1, 2, e 3 settembre 2006

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LO SCENARIO DI OGGI E DI DOMANI PER LE STRATEGIE COMPETITIVE
Religioni e Politica
“Villa d’Este”, Cernobbio – 1, 2, e 3 settembre 2006
+ Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia
N.B. Questo testo sarà inserito nel libro del card. A. Scola dal titolo "La società plurale. Temi per
una nuova laicità in Italia", Ed. Marsilio, in uscita in autunno.
1. Il “ritorno degli dei”
Con la fine dell’epoca delle utopie - l’epoca, per rubare l’espressione a Lyotard, dei “grandi
racconti”1 – l’incidenza delle religioni e delle sette in tutto il pianeta, in particolare quella degli Islam, sta
smentendo la previsione, dominante negli anni del dopoguerra, che nel mondo contemporaneo i fenomeni
religiosi fossero destinati a perdere rilevanza sociale e politica. Inoltre ci si aspettava che il processo di
secolarizzazione sfociasse nell’avvento del cosiddetto mondo mondano, invece assistiamo all’esplosione di
un sacro addirittura selvaggio2. I tragici conflitti, scoppiati in ogni angolo del globo dopo la caduta del muro
di Berlino, bastano a svelare l’ingenuità dell’immagine di un XXI secolo destinato semplicemente a
realizzare la globalizzazione dello lifestyle occidentale sotto la cifra di una «Umanità con il goffo peso della
maiuscola»3.
Per evitare che questa troppo rapida considerazione circa il peso socio-politico del fenomeno
religioso venga tacciata di acritica pretestuosità bisogna prendere in seria considerazione la natura
obiettivamente dialettica del rapporto tra religione e modernità. E se vogliamo essere rispettosi della storia
dell’Europa, la cui mind è di portata tendenzialmente globale, dobbiamo parlare esplicitamente di dialettica
tra cristianesimo e modernità. In cosa consiste?
Cominciamo da un polo della dialettica. Possiamo oggi serenamente affermare che la modernità ha
condotto il cristianesimo ad esplicitare rigorosamente le conseguenze della tanto salutare quanto necessaria
distinzione tra religione e politica, già enunciata dal Vangelo con la celebre affermazione «rendete dunque a
Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21). La modernità, soprattutto con
l’Illuminismo, ha così dato scacco a certa deriva ideologica della stessa esperienza cristiana, dovuta ad una
concezione dottrinalistica che riduce la verità rivelata unicamente ad un “sistema di proposizioni concettuali
da cui dedurre i singoli aspetti della realtà”. Si finiva così per negarne il carattere storico, imprevedibile e
non catturabile, e per sottovalutare il peso del rapporto della verità con la libertà. Non poche vicende legate
all’inculturazione del cristianesimo in Europa - non ci sono ragioni per non riconoscerlo – documentano
questo cedimento ideologico.
A partire dalla prima modernità entrò progressivamente in crisi una visione a senso unico del
rapporto verità-libertà. Questa visione giustamente affermava il dovere della libertà di fare spazio alla verità
tutta intera. Tuttavia essa non mostrava chiaramente come integrare al significato della libertà per la verità
anche quello della verità della libertà, che implica l’obiettivo riconoscimento della libertà di coscienza
rettamente intesa.
D’altra parte però - ed è questo l’altro polo della dialettica tra cristianesimo e modernità - occorre
mettere in evidenza che se la modernità europea ha potuto, in un certo senso, costringere il soggetto cristiano
a questa maggior autenticità, lo ha fatto proprio grazie al nucleo essenziale e permanentemente vitale della
stessa fede cristiana. Nucleo che, consegnato - da Gerusalemme a Roma - dall’ininterrotta traditio cristiana,
continua a rappresentare una risorsa decisiva non solo per l’Europa di oggi.
Mi riferisco al principio della differenza nell’unità che vive nel mistero della Trinità e trapassa, in
forza dell’Incarnazione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, nella storia per diventare, secondo la legge
1
Cfr. J.-F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 199811.
