Carmelo Vigna
La politica, il sacro e il santo
1. Il sacro può ancora avere a che fare con il politico? E il Santo? La
domanda può parere un po’ peregrina nell’Occidente laico, anzi nell’Occidente da
tempo secolarizzato. Ma troppi segni dicono che la secolarizzazione, se ha
drasticamente ridotto l’impatto sociologico del sacro, non ha tuttavia ridotto
l’impatto etico del sacro negli esseri umani. E neppure del Santo. Il quale, infatti,
rispunta qua e là sotto molte forme, ivi compresa una ripresa dell’interesse per la
fede cristiana. In sede poi di filosofia politica, la riedizione del sacro e del Santo
appare soprattutto, a mio avviso, come coltivazione, sempre più insistita, e
dell’etica politica e, soprattutto, della teologia politica, con il corredo, purtroppo,
del fondamentalismo. Non voglio qui riproporre tematiche à la Schmitt. Più
semplicemente intendo svolgere un gruppo di considerazioni che possono
condurre sino a lasciar apparire il sacro e il Santo come un inevitabile rimando
delle relazioni politiche, se queste sono da pensare come strategie di buona vita
per una comunità di persone. Per ottenere (spero) questo “effetto” devo fare un
giro un po’ lungo. Prego perciò chi ascolta d’avere un po’ di pazienza.
2. Prendiamo le mosse dal politico in generale. Il problema di sempre del
politico è quello delle condizioni del convenire, per un verso, e della progettazione
delle forme della vita collettiva, per altro verso. Questi due lati fanno circolo, per
la verità. Ma qui possiamo anche trattarli come principio e fine del politico.
Ebbene, da un certo punto di vista si può dire che, dopo l'ultimo mezzo secolo di
discussione intorno alle forme della politica, ci troviamo quasi nella necessità di
difendere non più un progetto di costruzione del "bene comune", bensì la
salvaguardia delle semplici condizioni del convenire o del convivere. Ogni
progetto di costruzione del "bene comune" sembra, in effetti, inevitabilmente
consegnato alla totalizzazione ideologica. L'effetto di Una teoria della giustizia di
J. Rawls (1971) è stato per molti versi decisivo. Ma tale effetto è stato di molto
accresciuto dal tramonto delle grandi ideologie (1989) e dalle nuove realtà della
globalizzazione e dal multiculturalismo.
3. All'impegno politico si presenta, dunque, uno spettacolo molto diverso da
quello del secolo appena trascorso. Cinquant'anni fa dominava ancora, appunto, il
tema della progettualità socio-politica e marxismo e liberalismo gareggiavano nel
disegnare il futuro della comune convivenza. Oggi il tema della progettualità
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socio-politica ha abbandonato ogni pretesa totalizzante e si è trasformato, almeno
in apparenza e nel migliore dei casi, in una ingegneria complessa, in cui prevale
l'intervento circostanziato e limitato a tempi brevi. L'attuale crisi finanziaria dei
mercati ne è un esempio grandioso e lampante.
4. Fondamentalmente (e semplicisticamente) il cittadino oggi chiede una
certa equità nel versamento di contributi destinati a tenere in piedi la macchina
statale e una certa efficienza nella erogazione dei servizi da parte di tale macchina.
Da tempo in Occidente si è anche passati, come si dice comunemente, dai diritti
civili ai diritti sociali, e quindi da uno stato garante ad uno stato erogatore di
servizi. Purtroppo di frequente il cittadino non ottiene né l'una né l'altra cosa.
Anzi, in tempi recenti, non solo lo stato come erogatore di servizi, ma anche lo
stato come struttura organica costituzionalmente protetta, è entrato in fibrillazione.
O meglio: è entrata in fibrillazione la modalità rigida della rappresentanza politica
mediata dalla forma-partito. Questo però è discorso che per ora può essere lasciato
da parte.
