Libertà di parola e protezione dei dati MARIO JORI 1. Introduzione e teoria generale La legge 675/96, quando fu finalmente approvata, fu salutata come un grande passo avanti per il nostro diritto e per i nostri diritti. Si disse che l’Italia si era finalmente data una disciplina che promuoveva d’un colpo il paese dalla retroguardia all’avanguardia nella protezione del diritto alla riservatezza (“privacy”). Sull’importanza della materia non c’è nessun dubbio. Il diritto alla riservatezza nel mondo contemporaneo si colloca infatti in un punto nodale di una serie di relazioni e di diritti, che vanno dal diritto alla libertà di opinione e di manifestazione del pensiero, alla libertà di stampa (tutti fattori essenziali della libertà politica in democrazia), al libero flusso delle informazioni che è necessario tanto alla ricerca scientifica quanto al mercato, fino a una serie di altre libertà individuali di comportamento che potrebbero essere di fatto seriamente impedite se l’interessato non potesse appunto tenerle riservate. Il diritto alla riservatezza è, come è noto, un diritto relativamente nuovo, teorizzato per la prima volta alla fine del secolo scorso negli USA; la sua importanza è stata dimostrata anche troppo bene dai trascorsi totalitari del nostro secolo1. Esso è posto oramai sulla prima linea della difesa della libertà individuale dagli sviluppi della comunicazione e della informatica. Quanto venne approvata la 675/96 si disse dunque che il diritto alla riservatezza veniva finalmente, in Italia, garantito in modo sistematico e completo, ben più sistematico e completo che nel suo stesso paese d’origine, e in modo tale da mettere l’Italia non solo al passo ma persino all’avanguardia nell’adempimento dei principi della direttiva europea sull’argomento. E in modo ben più ampio, si disse, rispetto a molte normative e anche alla Convenzione europea in materia, che si limita a regolare gli schedari automatizzati. Con apprezzamenti favorevoli fu accolta anche l’idea “nuova” che la legge venisse fin dall’inizio accompagnata da un’altra (la 676/96) che attribuiva al governo, per un certo periodo, il potere di correggere direttamente la prima tramite decreti legislativi; cioè senza passare dal parlamento2. Uguali apprezzamenti (e autoapprezzamenti) 1 Rappresentati, e in qualche misura anticipati, in forma esemplare nel sistema di controllo universale immaginato da G. Orwell nel suo celeberrimo romanzo 1984. Dei due aspetti di invasione della privacy dell’incubo di Orwell, il primo si è realizzato appieno più volte, ogniqualvolta si è realizzato il controllo totalitario sui broadcast, cioè sulle informazioni rivolte alle masse. Il secondo, il controllo dell’individuo anche nella intimità mediante osservazione a distanza, invece si è realizzato solo in forme artigianali o occasionali anche negli stati più totalitari (controllo dei telefoni, microfoni, denuncia da parte dei vicini e familiari). 2 Legge 31 dicembre 1996, n. 676. Un ottimo modo, si disse, per eliminare quei piccoli inconvenienti che in ogni legge si scoprono solo in sede di applicazione, specialmente in leggi complesse e su materie nuove. L’idea deve essere sembrata ancora migliore con il passare del tempo, perché questo potere del troviamo per lo più espressi ancor oggi negli interventi ufficiali, in specie nelle frequenti interviste alla stampa dell’autorevole presidente dell’Autorità garante istituita dalla legge, Stefano Rodotà3. Purtroppo questi giudizi sono totalmente infondati, ed erano ipocriti fin dall’inizio: la realtà è ben altra. Il testo originale della 675/96 fu approvato per disperazione all’ultimo momento possibile, dopo che i contrasti di principio e di interesse avevano prodotto la consueta paralisi legislativa. La legge del 31 dicembre passò sotto la pressione di non più prorogabili scadenze europee, e la delega legislativa al governo costituiva l’equivalente parlamentare di una scrollata di spalle: intanto approviamo qualcosa, poi qualcun altro l’aggiusterà. Tutti sapevano che la delega contenuta nella 676/96 era in realtà necessaria per rappezzare la 675/96. Questo si è puntualmente avverato. Nei mesi successivi il rigido tessuto di limiti e adempimenti che la legge pretendeva di imporre, e di imporre su quasi ogni aspetto della vita sociale, è stato riempito di buchi sempre più vistosi o è stato semplicemente ignorato, con l’aiuto anche di un regime transitorio opportunamente predisposto per allontanare le scadenze più scomode e per rimandare i conflitti più acuti tra contrapposti diritti e interessi. La regolamentazione della legge 675/96 è ora un tessuto stracciato e pieno di rattoppi che ogni tanto si agita al vento delle dichiarazioni del Garante. Uno per uno, i soggetti collettivi forti e organizzati si sono sottratti agli uni o agli altri dei suoi limiti più costrittivi. Fin dall’inizio la polizia e gli organi di sicurezza 4, poi la stampa5, poi la sanità6. E’ ora il turno dei soggetti pubblici e della pubblica amministrazione che sono stati generosamente “liberati” quando (finalmente) è divenuto legge il testo del relativo decreto già approvato dal governo7. Ad ogni buon conto nelle governo, originariamente previsto per 18 mesi, è stato poi prorogato fino al 31 luglio 1999 (Legge 6 ottobre 1998, n. 344). Se ne può prevedere l’ulteriore rinnovo. 3 Per esempio, recentissimamente, intervista di Stefano Rodotà al quotidiano La Repubblica, “Rodotà: più potere ai cittadini così esplode la voglia di privacy” di Giovanni Valentini. Per Rodotà il 1998 è stato un anno di rodaggio della legge. Si ammette che esiste il pericolo che l’autorità garante eserciti un contropotere (è chiaro che con questa parola si intende qui un potere incontrollato), ma esso sarebbe attenuato dalla possibilità di una “revoca di fiducia” non meglio precisata. 4 Si veda l’art. 4 della legge. 5 Si vedano gli artt. 7 e 11 del Codice deontologico dell’ordine dei Giornalisti emanato finalmente in ottemperanza alla prescrizione della legge. V. in proposito anche infra, § 2.6. 6 Almeno per quanto riguarda lo straordinario divieto di comunicare informazioni nell’interesse sanitario del terzo senza il consenso del soggetto. Qui la tecnica normativa è stata particolarmente fantasiosa, e merita un trattamento più dettagliato. Vedi Infra. 7 Ciò è avvenuto in extremis, secondo quella che pare ormai una tradizione nella disciplina della riservatezza, alla scadenza (nel maggio 99) della proroga accordata agli enti pubblici e quindi al legislatore per gli adempimenti più garantisti e meno facilmente implementabili, laddove si richiedeva che il trattamento di dati da parte degli enti pubblici fosse specificamente e dettagliatamente autorizzato dalla legge. Infatti, con il Decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 135, dal titolo: Disposizioni integrative della legge 31 dicembre 1996, n. 675, sul trattamento di dati sensibili da parte dei soggetti pubblici, si è introdotto un regime pseudo-transitorio (vedi art. 5) in cui ora sono autorizzati i trattamenti “coperti” da dichiarazioni generali del Garante e dalla pubblicazione da parte degli enti pubblici dei tipi di dati trattati. Un regime forse ragionevole, ma, ahimè, in netta antinomia di principio rispetto all’impianto fondamentale della legge principale, che poneva, per così dire, la riserva di legge per il trattamento dei dati personali sensibili da parte degli enti pubblici. 2 pieghe del più recente decreto sono state “esentate” anche le religioni c.d con intesa (un tempo note come religioni riconosciute) (vedi infra, § 2.7), e dal complesso delle correzioni alle disposizioni della legge emerge con sempre maggior forza un tacito principio per cui la piena protezione della riservatezza altrui cade solo sui soggetti non qualificati, non riconosciuti, non corporativizzati, non ufficiali, nuovi. Sono rimasti in apparenza maggiormente invischiati nella rete i gestori di attività economiche, i quali, per qualche misteriosa ragione e capovolgendo le originarie valutazioni della legge, sembrerebbero ora essere considerati più pericolosi per la privacy che non l’apparato dei pubblici poteri (ma a dare sollievo anche a questi rimangono sempre i buoni vecchi rimedi italiani della disapplicazione e dell’elusione). Ma per quello che ne è rimasto, la legge italiana sulla protezione dei dati è pur sempre una legge straordinariamente cattiva, anche se giudichiamo secondo i bassi standard della legislazione italiana; ed è difficile dire se ciò avviene perché ne è rimasto così poco o perché un poco ancora ne é rimasto. Quando affermo che la legge 675/96 sulla protezione dei dati personali è un caso di cattiva legge, ricorro a una espressione di uso normale tra i giuristi positivi, i quali ritengono comunemente di poter giudicare il valore tecnico-giuridico di una legislazione, in modo indipendente dalle opinioni che si possa avere sulle specifiche scelte di sostanza compiute dalla legge stessa. Queste ultime vengono considerate delle scelte di politica giuridica su cui la giurisprudenza non può “tecnicamente” pronunciarsi. Quando si parla di difetti di una cattiva legge non si intende dunque far riferimento a scelte o valori politici in senso forte, ma a valori tecnici comuni a ogni possibile legislazione, e indipendenti dalle eventuali opinioni politiche dell’interprete sul modo in cui la specifica materia regolamentata dalla legge dovrebbe essere regolata. In questo senso la “buona” legge è una legge che persegue in modo efficace o almeno comprensibile i propri obbiettivi, indipendentemente dall’opinione sul valore di tali obbiettivi. Tuttavia le cose non sono così semplici e molti teorici del diritto e non pochi giuristi positivi sostengono o implicano che una distinzione del genere è impossibile e teoricamente illegittima. Essa sarebbe basata su una concezione vetusta ed insostenibile della giurisprudenza come scienza neutrale, intendendosi con neutralità l’indipendenza da qualunque scelta di valore. La tesi della neutralità comporterebbe, sostengono i suoi critici, una vetusta distinzione tra scienza e politica del diritto, legata al giuspositivismo formalistico e inaccettabile in una concezione filosoficamente avvertita della scienza e del diritto, anche se (purtroppo) ancora diffusa tra i giuristi positivi. Dal canto mio, non accetto la visione avalutativa della scienza giuridica, ma nello stesso tempo credo che la giurisprudenza possa fornire una descrizione (ragionevolmente) oggettiva e controllabile del diritto positivo. Ritengo anche che sia bene che la giurisprudenza fornisca una tale descrizione. In altre parole, non condivido Altre “liberatorie” dai vincoli della legge per la PA e gli enti pubblici si trovano sparse nella disposizione. Come esempio rilevante si consideri che il fondamentale (e ineccepibile) art. 10, pone l’obbligo di informare l’interessato al momento della raccolta, ma prevede poi tra le eccezioni il caso in cui la raccolta è effettuata in base a un obbligo previsto, oltre che dalla legge, anche da un regolamento. Si permette così una auto-determinazione dei limiti dell’obbligo di informativa. La stessa possibilità è prevista dall’art. 27 per gli enti pubblici, per il trattamento, comunicazione e diffusione dei dati personali non sensibili. 3 il “giuspositivismo” corrente o acritico, ma credo che una versione critica del giuspositivismo abbia più ragione, e più ragioni, che non i suoi oppositori. Si tratta, a mio parere, di due opinioni solo apparentemente in conflitto8. Ritengo infatti che una descrizione (relativamente) oggettiva delle norme giuridiche sia possibile solo dichiarando espressamente e il più chiaramente possibile le scelte valutative e metodologiche che la descrizione assume, dal momento che una qualche scelta valutativa è presupposto necessario di ogni descrizione e comprensione di un testo normativo complesso. Quando tali scelte di valore riguardanti la descrizione del diritto sono quelle normalmente condivise nell’ambiente giuridico, allora esse possono e devono essere date per tacitamente scontate e presenti in ogni operazione giuridica normale. Esse appartengono alla enciclopedia naturale che costituisce una parte essenziale del retroterra della interpretazione giuridica. Quando invece si produce un testo giuridico che non ne tenga conto o quando si produce una interpretazione che presupponga scelte valutative diverse da quelle scontate, allora ciò andrebbe esplicitamente dichiarato per impedire che esse vengano deformate secondo la interpretazione che altrimenti verrebbe più spontanea e normale. Dare per scontate scelte che non sono affatto ovvie, per esempio perché sono equipossibili scelte opposte, o rifiutare senza dichiararlo delle scelte scontate, è una pratica che produce ideologia giuridica, sia a livello di legislazione sia a livello di interpretazione, il che significa che induce a mettere in un testo ciò che oggettivamente non c’è, o toglierne ciò che c’è. Dunque, una descrizione oggettiva del diritto positivo vuol dire prima di tutto una descrizione basata su scontate e/o esplicite scelte di valore, normalmente compiute dal normale utente del diritto, salvo che gli si dica altrimenti. Le sole scelte che possono essere date per implicitamente scontate sono quelle condivise e quindi pacifiche, non perché non siano esse stesse scelte valutative ma perché appunto sono scelte che possono essere legittimamente presupposte in caso di silenzio: se le scelte del giurista (del legislatore come dell’interprete) sono diverse egli dovrebbe dichiararlo per non trarre in inganno i suoi interlocutori alla maniera di un Humpty Dumpty9. Questa non è solo buona semiotica (pragmatica), ma è anche una posizione di buon senso, il quale, quando non oscurato da follie filosofiche, ritiene comunemente di poter distinguere tra ciò che un testo dice chiaramente, ciò che chiaramente non dice affatto e ciò che non è invece chiaro. In questo modo potremmo anche recuperare la distinzione corrente nelle cultura giuridica e accolta da molti legislatori, tra interpretazione letterale e altri metodi di interpretazioni più potenti; laddove l’interpretazione letterale non sarebbe affatto la lettura del testo senza pregiudizi, senza conoscenze ulteriori o senza scelte valutative, ma la lettura del testo alla luce dei soli pregiudizi, conoscenze e scelte che possono (e quindi devono) esser date per scontate e implicite in una determinata cultura giuridica e in un determinato ambiente giuridico, giù giù (con graduale 8 Condivido dunque, nella sostanza, la posizione di Luigi Ferrajoli. Si veda da ultimo Ferrajoli 1999, cap. 3, e specialmente a p. 102. 9 Il quale, come è noto, bellicosamente dichiara ad una sconcertata Alice di aver appena usato una frase in un senso personale diverso da quello consueto. Il problema evidenziato da Lewis Carroll, non è quello se rifiutare la definizione convenzionale, usando le parole in un senso artificiale e diverso dal consueto, ma far ciò senza dichiararlo in anticipo all’interlocutore, in una situazione in cui questi ha tutte le ragioni (pragmatiche) di aspettarsi un uso normale. 4 diminuzione di ovvietà e quindi del loro grado di presumibilità tacita) fino alle opzioni caratteristiche in un determinato settore del diritto positivo o di una determinata materia. Il tentativo di negare l’esistenza delle scelte di valore che stanno inevitabilmente alla base della legislazione e della giurisprudenza, come il tentativo di nascondere le vaghezze o incertezze del diritto e della legge, quando ci sono, portano solo a nasconderle mediante una semiotica giuridica “formalista”, che è altrettanto irrealistica quanto la apparentemente opposta semiotica giuridica scettica. Tale pratica della interpretazione conduce necessariamente al risultato opposto di facilitare gli atteggiamenti valutativi ideologici, cioè l’introduzione mascherata di valori idiosincratici, tanto più pregnanti in quanto i valori nascosti nelle descrizioni apparentemente neutrali e non riconosciuti divengono incontrollati e incontrollabili, molto più soggettivi, variabili e controvertibili di quelli dichiarati e dichiarabili. Quando si procede a una sfrenata interpretazione ideologica, i criteri delle soluzioni che si pretende trarre dai testi di legge vengono in realtà determinati fortemente dalle scelte (nascoste) dell’interprete. Nel caso della 675/96, come si vedrà, molte scelte di valore niente affatto pacifiche e niente affatto implicite nella legge vengono nascoste sotto l’apparenza di descrizioni neutrali del testo della legge. Tutti coloro che si sono occupati della legge ammettono privatamente che è tecnicamente pessima, ma si aspettano che la giurisprudenza la “aggiusti” in sede di applicazione, come avviene del resto per tutte le leggi con dei problemi che siano davvero risolvibili a livello “tecnico”. Le vera natura di scelte e interventi che l’interprete è indotto a compiere in questo caso viene così occultata. Gli argomenti in base ai quali si sceglie la direzione in cui operare l’aggiustamento vengono taciuti. Nei casi di intervento più pesante, si perviene ad ignorare, senza mai contestarlo apertamente, il principio fondamentale dello stato di diritto che distingue tra produzione e applicazione del diritto10. Alla base di questo atteggiamento non c’è una franca preferenza per la giurisprudenza sociologica, cioè per una giurisprudenza potente, ma una tacita “teoria” della doppia verità nella pratica interpretativa e applicativa. E’ diffusa tra i giuristi l’idea o la sensazione che la giurisprudenza dottrinale e giudiziaria possa e debba svolgere un utile e forse indispensabile compito generale di surrogazione del potere legislativo, purché non lo dichiari. Questo compito, nel nostro caso, è attribuito specialmente all’Autorità garante. A mio parere si tratta di una scelta di valore molto peculiare, perlomeno nel quadro contemporaneo delle fonti del diritto riconosciute. Sul piano meramente semiotico, ci troviamo di fronte a una impossibilità di fatto, la ben nota impossibilità semiotica che il formalismo interpretativo funzioni. Ogni scelta che non possa essere determinata da regole tacitamente presupposte per definizione non può essere implicita e non dichiarata nel testo. Ciò che sembra farla funzionare è la scelta successiva dell’interprete e applicatore. La pratica surrogatoria potrebbe aspirare alla giustificazione solo se fosse presentata francamente per quello che è: infatti “aggiustare” una legge alla luce di valori non scontati e pacificamente presupposti dal legislatore stesso e della cultura giuridica vuol dire legiferare. Come per tutte le questione semiotiche, è naturalmente una 10 Un argomento che si sente spesso usare per accantonare la distinzione senza “prenderla di petto” è l’ennesima variante del paradosso del sorite, che non è possibile una distinzione netta tra le due cose. In effetti, la distinzione tra applicazione e produzione lascia zone di attività incerta, ma ha anche casi chiari. La 675/96 offre appunto, a mio parere, molti casi chiari di problemi non solubili tramite interpretazione. 