A questo proposito restano provocatorie le riflessioni di André Glucksmann in: A. GLUCKSMANN, La trosième mort de
Dieu, NiL Editions, Paris 2000.
3
R. CALASSO, in «Il Corriere della Sera» 5 maggio 2002, 33.
2
dell’analogia, principio di comprensione e valorizzazione di ogni differenza. Questa, sia a livello personale
che comunitario, non viene solo tollerata, ma esaltata, perché trattenuta in unità da quella Verità –
avvenimento prima ancora che dottrina ed etica (cfr. Deus caritas est n. 1) - che giunge fino all’estrema
Thule dell’umana esperienza, impedendo che la differenza, anche la più radicale, degeneri in fattore di
dissoluzione più o meno violenta.
In questo quadro si sono potute sviluppare in Occidente la pratica e la teoria della democrazia, intesa
quale libera ed ordinata convivenza di cittadini, corpi intermedi e popoli che danno vita ad una società civile
adeguatamente servita dallo stato.
2. La rimozione della religione dalla sfera pubblica
Eppure non possiamo dimenticare un dato che, storicamente, è emerso in Europa dal rapporto
dialettico modernità-cristianesimo. L’esito prezioso di questa dialettica - la verità della libertà di coscienza e
quindi l’adeguata distinzione tra fede religiosa e azione politica - è stato pagato al prezzo della rimozione
della religione dalla sfera pubblica della società civile. Scrive un acuto storico che, con la modernità, «la
religione comincia a essere percepita dall’esterno. Viene collocata nella categoria del costume, o in quella
delle contingenze storiche. A questo titolo, essa si oppone alla Ragione o alla Natura»4. Si vanno
delineando, a partire dal XVI secolo, le varie figure sostitutive del precedente rapporto tra religione e
politica: il tentativo di ricondurre a una delle confessioni religiose tutte le rivali
(integralismo/fondamentalismo); quello di risalire ad una supposta religione naturale universale, più
fondamentale delle religioni storiche (naturalismo illuministico); quello di attribuire alla “politica” lo stesso
ruolo catalizzatore di cittadini, corpi intermedi, società civile e nazioni, precedentemente ricoperto dalla
religione (totalitarismo); e, infine, quello di sposare l’atteggiamento della “morale provvisoria”, cioè lo
scetticismo (liberalismo agnostico).
Il risultato storico di questo fondamentale processo è duplice. Da una parte l’uso politico della
religione sia in senso autoritario (religione di stato), sia in senso liberale (religione come fattore di utilità
sociale)5. E dall’altra la riduzione della religione a fatto privato, senza rilevanza e liceità pubblica. Occorre
riconoscere che quello che la modernità non ha saputo o non è riuscita a pensare è la rilevanza pubblica della
religione, mantenuta nella sua piena identità.
3. Etsi Deus non daretur?
Venendo troppo rapidamente all’oggi, l’esplosione della civiltà delle reti ha mutato la natura della
partecipazione politica e ha mortificato il peso dato ai corpi intermedi. Si è diffusa in Europa l’opinione che
in una società democratica e plurale si può dare un corretto rapporto tra diritti fondamentali del soggetto e
stato solo a patto di non introdurre in questa relazione altri elementi di riferimento e di mediazione. La
religione, in questo contesto, costituirebbe un “terzo incomodo”, tollerabile solo se ridotto a fatto privato
proprio del singolo individuo. È la fase attuale del processo di globalizzazione che «enfatizza una soluzione
di neutralità culturale: per la democrazia occidentale odierna tutte le religioni sono ‘uguali’ (in-differenza).
La sfera pubblica è dichiarata neutrale verso le religioni (…) Alle diverse religioni si chiede e si impone di
considerare il loro universalismo come un fatto privato, [al massimo] interno al loro ambito di influenza»6.