5. Sfrutto l'osservazione appena fatta per suggerire che, se oggi siamo dinanzi
ad un certo tramonto del politico, almeno nell'Occidente post-industriale, lo siamo
nel senso che la società civile, negli ultimi decenni, ha assorbito in sé ciò che una
volta era, almeno in parte, contenuto della sfera politica; ma lo siamo soprattutto
nel senso che il compito politico sembra troppo difficile da eseguire ed è in effetti
non di rado tradito da coloro che ne sono in prima battuta responsabili. Ad una
sorta di processo di disseminazione di progettualità creativa in seno alla società
civile sembra corrispondere una sorta di discredito e di scetticismo quanto alla
sfera politica. La sfera politica sembra non riuscire più ad occuparsi della cosa
comune ed essere diventata, piuttosto, il luogo di una distribuzione corporativa
delle risorse. Quando non si giunge, come ad esempio in Italia (ma certo non
soltanto in Italia), a forme molto gravi di corruzione e di spreco. Il cittadino medio
tende perciò a ritrarsi dalla politica o semplicemente cerca di profittarne.
6. Di fronte all'ingestibilità della progettualità politica., e pure di fronte al
discredito della politica, si capisce perché vi sia un generale movimento di
conversione dai fini ai fondamenti della comune convivenza. Ma questa
conversione a me pare, in realtà, non tanto una conversione dalla progettualità
politica all'amministrazione della società civile, quanto, come già osservavo, una
qualche conversione dalla politica all'etica e dall’etica, attraverso l’etica politica,
alla teologia politica. Il sacro e il Santo appaiono a molti come una sorta di rifugio
dall'umana fragilità e dalla diffusa corruzione dei costumi. E anche come un luogo
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di identità culturale resistente a qualsiasi forma di crisi o di dubbio. Il
grandeggiare attuale delle religioni del Libro e le forme sempre più diffuse e
pericolose di fanatismo ad esse collegate ne sono, a mio avviso, un sintomo
inquietante. L'etica, che è essenzialmente una purificazione dell'ethos mediante la
critica della ragione, si trova così in serie difficoltà.
7. Ci si è convertiti all'etica, quasi per esaurimento della sfera politica: questo
ho appena suggerito. Ma l'etica non pare offrire uno spettacolo diverso dalla
politica, nonostante oggi la si chiami fuori, l'etica, per dirimere, quasi giudice
supremo, i conflitti tra il politico, il sociale e il privato; anche l'etica, infatti, ha i
suoi problemi, né suscita consensi facili, quando si va a determinare caso per caso
che cosa può dirsi garantito dall'etica. Sono note ad es. le polemiche sulla bioetica,
tanto per citare uno dei temi oggi forse più rilevanti, anche per le sue immediate
ripercussioni in ambito politico. Dobbiamo dunque mettere sul conto della nostra
quotidianità una eclisse anche dell'accordo sulle convinzioni etiche? Così pare. E
il multiculturalismo spinge nello stesso senso. Fino a qualche decennio fa la
trasgressione prendeva di mira la legge politica (si ricordi la temperie
sessantottina); oggi quel tipo di trasgressione sembra rientrata e sembra, appunto,
presa di mira anche l'etica. Cito solo un sintomo, ma vistoso: ciò che si discute
con sempre maggiore frequenza è la possibilità di stabilire regole per tutti che
siano regole puramente convenzionali o formalistiche, anche sul piano "etico".
L'area anglosassone, più sperimentata in fatto di multiculturalismo, ha avanzato
non poche proposte in tal senso. Ma bisogna pur dire che ogni formalismo
convenzionalistico contiene in sé il difetto radicale di valere tanto per le cose
buone quanto per quelle malvagie (anche una organizzazione mafiosa rispetta una
serie di convenzioni...), sicché serve solo a scansare il problema fondamentale,
anzi che a risolverlo. Ed è qui che il bisogno di stare al sostanziale tende alla
compensazione dell’etica politica con la teologia politica. Almeno nel senso di
ricorrere ad elementi o frammenti di rimandi all’etica e al sacro e al Santo, per
ottenere coesione e consenso. Una certa fiducia nell’universale rispetto dell’essere
umano e un certo rimando ad una fede paiono non di rado un collante più potente
di qualsiasi considerazione ideologica, visto anche il discredito su larga scala
patito dalle ideologie novecentesche.
