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LORENZO BELLANOVA
LA MALATTIA TRA MISURE PATRIMONIALI E DI SOSTEGNO
NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO
Sommario: 1.la tutela del soggetto debole tra legalità ed effettività; 2. il soggetto debole quale
titolare di una situazione giuridica soggettiva; 3.il soggetto debole quale titolare di uno status
giuridico: complessità di una nozione; 4.Invalido civile, portatore i handicap e malato tra stato
giuridico e qualità; 4.1. (segue) il problema dell’accertamento della condizione di disabilità;
5.Handicap, differenziazione antropologica e libertà civili; 6. una definizione allargata di handicap
a tutela della famiglia del disabile; 7.Il ruolo della famiglia e gli strumenti giuridici a sua
disposizione in una politica di tutela del disabile; 8. l’assistenza esofamiliare tramite strutture
pubbliche; 9. L’assistenza esofamilare tramite soggetti privati; 10. Il contenuto bipolare della
nozione di assistenza; 11.L’assistenza esofamiliare tra contratto e accordo; 12.L’assistenza al
disabile tramite le reti informali; 13. l’assistenza al disabile da parte di religiosi: profili
previdenziali; 14. disabilità e responsabilità civile: nodi problematici; 15. la disabilità nella
giurisprudenza costituzionale in materia di dinamiche lavoristiche; 16. La disabilità e le misure
assistenziali di sostegno; 17. disabilità ed interventi previdenziali; 18. la cecità: formule di tutela
19. questioni processuali: legittimazioni, decadenze e sentenze ordinatorie; 20. La Corte
Costituzionale e la tutela dei soggetti deboli.
Dottrina: Rescigno 1973; Busnelli 1978; Bruscuglia 1997; Cendon 1997; Zana
2000; Cendon 2004, Cendon 2005;
Normativa: Cost 1, 2, 3, 4, 38, cc 1, 2, 5, 1322, 1346, 1366, 2043, 2094, 2645 ter; 2909; Cpc 81,
101, 102; l.67\2006; dlgs 216.03; l. 24.11.03 n.326; dl.30.9.03 n.269; l.3.4.01 n.131; l.3.4.01
n.138; DPCM 26.5.00; dlgs 30.3.99 n.96; l.12.3.99 n.68; dlvo 31.3.98 n.112; l.23.12.98 n.448;
l.15.3.97 n.59; l.28.8.97 n.285; dPR 21.9.94 n.698; l.5.2.92 n.104; l.11.10.90 n.289; l.5 giugno
1990 n.135; l.19 luglio 1991 n.216; dPR del 9 ottobre 1990 n.309; dlgs 28 luglio 1989 n.272;
l.9.1.89 n.13; dlvo 23.11.88 n.509; l.21.11.88, n.508; l.1.2.80 n.18; l.12.6.84 n.222; l.30 marzo
1971 n.118; Rdl 14.4.39 n.636; l.11.2.80 n.18; .28.3.68 n.406; l.12.8.62 n.1338; l.r. Campania 15
marzo 1984 n. 11; direttiva 2000\78\Ce
1.La tutela giuridica del soggetto debole pone un problema per un verso di
inquadramento nel sistema giuridico e, per l’altro, di verifica dell’effettività ed
incisività delle misure di protezione adottate.
Occorre, infatti, individuare le coordinate giuridiche cui affidare quella tutela e di
accertare la concreta efficacia degli strumenti all’uopo delineati.
Il primo profilo problematico appena suggerito si traduce infine nel necessario
tentativo di sciogliere alcuni nodi che continuano ad affaticare la dottrina.
Un problema di tutela si può porre soltanto in caso di emergenza di una situazione
giuridica soggettiva (nella specie del soggetto invalido civile, del portatore di
handicap appunto in quanto tale, al di là della soggettività che riflette la
individualità fisica ex art.1 c.c.) ed eventualmente di una compromessa trama
relazionale con terzi in astratto capaci di incidere su quella situazione. Situazione
giuridica soggettiva del soggetto debole e relazionalità rappresentano, tuttavia,
una prospettiva di analisi del problema della tutela dell’handicap senza esaurirla.