È celebre in proposito l’affermazione di Kelsen, secondo la quale «l’apprezzamento della scienza
razionale e la tendenza a mantenerla libera da ogni intrusione metafisica o religiosa sono tratti caratteristici
della democrazia moderna»7.
Con modalità tra loro molto diverse in Francia, in Italia ed in Spagna, paesi in cui il dibattito sulla
laicità è molto acceso, normalmente si sostiene che lo stato contemporaneo debba essere laico e neutro. Ma
occorre che questa formula sia ben interpretata. Nelle letture più accese infatti l’aggettivo “laico” non
significa solo a-religioso, ma suona talora come un sinonimo di “antireligioso”.
A dire degli studiosi negli Stati Uniti è invece presente – anche se non prevalente – una concezione che
generalmente dà piena cittadinanza alle motivazioni religiose di ciascuno. Già i Padri fondatori avevano in
qualche modo voluto uno «stato laico senza laicismo di stato»8. La sfera politica è chiaramente separata
4
M. DE CERTEAU, La scrittura della storia, “Il pensiero scientifico” Ed., Roma 1977, 162-163.
MONTESQUIEU: «Tutte le religioni contengono dei principi utili alla società», in Lettres Persanes, lett. 86.
6
P. DONATI, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in C. VIGNA – S. ZAMAGNI (a
cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, 55-56.
7
H. KELSEN, La democrazia, Il Mulino, Bologna 1998, 246.
8
Cfr. A. BESANÇON, Situation de l’Église catholique, in «Commentaire» 113 (2006) 5-23, qui 11.
5
2
dalla sfera religiosa, ma è disposta a dialogare con essa perché è ben consapevole che nessun governo può
produrre cittadini morali, ma al contrario sono cittadini morali sovente ispirati dalle religioni a favorire la
democrazia. Oggi gli evangelicals, cristiani metodisti, battisti, pentecostalisti - in forte espansione a partire
dagli Stati Uniti anche in America Latina (Brasile), Asia, Africa, riescono a fare proseliti addirittura in
territori a prevalenza musulmani - intrecciano in profondità la loro fede con la cultura americana. Qualunque
lettura si voglia dare di questi movimenti religiosi, che tuttavia conviene non sottovalutare, essi mi sembrano
confermare l’affermazione che «vi è un’importante lezione nell’esperienza americana della diversità
religiosa all’interno di una struttura politica e sociale democratica: la fondazione religiosa della cultura è
sufficientemente ampia per accogliere coloro che tentano di vivere secondo una delle tre grandi tradizioni di
fede abramitiche, [ed in ogni caso di preservare] la libertà individuale di credere [o non credere] e praticare
[o no praticare]»9.
La tesi di Kelsen è oggi sottoposta a critica non solo da chi, come l’ebreo americano David Novak,
sostiene che «le persone religiose sono capaci di costituire la laicità ricavandola dalle proprie tradizioni
fondate sulla rivelazione»10, ma anche da chi in Europa propugna la necessità di un ripensamento delle
democrazie plurali. Basti citare studiosi come Böckenförde e Habermas i quali, in modo diverso, affermano
sì che lo stato moderno può avere la sua genesi solo in un consenso su procedure, ma contemporaneamente
non escludono che «lo stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso da solo non può
generare»11.
Obbligare i credenti a comportarsi etsi Deus non daretur e, pertanto, a non menzionare la
corrispondenza tra la razionalità e l’origine ultimamente divina di una determinata prescrizione (norma), non
è un prezzo troppo alto per vivere in società12? Soprattutto siamo sicuri che non tolga qualcosa di positivo
alla società?
Così non è possibile escludere, almeno in linea di principio, che la motivazione religiosa possa essere
importata nell’ambito pubblico.