8. Eppure, dell’etica e della politica, in realtà, nessuno può fare a meno.
Detto in altri termini, l'etica, come tutte le cose "necessarie" per la vita degli
uomini, si raccomanda da sola. Come tutte le cose "necessarie", l'etica ricompare e
persino domina anche là dove la si vuole a tutti i costi esorcizzare. E così pure la
politica. Ma lo stesso si deve dire del sacro e del Santo? Io penso di sì (e dirò tra
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poco perché). Solo che tutte queste cose prendono vesti diverse da quelle di una
volta: tendono a frantumarsi in molti rivoli o assumono andamenti carsici. Per
esempio, l'etica e la politica diventano oggi cura del mondo della natura o riscatto
del femminile, lotta per l'integrazione delle etnie o sostegno per gli emigranti e gli
emarginati. Il sacro compare come sacralità della vita umana o come speranza
diffusa in un destino trascendente di salvezza. Il Santo compare come gratuità e,
purtroppo, anche come il Terribile, che deve essere ubbidito in ogni caso, persino
a spese dell'umano. Comunque, quando e a misura che appaiono onorate, queste
dimensioni del senso della vita umana sembrano rendere possibile la convivenza,
perché esse si presentano come custodi di ciò che accomuna gli esseri umani nel
profondo. Più di quanto accada alla semplice fattualità dell'ethos. L'etica e la
politica e soprattutto il sacro e il Santo sembrano qualcosa di infinitamente più
prezioso dell'ethos. Sono in effetti il giudizio sull'ethos a partire dalla verità del
desiderio umano, se intendiamo per ethos ciò che appare come la realizzazione
storico-fattuale di tale desiderio.
9. Abbiamo evocato la "verità" a proposito del desiderio umano. In realtà,
l'etica e la politica sono solitamente intese come il luogo del riferimento
all'"oggettività" normativa. Il sacro, a modo suo, contribuisce potentemente al
rinsaldo. Il Santo ne appare la custodia assoluta. Ma l'"oggettività" qui che cos'è,
se non l'universale regno della ragione, cioè appunto la "verità" di quel che il
desiderio del singolo o della collettività desidera? Una certa eclisse dell'etica e
della politica, in particolare, sembra l'eclisse della consapevolezza di questo
legame originario con l'universale dell’esistenza, anche se il rimando al sacro e al
Santo pare offrire qualche compensazione.
10. E allora? Come far fronte a questa “sfida” paradossale del nostro tempo,
che vorrebbe fare a meno dell’universalità, proprio mentre la invoca per governare
la frammentazione delle esperienze dei singoli e dei molti? Semplificando non
poco, io azzarderei questo tipo di risposta. Un codice universale di natura
semplicemente teorica, cioè veritativa, sembra diventato di fatto improponibile.
Questo non significa che sia impossibile. Significa semplicemente che la cultura
dominante, incline al relativismo e allo scetticismo, non lo cerca e non lo vuole. In
fondo, ne dispera. Eppure, tenta di rimediare a questo fallimento epocale mediante
la ricerca di un codice pratico. E' degna di rilievo la circostanza che gli "ultimi
fuochi" della “fondazione” di qualcosa siano, nel pensiero filosofico occidentale,
di tipo etico-pratico (cfr. ad es. le proposte di Apel). Ma anche la fondazione
dell’eticità, purtroppo, è… un che di teorico. Perciò non funziona più di tanto.
Ossia: anche l'etica e la filosofia della politica dividono. Sembra che unisca,
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piuttosto, la pratica tout court, e in particolare la pratica del sacro e del Santo,
forse perché nella pratica ci si deve necessariamente determinare così e così. La
pratica è "reale", si pensa, o è almeno la riconduzione del pensiero alla realtà
(laddove la teoria è la riconduzione della realtà al pensiero e quindi sembra offrire
un margine maggiore alla variazione soggettiva). Ma non ci si illude anche da
questa parte? E’ vero. La pratica, come alternativo terreno di intesa, sembra più
efficace della teoria, perché si orienta al reale, e il reale tendenzialmente unifica,
se e quando ci è dinanzi (almeno in qualche modo), più di quanto non accada alla
teoria, che soffre degli equivoci insuperabili della comunicazione.
