Paolo Figara Il libro di dicembre: L’eloquenza dei fatti, di Francesca Maria Crasta L’ultimo lavoro di Francesca Maria Crasta, L’eloquenza dei fatti. Filosofia, erudizione e scienza della natura nel Settecento veneto (Bibliopolis, Napoli 2007), ricostruisce con grande precisione il fermento intellettuale che caratterizza il primo Settecento veneto. Oggetto particolareggiato di studio sono le figure di Maffei, Zendrini e Trevisan, ai quali sono dedicati, rispettivamente, i primi tre capitoli, divisi per tema, il quarto, ed il quinto. Ciò che emerge, al di là dell’impegno condiviso con l’ambiente muratoriano e vichiano per il rinnovamento della cultura italiana nel rispetto della tradizione classica e cristiana, e per la fondazione di una ratio studiorum che coniugasse humanitas e scientia, è un indirizzo epistemologico originale e sostanzialmente unitario a fronte della pluralità d’interessi e dell’avversione di tali autori per le elaborazioni sistematiche: un quadro teorico coeso nell’idea per cui la “sola ragione non basta in assoluto a stabilire alcun criterio di verità” (158), poiché solo attraverso il reiterato ricorso all’esperienza è possibile elaborare ipotesi abbastanza elastiche da risultare conformi alla “facoltà germinativa della natura” (55), e solo per mezzo dell’istoria si può comprendere il senso di una credenza in rapporto all’alterità storica. È un richiamo alla dimensione temporale che in campo naturalistico si coniuga con lo sperimentalismo baconiano-galileiano e lo scetticismo metodologico cartesiano, mentre in quello morale e teologico si riallaccia a componenti aristoteliche e tomistiche. Ma è l’attenzione per il pratico, per la considerazione dell’“uomo nella sua realtà sensibile ed eticosociale” (192), che subordina il richiamo alla temporalità e fonde nel metodo i due campi. Ciò è messo in rilievo sin dal primo capitolo, dove Crasta sottolinea come il richiamo all’esperienza determini l’estensione degli studi storici al campo naturalistico: l’antiquaria, ad esempio, è considerata da Maffei come uno strumento integrante della fisica, perché è fondamentale interrogare fonti antiche e moderne, raccoglierne la casistica per costruire una sorta di “storia della scienza” (40) da cui trarre indicazioni utili per comprendere il presente. È il caso della teoria maffeiana sulla generazione dei fulmini, che sostiene l’origine terrestre dei medesimi basandosi tanto su osservazioni dirette che su credenze attribuite da fonti romane agli Etruschi. È qui in atto una logica fattuale che non trascende l’esperienza, ma vi permane per mettervi ordine, e non per rinunciare alla verità del sapere, bensì per fondare una verità di tipo contingente, libera dalla falsità che si cela dietro ogni tentativo di forzare la variabilità dell’esperienza entro unità teoriche assolutizzanti e destoricizzate, come nel caso del paradigma attrattivo-repulsivo di Newton, della teoria diluvialista, o più in generale del deduttivismo cartesiano. Una logica, dimostra Crasta nei due seguenti capitoli, che si riverbera anche in teologia ed etica, in opposizione al tentativo moderno di forzare l’agire umano entro modelli dedotti dal metodo geometrico delle scienze naturali; in relazione a quei campi, tuttavia, la storia non rappresenta per Maffei qualcosa in più che un semplice valore aggiunto: in quanto tradizione, essa è ciò che fornisce senso al presente, che costituisce quel “deposito in cui si sono stratificate, insieme alle altre, anche quelle conoscenze che derivano dalle pratiche e dalle consuetudini della quotidianità”; “Queste entrano a costituire un insieme di saperi che non hanno un riconoscimento universale in quanto non vengono alimentati esclusivamente dal ragionamento, ma sono il risultato di processi di ibridazione che inglobano convinzioni radicate nella sfera della praxis, dell’opinione e del probabile” (14-15). Compito dell’intellettuale, quindi, diventa quello di sottoporre all’ars critica le prassi sedimentatesi nel tempo: le credenze, le opinioni, le pratiche quotidiane del vivere comunitario; per Maffei l’erudizione diventa motivo e possibilità d’inquisire gli elementi contraddittori della tradizione, non per sovvertirla, ma per restaurarne il senso e restituire ciascun significato al relativo contesto storico. È proprio questo intreccio tra senso storico e logica fattuale, mette in luce Crasta nel secondo capitolo, che spinge Maffei a “cogliere i nessi concreti dei problemi religiosi, a porli in discussione con singolare