5 questione di grado. Quando, come nel caso della 675/96, la manipolazione interpretativa supera una certa misura, diviene una operazione qualitativamente diversa, e l’interprete diventa legislatore. Mi pare che il principio normativo implicito in queste forme di interpretazione surrogatoria possa essere realisticamente esplicitato nel modo seguente: poco importa che il legislatore emetta norme vuote, insensate o inapplicabili, perché la giurisprudenza può sempre di fatto correggere le norme in sede di applicazione, purché le si permetta di operare in una penombra caritatevole, in cui compie questa operazione lasciando credere che non sia tale e che la soluzione fornita sia la sola possibile e sia in qualche modo contenuta nel testo. Viene salvata così “ufficialmente” la distinzione tra interpretazione e legislazione. Si intende che quest’ultima è una distinzione di cui non sarebbe agevole disfarsi apertamente, poiché è presupposta da ogni aspetto delle istituzioni giuridiche moderne e coperta da vincoli e garanzie costituzionali; poiché da essa dipende la legittimazione del diritto e degli organi stessi che compiono la interpretazione. Se si ammettesse che la distinzione è insensata o impossibile, se il diritto è di fatto “libero” per la giurisprudenza, allora risulterebbe illusoria la divisione dei poteri ed ogni garanzia dei diritti a livello di norma generale risulterebbe inefficace, né si vedrebbe più la ragione per cui la società dovrebbe badare o obbedire a degli interpreti a cui nessuno ha attribuito il potere politico. Il cinismo interpretativo implicito in queste posizioni, porta alla fin fine necessariamente ad una rivoluzione giuridica radicale o a una pratica delle fonti basata sulla doppia verità. Il problema dunque non è se preferire o se osteggiare una giurisprudenza più potente e un diritto giurisprudenziale, cioè se accogliere o meno posizioni giusliberiste. Il problema è che lo si faccia pretendendo di fare la cosa opposta, cioè di operare una pedissequa applicazione della legge con l’unica interpretazione possibile di un testo di legge. La tesi detta del “diritto libero” è una opzione politico-normativa che consiste nel sostenere una giurisprudenza giudiziaria o dottrinale con forti poteri, non strettamente vincolata ai testi che provengono dal legislatore. Come scelta di politica del diritto essa è certo eticamente possibile e può essere sostenuta da rispettabilissimi argomenti. Indipendentemente dal fatto che io la condivida o meno, ciò a cui obbietto è che la si addotti fingendo di fare altra cosa, cioè di ricavare l’unico senso dal testo di una legge emanata in regime di divisione dei poteri. Si vede ora la differenza tra sostenere che la giurisprudenza possa essere oggettiva e sostenere che possa essere avalutativa. Una descrizione del diritto che parta da una concezione giusliberista (favorevole a una lettura energica e disinvolta dei testi) può ancora restare nell’obbiettività quando descrive il diritto legislativo, qualora dichiari onestamente di aver adottato un atteggiamento eterodosso rispetto alle fonti, in modo da rendere chiaro il senso di ciò che fa, e i criteri in base ai quali li fa, cioè i criteri o le argomentazioni in base ai quali si ritiene che la giurisprudenza “libera” possa e debba fondare i propri risultati applicativi. Nella realtà della applicazione della legge sulla protezione dei dati, nei punti in cui essa per vari motivi non ha molto senso, o ne ha troppi, è frequente una interpretazione apparentemente formalista, che nasconde in effetti un interprete assai energico che compie l’aggiustamento ermeneutico con una attività di legislazione surrogata in base a criteri non dichiarati. Essendo tali criteri non pubblici, essi sono alla mercé dalle scelte 6 individuali, del prestigio dei singoli studiosi o magistrati, corti o membri dell’Autorità garante, della loro capacità persuasiva, del consenso che riusciranno di fatto e di volta in volta a suscitare tra giudici, giuristi e interessati, stampa e politici. Se non è il legislatore a compiere veramente le scelte fondamentali di una legge all’atto della redazione del testo legislativo, ebbene allora sarà inevitabilmente qualcun altro, perché non si tratta di descrivere ciò che avviene in un paese lontano, ma di operare con il diritto positivo sulle azioni umane e per di più mediante decisioni coattive. Qualcuno riterrà che la scelta a favore del diritto giurisprudenziale sia ottima e opportuna; essa è comunque una scelta normativa e politica nel senso più forte, niente affatto scontato, e per di più una scelta negata dalla nostra Costituzione. Per tutte queste ragioni ci si aspetta legittimamente, sul piano intellettuale e giuridico, che venga compiuta o rigettata consapevolmente in sede di scelte fondamentali a livello costituzionale sulla forma dello stato. Accade invece che un’opera di correzione legislativa viene compiuta sotto le mentite spoglie dell’interpretazione, come operazione di conoscenza, per esempio da parte dell’Autorità garante, e non sia più significativamente vincolata dalla legge nei molti punti importanti in cui il testo della 675/96 è troppo vago o inapplicabile. Bisogna ammettere che i membri componenti dell’attuale Autorità garante sono pieni di buon senso e di competenza giuridica nel risolvere la sostanza dei problemi, con sollievo generale. Proverei anch’io uguale sollievo, se i membri dell’Autorità garante per la protezione dei dati fossero piuttosto i membri di una Commissione parlamentare incaricata di redigere un nuovo testo di una legge sulla protezione dei dati. Ma non lo sono, sono i membri di un organo amministrativo, sia pure indipendente, incaricato di permettere e agevolare la applicazione di una legge che si presume già fatta e già detta, almeno nelle sue scelte fondamentali. Ci sono dunque delle buone e plausibili ragioni per prestare anche in questo caso attenzione all’opinione di Jeremy Bentham, il quale sostiene che non c’è tirannia peggiore della tirannia spicciola dei giudici (e degli amministratori) svincolati dalla legge. Un sistema che si basa troppo sulla saggezza degli amministratori non è mai molto sicuro. Questo è il motivo per cui un ordinamento costituzionale come il nostro non attribuisce il potere legislativo alla giurisprudenza e tanto meno alle autorità amministrative (per quanto indipendenti e prestigiose). Abbiamo ora invece una autorità amministrativa che, sotto mentite spoglie, si trova costretta a compiere scelte politiche importantissime nel campo della protezione dei dati personali, e quindi di riflesso nel campo dei diritti e delle libertà di opinione e di stampa, cioè in sostanza in quasi ogni settore e attività della vita sociale. Come dirò, alcuni problemi sollevati dalla legge non sembrano poter esser risolti neppure dall’interventismo più energico e surrogatorio del Garante. Anche se il testo della legge è ormai un tessuto arlecchino di pezze e rattoppi, alcune sue parti importanti restano ancora semplicemente inapplicate perché troppo palesemente inapplicabili11. 11 Anche questa sarà forse un’ottima cosa, per qualche sostenitore della desuetudine come fonte del diritto. Mi limito ad osservare che l’accettazione della desuetudine abrogativa comporterebbe una revisione costituzionale, che andrebbe quantomeno richiesta esplicitamente (salvo che non si accetti la desuetudine abrogativa anche a livello costituzionale, svuotando così completamente di significato la nozione stessa di costituzione rigida). 7 Ritengo dunque che sia possibile interpretare e comprendere con qualche misura di oggettività una legge, e quindi questa legge, solo facendo riferimento a valori, in quanto ogni tentativo di evitare tali valutazioni comporta ugualmente il riferimento a valori, ma un riferimento surrettizio, che si rivolge spesso a valori assai più controversi e quindi a una interpretazione assai più soggettiva. Ritengo che il ricorso surrettizio a scelte e valori più soggettivi e controversi sia reso possibile proprio dall’uso di tecniche interpretative che si propongono come non valutative, ma in realtà sono assai “energiche” e tali da far dire ai testi normativi quel che non dicono, o non dire quello che dicono. Anche i valori esplicitati e condivisi sono pur sempre scelte e valutazioni. Essi hanno però il vantaggio di poter esser dati per implicitamente accettati, salvo, ovviamente, che non vengano esplicitamente rinnegati nelle singole occasioni di produzione o di interpretazione di un testo. Rientrano in questa ultima categoria di scelte ovvie, o di buon senso 12, le scelte che nel prosieguo chiamerò tecniche nel senso che sono presupposte dall’esistenza stessa del potere legislativo inteso come normazione generale e astratta in una situazione impersonale. Esse si basano sui presupposti di valore minimali connaturati alla esistenza non illusoria della legge in quanto testo normativo impersonale quanto alla provenienza, generale e astratto quanto al contenuto. Per essere ciò che la legge pretende di essere e non qualcosa d’altro, cioè una norma, il testo deve quantomeno essere capace di prescrivere qualcosa in autonomia, astrazione e generalità, cioè deve poter indirizzare e vincolare in modo non soggettivo in qualche misura i suoi interpreti e applicatori senza bisogno dell’intervento rinnovato di chi lo ha prodotto. Le parole chiave del testo devono essere letteralmente comprensibili, il che vuol dire che il testo deve rispettare il significato loro attribuito dal linguaggio ordinario, e/o dalla cultura giuridica e/o da definizioni particolari; e in caso di incertezza deve rendere chiaro a quale significato fa riferimento. A questi valori, che devono essere certamente soddisfatti per poter attribuire un senso determinato a qualunque testo normativo (sono condizioni di possibilità di una interpretazione letterale) vanno aggiunti, con molta cautela, degli elementi teleologici minimi (se vogliamo: condizioni di determinabilità della volontà del legislatore). Il testo può e deve essere interpretato alla luce dei più ovvi tra gli elementi necessari perché le regole possano essere applicate a qualcosa. E il testo giuridico può essere criticato se palesemente non soddisfa questo criterio, e considerato “strano” e di significato pragmaticamente incerto. Come esempio ovvio si considerino le norme impossibili, cioè palesemente inapplicabili (o quasi) perché basate su presupposti certamente controfattuali. Non è questa ancora una prescrizione politica, ma pragmatico-semiotica, cioè è presupposta da qualunque interpretazione. Se si produce un testo normativo inapplicabile13 si indurrà l’interprete ad acrobazie semiotiche, alla ricerca della 12 Sul tema, non ancora superato, Ross 1953, specialmente i §§ 29 e 30. Ovviamente senza dichiararlo. Se prescriviamo una impossibilità dicendo che è tale compiamo un classico atto linguistico “strano”, ma non solleviamo problemi interpretativi, perlomeno di primo livello. Si tratta in realtà di fenomeni che i giuristi ben conoscono, sotto altri nomi e in varie sfumature. Il risultato di comunicazioni giuridiche “strane” in questo senso è quello di gettare il discredito sulla funzione legislativa, cioè di predisporre gli interpreti a non prendere troppo sul serio i testi di legge. 13 8 soluzione “sensata”, cioè applicabile, ovvero getteremo il discredito sulla legge. E’ proprio il caso di alcune parti importanti della 675/96. Pertanto è cattiva in questo senso minimale e pacifico quantomeno la legge che contenga disposizioni importanti insensate (prive di alcun apprezzabile senso normativo), sia contraddittoria (cioè prescriva in modo chiaro cose incompatibili), sia troppo vaga nei suoi punti qualificanti, o che sia grossolanamente inapplicabile14. Contrariamente all’opinione diffusa, sostengo che simili giudizi di valore sono e devono essere normalmente incorporati nella descrizione oggettiva del diritto positivo. Sostengo anche che è condizione necessaria della oggettività della descrizione giuridica che questi giudizi vengano il più possibile francamente esplicitati e evidenziati nella descrizione, specialmente quando il testo descritto non li rispetta, e la sua corretta oggettiva comprensione comprende la sua critica. Per il nascondere tali giudizi di valore l’interprete deve negare che il testo dica quello che dice, e deve operare una inevitabile scelta soggettiva arbitraria tra mezzi interpretativi alternativi usati per rimediare ai difetti del testo originario. Si tratterà inevitabilmente di una scelta ad hoc dello strumento interpretativo, basata sulle preferenze soggettive etico-politiche dell’interprete sul risultato cui si perviene15. In altre parole, negare il riferimento ai valori ovvi fa sì che si ricorra di nascosto a valori non ovvi. Peraltro bisogna ammettere che questi caratteri della legislazione non sono nettamente delimitati e individuabili, come del resto sempre accade nelle questioni semiotiche. Molti problemi interpretativi sono assai sfumati e incerti e tutti i problemi interpretativi sono in qualche misura sfumati e incerti. Tuttavia, come il paradosso del sorite non comporta che i mucchi non esistano, così è possibile una opposizione significativa tra interpretazione fondata e infondata, tra significato normativo oggettivamente radicato nel testo e invece inventato dall’interprete16. Ci sono, e ci devono essere, casi chiari, e quindi casi chiari di leggi gravemente difettose e questo è appunto il motivo per cui la straordinariamente cattiva legge italiana sulla protezione dei dati personali è di straordinario interesse non solo di per sé, ma anche come caso-studio per la teoria generale dell’interpretazione. Se non si può dimostrare che la 675/96 è oggettivamente una cattiva legge, allora non lo si potrà dimostrare mai, e la nozione di interpretazione di un testo risulterà davvero identica a quella di invenzione di un significato arbitrario rispetto al testo. Ovvero, per dire la stessa cosa con altre parole, se è vero che ciò che l’Autorità garante della protezione dei dati sta attualmente facendo può essere considerato una mera interpretazione di un testo 14 Va considerato un caso particolare di norma inapplicabile anche quello della norma che produrrebbe conseguenze sentite come tanto ingiuste dall’etica comune da rendere la norma (di fatto) inaccettabile dalla generalità della popolazione. Poiché c’è assai poca concordia sui giudizi etici, questo aspetto delle leggi sfuma rapidamente nel controverso e tende a divenire un difetto politico e non tecnico della legge. La violazione di principi etici incorporati dalla Costituzione è invece un caso specifico di antinomia giuridica. 15 Questo punto è stato assai ben evidenziato, per esempio, da Lombardi Vallauri 1981, specialmente pp. 53ss. nella sua analisi delle tecniche interpretative. Lombardi tuttavia ritiene di poter trarre da queste considerazioni delle conclusioni a favore del diritto libero che non condivido per le ragioni abbozzate nel testo. 16 L’opinione contraria comporta credere che il linguaggio normativo e l’intero diritto siano delle menzogne sistematiche. Questo naturalmente di per sé non dimostra che la posizione scettica sia errata, solo che pochi dei suoi sostenitori sono coerenti. 9 di legge, e che le relative applicazioni possono davvero essere imputate al legislatore di Capodanno, allora la nozione di certezza del diritto è un mero inganno, e la credenza nella divisione dei poteri può prendere la strada della credenza negli untori. Mi accingo dunque a commentare un esempio straordinario di incompetenza legislativa dal punto di vista di un giuspositivismo critico, che riconosce di fondarsi su scelte valutative ma non è scettico quanto alla possibile oggettività della descrizione e conoscenza del diritto. 2. La legge 675/96: analisi 2.1 Hybris Nella legislazione italiana recente gli esempi di leggi difettose anche sul piano tecnico purtroppo non mancano. A mio avviso, tuttavia, anche in un panorama di cattive leggi, la legge sulla protezione dei dati si colloca in una categoria a sé stante. Infatti non si tratta solo di una legge repleta di specifici difetti tecnici, non si tratta semplicemente dei problemi di una legislazione non meditata o frutto delle preclusioni reciproche e dei contrasti di maggioranze parlamentari di coalizione con idee eterogenee; si tratta, come vedremo, di un caso davvero straordinario di hybris legislativa coniugato a una rimarchevole insipienza. I difetti della legge sono, per così dire, davvero sistematici. Si è voluto legiferare su un fenomeno onnipervasivo e di enorme estensione sociale, con aspetti per di più di grande novità, senza tener conto adeguatamente delle dimensioni dell’impresa e delle difficoltà cui si andava incontro. Questo difetto generale è la radice comune di tutti i più straordinari problemi tecnici della legge. Per l’interprete ciò si traduce nella difficoltà a credere che la legge voglia, talora, veramente dire quello che dice. Qualunque tentativo di regolare per legge il trattamento dei dati personali in modo sistematico e completo, equivale in effetti a cercar di regolare un aspetto di quasi ogni attività umana, e di prendere posizione su molti dei conflitti di valore più importanti della nostra società; richiede prima di tutto di decidere in linea generale e spesso anche nei dettagli la regolazione dei conflitti tra interesse alla riservatezza del dato personale e interessi altrettanto vitali alla sua conoscenza e diffusione. Come vedremo meglio tra poco, la legge 675/96 esplicitamente dichiara di volersi occupare, in principio, di qualunque dato o informazione riguardante le persone, nell’accezione più ampia. Questa è evidentemente una scelta di principio, una fondamentale scelta di politica del diritto nel senso più pregnante, che andrebbe discussa con tutta la dovuta attenzione sul piano della politica del diritto. Non è questo l’obbiettivo di queste pagine. Ciò che mi interessa invece è che alla radice di tutti i difetti “tecnici” della legge, che riguardano la stessa comprensione del testo, non c’è tanto il contenuto della scelta politica così compiuta, ma il fatto che si cerchi di compiere una impresa così impegnativa senza apparentemente apprezzarne dimensioni e difficoltà. La metafora psicologistica che ho appena usato è utile, ma va spiegata. Il testo contiene molti indizi oggettivi del fatto che i redattori della legge non hanno misurato le conseguenze del tentativo di applicare una regime giuridico di protezione dei dati a una 10 tipologia di dati personali così ampia. Altri indizi ancor più chiari risultano dalle vicende legislative successive alla legge: possiamo dire che i suoi difetti tecnici risultano in modo oggettivo quantomeno nei molti casi clamorosi in cui sono state modificate in tutta fretta alcune norme non secondarie della 675/96. Spesso anche per iniziativa e impulso del Garante, il quale si è trovato alle prese con problemi di applicabilità irrisolvibili in sede di interpretazione, anche la più disinvolta. E’ significativo che a questo aspetto più generale della legge, il tentativo di regolamentare l’intero universo (umano), sia stata data così poca importanza dai commentatori, forse presi nella trappola di un