11. Storicamente parlando, l’universalità da noi cercata, nella modernità
occidentale, era stata trovata nell’universale della ragione, erede dell’universalità
medievale della fede cristiana, erede a sua volta dell’universalità un po’
naturalistica della ragione greco-classica. Fu l’illuminismo, come si sa, ad imporre
la ragione moderna come codice universale in Occidente. Quell’universale della
ragione, però, esigeva una teoria univoca della ragione. La ragione illuministica
era, in effetti, la kantiana “ragione pura”. Univoca, appunto. Solo che la ragione,
da Kant in avanti, è progressivamente diventata “impura” e l’univocità è diventata
una vera e propria “equivocità”. Per proseguire e inseguire gli sviluppi del
pensiero occidentale contemporaneo, bisogna aggiungere che si è passati dalla
ragione impura alla ragione “destrutturata” o “decostruita” (Derrida), cioè alla
ragione che ha rinunciato al senso della "totalità" della realtà e si è racchiusa nella
descrizione del puro “molteplice” (Deleuze). E’ soprattutto questa
destrutturazione che, negli ultimi decenni, ha determinato la fuga dall’ontologia e
il rifugio nella (presupposta) efficacia della prassi, di cui prima si è fatto cenno.
Ma universale (trascendentale) non è la prassi in sostituzione della teoria.
Universale è qualcosa della prassi come qualcosa della teoria. Universali sono
propriamente i primi principi della teoria e i primi principi della prassi. E sono
anche principi conosciuti e onorati da gran tempo: l’opposizione tra positivo e
negativo è poi il principio di tutti i principi, sia teorici sia pratici; opposizione
custodita, nella teoria, dal principio di non contraddizione (impossibile che
qualcosa insieme sia e non sia) e, nella pratica dalla elementare opposizione tra il
bene e il male (ossia: fa il bene ed evita il male). Ma, certo, delle indicazioni tanto
generali non bastano per noi, che cerchiamo il legame tra il politico, il sacro e il
Santo.
12. Una maggiore approssimazione al nostro obbiettivo richiede, in effetti,
una manovra aggiuntiva, cioè una individuazione antropologica di questi
generalissimi principi. Noi dobbiamo cercare ciò in cui gli esseri umani possono
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convenire. Ciò che li può accomunare. Ora, la vivente individuazione
antropologica del principio di non contraddizione è nient'altro che la ragione
umana come abito dell’intellezione dei principi speculativi; così come la vivente
individuazione antropologica dei principi pratici (il male da fuggire e il bene da
seguire) è il desiderio umano come abito della “sinderesi”. Questo ogni essere
umano, sul piano del buon senso, lo intuisce e lo pratica di fatto quotidianamente.
Ma il buon senso non riesce poi a districarsi nella difficoltà di intendere come mai
la ragione umana onori fino ad un certo punto la verità e come mai il desiderio
umano segua sino ad un certo punto il bene. In alcuni pensatori, la difficoltà si
trasforma nella impossibilità di sapere cos’è la verità della ragione e
nell’impossibilità di determinare qual è l’oggetto buono del desiderio. E anche
nell’impossibilità di indicare il vero luogo del sacro e il vero volto del Santo.
Motivo? Di bel nuovo: l’eterogeneità indecidibile delle opinioni e delle pratiche.
Come se non fosse compito proprio della teoria stabilire, tra molte opinioni e
molte pratiche, qual è quella vera.
13. Questa convinzione diffusa di indecidibilità va indubbiamente contrastata,
anche se ha molte ragioni storico-fattuali dalla propria parte, perché presuppone
l'impossibilità apriorica di stabilire un codice comune tra gli esseri umani e un
loro comune sentire, mentre gli esseri umani si intendono, nonostante le differenze
culturali, e convivono, nonostante i conflitti endemici. Il pluralismo, che pure
appare un ostacolo considerevole, non può essere, in sé e per sé, un ostacolo
assoluto. Evidentemente, ci deve essere un senso secondo cui il pluralismo attacca
la possibilità stessa di reperire un’unità di codice e un senso secondo cui non osta.
E in effetti, un altro senso di pluralismo c'è e si scopre quando si riflette al fatto
che l'unità di codice attaccata è sostanzialmente quella di un codice egemonico.
Ciò che si rifiuta, in altri termini, quando ci si scaglia contro una proposta di
universalità di codice, non è tanto l’universalità o l'unità di codice in sé, quanto lo
spettro della dipendenza di una cultura da un'altra, che si proclama universale,
cioè egemone. Ciò che si difende è, quindi, l'indipendenza culturale. Il problema è,
allora, di tipo etico-politico, non di tipo teorico-ontologico. Si rifiuta, solitamente
e di fatto, la forma del dominio, non la possibilità di convivere mediante il
riferimento all’universale.