È possibile infatti porre anche un problema di enucleazione di uno statuto di tutela
del portatore di handicap e dell’invalido civile quali status rilevanti
nell’ordinamento giuridico italiano.
Si tratta invero di punti ancor oggi mobili del diritto, confrontandosi in materia
diversi approcci funzionali all’accertamento della situazione giuridica soggettiva e
dei confini di una relazionalità giuridicamente rilevante con conseguente
problematicizzazione degli spazi riconoscibili ad una tutela del soggetto, per
quanto qui interessa, portatore di handicap.
La tematica relativa alle social instances si complica del resto nella misura in cui
impone un problema di non solo di legalità, ma anche di effettività; lì dove se una
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questione di illegalità si risolve verificando la sussistenza di una fonte normativa
del precetto che su dette istanze comunque incida; viceversa una questione di
effettività dipende dal consenso che detta statuizione normativa sia capace di
suscitare e finisce con il riproporre la possibilità di un sindacato in termini di
costituzionalità della previsione, specie se si abbandoni il comodo schema di un
formalismo giuridico, preferendovi semmai uno capace di apprezzare la
costituzione materiale secondo cui poi formulare un giudizio di validità di una
norma [pizzorusso 1985, 329].
2. Il tentativo di ricostruire la tutela del soggetto debole sull’emergenza di una
situazione giuridica soggettiva di cui lo stesso sia titolare e che risulta calata in
una dimensione relazionale postula che delle categorie giuridiche coinvolte
(situazione giuridica soggettiva da un lato e rapporto giuridico, dall’altro) sia
chiara la portata concettuale.
Giova ricordare come la nozione di situazione giuridica soggettiva sia legata a
quella di Rechtslage e di cui sembra in effetti costituire la traduzione letterale,
anche se il termine tedesco mira a contrassegnare soltanto chi possa vantare la
mera aspettativa di acquisire la titolarità di un diritto soggettivo ovvero di un
interesse legittimo.
Si è pertanto prospettata la possibilità di utilizzare un’altra espressione (posizione
giuridica soggettiva) e di cui tuttavia non si è colta la fondamentale ambiguità, in
virtù del legame con la teoria tedesca della Rechtsstellung e quindi della
compromissione concettuale con un modello militarista di rapporti
gerarchicamente strutturati [pugliatti 1964, 64;].
Si è anche ipotizzata la possibilità di ricorrere alla nozione, anch’essa ambigua
per i suoi contorni fluidi, di figura giuridica soggettiva idonea a richiamare
generici e confusi centri di interesse [natoli 1943, 22ss].
Che poi la qualificazione giuridica dell’interesse del singolo in termini di
situazione giuridica soggettiva postuli necessariamente il recupero di quella
posizione soggettiva in un rapporto è soluzione non del tutto condivisibile, benchè
indubbia appare la intrinseca vocazione relazionale di qualsiasi interesse; persino
quello più solitario ed individualistico del proprietario costretto ad una funzione
sociale e quindi ad una dimensione infine relazionale.
Ebbene, per tracciare una definizione della nozione di situazione giuridica
soggettiva è necessario muovere da quella di interesse che di quella costituisce in
effetti la premessa logico\giuridica e che, in quanto soggetto ad un processo di
selezione normativa, non può che essere tipico ovvero astrattamente individuato
dalla legge. Il che, tuttavia, non si traduce infine in un rifiuto di situazioni per così
dire innominate e quindi di interessi che l’Ordinamento protegge senza
consentirne il recupero ad una qualsiasi delle situazioni giuridiche soggettive di
vantaggio tipizzate.
Peraltro, l’espressione “situazione giuridica soggettiva” evoca per un verso una
condizione fattuale e per l’altra una conseguente valutazione e qualificazione da
parte dell’Ordinamento giuridico sulla scorta di un sillogismo che individua nella
norma la premessa e nella situazione fattuale il medio [natoli 1943, 15]. Il diritto,
quindi, selezionato dalla realtà un interesse giuridicamente rilevante, attribuisce al
portatore di quell’interesse la titolarità di una situazione giuridica soggettiva di
vantaggio con legittimazione all’esercizio dell’azione conseguente, sì da garantire
il soddisfacimento di quell’interesse e quindi una protezione variamente
articolata.