4. Religioni, capitale sociale e “meticciato di culture”
In particolare possiamo chiederci: il principio, in radice cristiano, della differenza nell’unità può
assicurare anche al futuro dell’Europa, e non solo di essa, una democrazia sostanziale? Una democrazia
capace non solo di reggere alla rapida trasformazione interculturale ed interreligiosa, ma addirittura di
rendere questa nuova fisionomia del globo una risorsa di civiltà13? Penso di sì. E la mia convinzione non ha
nulla di nostalgico e non implica assolutamente la restaurazione di modelli di “cristianità” irrimediabilmente
tramontati.
In proposito vorrei limitarmi a qualche breve considerazione.
Comincerò col dire che una simile visione della dimensione religiosa della società civile pone
rimedio, tra le altre cose, all’insufficienza del modello liberale privatistico della religione.
La democrazia, infatti, ha bisogno anzitutto di un capitale sociale di fiducia e di un quadro di ideali
condivisi, senza i quali degenera in pura amministrazione conflittuale di interessi contrapposti. Lo ha ben
visto von Kutschera quando riconosce che persino l’etica, il cui problema centrale è «la mediazione tra
interesse ed esigenze morali»14, non basta da sola a muovere il desiderio e l’interesse dell’uomo. Più
antropologia è necessaria all’etica. Ciò è tanto più vero in presenza di processi di globalizzazione del
mercato e della finanza. Che oggi non si dia altro modello di democrazia che quello procedurale non solo
non esclude, ma mette in campo la tesi di Böckenförde: la democrazia necessita di un background civile.
9
C. ANDERSON, Religione e politica nello spirito americano, in «Oasis» 1 (2005) n. 2, 96.
D. NOVAK, La legge mosaica e il diritto naturale, in Daimon 4/041, 213-224, qui 222.
11
E. W. BÖCKENFÖRDE, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation, 1967, in Recht, Staat, Freiheit,
Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1991. Inoltre cfr.: J. HABERMAS - J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, Marsilio,
Venezia 2005, 41.
12
Cfr. D. NOVAK D., La legge mosaica…, art. cit.
13
Un sano realismo impone di non ignorare taluni avvertimenti di chi parla di gravi pericoli connessi all’incontroscontro di civiltà, cfr.: S. P. HUNTINGTON, The clash of civilizations and the remaking of world order, Simon &
Schuster, New York 1997. Con diverse sfumature, si vedano anche: A. FINKIELKRAUT, La défaite de la pensée: essai,
Gallimard, Paris 1989; J. PALACIOS ROMEO, La civilización de choque. Hegemonía occidental, modernización y estado
periférico, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid 1999; R. D. KAPLAN, The Coming Anarchy.
Shattering the Dreams of the Post Cold War, Random House, New York 2000.
14
F. VON KUTSCHERA, Fondamenti dell’etica, Franco Angeli, Milano 1991, 327.
10
3
In secondo luogo è ormai un dato consolidato che l’emarginazione della religione dalla sfera sociale
non è accettabile da quelle culture non europee in cui la religione è essenzialmente un fatto pubblico15. In
questo senso a rendere obsolete le soluzioni moderne del rapporto religione-politica è proprio l’emergenza
storica del talora violento processo - sottolineo il termine “processo” - di meticciato di civiltà e culture.
L’espressione, che si è affacciata timidamente vent’anni fa dal mondo delle scienze antropologiche e che da
molti è ancora percepita con apprensione e diffidenza, si rivela, a mio parere, più comprensiva delle
categorie di identità ed integrazione16.
5. Una sfera pubblica religiosamente qualificata
Quale potrebbe essere allora il nuovo profilo pubblico che l’attuale frangente storico chiede alle
religioni, almeno in Occidente? Anzitutto mi pare auspicabile affermare la necessità di una sfera pubblica
plurale e religiosamente qualificata, in cui le religioni svolgano un ruolo di soggetto pubblico, ben separato
dall’istituzione statuale e ben distinto all’interno dalla stessa società civile17.