14. Ma si può convivere senza la forma del dominio? Questo è, in ultima
istanza, il vero problema, depurato dai suoi falsi equivalenti. E qui l’etico e il
politico volgono rapidamente verso i luoghi del sacro e del Santo. Che lo
sappiano o meno. Per capire il senso di questa indicazione, in certo modo
conclusiva, dobbiamo anzitutto introdurre una breve presentazione di quel che si
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può determinare come l’opposto di una relazione di dominio, cioè dobbiamo
richiamare per l’essenziale la forma del reciproco "riconoscimento".
15. Che il riconoscimento reciproco sia l’opposto della relazione di dominio,
è tesi facilmente intuibile, oltre che nota. Così come è intuibile la conflittualità
permanente che il dominio di un uomo sull’altro uomo scatena. Un po’ meno
intuibile è l’effetto risolutore, rispetto al conflitto, della relazione di
riconoscimento. Ma lo si può argomentare, tale effetto, anche mostrando che la
relazione riconoscente è l’unica relazione pratica intersoggettiva in cui due o più
soggettività possono convivere in tutta la grandezza della loro natura razionale.
Ogni soggettività, infatti, ha bisogno d’essere riconosciuta come un orizzonte di
senso inoltrepassabile, cioè intenzionalmente infinito, perché tale essa è per via
del logos che la informa. Ma non si riesce facilmente a capire proprio questo,
come, cioè, due o più soggettività possano coesistere nella loro infinità
intenzionale. Sulle prime, più infinità, per quanto semplicemente intenzionali,
sembrano incompossibili. L’una sembra togliere all’altra proprio tale carattere
(Sartre). Di qui l’impulso al conflitto e quindi alla potenziale esterminazione
dell’altro. E in effetti l’esito è inevitabile, se ogni soggettività viene innanzi, come
accade nella relazione di dominio, esigendo anzitutto dall’altra il riconoscimento
signorile. Cioè imponendolo. L’altra, per lo più, farà lo stesso con la prima. Così
entrambe le soggettività finiranno per lottare per la vita e per la morte. Non così,
se ogni soggetto, anziché esigere d’essere riconosciuto nella sua signoria, viene
innanzi offrendo anzitutto il riconoscimento della signoria dell’altro. Non così, se
l’altro, riconosciuto, viene innanzi riconoscendo a sua volta la signoria del primo.
Poiché la signoria in tal caso non è predata, ma reciprocamente offerta, accade che
ognuna delle due coscienze sia resa signorile dall’altra, mentre ognuna delle due si
professa serva dell’altra. E poiché si professa liberamente serva, resta nella
propria signoria anche quando serve. Due signorie, così chiasmaticamente
incrociate, non sono più incompossibili, anzi si sostengono e si alimentano a
vicenda. L’inciampo dell’ostilità è qui tolto in via di principio.
16. Concordo, dunque, sostanzialmente con quanti (Levinas, Ricoeur, Taylor,
Honneth, ecc.) valorizzano a fondo questa cifra onto-etica, che è di grande
importanza anche in ambito politico. L’indicazione, naturalmente, non va intesa
come esclusiva d’altro, ma come una ragionevole preferenza del nostro tempo. Un
essere umano, alla fin fine, capisce sempre qualcosa di quel che gli si dice, perché
ha in comune con un altro essere umano molte più cose di quanto non si sia
disposti ad ammettere (anzitutto, naturalmente, il fatto d’essere un essere umano).
Tra queste, non si può negare che vi sia il buon uso della ragione. Quindi il
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rimando ai grandi principi della ragione non può non toccarlo. Si discuterà pure
del senso della ragione, eppure sempre secondo ragione. Ma un essere umano
vuole, ancor prima e ancor più, essere riconosciuto come tale, cioè essere accolto
come un essere umano. Gli umani lo sanno da molto tempo e non per nulla hanno
chiamato questo tipo di relazione con un nome importante: “regola d’oro”. Il
primo codice universale e il più efficace è proprio questo.