modello di descrizione giuridica che cerca di apparire ad ogni costo neutrale e tecnica, e produce invece in tal modo uno stile interpretativo ideologico, perché finisce, in realtà, con il celare o deformare aspetti importanti del senso del testo legislativo. A mio parere, il giurista positivo non può tacere queste critiche, che egli peraltro conosce benissimo, con l’argomento che esse non spettano al giurista positivo, perché sono troppo generali o “filosofiche”. Ho cercato di mostrare sopra come senza queste considerazioni tecnico-valutative, il giurista rischia non già la neutralità ma l’opposto, di giungere cioè a una interpretazione basata su valutazioni implicite, correttive ma del tutto personali. Certamente non è il caso di ripescare in questa occasione la vecchia tesi secondo cui le definizioni e i principi contenuti nelle leggi non farebbero veramente parte delle norme giuridiche. Al contrario, particolarmente in una legge-quadro di portata generale come la 675/96, le definizioni e i principi enunciati non possono essere considerati degli inutili ornamenti, delle parole vuote aggiunte per la soddisfazione dei politicanti che siedono nelle commissioni parlamentari. Definizioni e formulazioni di principio dovrebbero svolgere in questo caso non solo la loro funzione primaria e consueta di precisare il senso di termini che altrimenti sarebbero eccessivamente vaghi e ambigui, o legati al linguaggio ordinario, ma anche quella altrettanto importante di facilitare il collegamento e l’armonizzazione delle disposizioni specifiche della legge con altre leggi, che si trovano allo stesso livello formale, ma il cui contenuto dovrebbe ispirarsi, appunto, alle disposizioni di principio e alle definizioni contenute nella 675/96. Il ricorso a normazione di principio e a definizioni è dunque essenziale in una legge come la 675/96, perché il coordinamento sistematico da essa previsto può essere realizzato solo a livello di contenuto, non potendo essere realizzato a livello formale gerarchico. Questa è del resto l’intenzione espressa dal legislatore per questa legge. Vediamo da vicino alcune delle definizioni per mezzo delle quali si cerca di realizzare questo difficile obbiettivo. Nel suo primo articolo, la legge dichiara solennemente di volersi occupare della protezione di tutti i dati personali intesi nel senso più ampio possibile. La legge infatti (art. 1 comma 2c): c) per "dato personale", [intende] qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale […] Ci troviamo dunque a chiederci, già alla prima lettura, se i redattori hanno veramente considerato che una legge sui dati personali intesi in questo senso riguarda in buona 11 sostanza qualunque azione e comportamento umano, è una legge che riguarda e regola quasi ogni interazione sociale. Non solo, ma che una legge del genere, evidentemente, interferisce nelle disposizioni di quasi ogni altra legge17. La maggior parte delle informazioni che circolano sotto qualunque forma nella vita sociale rientrano dunque di primo acchito tra i dati personali come definiti dalla legge. Incluse evidentemente le cose che diciamo l’uno all’altro nelle conversazione privata. Il problema è stato in qualche modo riconosciuto e affrontato: infatti le parole pronunciate nel privato sembrano escluse dall’ambito di gran parte delle norme della legge dalla seguente disposizione dell’art. 3: 1. Il trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali non è soggetto all'applicazione della presente legge, sempreché i dati non siano destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione. 2. Al trattamento di cui al comma 1 si applicano in ogni caso le disposizioni in tema di sicurezza dei dati di cui all'articolo 15, nonché le disposizioni di cui agli articoli 18 e 36. A parte l’ovvia difficoltà di definire cosa siano fini esclusivamente personali in un contesto di tale ampiezza18, rimane il fatto che anche questi dati non sono veramente fuori dall’ambito della legge: vi rientrano anch’essi quantomeno per le regole di sicurezza e per i limiti alla comunicazione sistematica19 e alla diffusione. E vi rientrano ancor più certamente per l’aspetto negativo, perché la legge deve essere laboriosamente interpretata affinché si possano comprendere la portata e il senso delle sue esclusioni e eccezioni. 17 Essendo la 675/96 una legge ordinaria essa ovviamente non prevale su leggi successive che siano con esse in contrasto. In molti casi, vista la vaghezza di molte sue disposizioni, è anche incerto se sia o meno in contrasto, e quindi abbia abrogato, delle leggi anteriori. Il giudice amministrativo è il solo, che io sappia, che si sia finora occupato significativamente della legge 675/96, e se ne è occupato proprio da questo punto di vista. 18 Il fine o finalità per cui sono raccolti i dati costituisce un parametro assai più difficile da determinare e accertare di quanto non sembri presupporre la legge. Anche in questo caso, il legislatore sembra esser rimasto prigioniero dall’illusione semantica da lui stesso generata che la legge si riferisca alle (grandi) banche di dati organizzate da istituzioni collettive, per le quali la nozione di una finalità “ufficiale” e dichiarata della raccolta ha un senso assai più preciso (e deve di solito essere notificato al garante - art.7, 2b). Ma la legge si applica, non dimentichiamolo, a qualunque dato anche sparso prodotto o ricevuto anche dall’individuo. L’illusione verbale è rafforzata dall’uso della parola ‘trattamento’, che nell’ambito della legge non vuol dire normalmente ‘trattamento’ (nel senso comune) ma vuol dire “qualunque cosa chiunque faccia con un dato personale”. Se comunico ai miei commensali che una tal persona ha abitudini sessuali eterodosse, sto certamente trattando dati personali sensibili, li sto certamente comunicando, probabilmente li sto diffondendo. E con quale intenzione? Insomma, al di fuori delle banche dati e delle organizzazioni, nonché della relativa notificazione al garante, la nozione di intenzione o “fine” del trattamento sfuma nell’assolutamente vago e eminentemente soggettivo. 19 Andrà chiarito che cosa vuol dire “destinati alla” diffusione in quanto diverso da meramente diffusi (sulle intenzioni vedi nota precedente). Dobbiamo tuttavia essere grati al legislatore del 31 dicembre 96 per aver parlato di “comunicazione sistematica” e non di semplice comunicazione. Questo ci lascia, forse, libertà di comunicare a voce le nostre opinioni personali su un’altra persona a un altro singolo, purché lo facciamo una volta sola. E’ più che dubbio che la legge ci permetta di così parlare di fronte a più persone, specie per i dati personali sensibili. 12 Ecco del resto, puntuale e inesorabile, la definizione data nella legge alle nozioni di comunicazione e diffusione, espressamente definite con imbarazzante rigorosa onnicomprensività. Si intende: g) per "comunicazione", il dare conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione; h) per "diffusione", il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione; Quindi anche ciò che viene detto sulle persone nelle conversazioni tra privati in particolari circostanze può rientrare dopotutto nell’ambito di regolamentazione delle legge, in quanto comunicazione sistematica e forse anche come diffusione. Nel caso poi si tratti di dati sensibili (ex art. 22), i limiti, paradossalmente, riguardano anche i dati degli stessi conversatori; visto che per il trattamento di questi dati, oltre alla previa autorizzazione scritta degli interessati, si deve chiedere l’autorizzazione del Garante. Anche con la interpretazione più ristretta e, a mio parere, meno plausibile del testo, secondo cui tutte le conversazioni sarebbero considerate un uso personale dei dati nonostante l’aspetto comunicativo, esse vi rientrerebbero quantomeno per gli aspetti di sicurezza. Non solo quindi nel caso di perdita colposa della molto discussa agendina, ma anche per la pronuncia vocale di informazioni che risulti colposamente incurante. Le conversazioni private rimarrebbero quantomeno soggette alle norme di responsabilità civile e penale previste dalla legge20. La conversazione privata, si noti, non è una situazione tra le altre, tanto meno può essere considerata una situazione marginale o rara. E’ invece il caso normale, di gran lunga più frequente e importante, di interazione tra individui, è il momento essenziale della libertà delle persone, il caso paradigmatico di ciò di cui nello stato liberale il diritto non deve di solito occuparsi perché appartiene alla sfera privata e quindi di non interferenza degli individui. E’ vero che questo principio ha molte eccezioni, perché ci sono molte circostanze in cui ciò che viene fatto o detto in privato è giuridicamente rilevante, per esempio se è un contratto o se costituisce un reato; ma l’idea di porre nuove norme generalissime estremamente vincolanti sul contenuto di ciò che si può dire o non dire, cioè sulla libertà di parola, sembra davvero un passo di non poco conto, da non decidere per legge ordinaria un 31 di dicembre e sotto il titolo di protezione dei dati personali. Il riflesso tecnico-giuridico (in quanto distinto dal giudizio etico-politico in senso forte) di questa considerazione è che induce un forte elemento di incertezza nella interpretazione del testo della legge, per la riluttanza degli interpreti a produrre risultati 20 E si tratta della responsabilità ex art 2050: “Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile”. Oltre alla responsabilità penale. Tutto questo dipende da un regolamento di sicurezza che non si è ancora saputo emanare. Ecco dunque l’art. 36, che certamente si applica alle agendine personali: 1. Chiunque, essendovi tenuto, omette di adottare le misure necessarie a garantire la sicurezza dei dati personali, in violazione delle disposizioni dei regolamenti di cui ai commi 2 e 3 dell'articolo 15, è punito con la reclusione sino ad un anno. Se dal fatto deriva nocumento, la pena è della reclusione da due mesi a due anni. 2. Se il fatto di cui al comma 1 è commesso per colpa si applica la reclusione fino ad un anno. 13 interpretativi che possano parere assurdi sul piano del buon senso, giuridicamente inapplicabili e moralmente indifendibili. Possiamo dire di più: che il diritto non si debba occupare di ciò che si dice nelle conversazioni private è parte non solo del diritto di libertà di parola, ma anche della nozione più comune di riservatezza o privacy. Una simile libertà intesa come libertà dal diritto comporta notoriamente anche una certa mancanza di protezione giuridica, nella misura in cui tutti possono dire ciò che vogliono e quindi non possono essere protetti da ciò che viene detto. Ora il nostro legislatore di Capodanno ha invece posto con legge ordinaria regole sul contenuto delle opinioni che possiamo comunicare gli uni agli altri e diffondere verso una pluralità di altri, a proposito degli altri e perfino di noi stessi (perché i dati sensibili sono paternalisticamente protetti anche contro noi stessi). Forse che non può aver voluto veramente dire questo? La maggior parte degli interpreti della legge, Garante per primo, hanno finto in effetti che nulla di questo fosse scritto nella legge. Ma questo invece la legge dice, evidentemente nel tentativo di estendere la protezione al maggior numero possibile di dati personali. Dimenticando in apparenza che ogni simile allargamento ha un costo in termini di altri diritti e che l’individuo non è solo il soggetto passivo del trattamento dei dati, ma ne è anche il soggetto attivo. Anche se ci limitiamo ad ignorare tutte le comunicazioni di dati personali contenute nelle conversazioni tra individui, scopriamo che un grandissimo numero di altri dati personali rientrano pur sempre nell’ambito di applicazione della legge, e tra essi ce ne sono molti che pare impossibile o del tutto inutile sottoporre alla “protezione” da parte della 675/96. Il legislatore ha legiferato sulla sabbia del mare. In buona sostanza si è cercato di regolamentare tutti quanti gli atti umani, o quasi, salvo qualche centinaio di tipi di atti per cui si fa eccezione, salvo eccezioni delle eccezioni, ed eccezioni alle eccezioni delle eccezioni. Il destino delle leggi che cercano di regolare la sabbia del mare è ovviamente la inapplicabilità; con il suo pendant illiberale e poliziesco, quello della applicazione ad arbitrio possibile in quasi ogni caso, perché ciascuno è sempre in violazione di una simile legge. Come è stata possibile questa mostruosità di principio, un caso vero e proprio di inapplicabilità, così grave da tradursi in un difetto tecnico e influire sulla comprensibilità del testo, visto che puntualmente non viene rilevata o viene rilevata assai di sfuggita dai commentatori? Innanzitutto va detto che la responsabilità principale è del nostro legislatore, e non è affatto vero che l’Italia si sia limitata ad adeguarsi alle direttive dell’Unione europea. La direttiva europea21 che il nostro paese ha implementato, può esser certo criticata quanto alle scelte sostanziali compiute. Come ho detto, non intendo inoltrarmi in questo ordine di problemi. Ma, a mio parere, la legge italiana non solo ha introdotto di suo molti difetti tecnici, ma ha compiuto con leggerezza velleitaria una serie di estensioni 21 Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, 24 ottobre 1995, Relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati. Si consideri anche la precedente convenzione n. 108 rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981. Sono rilevanti anche le raccomandazioni del Consiglio di Europa nel periodo seguente alla Convenzione. Le raccomandazioni si occupano separatamente di settori omogenei di dati (ricerca scientifica, polizia, rapporto di lavoro, e così via), secondo una linea che la direttiva e i legislatori nazionali avrebbero forse anch’essi fatto bene a seguire. 14 dell’ambito di protezione e dei mezzi di protezione che, inadeguatamente concepite, sono la fonte primaria dei problemi tecnici più gravi della legge italiana. Infatti, mentre sarebbe normale aspettarsi che una legge risolva i problemi lasciati aperti da una direttiva, al contrario problemi ben più gravi sono stati introdotti dal legislatore italiano con la decisione di eliminare molti degli specifici limiti e esclusioni permessi o suggeriti dalla direttiva europea, che avrebbero impedito il dilagare della regolamentazione fino a coprire pressoché l’intero agire umano. In primo luogo la legge italiana non riguarda più solo le banche di dati. In secondo luogo la legge italiana non riguarda più solo i dati elaborati in forma elettronica o automatica. In terzo luogo la legge italiana non riguarda più solo i dati che sono autonomamente sufficienti a dare informazioni personali22. In quarto luogo la legge italiana ha ritenuto che la persona interessata deve in linea di principio ogni volta assentire all’utilizzo dei suoi dati piuttosto che avere la possibilità di dire di no23. Si è voluto emanare una legge che coprisse tutti i dati personali con principi e disposizioni generali valevoli per tutti, piuttosto che seguire una strada meno ambiziosa ma più facilmente realizzabile di una serie di norme settoriali, seguendo il modello, per esempio, delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa, che riguardano appunto le singole più significative categorie di situazioni e dati. Non intendo sostenere che queste estensioni compiute dalla legge italiana costituiscano direttamente un difetto tecnico, nel senso stretto sopra indicato, e che esse di per sé rendano la legge poco comprensibile. Del resto altre legislazioni hanno seguito la stessa strada. Voglio semplicemente dire che aver seguito questa strada (qualunque cosa se ne pensi sul terreno della politica del diritto) rende assai più difficile emanare delle norme sensate e applicabili, su dati così ampiamente determinati, così variegati e circolanti in situazioni così diverse. Non deve pertanto stupire che il legislatore italiano abbia così di frequente fallito in questo compito. Ciò contribuisce a rendere difficile anche comprendere e descrivere le norme della legge; gli equivoci, infatti, sono continui. Ci sono numerosi indizi semiotici e testuali che il legislatore non sia stato sempre consapevole (se mi si passa questa utile metafora psicologistica) delle conseguenze 22 Di fronte a queste grandi inclusioni appare di secondaria importanza la estensione di gran parte delle norme della legge anche ai dati riguardanti persone giuridiche. Ci si può comunque chiedere quali diritti, comparabili ai diritti di libertà che vengono limitati, vengano tutelati dalla protezione della riservatezza per le persone giuridiche 23 Ritenendo inadeguati i sistemi affidati prevalentemente alla auto-tutela dell’interessato. Il suo principio ispiratore è stato dunque inclusivo: in materia di dati personali tutto ciò che non è permesso è vietato. O più esattamente si segue la strada dell’opting-in piuttosto che quella dell’opting-out. In astratto, ciò potrebbe essere ottenuto attraverso normative diverse. La legge italiana ha predisposto in linea di principio un complesso meccanismo paternalistico, in cui l’esistenza di ogni trattamento e una serie di dati generici sui trattamenti esistenti devono essere (salvo numerosissime eccezioni) notificati a un registro centrale gestito dal Garante; il consenso deve essere (salvo numerosissime eccezioni) richiesto ad ogni interessato su/presso cui si raccolgono dati personali; e per certe categorie di dati ritenuti più sensibili è richiesto un consenso scritto preventivo dell’interessato e persino dell’Autorità garante (salvo numerosissime eccezioni). Si può dire, inoltre, che l’opting-out, escluso in linea di principio, è stato di fatto introdotto in una serie di settori, che si sono assicurati un regime particolare a propria misura, quali la stampa e le confessioni religiose riconosciute (in proposito infra). 