tempismo e con un realismo che lo porta non tanto a ricercare risposte sul piano astratto o formale, quanto piuttosto a rivolgere la propria attenzione alla storia di quegli stessi quesiti o dei casi che va esaminando” (116). Il metodo adottato nell’Istoria Teologica per risolvere la controversia tra giansenisti e gesuiti su temi quali il libero arbitrio, la predestinazione, l’infallibilità del papa, consiste infatti nell’“applicare la logica fattuale a quegli argomenti e di organizzare una raccolta attenta dei dati che consenta di definire lo status quaestionis, alla luce del quale risulteranno “evidenti” le risoluzioni più opportune” (111). Secondo l’intento maffeiano, che si fa portavoce di un cattolicesimo critico, a parlare sono gli stessi scritti dei Padri, e ciò non per mero gusto antiquario: in questo caso erudizione e filologia non sono sostenute dal gusto per il remoto, ma diventano strumenti di una prassi storica che ha il compito di fornire i dati originari da cui distinguere le falsificazioni sovrappostesi nel corso dei secoli. E ciò riveste una funzione politica e civile, intende sottolineare Crasta, nella misura in cui le false opinioni generano controversie che lacerano il tessuto sociale delle nazioni. Nel terzo capitolo, il più ampio dei cinque, l’autrice prende in considerazione il rapporto tra erudizione e morale nel pensiero di Maffei. Analizzando alcune riflessioni marginali rispetto allo schema dell’Istoria messo in luce nel capitolo precedente, la studiosa rivela come la preminenza del pratico comporti per Maffei la necessità d’integrare il cattolicesimo attraverso una ricostruzione storico-genetica delle sue origini: le leggi divine e quelle morali sono studiate in relazione alla loro effettiva applicabilità; nel confronto tra “norme” e “casi” lo scopo è trovare un equilibrio tra perfezione ideale e limiti umani, tra sovrannaturale e naturale, infinito e finito, essenziale e contingente; ma poiché la morale e la teologia cristiane sono sbilanciate a favore dei primi termini di confronto, non paiono a Maffei sufficienti “a rendere conto della complessità dei comportamenti umani e a bene intenderne le ragioni” (149). Perciò egli si rivolge alla filosofia pagana, nella convinzione che il cristianesimo sia la fase culminante di una philosophia perennis entro cui i vecchi insegnamenti sublimano alla luce della verità rivelata. Di qui il recupero di autori greci e romani, in particolare di Aristotele, la cui tesi dell’inscindibilità di ragione e passione, e la conseguente ricerca della virtù non come calcolo astratto ma come determinazione caso per caso del giusto mezzo, appaiono a Maffei perfettamente in linea con i limiti e i compiti ch’egli assegna alla ragione e con quanto insegna la tradizione cattolica: la filosofia pratica dello Stagirita è sufficientemente duttile per comprendere la complessità dei comportamenti umani, cosa impossibile da conseguire more geometrico, e, a differenza della “scienza cavalleresca”, è capace di coniugare le passioni umane all’arte del vivere secondo ragione; inoltre costituisce un argine contro le eresie che annullano la distanza tra uomo e Dio e ne sostengono la deificazione; visioni pericolose, agli occhi di Maffei, in quanto distolgono l’uomo dalla cura del mondo per consegnarlo all’illusione di una dimensione inautentica perché irraggiungibile hic et nunc e per mezzi propri. E lo stesso discorso vale per il libero arbitrio: negarlo comporta la paralisi dell’attività umana. Ma ciò che l’autrice vuol mettere in luce, qui, è che l’interpretazione maffeiana di Aristotele non è dettata semplicemente dalla volontà di guadagnare il filosofo alla causa cattolica, ma dal richiamo alla prassi, richiamo che aderisce alla tradizione ecclesiastica senza esserle subordinato. V’è dunque la preminenza di un’epistemologia centrata sul pratico, in ragione della quale si costituisce il modus operandi attraverso cui l’ars critica seleziona e respinge istanze appartenenti a tempi diversi, e per la stessa via evita di confondersi con un relativismo storico: così, se rifacendosi a Wolff, Maffei recupera lo schema aristotelico di sostanza-accidente, o la difesa tomistica della responsabilità individuale operata secondo la distinzione tra causa prima e causa immediata, tra abito ed atto, è perché ritiene che ciò sia utile a stabilire lo statuto ontologico della grazia nella polemica con Migliavacca, e più in generale ad evitare, contro i giansenisti, ch’essa sia intesa come necessitante […]