17. Il primo codice universale e il più efficace. In effetti, il movimento di
riconoscimento si riferisce all’intero dell’esistenza di un essere umano, mentre il
codice legato all’universalità della ragione ha un impatto più circoscritto. Lavora
nella forma dell’universalità, senza alcun dubbio, ma tende a mettere tra parentesi
le altre modalità di relazione, da una parte; d’altra parte, esige un alto grado di
formazione per essere esercitato e anche recepito come tale. In altri termini, la
ragione è un codice universale, ma il suo esercizio pieno è un fatto aristocratico. Il
riconoscimento è un codice universale più complesso, ma più praticabile dai più,
perché prende a veicolo l’intero dell’esistenza, mentre si rivolge all’intero
dell’esistenza dell’altro. Un gesto di riconoscimento può esser fatto da chiunque lo
voglia, un discorso razionale può essere costruito solo da chi è stato addestrato.
18. Orbene, il luogo del riconoscimento è il luogo stesso del sacro e del
Santo. Come dire che il sacro e il Santo propriamente appaiono ogni qual volta
appare una relazione di riconoscimento. Se questo è vero, ne segue che la politica
si rapporta in profondità al sacro e al Santo ogni qual volta si orienta verso la
costruzione di tali rapporti. Ma in che senso questo è vero? Dobbiamo sostare un
poco su questo punto, prima di concludere il nostro piccolo viaggio.
19. Cominciamo con il distinguere il "sacro" dal "Santo". Io qui mi servo
implicitamente di alcuni riferimenti alla storia delle religioni e alla filosofia della
religione. E sto, comunque, alle nozioni più comuni e più condivise. E allora
ricordo che si intende solitamente per "sacro" tutto ciò che ha "a che fare" con il
divino, nella sua accezione più lata. Ossia: "sacro" è ciò che appartiene al dio. Si
intende invece solitamente per "Santo" qualcosa che si predica della natura stessa
di Dio. Si tratta di un Dio personale e soprattutto di un Dio che è la fonte o il
fondamento di tutto ciò che è buono e giusto. Il Dio di Abramo, per intenderci;
quello che accomuna da millenni tutti i credenti delle religioni del Libro: ebrei,
cristiani e musulmani. Si spiega così in qualche modo la tendenziale ambiguità del
"sacro" di contro alla tendenziale "univocità" del "Santo". "Sacro" infatti dice,
anzitutto e per lo più, di ciò che gli esseri umani riservano al dio; poi anche di ciò
che il dio riserva a sé. Ma, di nuovo, secondo che gli esseri umani intendono. Il
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"sacro" è, quindi e soprattutto, un prodotto dell'umano e delle sue proiezioni sul
divino. Contiene in sé spesso le cose migliori degli uomini, ma anche le loro cose
peggiori. Il "Santo" dice invece che di Dio si possono predicare solo le cose
migliori degli umani e soprattutto che di Lui si deve predicare la verità e il bene,
assolutamente considerati. Il Santo, insomma, è il Dio come lo conosciamo in
primo luogo attraverso la Rivelazione consegnata nelle Scritture.
20. Ora, il principio del reciproco riconoscimento disegna una sorta di eticità
originaria che appare come un momento interno alla Rivelazione religiosa e anche
come un momento universale di quella Rivelazione. Detto in altri termini: il
principio del reciproco riconoscimento è meno della Rivelazione religiosa per via
della sua semplicità contenutistica, ma è più della Rivelazione religiosa,
storicamente determinata, per via della sua universale radicalità formale. Un po’
come accade al principio di non contraddizione. Esso è ben poca cosa,
contenutisticamente, rispetto alle determinazioni veritative di ogni tipo, ma è nel
contempo la massima regola della verità. Questo spiega perché il principio del
reciproco riconoscimento possa essere considerato come il sommo compendio
delle relazioni sia umane che umano-divine (nell’ebraismo, nel cristianesimo, ma
anche altrove, con ogni probabilità). Il cristianesimo poi è molto esplicito in
questo: la rivelazione che annuncia Gesù di Nazareth rimanda ad una originaria
giustizia che sta ben oltre la Legge. Quindi l’apparato religioso storicamente dato
(compreso quello cristiano) è una sorta di individuazione storica della giustizia
originaria o assoluta, non mai un suo oltrepassamento.
