimi giorni, di stabilire un calendario, per passare in tutte le Foranie. Desidero venire in tutte le Foranie per incontrarvi. Desidero veramente incontrare tutti i sacerdoti, avendo come scopo la presa d’atto della situazione. È importante che io mi renda conto della situazione nella quale si trova ogni Forania e scoprire quali possono essere le prospettive, quali possono essere gli interventi da operare, per promuovere un lavoro fatto insieme. Per questo non siate passivi nel momento in cui verrò. Vi chiedo di ragionarci su, ognuno personalmente oppure trovandovi prima tra di voi, in modo che possiamo darci un effettivo contributo su come procedere in futuro. Si tratta di una prima presa di conoscenza della realtà diocesana che mi sembra indispensabile per poter andare avanti. Voi lo sapete bene che io ho sempre sostenuto che non è solo il problema della diminuzione del clero che ci porta a individuare un modo diverso di procedere. Sarebbe soltanto un’emergenza questa. Io credo che veramente si tratta di fare un salto culturale. Non possiamo pensare la nostra Chiesa se non come una Chiesa aperta. La Chiesa è cattolica per natura sua. Ora, se ieri era normale che la vita civile, sociale, culturale, ecclesiale si svolgesse solo all’ombra del campanile, oggi non lo è più. Oggi anche la vita civile, anzi, in particolare la vita civile, ha rotto questi argini e il suo terreno di azione è certamente più ampio. Basterebbe che pensassimo ai nostri ragazzi, che già dalla scuola materna incominciano ad essere portati a destra e a sinistra, con una molteplicità di opportunità, esperienze e di punti di riferimento. Non possiamo non comprendere che anche la nostra azione non può essere semplicemente limitata all’interno della parrocchia, che pure è chiamata a rimanere la cellula primaria della comunità cristiana e nella quale io credo fino in fondo, ma che non riuscirà ad assolvere ai suoi compiti, se resta chiusa in se stessa. È un po’ come la famiglia. Chi di noi non considera enorme il valore della famiglia? Ma chi di noi non capisce che da sola la famiglia non basta, perché ad un certo punto il ragazzo deve uscire da casa, deve mettersi in relazione con la vita che si svolge al di là del confine della famiglia stessa. Così avviene per la parrocchia. Non possiamo credere di riuscire a far crescere la nostra gente, se rimaniamo soltanto dentro la comunità parrocchiale. Portare i nostri fedeli a fare esperienza di Chiesa aperta – esperienza e non solo conoscenza teorica – cioè mettere veramente in rete alcune cose che permettano di vivere la dimensione reale della Chiesa che è apertura agli altri, è un passaggio che noi dobbiamo fare. La motivazione non proviene, dunque, dalla semplice mancanza di sacerdoti e dalla necessità pratica di darsi una mano. Questa è l’urgenza, questo può essere il segno dei tempi che il Signore ci manda per stimolarci a camminare in questa direzione, ma a me sembra che la motivazione vera, quella profonda, è di carattere autenticamente ecclesiale. E’ lo stesso Concilio Vaticano II che ci ha prospettato una Chiesa-comunione; quindi con gioia vogliamo muoverci nella direzione di una Chiesa aperta, dagli ampi orizzonti, autenticamente cattolica. Il passaggio nelle Foranie sarà, allora, per me la prima vera presa di contatto con la realtà diocesana attraverso voi sacerdoti. Attraverso i sacerdoti solamente? Si, ma non perché i fedeli laici non mi interessano, ma perché è importante che per primi noi preti ci troviamo in sintonia su come vogliamo far crescere i laici, cioè su quale spazio vogliamo dare a loro non solo per questioni di necessità e di supplenza, ma per fare in modo che si sentano pienamente Chiesa. Mi piacerebbe che si imparasse a parlare della Chiesa come di una realtà che ci riguarda tutti: non dire cioè “la Chiesa dice”, ma “noi Chiesa pensiamo, diciamo, facciamo”, perché tutti insieme siamo Chiesa: Vescovo, preti, religiosi, religiose, laici. Tutti siamo Chiesa e abbiamo bisogno di sentire profondamente e di crescere nella dimensione di comunione e di corresponsabilità. Se però, prima di tutto, non cerchiamo di capire noi sacerdoti come vogliamo muoverci, arrischiamo di creare divisioni o per lo meno spazi di non comunione anche nel cammino dei laici. È di vitale importanza che noi, per primi, viviamo la comunione e la corresponsabilità proprio in vista della missione, per l’annuncio di Cristo a questa nostra gente. In questa sfida che ci propone la modernità, possiamo anche provare un senso di smarrimento o di paura, soprattutto confrontandoci con il passato. Ricordo i preti di Tolmezzo, quelli della mia giovinezza: mons. Ordiner, don Primo Sabbadini, don Carlo Englaro, don Egidio Fant… Durante le feste di Natale o di Pasqua erano in grado di contare sulle dita delle mani quanti non erano stati a confessarsi, anche se Tolmezzo non era proprio una piccola comunità! Come è cambiato il tempo da allora! Oggi saremmo costretti a fare l’inverso, contando piuttosto chi è venuto a confessarsi e ciò potrebbe crearci turbamento... Il Vangelo, invece, ci invita a non avere paura, perché la storia è saldamente nelle mani del Signore. Possiamo leggere il nostro tempo attraverso la breve parabola di Cristo che ha detto: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina, perché tutta si fermenti» (Mt 13,33). Ci sono nella storia momenti nei quali la pasta è lievitata – potrebbero essere stati quelli che abbiamo vissuto nella nostra infanzia – e momenti nei quali