15 dell’aver allargato enormemente l’ambito di rilevanza e applicazione della legge. Un preciso indizio non psicologico ma testuale di queste oscillazioni può essere trovato nelle incongruenze tra le definizioni iniziali e gli usi dei termini definiti nella legge stessa. Ci sono infatti nel testo legislativo vari indizi oggettivi del fatto che il legislatore oscilla tra il significato proclamato nelle definizioni iniziali e altri significati più tradizionali, usando i quali la normativa sarebbe (paradossalmente) molto più sensata perché più facilmente applicabile. Sul tema specifico delle definizioni tornerò nel prossimo paragrafo. Qui tratterò solo il primo punto, il fatto che la legge non si limiti a coprire le sole basi dati organizzate (archivi di dati, databases) ma riguardi tutti i dati personali. Ci sono ragioni per ritenere che questo aspetto della legge non sia stato sempre tenuto presente nella redazione di ogni articolo. Troviamo un primo interessante indizio testuale di questo nel rilievo che alla nozione di banca di dati è attribuito tra le definizioni: è addirittura la prima nozione definita solennemente dalla legge (art. 12.a)24: Ebbene, si tratta di una definizione pressoché inutile, perché questo concetto nelle successive disposizioni della legge è molto poco rilevante. Ma è significativo che, salvo in un caso, le altre cinque volte in cui l’espressione appare è per esprimere una presupposizione invalida, invalida naturalmente in base alle norme della legge stessa. Ciò che viene invalidamente presupposto è che la norma in cui la parola compare faccia riferimento solo alle banche di dati, mentre ogni volta essa fa riferimento a qualunque dato personale, anche isolato. Ad esempio, si veda l’art. 7.4.g sulla notificazione al Garante, che deve contenere tra l’altro: g) l'indicazione della banca di dati o delle banche di dati cui si riferisce il trattamento, nonché l'eventuale connessione con altri trattamenti o banche di dati, anche fuori dal territorio nazionale; Questo comma esprime in modo tipico la figura semiotica della presupposizione. Non dice che la regolamentazione riguarda solo le banche dati, ma menziona l’indicazione della banca dati tra i requisiti da notificare. La norma avrebbe potuto evitare la presupposizione invalida semplicemente dicendo “l’indicazione della eventuale banca di dati …”25. L’obbligo generale di notifica riguarda però ogni dato, non solo quelli raccolti in banche dati, non c’è dubbio su questo. Lo stesso di può dire degli altri tre luoghi in cui l’espressione ricorre, del tutto inutilmente perché non contengono alcuna norma che intenda riferirsi alle sole banche di dati piuttosto che a tutti i dati26. L’eccezione, in cui la norma veramente differenzia tra le banche di dati e 24 “a) per "banca di dati", [si intende] qualsiasi complesso di dati personali, ripartito in una o più unità dislocate in uno o più siti, organizzato secondo una pluralità di criteri determinati tali da facilitarne il trattamento”. 25 Come suggerisce del resto la comparsa dell’aggettivo ‘eventuale’ nella seconda parte dell’articolo; la cui presenza rafforza la presupposizione che nel primo caso la esistenza di una banca dati non sia eventuale. 26 Per esempio (art. 32.2): “2. Il Garante, qualora ne ricorra la necessità ai fini del controllo del rispetto delle disposizioni in materia di trattamento dei dati personali, può disporre accessi alle banche di dati o altre ispezioni e verifiche nei luoghi ove si svolge il trattamento o nei quali occorre effettuare 16 altri dati personali, è nello stesso articolo 7 comma 5-bis, dove si ammette la notificazione semplificata per il trattamento che riguardi dati non contenuti in banche dati (ma non tutti, perché ciò è considerato ancora troppo periglioso)27. E’ estremamente significativo, del resto, che anche questo ultimo alleggerimento comporti pur sempre una notificazione semplificata, e che sia stato introdotto solo successivamente, tra le modifiche consentite dalla legge “di rattoppo”. Lo stesso legislatore, con questa modifica, in qualche modo confessa di aver trascurato, nel formulare le originali disposizioni sulla notificazione dell’art. 7, il fatto che la legge non si rivolgeva solo alle banche dati. Per tutta una serie di dati si è dovuto introdurre in tutta fretta un esonero totale o parziale all’obbligo di notificazione dell’esistenza del trattamento. Esenzioni tutte estremamente necessarie ad evitare l’inapplicabilità, cioè che il paese dovesse inviare, e il Garante dovesse ricevere, alcune decine (o forse centinaia) di milioni di notificazioni di trattamento di dati, che il legislatore di Capodanno non aveva evidentemente “considerato”. Con questa metafora psicologistica intendo che legislatore da una parte, e gli interpreti dall’altra, scrivendo o commentando varie parti della legge, trascurano il significato nuovo e tecnico che la legge chiarissimamente attribuisce ad alcune parole chiave con le proprie definizioni iniziali. In genere, non è difficile accorgersi quando l’interprete si lascia trascinare da nozioni di senso comune, da immagini invecchiate della realtà, da vicende giornalistiche, da singoli casi concreti, da idee ricevute, da leggende metropolitane, da pregiudizi informi: basta fare il confronto con il testo di legge. Quando invece si attribuiscono analoghi errori tecnici al legislatore che produce il testo stesso di legge (e che non è un essere umano), si compie un’operazione essenzialmente simile, ma molto più complessa e opinabile. Quando dico che “il legislatore dimentica” le proprie stesse definizioni, uso chiaramente il termine in senso metaforico, e compio in realtà una di quelle operazioni valutative necessarie alla descrizione oggettiva della legge. Dico in forma abbreviata che la norma interpretata in base alle sue stesse definizioni dà luogo a gravi difficoltà di interpretazione, a antinomie, ovvero a risultati estremamente difficili da accettare sul piano dei valori di senso comune o di valori costituzionali o dei principi proclamati dalla legge stessa, ovvero risulta di assai difficile o impossibile applicazione. Nel nostro caso, tutta una serie di norme della 675/96 (tra l’altro, quelle penali) fanno facile senso se riferite alle grandi banche di dati; molto meno al dato singolo, al pezzetto di carta su cui abbiamo potuto scribacchiare una informazione personale o ancor meno al dato espresso in forma verbale. Si può allora ipotizzare che i redattori della legge e gli interpreti abbiano subito l’influenza della immagine di grandi banche date gestite su mainframes da tecnici in camice bianco dipendenti di una grande organizzazione rilevazioni comunque utili al medesimo controllo”. Forse che la menzione delle banche di dati fa apparire i poteri ispettivi del Garante meno da Grande Fratello e meno intrusivi perché rivolti solo a grandi organizzazioni e non a piccoli ambienti personali? Ma è evidente che la norma parla di ogni luogo ove avvenga un trattamento di dati personali. Il riferimento alle banche dati è perfettamente inutile e pragmaticamente ingannevole. 27 “ c) temporaneamente senza l'ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, ai soli fini e con le modalità strettamente collegate all'organizzazione interna dell'attività esercitata dal titolare, relativamente a dati non registrati in una banca di dati e diversi da quelli di cui agli articoli 22 e 24” [cioè non sensibili]. 17 (pubblica amministrazione, assicurazione o banca), in un centro dati ad aria condizionata e con porte blindate. Molte norme della 675/96 sarebbero facilmente applicabili solo a una realtà di questo tipo. Persino alcune delle norme più stravaganti perché totalmente inapplicabili, come quella che regola il trasferimento dei dati all’estero, diventerebbero più sensate se si potessero limitare, se non proprio al trasferimento fisico di nastri magnetici per mezzo di furgoni blindati, almeno al trasferimento di informazioni appartenenti alle sole grandi banche di dati. Tali norme, in altre parole, sembrano ignorare tranquillamente (in una legge approvata alla fine del 1996!) l’esistenza delle reti e dell’informatica distribuita28. In conclusione, il legislatore sembra aver talora tacitamente presupposto una distinzione che la legge stessa esplicitamente esclude, una qualche distinzione accettabile e accertabile tra banche dati da sottoporre a forme penetranti di controllo, e banche dati o dati sparsi che non debbano essere così pesantemente controllati e protetti29. 2.2 Definizioni esplicite e concetti ordinari Se ho creduto di poter ascrivere i problemi generali della 675/96 a un atteggiamento temerario nei confronti delle capacità e nelle possibilità della legislazione (che nel paragrafo precedente ho chiamato hybris), il primo aspetto tecnico su cui questo atteggiamento ci ha indotto a riflettere è stato il modo in cui vengono usate le parole in questa legge. A prima vista la 675/96 si presenta come una legge molto attenta all’uso delle parole. Contiene infatti una serie di definizioni esplicite a cui viene dato il massimo rilievo; contiene la formulazione di una serie di principi che dovrebbero servire a completare la interpretazione dei concetti più complessi laddove la lettera della legge non bastasse. Si tratta, purtroppo, di mera apparenza. Le definizioni della legge aggravano grandemente i suoi problemi. Abbiamo visto il primo e più generale esempio di questi problemi nel paragrafo precedente a proposito della nozione stessa di dato personale e della determinazione dell’ambito di applicazione della legge. E’ ormai pacifico in teoria del diritto che le definizioni contenute in una legge siano delle norme che prescrivono agli interpreti il modo in cui devono essere intese le parole definite, quando usate nel testo stesso. Pertanto, inserire in una legge un elenco di definizioni esplicite dovrebbe servire ad aumentarne la determinatezza e quindi a diminuire la discrezionalità e la incertezza in sede di applicazione. E’ ovvio che il compito definitorio del legislatore è tanto più difficile quanto più la materia è nuova e l’ambito di applicazione della legge è ampio. Specie al di fuori dei campi tradizionali del diritto civile e penale, in cui la cultura giuridica ha operato da secoli un’opera di elaborazione concettuale e casistica, le 28 Infra, § 2.5. Una simile falsa presupposizione appare in piena forza nei titoli di Buttarelli 1997, Banche dati e tutela della riservatezza. La privacy nella società dell’Informazione, con il sottotitolo ulteriore Commento analitico alle leggi 31 dicembre 1996, nn. 675 e 676 in materia di trattamento dei dati personali e alla normativa comunitaria ed internazionale. A prescindere dal contenuto del libro, che non posso commentare in questa sede, il titolo lo presenta come un commento analitico alle leggi sulla protezione dei dati, e suggerisce che tale commento analitico e la tutela della riservatezza riguardino appunto le sole banche dati. 29 18 definizioni giuridiche esplicite fornite dal legislatore sono, inoltre, uno strumento normativo per non lasciare alla giurisprudenza precedente o addirittura successiva uno spazio troppo grande nella determinazione del senso delle parole chiave del testo di legge30. La legge sulla protezione dei dati personali rientra evidentemente nel novero delle leggi che hanno un grande bisogno di definizioni. I concetti usati dalla legge sono tutti estremamente vaghi, nel linguaggio ordinario come in quello giuridico. A partire dal concetto di dato e dato personale fino a quelli di trattamento, comunicazione, dato pubblico e così via. Opportunamente dunque l’art. 1 è composto da definizioni esplicite, e altre definizioni esplicite su trovano nel prosieguo, talora con la tecnica consueta della titolazione di un articolo che esprime una definizione contestuale (per esempio l’art. 22 è titolato “Dati sensibili” e la tipologia menzionata nel primo comma31 va considerata indubbiamente una definizione per elencazione di ‘dato sensibile’, e per di più una elencazione esaustiva. La nozione di ‘trattamento’ è chiarissimamente definita nella 675/96 come qualunque cosa si faccia con dei dati; include dunque raccolta, trattamento vero e proprio (elaborazione), comunicazione e diffusione. Poco perspicuamente, il prosieguo del testo disattende però questa definizione altrettanto spesso di quanto non ne faccia uso; sovente ad esempio distingue tra raccolta, trattamento, comunicazione e diffusione (persino nei titoli delle sue parti). Ne risulta che quando la legge parla di trattamento spesso non è chiaro se intende veramente ‘trattamento’ nella definizione solenne datane all’inizio o secondo il senso comune che normalmente esclude dal trattamento sia la raccolta sia la comunicazione e diffusione. Sappiamo per certo che dobbiamo escludere alcune di queste cose dal trattamento quando il senso è esplicitamente indicato a contrario: per esempio ‘trattamento’ significa trattamento-elaborazione (e presumibilmente anche raccolta), ma non comunicazione e diffusione laddove queste ultime vengono esplicitamente regolate in modo diverso e distinto dal trattamento (come, ad esempio, nei commi 1 e 3 dell’art. 27)32. La definizione di ‘trattamento’ nella legge, se presa sul serio, comporta peraltro un grave problema tecnico quando viene combinata con la definizione di dato personale, 30 Per questa ragione le definizioni sono frequenti nella legislazione di common law, quando si vuole costringere una riluttante giurisprudenza giudiziaria ad accettare le deviazioni da un istituto di common law e si deve quindi evitare che le parole dello statute possano venire piegate secondo le interpretazioni tradizionali e l’apparato concettuale forgiato sulla common law. 31 Art. 22.1. “I dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, possono essere oggetto di trattamento solo …” 32 Art. 27: “1. Salvo quanto previsto al comma 2, il trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici, esclusi gli enti pubblici economici, è consentito soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali, nei limiti stabiliti dalla legge e dai regolamenti. 2. La comunicazione e la diffusione a soggetti pubblici, esclusi gli enti pubblici economici, dei dati trattati sono ammesse quando siano previste da norme di legge o di regolamento, o risultino comunque necessarie per lo svolgimento delle funzioni istituzionali. In tale ultimo caso deve esserne data previa comunicazione nei modi di cui all'articolo 7, commi 2 e 3 al Garante che vieta, con procedimento motivato, la comunicazione o la diffusione se risultano violate le disposizioni della presente legge. 3. La comunicazione e la diffusione dei dati personali da parte di soggetti pubblici a privati o a enti pubblici economici sono ammesse solo se previste da norme di legge o di regolamento.” 19 che è tale quando fornisce una qualunque informazione riferibile a una persona anche “indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione” (art. 1.c). Tutti sanno, dalla lettura dei romanzi di Conan Doyle, che anche il dato meno significativo, se opportunamente confrontato, integrato e elaborato cioè trattato, può fornire informazioni anche estremamente sensibili. Ebbene la difesa di chi raccoglie tali dati senza considerarli dati personali o dati sensibili può essere appunto che non si è compiuto, e non si ha intenzione di compiere, un tale trattamento. Ma se raccolta e trattamento sono considerati unitariamente, come la legge salvo eccezioni li considera riunendoli in un solo concetto di trattamento-nel-senso-della-675/96, allora la raccolta non è altro che il primo passo di un possibile trattamento e ci chiediamo se ogni raccolta non dovrebbe essere considerata, agli occhi della legge, tutt’uno con le future possibili elaborazioni e se il dato raccolto ma non trattato non vada comunque considerato personale e forse anche sensibile per il solo fatto di esserlo potenzialmente. Quasi ogni dato sociale finirebbe in tal caso nella categoria del dato personale: è stato fatto l’esempio dei cognomi delle persone che sono un indizio della loro origine etnica o religiosa. La soluzione del Garante, molto ragionevolmente, fa leva sulla finalità del trattamento. Sarebbe ammissibile un trattamento con finalità per così dire innocue, cioè che non evidenzia informazioni sensibili, anche se i dati raccolti hanno la potenzialità di essere trattati per tali ulteriori scopi33. Il parametro della finalità ricorre numerosissime volte nella legge; è però un parametro chiaro solo se è inteso in un senso oggettivo riguardo a basi dati organizzate. Se la finalità è insomma quella che deve essere comunicata nella notifica al garante, o è comunque di quel tipo anche se c’è esenzione di notifica34, il problema è risolvibile. Ma anche qui, temo, ci fa barriera un fenomeno di doppia definizione. Se il dato non è parte di un database a gestione collettiva, la nozione di ‘finalità’ (del trattamento) diviene di colpo enormemente assai più incerta e il suo accertamento assai più opinabile. Qual è la finalità di un CD-Rom carico di indirizzi che posso sottoporre a elaborazioni indeterminate in base a filtri ed estrattori di testo contenuti sul CD-Rom stesso, e comunque facilmente ottenibili in rete? Qui finalità diventa intenzione dell’utilizzatore occasionale e il problema dei dati indirettamente rilevanti ridiviene drammatico. Ex art. 22, i dati sensibili non possono essere oggetto di trattamento (quindi neppure raccolti) senza autorizzazione del Garante. Non basta il consenso dell’interessato, che viene trattato come un permanente minorenne nei confronti della comunicazione delle proprie convinzioni religiose e filosofiche, oltre che delle abitudini sessuali e dei dati di salute, considerati a vari effetti super-sensibili. Emerge qui con chiarezza il fenomeno della archetipazione che deve aver dominato la mente piuttosto distratta degli estensori della legge. Il termine ‘archetipazione’ è stato forgiato dal grande teorico della 33 Il presidente dell’autorità Garante in una conversazione con la stampa ha adombrato la possibilità di usare di questo parametro (la finalità) per limitare gli effetti esplosivi di una effettiva applicazione dell’art. 1, comma 2c (sopra citato) ai dati che non rivelano direttamente informazioni personali, ma permettono di indurle con opportuni trattamenti. 34 L’art. 7.5ter contiene un lunghissimo elenco di trattamenti esentati da notifica appunto in base alla finalità per cui vengono compiuti. Sono trattamenti compiuti in ambito di piccole associazioni, piccole imprese, professionisti, artigiani e così via. 20 legislazione Jeremy Bentham35. Si tratta del fenomeno semiotico per cui la comprensione della legge fa riferimento a elementi intuitivi o tipici dei fenomeni su cui si desidera legiferare. Una “falsa” archetipazione si ha quando tali elementi non sono però parte del significato dei termini usati o non sono tutto il loro significato. Un caso tipico è quando il legislatore o l’interprete ha in mente un caso concreto, un esempio, e non ci si accorge che la espressione che si usa per designarlo ha una estensione molto più ampia. Così il redattore della legge dice “abitudini sessuali” e pensa di provvedere al solo caso degli omosessuali, dice “dati sulla salute” e pensa al caso particolare dei malati di AIDS, dice “convinzioni religiose” e pensa alle vetrine dei negozi su cui le SA naziste scrivevano “Jude”. Ma la legge è scritta in forma ben più generale e vieta al filosofo di menzionare le proprie teorie filosofiche, al fedele di ammettere di essere cattolico (infra, § 2.7), al disabile di “confessare” la propria disabilità senza la previa autorizzazione del Garante, rafforzata (ad evitare che qualcosa sfugga dalle sue provvidenziali grinfie) dal silenzio-rigetto36. La archetipazione patologica, per cui la legge risulta apparentemente sensata solo se la “interpretiamo” secondo categorie semi-giornalistiche e immagini superficiali, senza badare troppo a cosa significano i suoi termini nel linguaggio ordinario o giuridico e senza neppure applicare le sue stesse definizioni, è un difetto tecnico generale derivato a sua volta dalla follia legiferante di cui si è parlato nel paragrafo precedente; ed è il fattore tecnico alla radice di quasi tutti gli altri suoi problemi più gravi. Di questi parlerò nei paragrafi successivi. Tra i principali sono la unilateralità di alcune scelte di valore nella legge; l’istituzione di un meccanismo burocratico non gestibile; la sua frequente ignoranza dei fatti, alcune sue scelte incredibilmente paternalistiche, la probabile incostituzionalità di varie scelte e disposizioni. 