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D’altra parte, l’emergenza di una situazione di vantaggio, pur condizionando
l’agere di soggetti terzi rispetto al titolare di quella situazione giuridica soggettiva
(fatta salva l’attribuzione di una legittimazione ad incidere su detto interesse in
virtù di un interesse ritenuto dal sistema di maggiore rilevanza) non implica di per
sé una imposizione ai terzi di un obbligo di astensione o l’asserita emergenza di
un principio di alterum non laedere ovvero di neminem laedere; lì dove il primo
appare minato da profili di indeterminatezza e quindi dall’incapacità di
individuare a priori i soggetti obbligati ed il secondo invece finisce con il
costruire la legittimità dell’azione del singolo non tanto sulla conformità della
stessa al contenuto della relativa situazione giuridica soggettiva quanto piuttosto
sulla mancata violazione del confine tracciato dall’individuazione di quel
contenuto [busnelli 1963, 73ss].
Ciò che appare comunque irrinunciabile è il legame tra titolarità di una situazione
giuridica soggettiva di vantaggio e tutela della stessa; considerato che il
riconoscimento dell’una ma non dell’altra ridurrebbe il processo di selezione degli
interessi ad un mero esercizio accademico.
2. Che il soggetto debole possa essere titolare di situazioni giuridiche soggettive
in virtù della protezione accordata dall’Ordinamento giuridico agli interessi di cui
è portatore induce poi a valutare se le stesse valgano a costituire uno status di
soggetto debole.
“Il linguaggio, nell’illusione del legislatore, deve essere asservito al diritto; in
realtà ne diventa spesso il padrone (e Grossfeld richiama in proposito
l’affermazione di Oscar Wilde, che il linguaggio <<is the parent, and non the
child, of thought>>, e che gli uomini sono schiavi delle parole). Il diritto ha
l’ambizione e la necessità di creare una sua lingua, per conferire realtà a
costruzioni che esso introduce nel mondo della natura, spesso accrescendolo, altre
volte assumendone solo talune parti e perciò riducendolo. Per il diritto proprietà,
contratto, società commerciale esistono come le persone e le cose del mondo
fisico, non sono pure immagini o concetti.
Ma i termini coniati dal diritto, anche quando rispondono ad una coerente
precisione, debbono essere <<tradotti>> perché siano intellegibili alla stregua del
linguaggio usato come strumento di comunicazione sociale; e per il diritto si
avverte la necessità, propria di ogni settore tecnico, che la lingua non divenga una
gabbia o una prigione” [rescigno 1999, p. 1988s].
Uno di quei termini con cui il diritto impone di misurarsi è quello di status.
Il concetto di stato giuridico mira ad individuare il soggetto in virtù
dell’appartenenza stabile ad un gruppo sociale determinato; pertanto piuttosto che
individuare una situazione giuridica soggettiva costituisce una formula riassuntiva
delle situazioni giuridiche soggettive riconoscibili al soggetto in virtù della
appartenenza de qua.
La nozione affonda le sue radici in una antica tradizione culturale ed ha risentito
dell’evoluzione socio\economica e politica che ha investito le relazioni
intersoggettive nel tempo e di cui pare opportuno dar conto sia pure in relazione
all’ultima fase di detta elaborazione giuridica.
Il diritto romano, è noto, conosceva lo status libertatis, lo status civitats e lo status
familiae.
La tripartizione romana era destinata ad una rapida complicazione sviluppandosi
nella suddivisione in classi propria della tradizione medievale.
Il XIX secolo aveva conosciuto poi un sistema sociopolitico irrigidito sulle
stratificazioni di ceti e di ordini; l’appartenenza agli uni e agli altri determinava lo
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status della persona ed infine ne condizionava la fortuna, la storia sociale,
economica e giuridica a prescindere dalla volontà del singolo.
La fine di detto secolo registra gli scossoni anche politici di una moderna
sensibilità di matrice illuministica, insofferente a qualsiasi imbrigliatura -secondo
schemi prefissati- della storia dell’individuo, semmai rimessa alla sua volontà ed
alla sua libertà di azione e di scelta.