invece occorre avere lievito da inserire nella pasta da far fermentare. Credo che noi stiamo vivendo uno di questi momenti e pertanto come Chiesa non dobbiamo nutrire un complesso di inferiorità, perché siamo minoranza, ma dobbiamo confidare nella vitalità e nella forza che ha la Parola di Dio, che ha il Vangelo, che ha Cristo oggi come ieri. Egli ci chiede di tornare ad essere veramente lievito. La Chiesa, cioè il nostro essere Chiesa, le nostre comunità, nel loro nucleo centrale, senza escludere nessuno, devono ritrovare la forza del lievito. Dobbiamo interrogarci se possiamo essere "cristiani borghesi" oppure se vogliamo essere veramente operai nel Regno di Dio. Questa è certamente una domanda importante che dobbiamo farci. Chiediamoci: «Ci impegniamo adeguatamente in modo che si viva sul serio il nostro essere Chiesa, perché anche gli altri possano vederla, conoscerla e farsi “fermentare” dal Vangelo che noi trasmettiamo con la nostra testimonianza?». Ricordate le lezioni di mons. Fabro sulle cause e sugli effetti della caduta dell’Impero romano; le cause che si ripercuotono sugli effetti e gli effetti sulle cause, e non se ne veniva fuori… Anche al tempo delle invasioni barbariche ad un certo punto sembrava che tutto dovesse crollare, compresa la civiltà cristiana. Invece la forza della fede è stata capace di far fermentare quella situazione difficile tanto che il Vangelo è divenuto patrimonio comune anche di questa nuova gente. A me sembra che oggi noi viviamo un tempo simile e non mi riferisco alle persone immigrate, quanto piuttosto all’invasione culturale cui stiamo assistendo e che ci ha travolti, ci ha sbalestrati, ci ha disorientati. Ebbene, siamo di fronte ad una grande sfida. Vuol dire che il Signore ci domanda di essere lievito anche nei confronti della modernità che è di casa anche nel nostro Friuli, perché tutta la realtà possa recuperare la luce del Vangelo che dà forza per poter crescere, per poter migliorare. Io guardo con ottimismo al nostro futuro, perché, se è vero che è Dio che conduce la storia vuol dire che comunque anche questa è storia di salvezza e noi ci siamo dentro e non viviamo una storia fallimentare. E’ una certezza che dobbiamo possedere e che dobbiamo vivere. Infatti, se ci lasciamo andare al pessimismo, di quale speranza possiamo essere testimoni? Di quale speranza possiamo dare ragione? Dobbiamo quindi coltivarla accuratamente dentro di noi per comunicarla agli altri, come il Signore ci chiede. Evidentemente tutto questo ci porta ad un certo modo di essere, di stare insieme, di vivere, di operare. Quanto è importante la nostra capacità di stare insieme! Ho chiesto per questo al Signore una grazia particolare: che mi dia un supplemento di immaginazione. Se la mia immaginazione è piccola, costringo gli altri a star stretti dentro a quel piccolo spazio che riesco ad immaginare. Se il Signore mi permette di avere un’immaginazione più ampia, allora ci posso far star dentro più gente e con maggior comodità! Molte volte noi siamo incapaci, proprio per mancanza di immaginazione, di accogliere l’altro, semplicemente perché è diverso e non perché ha qualcosa che è contrario ai principi di fondo; solo perché è fatto in un altro modo. Sono venuto qui per incontrarmi con voi e mi sono detto: devo andare in clergyman o in veste al primo incontro? Forse sarebbe stato più bello che fossi venuto in veste, ma ho detto: desidero presentarmi a voi così come sono senza problemi. Perciò ho scelto il clergyman. È un piccolo esempio, una banalità, ma se nelle nostre relazioni saremo capaci di maggiore immaginazione, saremo capaci di offrire tranquillamente un’accoglienza più grande senza “tagliare a fette” gli altri, solo perché sono diversi da noi! Cerchiamo effettivamente di avere un cuore ampio, un cuore largo, un cuore aperto e generoso! Vi do ora una comunicazione, prima del momento di confronto e di dialogo. E’ solo una annotazione pratica, ma che indica veramente il mio desiderio, la mia passione di voler stabilire con i preti un rapporto privilegiato. Ho parlato della visita alle Foranie, ho parlato del tipo di rapporto tra prete e Vescovo, dicendo che si tratta di un rapporto concreto e speciale, perciò venite quando volete dal Vescovo. Io vi inviterei, se non ci sono motivi particolari, ad evitate il momento in cui è scritto nel diario "Riceve in Curia", perché se venite in quella occasione, correte il rischio di dover aspettare troppo a lungo e di dover fare in fretta pensando che altri stanno aspettando fuori. Vi invito caldamente a venire in qualunque ora, privatamente, nella casa del Vescovo. Telefonate, cercate di concordare il momento più opportuno per voi e per me e così potremo parlare con distensione, con calma, affrontando al meglio quelli che possono essere i vari problemi. Desidero essere veramente a vostra disposizione. Meglio ridurre un attimo le udienze per tutti e dedicare a voi più tempo e attenzione, per vivere un rapporto sereno e franco insieme. Concludo ricordando per un momento il tempo del Giubileo che abbiamo vissuto. Quella Porta simbolica è stata chiusa; essa aveva uno scopo solo, quello di farci incontrare con Cristo. Auguro che veramente questo sia avvenuto prima di tutto in ciascuno di noi, che cioè siamo riusciti a capire che Cristo è colui per il quale ognuno di noi ha dato la vita. È Lui che abbiamo scelto, è per Lui che abbiamo deciso di camminare, di andare avanti. Alore in non di Crist anin in denant, cence vê nissune pôre! Grazie!