Questo esige che il potere politico, nei confronti delle religioni, passi da un atteggiamento di
tolleranza passiva ad un atteggiamento di “attiva apertura”, che non riduca la rilevanza pubblica della
religione agli spazi concordatari con lo stato. Da parte delle religioni è necessario abbandonare
autointerpretazioni di tipo privatistico o fondamentalista per creare il terreno di un interscambio diretto con
le altre religioni e le altre culture; uno spazio di dialogo in cui le religioni possono giocare il loro ruolo nel
discorso pubblico sui valori di civiltà ed esprimere il loro giudizio storico.
In sintesi: «La sfera pubblica religiosamente qualificata è quella che si dà all’interno di una società
civile definita come il campo di incontro fra soggetti che entrano in scambi sociali (di mercato e di
integrazione sociale) non già privati delle proprie appartenenze religiose, ma invece qualificati da tali
appartenenze, e che interagiscono fra loro valorizzando tali appartenenze, nel contesto di una democrazia
politica che regola la compresenza fra religioni diverse per il tramite di tali sfere di scambio. [La sfera
pubblica religiosamente qualificata] è il luogo della relazionalità civile elaborata dalle stesse religioni nel
momento in cui agiscono fuori di se stesse, attraverso l’influenza che hanno sugli attori sociali»18.
Una tale proposta rispetta il fatto che «la libertà si rivela sempre più come un fenomeno
relazionale»19, proprio in consonanza con la natura propria del rapporto biunivoco tra verità e libertà, che a
partire dalla modernità, continua a ricevere approfondimenti nelle variegate culture contemporanee.
6. Religioni e vita buona
Si tratta quindi di pensare in termini più rigorosi la fisionomia di uno stato capace di dar spazio in
forma adeguata ad una società civile veramente plurale. Uno stato che non tema gli inevitabili aspetti
conflittuali di una simile società ma li sappia regolare positivamente. Penso ad uno stato non “distaccato”
(falsamente neutrale) che, pur non assumendo una specifica visione (Weltanschauung), sia dichiaratamente
al servizio della persona e delle esigenze ultime che la costituiscono (desiderio di libertà e felicità, di
compimento), che faccia nel contempo propri – nel rispetto di rigorose procedure democratiche - i valori che
stanno a fondamento della stessa convivenza democratica (libertà civili e politiche) generata da corpi
intermedi. Senza ignorare né temere il dato storico che i valori sono sempre calati in tradizioni particolari che
le istituzioni contribuiscono certo a plasmare ma da cui non riescono di fatto mai a prescindere. Parlo in
proposito di “tradizione prevalente”, con intenti analoghi a quelli per cui Habermas parla di “opinione
migliore”20. Come per il semplice fatto di propugnare una considerazione autenticamente formale e
procedurale della democrazia non necessariamente si cade in una posizione “relativista”; così neppure si
15
Cfr. M. KHATAMI, Religione, libertà e democrazia, Laterza, Roma-Bari 1999.
Notazioni sul tema in A. SCOLA, Oasis: un soggetto all’opera. Intervento all’incontro del Comitato Scientifico del
Centro Internazionale di Studi e Ricerche Oasis, Venezia 20-21 giugno 2005; ID., Una “civitas” per l’umanità, in
«Studi Cattolici» n. 524 (2004) 721-723. Di utile consultazione è la voce Métissage/Mestizaje/Interbreeding a cura di
U. ANTWERPEN nel Dictionnaire International des Termes Littéraires: www.dttl.info. Sul tema del meticciato di culture
possono essere consultati taluni volumi che presentano opinioni non necessariamente condivisibili: .F. LAPLANTINE,
Identità e métissage. Umani al di là delle appartenenze, Elèuthera, Milano 2004; J. AUDINET, Il tempo del meticciato,
Queriniana, Brescia 2001; J.-L. AMSELLE, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati
Boringhieri, Torino 1999;T. TODOROV, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1984.
17
Cfr. P. DONATI, Pensare la società civile…, 51-106.
18
Ibid., 92.
19
Ibid., 104.
20
Cfr. J. HABERMAS – J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, 41-63.