Il dogma della volontà risentiva dell’approccio culturale della dottrina
giusnaturalistica e della scuola storica del diritto; l’esaltazione della volontà era
infine esaltazione della libertà individuale, affermazione del suo dominio sulla
realtà. Intuibile è il risvolto politico\economico, ovvero l’affermazione di una
società borghese e di un modello di economia capitalistica (improntato alla
politica liberista del laissez-faire e del laissez passer) avverso il sistema
economico (regolato da un penetrante protezionismo e condizionato da una
sensibile ingerenza del potere pubblico) e la società dell’ancien régime.
È la borghesia che libera l’individuo dai lacci degli status ed il contratto, rectius la
libertà di contrarre il veicolo di detta liberazione e lo stumento per la costruzione
del destino del singolo individuo [cfr. maine 1861]. Questo trend tuttavia si
riflette nell’esaltazione cieca della volontà solitaria del soggetto con evidente
pregiudizio per la sicurezza del mercato e per una politica giuridica organica alle
esigenze di una matura economia capitalistica che non poteva prescindere da una
certezza delle relazioni giuridiche ed economiche; certezza il cui difetto appare
capace di scoraggiare le iniziative economiche.
Tra ottocento e novecento il diritto recepisce questa tensione problematica e
traghetta la categoria del contratto da una concezione essenzialmente soggettiva
ad una oggettiva.
La rivoluzione francese aveva sì travolto la rilevanza giuridica dello status
libertatis, ma non ridimensionato lo status civitatis e lo status familiae.
È noto, non mancarono tentativi di incidere su queste categorie.
Il codice del 1865, ad esempio, aveva riconosciuto il diritto degli stranieri a
godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini (art.3); ma il codice del 1942, nel
timore di un atteggiamento “eccessivamente liberale” (Rel. Prog. Def. n.7), aveva
posto infine la “condizione di reciprocità” (art.16 disp. prel. c.c.).
L’Inghilterra pre-vittoriana, invece, conosceva il tentativo della scuola storicogiuridica di far prendere atto della decadenza delle forme organizzative
consegnate dalla tradizione, ivi compresa la famiglia, e destinate ad essere
soppiantate dall’accordo tra individui e quindi dall’individuo quale unità sociale
di cui il diritto civile è chiamato ad interessarsi.
La svolta politica autoritaria che ha contrassegnato gli inizi del XX secolo si è
risolta poi in una pubblicizzazione degli status tradizionali e nella enucleazione di
nuovi quali strumenti funzionali a quelle politiche; ecco sono gli status
subiectionis, status libertatis, status activae civitatis e status civitatis teorizzati da
Jellinek nel 1892 [Jellinek 1912].
L’avvento delle moderne democrazie, l’affermazione di una politica giudiziaria
improntata a principi di libertà e di uguaglianza sostanziale, siccome spronata
dalle Corte Costituzionali, il passaggio infine da una concezione liberale dello
Stato a quella di Stato sociale hanno segnato un più penetrante intervento
pubblico nel diritto dei mercati e dei contratti in genere. La libertà individuale in
un modello politico\economico di stampo liberale corre il rischio di ridursi ad una
mera affermazione di principio, ad una nozione formale incapace di riflettere i
termini di reale contrapposizione tra le parti negoziali.
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Il recupero di un equilibrio negoziale passa allora per strumenti di rafforzamento
della posizione del contraente debole; strumenti rimessi ora all’iniziativa dei
soggetti deboli (si pensi alla promozione di forme di autorganizzazione dei
lavoratori con la creazione dei sindacati), ora al diretto intervento dello Stato
sociale chiamato ad assicurare una libertà ed una eguaglianza non formale ma
sostanziale, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che si
frappongono alla realizzazione dell’individuo ed al pieno sviluppo della persona
umana. Intervento pubblico che si traduce nella restrizione della libertà
contrattuale dei contraenti forti al fine di recuperare una parità negoziale
altrimenti irraggiungibile e che impone la individuazione di una classe di soggetti
meritevoli di protezione e quindi il riconoscimento di rilevanza dell’appartenenza
dei contraenti ad una data categoria socio\economica: consumatori, inquilini,
lavoratori, braccianti agricoli, subfornitori, etc. Appartenenza ad una classe che
assume rilevanza non solo empirica, ma giuridica in quanto determina
l’operatività di una congerie di regole normative poste a protezione.