2.3. Unilateralità e beni protetti Come ho accennato, il parlamento italiano ha esteso la normativa di protezione dei dati a coprire anche le persone giuridiche37; un aumento di protezione della riservatezza ad entità del tutto diverse dagli esseri umani, che ci induce a chiederci come si può ora individuare il valore che la legge protegge. Se la protezione include le persone giuridiche, non si tratta più di proteggere la riservatezza personale, nel senso della vita intima e quindi della libertà degli esseri umani, ma di proteggere da accesso esterno non autorizzato i dati riservati riguardanti la attività interna di corpi collettivi. Beninteso tale accesso potrebbe ledere valori meritevoli di protezione, a seconda del tipo e dell’attività 35 Il fenomeno della permanenza, spesso inconsapevole di elementi archetipali di immagine originaria o nozione semplificata, nell’uso dei concetti (archetypation) stato teorizzato da Bentham 1843, 127. Si veda anche il recente Bentham 1997. Il punto è stato di recente acutamente commentato da Jackson 1998. 36 Quando i dati sono già pubblici non è richiesta notifica e il consenso dell’interessato (art. 12); ma questa scappatoia si rivela meno ampia di quanto non sembri, non solo perché nulla dice del consenso del Garante quando richiesto, ma soprattutto perché i dati pubblici devono pur essere resi tali una prima volta e in quel momento ricadono quindi sotto le strettoie della legge; né si può pensare che il dato reso pubblico contra legem incorra in una sorta di sanatoria. In altre parole queste disposizioni della legge dovrebbero cominciare a “mordere” quando non si avrà più a che fare con una massa di dati in gran parte in circolazione già prima della piena entrata in vigore della legge. 37 Con alcune eccezioni quanto alla estensione di tale protezione, che introducono peraltro ulteriori complicazioni nella disciplina della legge. 21 delle persone giuridiche. Non vedo però come si possa trattare della riservatezza. Potrebbe piuttosto trattarsi di un danno economico ingiusto per società impegnate in tale attività (concorrenza), ovvero una lesione di interessi politici per una associazione con fini politici. Quando si cerca di determinare i beni o valori che la legge mirerebbe a proteggere non bisogna comunque trascurare di considerarne il titolo. Il titolo della direttiva europea ispiratrice del provvedimento (Direttiva 95/46 CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 24-10-95 è: Relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati; la legge italiana è titolata Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali. Dal titolo della legge italiana è scomparsa ogni menzione dell’obbiettivo di “conciliare i valori fondamentali del rispetto della vita privata e della libera circolazione delle informazioni tra i popoli”38. Eppure è ovvio che la legge non deve proteggere un valore solo, la privatezza dei dati personali, ma deve trovare l’equilibro tra diversi valori in perenne potenziale conflitto, specialmente tra la privatezza e, giustappunto, la libertà di circolazione delle informazioni. Sulla importanza della seconda libertà non si può dubitare. Infatti è proprio la seconda e non la prima a trovare esplicita e formale protezione costituzionale nella forma, almeno, della libertà di parola e di stampa, la prima diritto fondamentale dei singoli, la seconda lubrificante ed elemento essenziale della democrazia. Questo non è, a mio parere, un semplice accidente redazionale, ma un sintomo di quello che è stato in questo caso l’atteggiamento di fondo del legislatore italiano. Il punto è che il diritto alla riservatezza è, come tutti i diritti, in conflitto strutturale con altri diritti. Ovvero, per usare una terminologia frequente nella teoria dei diritti, è un diritto prima facie, un diritto formulato in modo abbreviato, la cui formulazione normativamente completa dovrebbe comprendere tutti i limiti posti al suo esercizio dall’osservanza di tutti gli altri diritti i cui comportamenti attuativi, le cui garanzie, sono potenzialmente in conflitto con il diritto in questione. Se è vero che una soluzione completa di questi conflitti è impossibile, una soluzione ragionevole è, come tutti i giuristi sanno, una delle cose più difficili ma meno rinunciabili della tecnica legislativa. Il legislatore italiano della 675/96 sembra essersi troppo spesso dimenticato di questa elementare verità sulla natura della normazione giuridica. In presenza di difficili conflitti tra la riservatezza e vari diritti e situazioni giuridiche che si basano sulla libertà di gestire informazioni, troppe disposizioni della legge appaiono formulate come se il valore in campo fosse uno solo, la riservatezza, e l’unico problema fosse assicurargli la massima protezione39. Si creano così delle norme che l’interprete rischia di sentire come prima facie incomprensibili perché “contrarie al buon senso”, norme che inducono a 38 Prendo in prestito la frase dal preambolo della Convenzione n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, Strasburgo 28-1-1981. 39 Il principio della tutela del dato personale non è peraltro in conflitto solo con la libertà di stampa e manifestazione del pensiero, ma anche con una serie di diritti fondamentali che dipendono tutti dalla libera circolazione di informazioni. Per esempio il diritto alla salute e alla integrità della persona è legato alla possibilità di essere informati della presenza di malattie contagiose (la comunicazione di queste informazioni dal sanitario al terzo minacciato senza il consenso del soggetto essendo vietata dalla legge salvo intervento del Garante). Ovvero, una informazione economica affidabile è assolutamente necessaria alla economia di mercato. Se ci appare mostruosa l’idea che tutto ciò che facciamo e diciamo sia noto a tutti, altrettanto inquietante è la prospettiva di una società in cui non possiamo sapere nulla di nessuno. 22 pensare che il legislatore non possa aver voluto dire quello che dice, in quanto assurdamente unilaterali e quindi sentite come inapplicabili. Queste sono le ragioni di fondo per cui la parte sulla libertà di stampa sarà sempre di difficile soluzione in una legge a protezione della riservatezza. Ma la soluzione offerta dalla 675/96 è subito apparsa difficilmente applicabile, probabilmente incostituzionale; ed è puntualmente andata incontro a un quasi totale svuotamento con l’approvazione del codice deontologico dei giornalisti, che avrebbe dovuto semplicemente dettagliare le modalità della protezione. Si consideri la formulazione originaria dell’art. 2540. Il valore fondamentale della libertà di stampa è interpretato, fin dal titolo, in un senso assai peculiare, come libertà che riguarda solo l’esercizio della professione di giornalista, perlomeno riguardo ai dati personali sensibili. La professione di giornalista, poi, è stata ulteriormente intesa dalla legge nella sua formulazione originaria come libertà dei soli appartenenti alla corporazione dei giornalisti.41 Mi sembra estremamente dubbio che questa sia una interpretazione accettabile della libertà di stampa come protetta dalla Costituzione italiana; ma per tener fede al mio intento di muovermi solo sul piano di scelte e valori estremamente “tecnici” non insisto. Né ho bisogno di farlo per dimostrare il mio assunto, perché la discriminazione tra giornalisti e non giornalisti era comunque inapplicabile anche al mondo della stampa intesa nel senso più restrittivo e corporativo (cioè delle testate ufficiali e dei giornalisti membri dell’ordine). Ci sono infatti anche i pubblicisti e ci sono quanti scrivono sui giornali o parlano alla televisione senza essere l’uno o l’altro42: le legge se ne era “dimenticata”! Il problema apparentemente è emerso solo a legge approvata; ma possiamo ben chiederci come abbia potuto una commissione parlamentare approvare un testo da inviare alla Gazzetta ufficiale senza che un difetto del genere fosse stato visto e corretto. L’assurdità “interna” e l’inapplicabilità di questa corporativizzazione della libertà sono così ovvie che nella revisione attuale (comma 4bis) si finisce con il mettere sullo stesso piano tutti i “trattamenti temporanei finalizzati esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero”. A questo punto, abbandonato il limite corporativo, che era costituzionalmente assurdo e impraticabile di fatto ma almeno comprensibile, con l’aggiunta del comma 440 Art. 25 “(Trattamento di dati particolari nell'esercizio della professione di giornalista) 1. Salvo che per i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, il consenso dell'interessato non è richiesto quando il trattamento dei dati di cui all'articolo 22 [sensibili] è effettuato nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità, nei limiti del diritto di cronaca, ed in particolare dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Al medesimo trattamento, non si applica il limite previsto per i dati di cui all'articolo 24. Nei casi previsti dal presente comma, il trattamento svolto in conformità del codice di cui ai commi 2 e 3 può essere effettuato anche senza l'autorizzazione del Garante.” Il codice menzionato è il codice deontologico della corporazione dei giornalisti italiani. 41 Che questa interpretazione del testo originario sia fondata è dimostrato dalla revisione apportata con decreto successivo, con l’aggiunta di un comma: “4-bis. Le disposizioni della presente legge che attengono all'esercizio della professione di giornalista si applicano anche ai trattamenti effettuati dai soggetti iscritti nell'elenco dei pubblicisti o nel registro dei praticanti di cui agli articoli 26 e 33 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, nonché ai trattamenti temporanei finalizzati esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero.” 42 Tra essi tutti gli stranieri che non appartengono alla corporazione italiana. 23 bis la norma permette tutto a tutti e il titolo dell’articolo risulta interamente insensato o ingannevole. Poiché si estendono a ogni manifestazione del pensiero anche occasionale da parte di chiunque (e cosa non lo è?), le norme dell’art. 25 si applicherebbero a qualunque trattamento dei dati. Sembra una normale estensione, ma è in effetti un meccanismo semantico tangenziale che fa esplodere la norma e la legge intera. Salvo naturalmente che non sia interpretata con il sottinteso non dichiarato, e del tutto assente dal testo della legge, che il trattamento deve avvenire nell’ambito di testate ufficiali, giornali e televisione. In questo caso per gli altri, per i manifesti, le rivistine, gli stampati, i libri, gli opuscoli, le pagine web e tutti i nuovi mezzi offerti dalla rete, questa libertà non varrebbe, se si identificano surrettiziamente le “altre manifestazioni del pensiero” con la produzione di un giornale o di una testata (occorre che sia regolarmente registrata?). La legge tace. Ci si aspetterebbe che una fondamentale limitazione della libertà fosse chiarita un po’ meglio, sia essa la libertà di manifestazione del pensiero o la protezione dei dati personali. Forse che risultano ora quantomeno protetti dall’intrusione della stampa i dati considerati più sensibili, quelli riguardanti salute e abitudini sessuali? Qui interviene il codice di deontologia professionale dei giornalisti, emanato dopo lunga e tormentata gestazione. Il quale risolve alla radice il problema (per il soli membri della professione?), semplicemente con una formula così ampia e favorevole alla pubblicazione di qualunque cosa da rendere nulle le garanzie e le limitazioni della protezione dei dati anche “sensibilissimi”. Per il bene e per il male, tutto come prima dunque per la stampa, dopo un complicatissimo giro di valzer legislativo, dopo enormi sforzi del Garante, dopo le pressioni della corporazione, dopo feroci discussioni ai convegni sulla liberà di stampa. Salvo che ora una autorità amministrativa, il Garante, ha il potere di vietare caso per caso il trattamento giornalistico qualora ritenga che una informazione non sia nel pubblico interesse in base a suoi personali parametri di ius honorarium; e sempre che il Garante stesso abbia deciso che il trattamento rientri tra quelli ex art. 25. L’effetto di fornire delle garanzie solo apparenti è raggiunto in questo caso con mezzi diversi dalla semplice disapplicazione (di cui si debbono accontentare i comuni cittadini). La stampa, in quanto categoria forte, si è liberata dalle costrizioni della legge ottenendo una pressoché totale autonomia normativa in materia di privacy (degli altri). 2.4. Notificazioni e burocrazia Questo aspetto si intreccia strettamente con la questione dei poteri del garante, che verrà ripreso infra, § 2.6). L’obbligo di notificare l’esistenza del trattamento all’autorità Garante, che vale per i dati anche non raccolti in archivi automatizzati, è un significativo aspetto di paternalismo previsto dalla legge per i dati personali anche non sensibili. Sul piano dei principi va accostata ad altre disposizioni che ugualmente non si accontentano del consenso al trattamento da parte dell’interessato, ma richiedono anche l’autorizzazione o comunque un intervento dell’autorità pubblica (per i dati sensibili sono richiesti in linea di principio sia il consenso dell’interessato sia l’autorizzazione del garante). Il paternalismo sta in questo: la ratio di queste norme è il tentativo di evitare il danno alla riservatezza che potrebbe derivare dal fatto che l’interessato, anche se informato e 24 consenziente, sia poco efficace o poco solerte nella protezione dei propri dati, o venga indotto a “svendere” il proprio consenso43. Indipendentemente da ciò che si può pensare di questa scelta sul piano etico-politico, è evidente che è una operazione con grandi costi, non solo economici ma anche in termini di altri valori, cioè quanto alla libertà di circolazione dei dati. Ma il costo principale dell’obbligo di notifica non è il costo burocratico e materiale imposto ai titolari dei trattamenti dei dati e all’ufficio del Garante. Il costo più grande è il grave pericolo della inapplicabilità di un obbligo formulato in termini troppo ampi e del conseguente discredito della legge stessa. Quanto più ampio è il tipo di dati personali il cui trattamento va notificato, tanto più tale pericolo cresce. Puntualmente con la legge 675/96 la garanzia, impossibilmente estesa, ha rischiato di autovanificarsi. Un ufficio con 40 o 80 impiegati (ma anche con 1000) non è palesemente in grado di vagliare o anche solo di ricevere fisicamente centinaia di migliaia o milioni di notifiche. E ci si può chiedere quale capace scantinato possa ospitare i relativi fascicoli. In realtà l’intero meccanismo della notificazione come originariamente delineato dalla 675/96 avrebbe richiesto una organizzazione di dimensioni mostruose dal lato dell’ufficio ricevente e una attività onerosissima da parte della società italiana. Il legislatore originariamente aveva posto un generale obbligo di notifica per tutti i trattamenti di dati, anche non automatizzati, esclusi i dati per uso personale di cui all’art. 3. Questo è indubbiamente un capitolo significativo anche della ignoranza dei fatti “dimostrata” dalla legge. Come ho osservato sopra affrontando la stessa questione come problema di definizioni, è significativo che questo sia uno dei pochi punti della legge in cui si parla incidentalmente di banche dati (art. 7 comma 3.g). Non però per limitare alle banche di dati l’obbligo di notificazione. La legge dice ‘dati’ ma i redattori del testo legislativo nel valutarne la applicabilità apparentemente dovevano pensare (ammesso che pensassero) ‘banche dati’, anzi pensavano alle grandi banche dati. I redattori dovevano pensare a poche centinaia di colossali banche di dati, di assicurazioni banche ministeri e simili. Non si pensava certamente di aver prescritto 50 milioni di notifiche. E’ possibile che non si sia pensato al numero di privati, società e associazioni che tengono schedari, di carta o elettronici riguardanti persone? È possibile che il legislatore non abbia pensato alle parrocchie? È possibile che il legislatore non abbia pensato agli studi professionali? È possibile che il legislatore non abbia pensato ai clienti dei negozi? Le piccole imprese, le parrocchie, i professionisti, tutti detengono liste di clienti, di fornitori, di dati personali spesso sensibili44. 43 Secondo la Direttiva del 95 (considerando n. 25) “la notificazione all’autorità di controllo ha lo scopo di dare la pubblicità alle finalità del trattamento e alle sue principali caratteristiche, per consentirne il controllo secondo le norme nazionali …”. Interpreto ‘controllo’ come controllo pubblico, dal momento che la notifica non avrà grande efficacia nell’informare gli interessati dell’esistenza di dati che li riguardano. In primo luogo perché il Garante italiano non dispone tuttora di un registro consultabile per via informatica; in secondo luogo perché la notifica non comprende ovviamente i nomi delle persone interessate. E’ stato sostenuto che l’esistenza di un meta-archivio degli archivi costituirebbe un pericolo per la privacy in se stesso; non lo penso, grazie anche ai limiti dell’archivio, che potrà servire solo da ausilio per l’opera del Garante se e qualora verrà informatizzato. 44 Dà il tono del tipo di problemi sollevati dalla legge il seguente comunicato stampa del garante (del 12.3.1998): 25 Come conseguenza, il garante ha dovuto emanare una normativa generale “provvisoria” per tamponare almeno le meno sensate e quantitativamente meno gestibili tra queste “dimenticanze”, ed evitare un flusso di milioni di notifiche al proprio ufficio. L’elenco delle notifiche “assurde” è molto lungo e non è frutto di una mia arbitraria valutazione della legge, ma si ritrova negli esoneri compiuti del garante stesso per evitare che la legge divenisse inapplicabile alla scadenza delle moratorie iniziali. Si tratta quindi di un difetto tecnico, paragonabile a quello di una legge sul traffico che prescriva (oggi) alle automobili di procedere sempre precedute da un uomo a piedi che agiti un campanello. Le modifiche alla legge hanno tamponato almeno alcune delle fonti del diluvio notificatorio. La parte aggiunta all’art. 7, comma 5-bis, ter e quater, merita di essere letta come esempio del modo in cui non si dovrebbe mai legiferare. Tutte le esenzioni, beninteso, sono di assoluto buon senso sul piano delle applicabilità e dei valori. Ma è proprio questo il punto; l’interprete ha tutto il diritto di pensare che queste esenzioni necessarie avrebbero dovuto esser individuate da qualunque legislatore competente con una formulazione generale piuttosto che una elencazione e prima dell’emanazione della legge. Le perplessità che sorgono non sono solo di ordine etico-politico (ci si potrebbe chiedere perché l’obbligo di notifica non sia stato limitato ad alcuni casi positivamente indicati, invece che al contrario reso obbligatorio salvo una valanga crescente di eccezioni totali e parziali). Le perplessità sono tecniche, anche ora la norma così bizzarramente ritagliata induce l’interprete a chiedersi se l’art. 7 intenda veramente quello che dice e se no, che cosa intenda. Viene gettato il discredito e la sfiducia sul linguaggio del legislatore. 