16
4
finisce automaticamente nel “fondamentalismo” per il fatto di ritenere che questa considerazione
procedurale, dotata di una sua autonoma consistenza, debba essere compresa in chiave assiologia. Parlo
consapevolmente di “assiologia” e non di “fondamenti” di una democrazia procedurale. Ciò permette di fare
riferimento ad un livello “prepolitico” anche di natura religiosa assai utile all’attuazione dei diritti umani e,
pertanto, al buon funzionamento delle democrazie. Altrove, affrontando questi temi ho parlato in riferimento
alla situazione italiana, di “nuova laicità” 21.
I diritti fondamentali, se considerati secondo tutto il loro bagaglio di esigenze costitutive
dell’esperienza elementare di ogni persona ed i valori della convivenza democratica, inevitabilmente calati
nella storia particolare di un popolo, configurano quindi i lineamenti positivi di una società autenticamente
laica. In essa l’istituzione statuale ha anche il compito di ordinare (e far fruttificare) la coesistenza di identità
e religioni differenti. Non uno stato inteso come un anonimo vuoto contenitore da riempire a piacimento
(opzione debole e, di fatto, irrealizzabile), ma come uno spazio, certamente non confessionale in cui ciascuno
possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune E questo non può che avvenire
nell’inevitabile e rispettosa logica del confronto e del riconoscimento, l’unica che salva la vera natura del
potere che è e deve restare servizio, anche quando debba far ricorso, come diceva Kant, alla «forza per
garantire il diritto».
Si tratta non a caso dell’unica opzione che, evitando gli opposti pericoli dell’individualismo
esasperato e di collettivismo oppressivo, tiene in adeguato conto la natura “relazionale” del potere22. Nessuno
di noi infatti può concepirsi al di fuori di un rapporto: l’“individuo” non esiste mai come atomo separato,
autosufficiente e quindi contrapposto, ma sempre anche come “alterità differente”23. Ciascuno è insieme “se
stesso” (identità) e “altro” per “qualcun altro” (differenza). Concretamente, come ha ben mostrato Ricoeur,
questa relazione si esprime nel processo di confronto dialogico e di riconoscimento (mai privo del relativo
misconoscimento) da cui scaturisce ogni sana convivenza e su cui si fonda ogni legittimo potere24.
Il nesso tra identità e differenza, nella dinamica del confronto e del riconoscimento reciproco, è
dunque insuperabile oltre che fattore fecondo di democrazia. In quest’ottica il rapporto tra religioni e politica
domanda solo che venga rispettata tutta la natura di universale concreto propria delle religioni. Essa non è
meno decisiva dell’universalità propria dei diritti fondamentali, troppo spesso astratta per la loro riduzione a
mera rubrica di regole poco contestualizzate storicamente.
Ad una sana democrazia non basta quindi una religione civile, né le è di alcuna utilità una religione
ridotta a puro privato individuale. Ciò di cui ha bisogno è di un riconoscimento pieno delle fedi personali
inseparabili da appartenenze comunitarie (religioni) capaci anche di una pubblica soggettività tesa ad offrire
a tutti, senza privilegi, nel libero campo del confronto democratico, laico, pubblico e plurale, proposte di vita
buona ad un tempo personale e sociale.
21
Cfr. A. SCOLA - G. E. RUSCONI, Prove di dialogo, tra fede e ragione, in «Il Mulino» (2006) n. 2, 369-379.
Cfr. M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, Corso al Collège de France 1977-78, Feltrinelli, Milano 2004.
23
Cfr. F. BOTTURI, Condizioni antropologiche dell’interculturalità, Intervento all’incontro del Comitato Scientifico del
Centro Internazionale di Studi e Ricerche Oasis, Venezia 20-21 giugno 2005. Utili riferimenti a questi temi si possono
consultare sulla pagina web del Centro Oasis: www.cisro.org.
24
Cfr. P. RICOEUR, Percorsi di riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, 275-290.
22
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