21. All’interno della rivelazione di Gesù di Nazareth si compiono comunque
due movimenti: il primo movimento comincia, per dir così, dalla Rivelazione
cristiana e termina - come procedendo a ritroso nel principio del
riconoscimento reciproco, nel senso che la Rivelazione cristiana contiene in sé –
cioè implica necessariamente – il rimando all’universalità etica del
riconoscimento. Il Dio di Gesù Cristo è incomprensibile, infatti, senza la
opposizione tra bene e male, senza la libertà umana, senza la responsabilità per
l'altro uomo ecc. Un’etica è certamente presupposta dalla Rivelazione e quindi il
principio del riconoscimento reciproco in questo senso è interno alla Rivelazione
cristiana come lo sono tutti i grandi principi della vita etica. Il secondo movimento
comincia dal principio del reciproco riconoscimento e termina - come con un
movimento in avanti - nella Rivelazione cristiana, nel senso che tale principio,
nella sua universalità, è in grado di stare in equazione con il Cristianesimo, inteso
come il massimo pensabile della sua interna dilatazione. Per ottenere questa
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dilatazione massima, basta applicare il senso dell’intersoggettività etica, alluso dal
principio, anche al rapporto tra l’uomo e Dio.
22. Concedo volentieri che senza la Rivelazione cristiana questa applicazione
sarebbe stata impossibile da mettere in conto. La Rivelazione cristiana è, infatti,
proprio questo: la notizia che Dio vuole avere a che fare con l’uomo secondo una
dedizione reciproca incondizionata. E se Gesù di Nazareth non fosse venuto a
predicare e a praticare questo, gli umani non avrebbero potuto immaginare la
portata di questa relazione. Soprattutto non avrebbero potuto concepirne la forma
incondizionata (incondizionata sino alla kenosi del Figlio Eterno), nonostante la
storia del popolo ebraico lasci già intendere la possibilità dell’accadere in futuro di
qualcosa di simile.
23. Il cristianesimo ha insistito in modo radicale sull’amore del prossimo; ha
insistito, cioè, sino a comandare l’amore del nemico: cosa che lo rende unico sulla
faccia della terra. Ma dovremmo ora abituarci a pensare e praticare l’amicizia
verso ogni altro uomo anche come un comando semplicemente etico. Sino a
considerare anche l’amore per il nemico un comando etico. Qui non si tratta di
svuotare la peculiarità del messaggio cristiano, a favore di una vaga morale di
sapore gnostico. Si tratta piuttosto di far vedere che ciò che il comandamento
cristiano comanda non è estraneo alla natura dell’umano, anzi è a tale natura in
certo senso omogeneo. Era però necessario che qualcuno venisse autorevolmente a
dire questo come la verità dell’uomo e soprattutto che qualcuno venisse
autorevolmente a dare la forza di praticare veramente tutto questo. Gesù di
Nazareth è questo annuncio e soprattutto è questa forza. E' la grazia di Dio fatta
persona. E Gesù di Nazareth è un uomo vero, non un alieno; e proprio mentre è il
Figlio Eterno, cioè il Dio vero. In altri termini, la predicazione di Gesù di
Nazareth non chiede affatto di far qualcosa contro la nostra natura e neppure al di
fuori di essa. Chiede invece di ascoltare la nostra natura sino in fondo; sino al
punto in cui essa prende per sé il compito dell’universale buona relazione con
ogni altro uomo, a partire dalla buona relazione con Dio. Ciò che giustamente
viene chiamato dalla teologia della tradizione cattolica col nome di
‘soprannatura’, non è ‘soprannatura’ nel senso di estraneità alla umana natura, lo
si ripete sempre e giustamente; lo è nel senso che dice potenziamento dell’umana
natura - mediante la potenza di Dio. Ma l’umana natura resta pur tale. Un uomo
redento resta sempre un uomo, non diventa un essere spirituale d’altra specie.
Questo mistero, che riguarda ognuno di noi, è certamente analogo al mistero di
Gesù di Nazareth. E del resto, è in Lui che per primo tutto questo è accaduto; ed è
perciò in lui che sta la verità ultima d’ogni figlio d’uomo.
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24. Il sacro e il Santo si rivelano dunque propriamente in Gesù di Nazareth.