2.5 Ignoranza dei fatti Tutti sanno che una legge non descrive fatti, ma prescrive comportamenti. Pertanto, a rigore, le norme espresse da una legge non possono essere false così come non possono essere vere. Tuttavia ogni legge ha a che fare con i fatti sotto due aspetti decisivi e pragmaticamente, per così dire, interni al suo significato. In primo luogo perché ogni norma è ipotetica, cioè prescrive un comportamento a condizione che si realizzino certe condizioni di fatto. In secondo luogo perché prescrive un comportamento, che può essere tenuto solo in certe condizioni di fatto. Possiamo considerare entrambi come i presupposti della norma; nel primo caso i presupposti della sua applicabilità, nel secondo i presupposti della sua osservabilità. Una legge che presuppone la efficacia della stregoneria è difettosa quanto al primo presupposto45. Una legge che prescriva “Il Garante ha chiarito che tutte le imprese artigiane, per i trattamenti relativi allo svolgimento delle proprie attività imprenditoriali. sono esonerate dal presentare la notificazione. Le aziende artigiane, infatti, anche nella loro attuale disciplina, rientrano pienamente nella categoria dei piccoli imprenditori, ai sensi dell'art. 2083 del codice civile, cui fa riferimento l'art.7, comma 5-ter della legge 675/1996. L'obbligo di notificazione dell'esistenza di banche dati rimane, invece, per le piccole aziende industriali, le quali non rientrano nella definizione contenuta nell'art. 2083 del codice civile; né queste aziende possono essere ridefinite come piccole imprese utilizzando speciali discipline di settore finalizzate soltanto all'erogazione di agevolazioni.”. 45 Tipicamente un interprete che operi al di fuori del principio di stretta legalità potrà “aggiustare” una simile legge senza scomodare il legislatore, ridefinendo il termine ‘stregoneria’ a voler indicare la credenza soggettiva e non la capacità oggettiva. 26 compiti fisici impossibili sarà difettosa quanto al secondo presupposto/ Entrambe inviteranno ad interpretazioni correttive più o meno surrettizie. Alle presupposizioni di fatto infondate vanno aggiunte le presupposizioni infondate che riguardano i fatti giuridici; ancor più complicate perché in questo caso la possibilità di reinterpretazione si estende ai fatti in questione (si pensi all’errore di fatto sulla vigenza di una legge). In breve possiamo chiamare tutto questo “errori di fatto” di una legge. Errori di fatto di questo genere sono in qualche misura inevitabili per una legge che si occupa per la prima volta in modo sistematico di un campo così vasto (in realtà assai più vasto di quanto il legislatore sembri “realizzare”) e con moltissimi aspetti nuovissimi nel campo delle telecomunicazioni e dell’informatica. Tuttavia la 675/96 contiene una quantità davvero imbarazzante di assunzioni di fatto infondate, alcune già menzionate nelle pagine precedenti. Si è detto che un “errore di fatto” della legge particolarmente centrale e clamoroso è quello di aver ignorato la esistenza delle reti e in particolare della internet in una serie di disposizioni. Forse la più clamorosa riguarda la esportazioni di dati personali all’estero. L’art. 28 stabilisce: 1. Il trasferimento anche temporaneo fuori del territorio nazionale, con qualsiasi forma o mezzo, di dati personali oggetto di trattamento deve essere previamente notificato al Garante, qualora sia diretto verso un Paese non appartenente all'Unione europea o riguardi taluno dei dati di cui agli articoli 22 e 24. 2. Il trasferimento può avvenire soltanto dopo quindici giorni dalla data della notificazione; il termine è di venti giorni qualora il trasferimento riguardi taluno dei dati di cui agli articoli 22 e 24. 3. Il trasferimento è vietato qualora l'ordinamento dello Stato di destinazione o di transito dei dati non assicuri un livello di tutela delle persone adeguato ovvero, se si tratta dei dati di cui agli articoli 22 e 24, di grado pari a quello assicurato dall'ordinamento italiano. Sono valutate anche le modalità del trasferimento e dei trattamenti previsti, le relative finalità, la natura dei dati e le misure di sicurezza. 4. Il trasferimento è comunque consentito qualora: a) l'interessato abbia manifestato il proprio consenso espresso ovvero, se il trasferimento riguarda taluno dei dati di cui agli articoli 22 e 24, in forma scritta; [seguono altre eccezioni] Ancora una volta si è tentati di supporre che i redattori della legge avessero in mente le sole (grandi) banche di dati in una situazione arcaica della informatica. In sostanza non sono state considerate l’informatica distribuita, il mondo dei personal computers e l’esistenza di internet. In particolare non è stata tenuta presente (nel 1996!) la esistenza del Web. Ora, notoriamente, un dato presente su un server Web (che può essere un programma su qualunque PC messo in internet) è virtualmente presente in tutto il mondo collegato. Poiché qualche paese nel mondo che non abbia le nostre “garanzie” si può facilmente trovare (non alludo al Surinam ma agli USA), ebbene il risultato è che la legge vieta il Web agli italiani per tutti i dati personali. La stessa censura vale per i server FTP (scambio files), per le news, per i programmi di chat (IRC) e via discorrendo. Se si considera l’ampiezza delle nozioni di dato, dato sensibile e 27 trattamento della nostra legge, di fatto essa vieta all’utente italiano di parlare in internet di qualunque cosa attinente alle persone. E’ un caso peculiare di come operi la falsa presupposizione archetipale: la norma sarebbe applicabile a una realtà di cento banche dati gestite in modo professionale (come la banca dati di una assicurazione) che, periodicamente e regolarmente, trasferiscano all’estero dati sempre dello stesso tipo. Gli impiegati addetti inoltreranno tempestivamente richiesta al Garante, il quale la valuterà e se il caso (tacitamente) la autorizzerà. Potrà autorizzare un tipo di trasferimento una volta per tutte. Con questa norma evidentemente si vuole evitare che le protezioni della legge siano semplicemente eluse trasferendo i trattamenti all’estero. Ma l’art. 28 è semplicemente inapplicabile a cinquanta milioni di personal computers che si scambiano news. Non si può applicare a cinquecentomila siti Web che contengono le informazioni più varie. Entrambi, per quello che conta, sono nel cyberspazio, cioè sono contemporaneamente presenti in tutto il mondo collegato in rete. A riprova di tale impossibilità, nessuno ha mai neppure provato ad applicarvele. Gli interpreti (e il Garante) si sono aggrappati alle (ragionevolissime) eccezioni previste dal comma quattro. Purtroppo nel far questo essi non hanno considerato che i dati prima di essere esportati devono essere raccolti (cioè, secondo la legge, trattati). Il trattamento ricade sotto le regole relative, in particolare per i dati sensibili occorre la notifica e l’autorizzazione previa del Garante e non basta il consenso. Mettere dei dati nel Web è una operazione unitaria, quindi porre un dato sensibile, o un certo tipo di dati sensibili, su una pagina Web richiede la previa autorizzazione del Garante, con silenzio rigetto46. Attendiamo ancora una riformulazione dell’art. 28 che lo renda applicabile, salvandone le presumibili intenzioni. Non sarà facile. Quello che potrebbe accadere, per ora, è l’arbitrio poliziesco, che si decida di applicare la legge a qualche caso scelto ad arbitrio. La pretesa di impedire agli italiani di contaminarsi in un mondo meno perfetto del nostro trova il suo perfetto complemento nella richiesta a tutto il mondo di adeguarsi a noi. E’ la pretesa della competenza universale, contenuta nell’art. 6: 1. Il trattamento nel territorio dello Stato di dati personali detenuti all'estero è soggetto alle disposizioni della presente legge. Decisamente i redattori della 675/96 non si fidano degli stranieri. Dimenticandosi per di più di eccettuare da questa categoria di sorvegliati speciali pure gli altri paesi membri dell’Unione Europea, verso cui ci legano gli obblighi precisi di consentire il libero flusso dei dati sanciti dalla Convenzione. La pretesa di giurisdizione universale espressa dalla legge appare sensata e possibile solo se si ignora completamente, ancora una volta, la realtà della continua circolazione dei dati nel mondo attuale. Di fatto si chiede a qualunque importatore estero, anche temporaneo e di una quantità minima di dati, di forgiare la propria organizzazione e le 46 Né si può pensare che un dato sensibile il cui trattamento è già notificato al Garante e da lui autorizzato possa essere esportato con il solo consenso dell’interessato, perché i cambiamenti di finalità e luogo dei trattamenti vanno pure notificati. 28 proprie pratiche secondo le regole italiane. Al primo tentativo di applicazione, l’apparenza di sensatezza della norma evapora e ci troviamo di fronte a un caso incredibile di surrettizio imperialismo giuridico, un imperialismo casereccio, che probabilmente nasconde un molto italico “diciamo, diciamo, tanto non costa nulla” La norma è politicamente impossibile e probabilmente in conflitto con i trattati UE, se si pensa che è sufficiente che una parte minima dei dati pervenga in Italia perché si applichi la nostra legge (trattamento vuol dire qualunque cosa si faccia con i dati, ricordiamolo). E come si regoleranno poi i conflitti di competenza? Ma ancora una volta l’assurdità diviene totale inapplicabilità, e quindi diviene un difetto tecnico, se pensiamo anche qui al cyberspazio, alla realtà dei dati situati sui diversi tipi di server in internet. I dati di qualunque server pubblico (Web, FTP o altro) che sia in rete sono dappertutto e quindi anche virtualmente in Italia. Ad essi si applica dunque la legge italiana, ovunque siano. Peraltro nessuno finora ha cercato seriamente di convincere i cybernauti di Denver che devono ottemperare ai criteri della 675/96 italiana. Un’altra possibile applicazione dell’art. 6 su cui si è caritatevolmente sorvolato è l’applicazione delle norme della 675/96 riguardanti la stampa. Anche in questo caso, basta l’importazione di un giornale o la captazione via satellite di una trasmissione televisiva per far rientrare in pieno il trattamento nella applicazione della legge italiana. Un tentativo di effettiva applicazione avrebbe come risultato di mettere l’Italia in una situazione simile a quella dell’Iran, cioè di rendere illegale la fruizione della informazione mondiale47. Bisogna ricordare che la legge prevede che gli obblighi della stampa al rispetto della privacy per i dati anche più sensibili siano determinati con riferimento al codice deontologico della corporazione dei giornalisti italiani, e che il suddetto codice (come si è visto) è sufficientemente vago da permettere qualunque cosa, perlomeno finché il Garante si asterrà dal darne una interpretazione restrittiva. Così forse anche il problema dei rapporti con la stampa mondiale è stato risolto per aggiramento. Dubito comunque che i mezzi di comunicazione mondiali sarebbero felici di apprendere che la loro diffusione in Italia è permessa da un codice deontologico della corporazione dei giornalisti italiani, il quale è fortunatamente molto vago; nonché dalla tolleranza del Garante italiano per la protezione dei dati. Su tutti questi punti anche il Garante non ha osato metter mano. Questi articoli della legge sono stati semplicemente ignorati e disattesi. 2.6 Il Garante e la riserva di legge La istituzione di un autorità amministrativa indipendente, il Garante, è stata considerata anch’essa una felice innovazione della legge. In questo la 675/96 si allinea alle indicazioni europee e la protezione dei dati viene trattata in modo simile ad altri campi ugualmente nuovi e/o complessi, dalla concorrenza alla borsa alle telecomunicazioni. Le legislazioni nazionali europee hanno regolato in modo parzialmente diverso questa autorità, dalla nomina alla composizione ai poteri. Alcuni aspetti della 47 Il Presidente dell’autorità garante è stato (maliziosamente) interrogato sulla legalità della divulgazione in Italia delle vicende del “Monica-gate”, incentrate sulle attività sessuali del presidente USA. Rodotà ha risposto che i dati erano già stati resi pubblici all’estero e la questione quindi non sorgeva. La risposta mi sembra inaccettabile: la eventuale violazione all’estero della legge italiana non può costituire un motivo per non applicare una legge italiana che reclama una giurisdizione universale. 29 regolamentazione del garante italiano e dei suo poteri sono stati contestati, anche sul piano della legittimità costituzionale, ma discutere questi punti travalica dai limiti del mio approccio. Il punto che voglio discutere ha sullo sfondo una considerazione molto generale: il “problema” generale delle autorità amministrative indipendenti in un ordinamento come il nostro è che alcune delle funzioni che esse svolgono hanno aspetti quasi-legislativi e altre funzioni hanno aspetti quasi-giudiziari. La presenza e l’attività delle autorità amministrative indipendenti pone dunque dei problemi per il principio della divisione dei poteri (principio di legalità) e per la protezione giurisdizionale dei vari diritti garantiti da tale divisione (divieto di giurisdizioni speciali). Rispetto a questi generali problemi, che non affronterò, la presenza del Garante nel quadro della 675/96 solleva tuttavia problemi specifici e addizionali. Autorità amministrativa indipendente vuol dire, per opinione unanime, autorità dipendente solamente dalla legge. Laddove però una legge nei suoi punti chiave risulti troppo vaga, contraddittoria o inapplicabile, l’autorità cessa di essere sottoposta alla legge per divenirne un surrogato (quantomeno per scegliere tra possibili opposte interpretazioni), che non trova più posto nel quadro del principio di legittimazione democraticoparlamentare e della divisione dei poteri; e andrebbe quindi giustificata in base ad altri principi e ad altri valori. Si preferisce invece far finta di nulla e presentare il Garante per la protezione dei dati come un improbabile interprete di una legge che avrebbe bisogno solo di essere precisata in alcuni punti marginali. Ma la attività del Garante di questa legge è risultata puntualmente del tutto anomala, spinta dalle incongruenze e inapplicabilità del testo, che costringono a una continua opera di correzione praeter o contra legem. Una autorità indipendente, in presenza di una legge tecnicamente difettosa in modo così grave, ha un ruolo del tutto diverso dalla autorità garante di una normativa decorosa sul piano tecnico; e deve ricevere una valutazione assai diversa sul piano costituzionale e della garanzia dei diritti. La figura istituzionale che viene realizzata in questo specifico caso, infatti, lungi dall’essere nuova è vecchissima, ed è tradizionale nei regimi anteriori agli stati di diritto; nella storia politica si usa indicarla con il nome di uno dei suoi esempi più noti, il cadì (quadi), il giudice civile musulmano. Il cadì svolge funzioni di magistrato, amministratore e capo della polizia in regimi che non conoscono la nozione di divisione dei poteri, nei quali non ha neppure senso porsi la domanda se una decisione costituisca creazione o applicazione del diritto. Come esempio di “giustizia del cadì” basta menzionare il caso delle autorizzazioni del Garante per i trattamenti dei dati sensibili (ex art. 22). Il trattamento dei dati sensibili richiederebbe infatti il consenso scritto dell'interessato e la previa autorizzazione del Garante, con silenzio rigetto. Come si è visto, si tratta di un intervento particolarmente pregnante sui diritti di libertà di parola e della persona, perché in questo caso non è sufficiente neppure il consenso dello stesso interessato; ed è anche un intervento censorio particolarmente intrusivo poiché, come si è visto, i dati sensibili sono definiti dalla legge con estrema larghezza fino a coprire le opinioni filosofiche e religiose delle persone. 30 Ebbene mi sembra chiaro dal testo originario della legge, e in particolare dal comma 2 dell’art. 2248 che per autorizzazione si intendeva un atto singolare e concreto. Ciò che è accaduto è che il Garante si è trovato ad emanare autorizzazioni generali per ovviare in linea generale ad alcune delle meno vivibili assurdità della legge. La possibilità delle autorizzazioni generali non è ricavabile agevolmente dal senso della legge in versione originaria, e introduce un elemento estraneo al quadro normativo originario. “l’autorizzazione è rilasciata anche senza richiesta” dice ora il garante, ma una autorizzazione non richiesta ed emanata preventivamente in linea generale non è una autorizzazione, nel senso che manca il normale carattere della autorizzazione, di essere un provvedimento singolare e concreto49; una simile “autorizzazione” generale è una nuova norma generale/astratta emanata dal Garante. Che questa mia interpretazione sia fondata è confermato a contrario dal Garante e dal legislatore stesso, se è vero che il primo ha richiesto e il secondo ha introdotto una modifica alla legge per decreto legislativo, che permette ora esplicitamente l’emanazione di autorizzazioni generali50. Segno che la loro precedente legittimità era dubbia51. Anche prima di questa sanatoria il garante aveva emanato autorizzazioni generali, per esempio per “alleggerire” l’impossibile meccanismo delle notifiche. Così una serie di situazioni di trattamento dei dati erano state esentate dall’obbligo di notifica o sottoposte a un obbligo di notifica semplificata ad evitare un diluvio di notifiche o la disapplicazione della legge. A riprova dello status sostanzialmente legislativo di queste disposizioni generali, esse sono state poi riunite in una serie di commi aggiunti all’art. 7 comma 5 (5bis, 5ter, 5quater e 5quinquies), di cui si è parlato nelle pagine precedenti. Qualora si ritenga legittimo che il garante abbia ora ottenuto formalmente il potere legislativo, o quantomeno regolamentare, peraltro già esercitato, rimane il problema delle autorizzazioni generali che capovolgono il dettato della legge. L’esempio più chiaro mi sembra si abbia in materia di dati sanitari e comunicazione da parte del sanitario del dato sulla salute nell’interesse del terzo. Qui la norma, in presenza di una evidente pluralità di valori e di diritti costituzionalmente protetti, procede come se esistesse il solo problema della riservatezza, senza tutelare i diritti alla salute e alla incolumità fisica del terzo, e ignorando il diritto-dovere dei sanitari di tutelarli. Dice infatti il comma primo dell’art. 22: 48 2. Il Garante comunica la decisione adottata sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni, decorsi i quali la mancata pronuncia equivale a rigetto. Con il provvedimento di autorizzazione, ovvero successivamente, anche sulla base di eventuali verifiche, il Garante può prescrivere misure e accorgimenti a garanzia dell'interessato, che il titolare del trattamento è tenuto ad adottare. 