Questo dire appartiene alla fede teologale cristiana. In Lui il sacro e il Santo
appaiono come la realizzazione piena e assoluta del principio del riconoscimento
reciproco. In termini simbolici, la cosiddetta "lavanda dei piedi" narrata da
Giovanni è l'episodio esemplare di questa realizzazione, da partecipare
potenzialmente a tutti gli umani. La Cena pasquale ne è invece la realizzazione
una volta per tutte. Che cosa abbia a che fare tutto questo con la politica ora forse
si intravede a sufficienza. La politica si fonda sulla giustizia (commutativa e
distributiva), ma vive solo e sin dove realizza l'amicizia. L'amicizia, nella sua
forma piena, è il volere il bene dell'amico, e questo in reciprocità. Ma il primo
bene dell'amico è l'altro come amico, cioè un essere umano riconosciuto come
tale, che è a sua volta verso di noi riconoscente. Aristotele già lo sapeva. Ora,
nessuno può riconoscere un essere umano come tale, se non ne riconosce la
signoria, cioè la sua soggettività come un orizzonte inoltrepassabile, che sta
dunque sempre a guisa di fine in sé e mai a guisa di semplice mezzo (Kant). Ma
esattamente questo insegna il sacro in quanto è Santo. Cioè questo insegna il
Santo. Ma il Santo non solo questo insegna; questo soprattutto permette di
praticare, perché solo il Santo riconosce senza stancarsi mai. Quindi Egli sta
all'origine di ogni rapporto di riconoscimento che nutre la vita politica. E poi, solo
il Santo restituisce il riconoscimento, quando esso viene negato. Il Santo infatti è
sempre fedele, perché non può rinnegare se stesso. Come sta scritto.
25. Quando il Santo viene però sequestrato dagli umani per dare principio non
al riconoscimento reciproco, ma alle forme del dominio dell'uomo sull'altro uomo,
allora viene semplicemente "usato" per proteggere le forme peggiori del sacro. O
meglio: le forme peggiori degli umani, ammantate di sacralità. Tutte le strutture
teocratiche inclinano facilmente da questa parte. In ogni caso, per scongiurare la
manipolazione del Santo in politica, che è poi, in ultima istanza, la deriva
fondamentalista (oggi sono soprattutto alcune realtà dell'Islam a realizzare questo
modello; ma non sono solo quelle, come tutti sanno), bisogna salvaguardare
rigorosamente la "laicità" del politico, come l'Occidente ha capito e realizzato
soprattutto nella sua storia moderna. Questa salvaguardia si dà però attraverso il
riconoscimento dell'autonomia strutturale delle reciprocità degli umani. In altri
termini, il riconoscimento reciproco degli esseri umani deve essere inteso e
trattato prima di tutto come una struttura antropologico-trascendentale e non come
una struttura "religiosa" o "fideistica". Esso, insomma, non è alcunché di
"soprannaturale", "requisibile" da una fede piuttosto che da un'altra. Anzi è da dire
che le varie fedi diventano politicamente significative a misura che concorrono
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all'esercizio pieno di questa struttura. Esse perciò possono e debbono "nutrire" il
politico, ma non mai surrogarlo.
26. L'autonomia del politico, ossia la sua "laicità", è, del resto e a sua volta,
una specie di salvaguardia del sacro e soprattutto del Santo. Impedisce infatti che
la fragilità della vita politica oscuri la luce che è propria del Santo. Nella storia
degli umani, se i rappresentanti del Sacro e del Santo hanno tentato più volte di
impadronirsi del politico, almeno altrettante volte i rappresentati del politico
hanno tentato di impadronirsi del sacro e del Santo. Sotto tutti i cieli. Nell'un caso
e nell'altro, non è certo il sacro e il Santo e neppure il politico, in quanto tali, a
inseguire il gioco del dominio, quanto lo spirito di trasgressione del principio del
riconoscimento reciproco che sta a fondamento d'ogni relazione tra soggettività
razionali. L'opposto del riconoscimento reciproco è infatti il reciproco tentativo di
dominio dell'uomo sull'altro uomo e persino sul divino. E se questo opposto
inquina il politico con una stupefacente facilità, a volte inquina anche il sacro e il
Santo, per il semplice fatto che il sacro e il Santo accadono sempre nel mondo
degli umani e attraverso la vita degli esseri umani. I quali sono spesso sedotti,
purtroppo, dalla tentazione di trasgredire precisamente quello dovrebbero
testimoniare: dovrebbero testimoniare una signoria da tutti posseduta, ma anche
da tutti ricevuta reciprocamente in dono.
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