49 Un provvedimento singolare e concreto può essere rivolto a una pluralità di destinatari e di azioni, ma non a una classe aperta degli uni e degli altri. 50 Vedi ora l’art. 41, comma 7, della legge n. 675/96, modificato dall'art. 4, comma 1, del decreto legislativo 9 maggio 1997, n. 123 per legittimare appunto le autorizzazioni generali. 51 Un altro indizio: il comunicato stampa del garante del 14.05.99 ha per titolo: “Il Garante semplifica la procedura di autorizzazione per il trattamento dei dati giudiziari da parte di datori di lavoro, partiti, liberi professionisti, banche assicurazioni”. In realtà non si tratta di una semplificazione, ma dell’emanazione di un regolamento che sostituisce l’autorizzazione singola. L’aspetto regolamentare viene completato dal fatto che non è necessario presentare domanda e che il Garante dichiara che non verranno comunque prese in considerazione domande in situazioni difformi da quelle previste dal testo dell’autorizzazione. 31 1. Gli esercenti le professioni sanitarie e gli organismi sanitari pubblici possono, anche senza l'autorizzazione del Garante, trattare i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute, limitatamente ai dati e alle operazioni indispensabili per il perseguimento di finalità di tutela dell'incolumità fisica e della salute dell'interessato. Se le medesime finalità riguardano un terzo o la collettività, in mancanza del consenso dell'interessato, il trattamento può avvenire previa autorizzazione del Garante. Quando ho avuto per la prima volta sott’occhio questo testo ho dovuto rileggerlo varie volte prima di convincermi che davvero si vietava al medico di avvertire qualunque terzo che l’interessato è affetto da una malattia contagiosa, senza il permesso dell’interessato stesso o senza ricorrere al Garante (nonostante l’urgenza che di solito richiede un caso del genere). Che questa norma sia stravagante sul terreno dei contemperamento dei valori non lo affermo io, ma il Garante, il quale ha ritenuto necessario emanare un’autorizzazione generale con la quale autorizza: 1. gli esercenti le professioni sanitarie a trattare i dati idonei a rivelare lo stato di salute, qualora i dati e le operazioni siano indispensabili per tutelare l'incolumità fisica e la salute di un terzo o della collettività, e l'interessato non abbia prestato il proprio consenso per iscritto o non possa prestano per effettiva irreperibilità, per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di intendere o di volere52. Una norma sensatissima questa, di fronte a una norma legislativa a dir poco dubbia sul piano dei valori e della costituzionalità. Ma il problema è un altro: il garante è giunto qui ad emanare una norma generale totalmente antinomica rispetto alla chiarissima (ma insensata) norma della 675/96. Nell’ambito della fattispecie in cui il legislatore vietava salvo eccezioni, il garante ora permette senza eccezioni. In questo caso si va ben al di là dell’esercizio di un potere regolamentare (sia pure attribuito a un organo anomalo e al di fuori di una sufficiente determinazione di legge), sotto il quale invece con un po’ di buona volontà possono esser fatte rientrare altre disposizioni di questa e altre direttive del Garante53. 2.7. Aspetti di costituzionalità Diverse questioni di rilevanza costituzionale sono inevitabilmente emerse nel trattare le questioni dei paragrafi precedenti. A mio avviso una serie di incertezze strutturali rilevanti deriva dal fatto stesso che la 675/96 cerchi di regolamentare con legge ordinaria una materia di vitali interessi 52 Autorizzazione n. 2/1998 al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. 53 Il disagio della propria posizione nei confronti del potere legislativo forse traspare anche da questa osservazione contenuta nella premessa della stessa autorizzazione: “Rilevato che è all'esame del Parlamento il disegno di legge governativo che prevede il differimento al 31 luglio 1999 del termine per l'esercizio della delega prevista dalla legge n. 676/1996 e che, entro tale data, dovrebbero essere emanati alcuni decreti legislativi per il completamento della disciplina sulla protezione dei dati personali, anche in attuazione della raccomandazione N.R (97) 5 adottata dal Consiglio d'Europa in materia di dati sanitari […]” 32 costituzionali, anzi un vero e proprio nodo di diritti costituzionali. Alcuni degli aspetti costituzionali più importanti riguardano, come si è detto più volte, il conflitto con la libertà di manifestazione del pensiero, di stampa e tutti i diritti che dipendono dal libero flusso delle informazioni. Non mi occuperò di questi aspetti di costituzionalità, nonostante la loro importanza, perché cerco di limitarmi ai difetti “tecnici” della legge, nel senso precisato sopra dei difetti più basilari dovuti alla violazione di alcuni fondamentali presupposti pragmatici della legislazione. Tuttavia, va detto che la osservanza dei principi costituzionali, se da una parte può complicare le questioni interpretative aggiungendovi problemi di costituzionalità materiale, dall’altra ne facilita anche la soluzione, introducendo nel diritto elementi di ordine sostanziali e materiale. In questo caso, una legge che interferisce con quasi ogni attività ed è densa di disposizioni di principio, crea una enorme possibilità di antinomie, la cui soluzione è affidata al tradizionale gioco (al conflitto) tra principio di specialità, principio cronologico e gerarchico. Molto più facile sarebbe giungere a una regolazione dei conflitti se alcuni di questi principi o disposizioni si potessero ascrivere ad un testo a livello costituzionale. Una fonte di incertezze interpretative di grande rilevanza, è dunque conseguenza della pretesa di regolare in qualche modo l’intero mondo, compreso il mondo giuridico, con una legge ordinaria e non costituzionale. La 675/96 dispone che le leggi incompatibili sono da considerarsi abrogate (art. 43). E’ ovvio che questo sarebbe comunque una normale conseguenza del principio di successione temporale delle leggi ordinarie, il principio che ceteris paribus la legge posteriore abroga l’anteriore. Ma, come tutti i giuristi sanno, questo semplice principio non risolve infiniti problemi riguardanti la abrogazione implicita delle leggi in contrasto. Ancor meno risolve il problema della derogazione delle leggi speciali, siano esse anteriori o posteriori. Così le norme di altre leggi anche anteriori potrebbero prevalere dopotutto, se esse venissero considerate leggi speciali rispetto alla legge sulla protezione dei dati. Il tutto è lasciato all’interprete e nella più grande incertezza. Un ultimo punto riguardante la costituzionalità della legge può essere analizzato in questo paragrafo, ma avrebbe potuto andare anche sotto vari dei precedenti, specialmente sotto le voci della concettualizzazione (archetipazione) e dell’ignoranza dei fatti. Dice l’art. 5 del Decreto legislativo 11/5/99, n. 135 (Disposizioni integrative della legge 31 dicembre 1996, n. 675, sul trattamento di dati sensibili da parte dei soggetti pubblici): 1. Dopo il comma 1 dell'articolo 22 della legge è inserito il seguente: "1-bis. Il comma 1 non si applica ai dati relativi agli aderenti alle confessioni religiose i cui i rapporti con lo Stato siano regolati da accordi o intese ai sensi degli articoli 7 e 8 della Costituzione, nonché relativi ai soggetti che con riferimento a finalità di natura esclusivamente religiosa hanno contatti regolari con le medesime confessioni, che siano trattati dai relativi organi o enti civilmente riconosciuti, sempreché i dati non siano comunicati o diffusi fuori delle medesime confessioni. Queste ultime determinano idonee garanzie relativamente ai trattamenti effettuati.". 33 Si può notare, per prima cosa, che l’inserimento di questa disposizione nel decreto è abusivo per ragioni di materia, non essendo affatto in questione un trattamento da parte di enti pubblici. Ma su questo niente di nuovo. Si avverte qui lo sforzo di modificare in modo sensato una norma palesemente poco sensata perché eticamente intollerabile e del tutto inapplicabile (se presa sul serio) della 675/96, quella dell’art. 22 nella parte che definiva i dati sensibili protetti in modo assurdamente ampio, specialmente quelli tra essi la cui natura è di essere pubblici, anzi che sono fatti per essere pubblici, quantomeno in condizioni normali, e che l’interessato stesso, in condizioni di normale vita civile, aspirerà fortemente e rendere pubblici. Li ricordo: “le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale”. La loro protezione, si noti, è assurdamente estesa non in assoluto, bensì se rapportata alla protezione soffocante inflitta loro dalla 675/96. Le assurdità verrebbero meno se la legge prevedesse un regime di opting-out e in parte anche se si accontentasse del consenso tacito dell’interessato. Ricordiamo che invece per il loro legittimo trattamento non è sufficiente l’assenso espresso dell’interessato, ma occorre anche l’autorizzazione del Garante. E’ uno di quei casi in cui, leggendosi l’articolo 22 originale della 675/96 per la prima (e anche la seconda e terza volta) si è portati a pensare che il legislatore non può aver detto una cosa simile. Applicare una norma del genere vorrebbe dire nientemeno che vietare la vita associativa politica, sindacale, religiosa, e la ricerca scientifica almeno in materie filosofiche. Evidentemente la filosofia è considerata dal legislatore di Capodanno più pericolosa (per chi la pratica) di altre discipline scientifiche. Ma il senso di orgoglio che ciò per un momento ingenera nel filosofo di professione è subito dissolto dalle parole successive “o di altro genere”. Non è solo la raccolta, trattamento, comunicazione e diffusione delle convinzioni personali filosofiche, è la menzione di ogni convinzione che è considerata un dato sensibile e quindi vietata senza il consenso esplicito del Garante, e a dispetto del consenso dell’interessato. Ancora una disposizione tangenziale, atta a far esplodere la legge se applicata. E’ un caso evidente in cui il problema etico-politico sfuma nel problema tecnico (nel senso precisato nel primo paragrafo). A riprova,, si nota che in questi casi l’assurdità etica e applicativa è così intensa da divenire una fonte di perplessità interpretativa e non solo di critica etico-politica. L’interprete si trova di continuo a pensare che il legislatore non può davvero aver detto ciò che dice, e si predispone così, per necessità, a non prendere sul serio il testo legislativo. La natura della difficoltà, su cui il nostro legislatore in questo caso è miseramente caduto, è quella di distinguere con una formula generale i casi di convinzioni la cui diffusione è indesiderata e dannosa per la riservatezza personale, da quelli in cui essa è desiderata e vantaggiosa. Difficoltà aumentata dalla adozione di una soluzione decisamente paternalistica, cioè dal rifiuto di lasciar decidere al soggetto. La conseguenza della mancata soluzione è, come al solito, la disapplicazione della norma e l’opting-out dei poteri forti. In questo caso, è evidente che si tratta della Chiesa 34 cattolica. La norma è un goffo54 tentativo di generalizzare la situazione della Chiesa cattolica, lasciandole mano libera nel trattamento dei dati riguardanti le convinzione religiose dei cattolici, dei membri e appartenenti ad associazioni cattoliche. Lasciano altresì alla Chiesa la possibilità di occuparsi delle convinzioni religiose di chiunque, per finalità religiose. Per esempio per pronunciare qualcuno scomunicato o eretico o non cattolico55. Per assicurare una vernice di generalità alla norma, si generalizza a vantaggio di tutte confessioni “riconosciute”, e solo di quelle. Conformemente al mio proposito di distinguere tra problemi “tecnici” e problemi politici, non intendo prendere posizione etica. Osservo solo che la liberalizzazione dei dati religiosi è operata secondo categorie assai strane, che rendono difficile la applicazione coerente dell’articolo e impossibile comprendere quali indirizzi di principio siano ora sottesi alla disciplina così modificata. Nessun aiuto ci viene dalla Costituzione, qui richiamata nei suoi articoli concordatari: infatti non è chiaro quale sostegno costituzionale abbia questa istituzionalizzazione nelle norme costituzionali sulla libertà religiosa (in quanto distinte dagli articoli concordatari). E non è chiaro quale giustificazione costituzionale, o di altro tipo possa avere il fatto che, tra tutte le convinzioni sensibili che possono comportare una vita associativa, si sia liberalizzato il trattamento solo di quelle religiose, sia pure solo all’interno (qualunque cosa voglia dire) delle sole associazioni religiose riconosciute concordatariamente. Comunque, attendiamo con ansia il codice deontologico del Sant’Uffizio56 sulla protezione dei dati religiosi. 3. Appendice sulla teoria generale del linguaggio giuridico La tesi di fondo di queste pagine è che ogni studio giuridico-positivo, quale è l’analisi di una legge compiuta nelle pagine precedenti, solleva e presuppone la soluzione di alcuni problemi teorico-filosofici generali. Così non mi è parso possibile descrivere alcuni aspetti della legge italiana sulla protezione dei dati senza almeno accennare ad alcuni di tali problemi, quelli trattati nel primo paragrafo. Ma più specificamente ogni descrizione del diritto positivo presuppone una teoria della interpretazione. La mia teoria della interpretazione, presupposta nella trattazione che precede e, ritengo, da essa confermata, comprende alcune tesi generali sul linguaggio che non posso dare per scontate: per sommi capi esse sono le seguenti. La descrizione (relativamente) oggettiva di una legge è possibile solo se si assume che la nozione di cattiva e buona legge abbia un senso, per quanto relativamente sfumato, che tale senso non sia interamente idiosincratico e frutto di giudizi arbitrari, o 54 Goffo anche perché alcune espressioni sono davvero confondenti: la norma parla di dati relativi a persone “aventi rapporti”; intenderà tutti i dati sensibili e personali o (come probabile) solo le convinzioni religiose? Che vuol dire avere contatti regolari? 55 Con sollievo notiamo che il caso del vescovo di Prato (che censurò pubblicamente una coppia sposata civilmente) cadrebbe ora sotto i fulmini della legge, perché i dati non possono essere diffusi fuori dalle medesime confessioni. Salvo, probabilmente, che la stampa non scegliesse di diffondere la notizia in base al codice deontologico dei giornalisti, allegando l’interesse pubblico. E non è molto chiaro cosa voglia dire fuori dalla confessione: la confessione sono gli organi di una chiesa? O i fedeli tutti? 56 Rectius: Congregazione per la Dottrina della Fede. 35 politici in senso forte, bensì operi attraverso dei parametri giuridico-positivi, valutativi, ma sufficientemente espliciti, esplicitabili e condivisi. I più oggettivi e condivisi tra essi sono quelli inerenti alla struttura giuridica stessa di uno Stato basato sulla divisione dei poteri e sull’attribuzione del potere di normazione generale a un legislatore. Come ho detto, i valori “tecnici” minimi di qualunque legislazione (senza i quali la nozione stessa di normazione generale non avrebbe senso) sono quelli della comprensibilità, della coerenza interna e della applicabilità dei testi normativi. Queste mie tesi possono essere collocate sotto l’etichetta di giuspositivismo critico. Alla posizione opposta possiamo attribuire la etichetta generica di giusrealismo. Secondo il giusrealismo, l’interprete può fare (quasi) ciò che vuole di ogni legge e di ogni norma giuridica. In una versione estrema, lo scetticismo interpretativo dice anzi che questa latitudine è totale e inevitabile, perché così funziona il linguaggio giuridico, e forse ogni linguaggio, e quindi che ogni interpretazione è irrimediabilmente creativa. Si giunge così all’opinione che lo sforzo di produrre leggi ragionevolmente chiare (“buone” in questo senso minimale o tecnico) sia non solo inutile ma insensato e alla fine ingannevole. Secondo questa posizione, l’unico atteggiamento scientificamente legittimo e oggettivo sarebbe dunque la mera descrizione di ciò che accade, la descrizione spassionata del modo in cui di fatto si interpreta (ci si illude di interpretare). Nella realtà, il giurista giusrealista che affronta il diritto positivo vigente non si dedica mai a descrivere tutto ciò che accade nel mondo lato sensu giuridico (come fanno la storia e la sociologia del diritto), ma fornisce una selezione di atti normativi, di scelte interpretative che portano a decisioni e prescrizioni da parte della giurisprudenza prevalente. Descrivere sistematicamente e programmaticamente una selezione di pratiche giuridiche, di solito quelle giurisprudenziali prevalenti, farlo in un “ambiente normativo” come il diritto positivo, dove ogni attività e ogni interesse sono finalizzati a produrre decisioni, è cosa analoga a dichiarare che non condividiamo le idee di una persona, ma dedicare la nostra vita a registrare queste idee, ripeterle e diffonderle accuratamente, senza una parola di critica ma (per salvarci l’anima) con una smorfia di scetticismo sulle labbra. Il giusrealista gioca all’antropologo tra i selvaggi, ma si guarda bene dall’andare fino in fondo, perché questo vorrebbe dire dichiarare intellettualmente illegittima ogni pratica giuridica e dichiarare che l’intera letteratura e pratica giuridica altro non sono che un patetico inganno o auto-inganno. Secondo la concezione giusrealista, una descrizione delle pratiche interpretative giurisprudenziali non potrebbe dir nulla sulla loro corrispondenza alla legge (concetto insensato per il giusrealista). Il problema è che nessun giusrealista si fa davvero sociologo o interamente storico quando descrive la giurisprudenza del diritto vigente. Quando il diritto è vigente, descrivere una pratica normativa come tale non può evitare in realtà di supportare tacitamente la legittimità delle pratiche descritte57. Non riconoscendosi alcun altro vincolo, si finisce di fatto con il riconoscere tacitamente alla giurisprudenza il potere di derogare dalla legge, si presenta non una immagine neutrale della realtà, ma una visione normativa alternativa della gerarchia delle fonti del diritto. La strada di una coerente neutralità dovrebbe portare il giusrealista a una posizione 57 Né si può in questo caso distinguere tra legittimità metodologica e legittimità quanto al contenuto. Questa distinzione infatti è possibile solo qualora si accetti una metodologia come sensata, cioè operante, in modo da poterla razionalmente applicare e poter valutare se è stata applicata correttamente o meno. 36 molto più radicale che non la sua abituale “giurisprudenza sociologica” (la quale come è noto non è affatto sociologia), dovrebbe condurlo ad abbandonare interamente la giurisprudenza58, lasciando come unico approccio oggettivo al diritto la storia giuridica o la sociologia del diritto; storia e sociologia che dovrebbero comunque mettere in primo piano la natura non razionale delle operazioni intellettuali dei giuristi. Se lo scetticismo giusrealista, in un campo primariamente normativo come il diritto, equivale in effetti a riconoscere un maggior potere alla giurisprudenza, allora si deve concludere che gli estremi (giuspositivismo formalistico e giusrealismo scettico) finiscono col toccarsi, come spesso avviene. Infatti anche il giuspositivismo formalistico, nell’impossibile tentativo di giungere a dei risultati di certezza interpretativa con mezzi fantomatici e semioticamente impossibili, finisce con il far quadrare il cerchio avvallando le scelte interpretative di fatto prevalenti, in particolare quelle delle corti superiori e della dottrina più autorevole. In effetti questa convergenza avviene perché entrambe le teorie, il formalismo e lo scetticismo, si fondano su due concezione errate (per opposti simmetrici motivi) sulla natura semiotica del linguaggio giuridico e dei rapporti tra il diritto e i suoi utenti. Il giusrealismo, in quanto perviene a una concezione giurisprudenziale del diritto, tratta il diritto alla stregua di una lingua naturale. Una lingua naturale normalmente59 esiste in quanto è parlata, essa è la somma delle pratiche dei suoi utenti, che sono ovviamente pratiche normative. La lingua naturale è determinata dai suoi discorsi. La lingua esiste come fatto sociale, e svolge normalmente la sua funzione di mezzo basilare di comunicazione in quanto è codice comune ai suoi parlanti. Ogni sua fattezza semiotica è determinata da questa sua natura. La lingua naturale inoltre continua ad esistere in quanto si mantiene, per così dire, spontaneamente, perché è normalmente interesse diffuso dei suoi parlanti non deviare dalle sue regole, in modo da poter continuare a capirsi. La ragione semiotica principale per cui ciò normalmente accade, senza che ci sia bisogno di polizia e di tribunali linguistici, è che la lingua naturale non determina il contenuto di ciò che si dice e consente quindi di dire, nei modi della lingua, tutto e il contrario di tutto. La lingua naturale è, normalmente, neutrale rispetto agli interessi in campo. Si vede ora bene ciò che il buon senso già sa, ma che talora viene dimenticato dai teorici, che il diritto non è una lingua naturale. Il diritto non è affatto indifferente al contenuto di ciò che si dice, ma cerca al contrario di determinarlo. Ciò comporta profonde differenze strutturali pragmatiche e semantiche del linguaggio giuridico rispetto alle lingue naturali, perché la sua intera struttura semiotica è determinata da questa non-indifferenza. Così, la distinzione tra lingua e discorsi, tanto essenziale nel funzionamento e nell’analisi delle lingue naturali, si può applicare al diritto solo in senso debolissimo o metaforico. L’insieme delle regole giuridiche (o delle sole leggi?) 58 Né potrebbe limitarsi alla descrizione delle norme e delle decisioni normative. Nel quadro dovrebbero entrare tutti i fattori rilevanti alla spiegazione, come è normale in storia e sociologia. 59 “Normalità” va considerata un termine tecnico della semiotica ed è un termine strutturalmente “fuzzy”. Una certa frequenza di occorrenze è necessaria alla normalità, ma essa è mantenuta anche in presenza di deviazioni, poiché la situazione normale è presupposta o incorporata nelle fattezze del linguaggio di cui si parla. Una troppo frequente deviazione dalla normalità in questo senso, mina alle radici le possibilità di funzionamento di una fattezza del linguaggio, e può portare a crisi graduali o improvvise (se si dà un effetto soglia). 37 non è l’equivalente dell’insieme delle astratte regole sintattiche e lessicali di una lingua naturale, che costituiscono la lingua e consentono di generare infiniti discorsi concreti. Le regole giuridiche sono esse stesse, in qualche modo, discorsi determinati e cercano a loro volta di determinare il contenuto degli ulteriori “discorsi” giuridici. In effetti le norme giuridiche non sono né lingua né discorsi nel senso della linguistica saussuriana. Semplicemente in questo caso la distinzione lingua/discorsi non è appropriata 60. Per giustificare l’opinione opposta dovremmo ritenere che le norme giuridiche generali non determinano il contenuto dei “discorsi” giuridici, intendendo con “discorsi giuridici” le sole decisioni individuali; ma non si vede allora perché la tesi della indeterminatezza non dovrebbe essere estesa anche agli usi decisionali e applicativi del linguaggio giuridico … In secondo luogo, il rapporto tra linguaggio giuridico e parlanti non è quello tipico di una lingua naturale. La funzione del diritto non è quella di fornire ai parlanti lo strumento primario per intendersi, per cui ogni pratica linguistica va bene, purché sia condivisa. In una lingua naturale la lingua è quella che viene di fatto parlata dai suoi parlanti. Il diritto invece non è neutrale nei conflitti (vitali) dei suoi utenti. I suoi utenti non sono una comunità che trovi nel diritto uno strumento primario per intendersi e comunicare le proprie intenzioni. Essi sono divisi da conflitti che il diritto cerca di regolare in un certo modo, niente affatto neutrale; i soggetti di un diritto sono collocati in posizioni di autorità o soggezione, di vantaggio e svantaggio. In una società complessa ciò fa sì, tra l’altro, che le figure degli utenti del diritto (legislatore, giudici, avvocati, soggetti giuridici) non siano sempre degli esseri umani. Si tratta spesso di “costrutti” giuridici, in primo luogo il legislatore, i quali “parlano” in un senso metaforico. Ciò che “dicono”, i testi giuridici, non è pertanto il risultato dell’abituale processo conversazionale tra individui in carne e ossa, ma di complesse operazioni regolate dalle norme giuridiche. Le nozioni stesse di volontà o intenzione sono in questo contesto altamente idiosincratiche, quando non interamente metaforiche. Di conseguenza esse vanno spiegate come risultato dell’analisi e non possono costituire il fondamento della spiegazione stessa61. Per evitare questi ed altri problemi si finge talora che i parlanti del diritto siano i soli giuristi. O che lo siano addirittura i soli giudici62. Questa metafora, se presa troppo sul serio, non è affatto innocua per l’analisi semiotica. Suggerisce infatti che i giuristi, o i 60 L’errore è commesso da molte analisi comparate recenti tra diritto e letteratura. La teoria del significato giuridico come intenzione riceve forza dalla discussione nordamericana sull’original intent specie del legislatore costituzionale. Un recente tentativo di fondare la teoria del significato e della interpretazione giuridica sul concetto di intenzione (del legislatore) si trova in Marmor 1992, spec. 159ss. Egli ritiene che le obiezioni tradizionali alla teoria del significato giuridico come intenzione o volontà possano essere superate con una nozione di intenzione ideale, anche se il legislatore non è veramente una persona. La soluzione di Marmor non mi convince. La nozione di intenzione da parte di un parlante ideale può servire a eliminare alcuni degli inconvenienti di una teoria psicologica del significato, perché permette di ignorare errori, fraintendimenti, idiosincrasie non comunicate. Ma essa non può essere estesa a spiegare una situazione che è radicalmente diversa sul piano pragmatico dalla conversazione, una situazione appunto non personale e non psicologica e profondamente conflittuale come quella in cui vengono “letti” (in realtà applicati) i testi giuridici. 62 Herbert Hart, che rischia talora di commettere questo errore, parla di “officials”, una parola inglese non perfettamente traducibile la quale indica con connotazione positiva non solo i funzionari ma (pressappoco) chiunque abbia una posizione di autorità pubblica. In Hart, al di là di questa ambiguità comprensibile in un giurista di common law, troviamo anche gli strumenti per iniziare a superarla. 61 38 giudici possano collettivamente “decidere” del linguaggio giuridico, cioè delle norme, allo stesso modo in cui i parlanti con il loro comportamento “decidono” su che cosa è accettato o meno come parte di una lingua naturale. Suggerisce non solo che il linguaggio giuridico abbia il senso in cui i giudici lo usano, ma anche che il diritto sia “naturalmente” il prodotto delle consuetudini normative dei giudici, cioè che tutto il diritto sia common law. Ma in diritto la scelta di chi può decidere che cosa non è una questione di comodità o pratica o buon funzionamento semiotico, è una questione (vitale) di potere e di autorità. Anche la decisione di valorizzare le consuetudini giudiziarie o le opinioni dottrinali nella interpretazione è dunque una decisione di potere, che attribuisce più potere a questo livello di autorità, togliendolo al legislatore. Sul piano della pragmatica del diritto, compie invece l’errore opposto e simmetrico rispetto al giusrealismo chi considera il linguaggio giuridico come un linguaggio artificiale, al modo del linguaggio delle scienze naturali, ovvero mostra di ritenere possibile e desiderabile trasformare la legislazione e/o la giurisprudenza in un linguaggio interamente algoritmico formalizzato e quindi artificiale, in cui ogni cosa vuol dire ciò che qualcuno ha scientemente deciso prima che cosa debba voler dire. Questo errore è spesso implicito nelle concezioni che sottolineano la scientificità della giurisprudenza. Il diritto viene visto come algoritmo o tendente all’algoritmo. Chi prende questa strada spesso, e significativamente, non distingue prima tra ciò che è e ciò che è desiderabile, poi tra il linguaggio in cui il diritto è formulato e il linguaggio della scienza in cui esso deve essere descritto. Entrambi, si afferma, devono essere rigorosi. Il problema non è l’aspirazione, possibile e legittima, a rendere più rigoroso il linguaggio della legislazione. Il problema è che nel nostro mondo il diritto non possiede e non può possedere alcune delle caratteristiche pragmatiche strutturali che rendono possibile un linguaggio artificiale, che fanno sì che gli utenti del linguaggio abbiano, in genere e normalmente, un diffuso interesse a creare e mantenere rigoroso e algoritmico il linguaggio in questione. Un linguaggio artificiale è un’impresa innaturale, difficile, onerosa, che porta a adottare e usare un linguaggio interamente determinato dal suo metodo, per contenuto e forma. Ciò vuol dire servirsi di uno strumento per degli scopi che i suoi utenti di fatto normalmente condividono. Il linguaggio delle scienze moderne, per esempio è mantenuto in esistenza e in uso dalle esigenze del metodo sperimentaleempirico, il quale a sua volta è difficilmente rinunciabile in quanto è il fondamento della capacità della scienza di manipolare efficacemente il mondo, cioè di produrre tecnologia funzionante e potente63. Questo tipo di linguaggio artificiale non è essenzialmente un fatto sociale al modo delle lingue naturali. L’essenziale è che venga parlato bene, non che venga parlato da molti; come tale si colloca nell’ambito dell’attività creativa degli individui, in quanto può essere re-inventato giorno per giorno allo scopo di migliorarlo. Per questo tipo di linguaggio ha senso parlare di scoperta e miglioramento, alla luce delle sue esigenze interne, poste dalle sue regole metodologiche. Per questa ragione linguaggio e parlanti si trovano in rapporti invertiti nel linguaggio artificiale rispetto alla lingua naturale. In questo caso non è il linguaggio ad essere tale perché parlato, ma sono i parlanti che sono 63 A riprova, quando le applicazioni tecnologiche mancano o quando ci sono interessi alternativi molto forti (come nelle scienze sociali, nell’economia, o per quelle malattie in cui la medicina moderna può poco), riemerge la tendenza a accantonare le regole del linguaggio e del metodo scientifico empirico, cioè ad abusare della scienza. 39 tali perché sanno parlare il linguaggio. In questo tipo di linguaggio, determinato da obbiettivi e regole, ha senso ed è possibile che la maggioranza o tutti si sbaglino, come accade spesso nelle scienze. Inoltre il linguaggio e i suoi discorsi coincidono, fatta salva la possibilità dell’errore, e il controllo sul contenuto è tendenzialmente totale. Mi sembra evidente, a questo punto, che mancano al diritto, almeno nella nostra società, molte di queste caratteristiche (pragmatiche) fondamentali di un linguaggio artificiale; così come gli mancano molte caratteristiche pragmatiche di una lingua naturale per ragioni opposte. Infatti il “parlato” nel linguaggio giuridico moderno, per quanto non decisivo come nella lingua naturale64, è più importante che non nel linguaggio artificiale; è rilevante perché il modo in cui di fatto decidono coloro che hanno autorità ha un peso che viene preso normativamente in considerazione dal diritto stesso. Manca di fatto nel diritto moderno una funzione strumentale che i suoi utenti normali abbiano interesse normale a mantenere spontaneamente. Non c’è insomma un interesse spontaneo a osservare il metodo giuridico. Gli utenti del diritto hanno invece troppo frequentemente e normalmente un interesse ultimo a cavillare cioè a piegare il linguaggio giuridico ai propri interessi. La presenza di un terzo imparziale (il giudice) permette di risolvere i contrasti, ma non cambia l’equazione linguistica, perché anche i giudici hanno interessi e valori che li portano a interpretare il linguaggio piegandolo nel senso della soluzione preferita65. Per questo il diritto funziona tramite legislatori, giudici, avvocati e tribunali e impugnazioni e non tramite scienziati e laboratori. Riassumendo, in diritto l’interpretazione è questione di autorità e il linguaggio è oggetto di amministrazione come gli altri aspetti della vita giuridica. Il linguaggio giuridico è, pragmaticamente, una via di mezzo tra le lingue naturali e i linguaggi artificiali, avendo caratteristiche miste con riferimento ai parametri pragmatici fondamentali del controllo del contenuto, del rapporto con la pratica parlata e del rapporto tra utenti e regole linguistiche. Il metodo di interpretazione dipende sì dalle possibilità e dai meccanismi semiotici del linguaggio, come è ovvio, ma non è lasciato necessariamente alla consuetudine (come un una lingua naturale) né è necessariamente controllato per intero da regole esplicite di metodo (come in un linguaggio artificiale). E’ appunto una questione in gran parte decisa da potere e autorità, più o meno dettagliatamente regolata e regolabile come ogni altro aspetto complesso della vita di cui il diritto si occupa. Non voglio dire con questo che il diritto, per esempio la legge, non possa essere resa più rigorosa, e al limite, in alcuni suoi aspetti anche algoritmica. Che un testo giuridico sia o meno rigoroso è una concreta questione semantica e sintattica. Il complicato discorso di teoria semiotica di questo paragrafo mira insomma a concludere, in assoluta banalità, che alcuni testi giuridici sono rigorosi e altri non lo sono, fino a quelli che sono estremamente imprecisi e rasentano l’insensatezza, come parti della 675/96. Voglio anche dire che la scelta di rendere un testo giuridico più o meno rigoroso è una questione di scelta politica e precisamente di spostamento di autorità tra 64 O in un diritto interamente consuetudinario, che è più vicino ma niente affatto identico al caso della lingua naturale. 65 Per interessi e valori del giudice non intendo necessariamente interessi personali (che sarebbero inoltre illeciti). Supposto interesse dell’ufficio, preferenze etiche, pregiudizi più o meno fondati operano anche in un magistrato personalmente disinteressato. 40 legislazione e applicazione. Voglio dire che il tentativo di aumentare il rigore e l’univocità dei testi giuridici dovrà tenere conto del fatto che il testo verrà usato in situazioni di potenziali forti conflitti di interessi. La norma giuridica, la legge, viene interpretata nella normale vita di tutti i giorni, ma avendo sullo sfondo e nella mente di tutti gli utenti la eventualità che debba essere applicato da un organo dotato di autorità in una situazione di conflitto di interessi acutissima (in un tribunale). Negli ordinamenti giuridici moderni in particolare, va notato che non solo le leggi sono di variabile rigore, ma anche che l’interpretazione essa stessa è regolata in modo molto approssimativo e quasi interamente implicito, sulla base di teorie del linguaggio niente affatto realistiche, è esercitata su un linguaggio non normalizzato, non formalizzato non assiomatizzato. Non si può contare, finora, su regole sull’interpretazione molto vincolanti. Di qui la mia scelta di applicare in questo caso solo quelle minimali o “tecniche” menzionate sopra. Si può supporre, in conclusione, che l’una o l’altra delle due teorie estreme della interpretazione (formalismo e scetticismo), e probabilmente entrambe, sia alla radice della straordinaria acquiescenza della cultura giuridica italiana di fronte a questa straordinaria normazione, la 675/96 e disposizioni connesse, e del consenso o perlomeno del silenzio sulla vera natura dell’attività dell’Autorità garante sulla protezione dei dati. L’Autorità garante è dovuta intervenire in continuazione non tanto per precisare, quanto per ovviare almeno ad alcune delle più clamorose indeterminatezze o impossibilità della legge. Se ne sono esaminati alcuni esempi. Molti altri sarebbero stati possibili. Personalmente ritengo che in questi interventi il Garante abbia mostrato una grande moderazione e una grande saggezza riguardo alla sostanza delle decisioni. Per il resto è intervenuta a soccorso del paese la più diffusa e provvidenziale tecnica giuridica italiana, la costante disapplicazione della legge. Ma non è questo il punto; ciò che conta è che l’Autorità garante sta sostanzialmente surrogando o contraddicendo il (pessimo) legislatore, affermando nel contempo di fare altra cosa, cioè di applicare la legge. Per questo ritengo che la sopravvivenza della 675/96 nella forma attuale non può che portare amarissimi frutti, rafforzando il cinismo sul valore delle leggi in generale e indebolendo le garanzie e le libertà dello Stato di diritto. Riferimenti bibliografici Bentham, J. 1843. Chrestomathia. In The Works of Jeremy Bentham. Published under the superintendence of his executor John Bowring, vol. VIII. Edinburgh: William. Bentham, J. 1997. De l'ontologie et autres textes sur le fictions. Texte anglais établi par Philip Schofield. Traduction et commentaires par Jean-Pierre Cléro et Christian Laval. Bilingue anglais-français. Paris: Editions du Seuil. Buttarelli, G. 1997. Banche dati e tutela della riservatezza. La privacy nella società dell’Informazione (ristampa integrata). Milano: Giuffrè. Ferrajoli, L. 1999. La cultura giuridica nell’Italia del Novecento. Roma-Bari: Laterza. Lombardi Vallauri, L. 1981. Corso di filosofia del diritto. Padova: Cedam. 41 Jackson, B. 1998. Bentham, Truth and the Semiotics of Law. In Legal Theory at the End of the Millennium. Ed. M. D. A. Freeman, 493-531. Oxford: Oxford University Press. (anche in Current Legal Problems 51 (1998): 493-531). Marmor, A. 1992. Interpretation and Legal Theory. Oxford: Clarendon. Ross, A. 1965. Diritto e giustizia. Trad. it. Giacomo Gavazzi. Torino:Einaudi. (1953) 42