Il cerchio aperto dal passaggio dallo status al contratto si è chiuso con il ritorno
allo status, seppure con una più matura sensibilità che ha imposto un
adeguamento in senso democratico degli status della tradizione giuridica.
Processo questo che può dirsi per lo più concluso nel diritto di famiglia, grazie
alla riforma del 1975 prima e poi alla consacrazione nel 2006 di un comune ruolo
paritario dei genitori, quand’anche nell’ambito di una famiglia in crisi, in
relazione al progetto formativo ed educativo dei figli.
Che è quanto per un verso tradisce la vitalità delle categorie tradizionali capaci di
adattarsi alle esigenze dell’età contemporanea; per l’altro impone di valutare la
possibilità di enucleare nuovi status dalla normativa speciale elaborata negli
ultimi tempi e tesa a tessere una rete di protezione dei soggetti deboli nel quadro
di una politica costituzionalmente orientata (art.3 Cost).
Si è così discusso della possibilità di rintracciare nella l.20.5.70, n.300 (il
cosiddetto Statuto dei lavoratori) appunto la fonte dello status di lavoratore,
strumento reso necessario dal fallimento del contratto quale strumento di
mediazione equilibrato tra datore e prestatore d’opera; della correttezza di una
ricostruzione della posizione del consumatore, dell’erede, del socio, del fallito in
termini di status. Sicchè si è ritenuto poi ammissibile una domanda di
accertamento della condizione di lavoratore subordinato: “L'interesse
all'accertamento di un rapporto di lavoro subordinato in atto, in considerazione
della ampiezza, complessita' e rilevanza sotto molteplici aspetti delle situazioni
soggettive coinvolte, sussiste a prescindere dalla identificazione di una possibile
specifica finalizzazione dell'accertamento stesso [ Cass., sez. lav., 17.11.99
n.12778, cfr. sassani 1984].
Il rischio invero è quello di confondere qualità giuridiche con moderni status.
In effetti, parlare di nuove forme di status è possibile purchè si sottolinei come, a
differenza di quelle tradizionali, queste non sono contrassegnate dal requisito
della tendenziale permanenza o almeno non temporaneità e della necessità,
ovvero non risolubilità ad nutum.
Differenze che si traducono poi nell’impossibilità di applicare in via analogica
l’art.70 cpc che, come è noto, postula l’intervento del rappresentante dell’Ufficio
della Procura della Repubblica, a pena di nullità, nelle cause riguardanti lo stato e
la capacità delle persone.
E così si afferma ad esempio che: “nel giudizio di opposizione alla dichiarazione
di fallimento, e cosi' in quello di opposizione alla dichiarazione di insolvenza
nella liquidazione coatta amministrativa, non e' obbligatorio l'intervento del
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pubblico ministero, che si verifica soltanto quando questo ravvisi nel
procedimento un pubblico interesse e l'opportunita' di intervenire per tutelarlo
specificamente (art. 70, ult. comma, cod. proc. civ.). La facolta' di chiedere il
fallimento (art. 6 legge fall.) e l'accertamento dello stato di insolvenza (art. 202
stessa legge) non costituiscono, infatti, per il pubblico ministero, esercizio di un
potere di azione, risolvendosi piuttosto in una denuncia al tribunale perche' questo
provveda di ufficio” [Cass., Sez. I, 22.1.04 n.1074].
Anche se poi nella giurisprudenza non si distingue tra status e qualità e si ricorre,
non senza ambiguità, alla categoria di status giuridico come ad esempio quando si
afferma che “in tema di iscrizione all'albo delle imprese artigiane, il decreto reso
nel procedimento contemplato dall'art. 7, ultimo comma, della legge n. 443 del
1985 è atto giurisdizionale decisorio, con natura sostanziale di sentenza, in quanto
pronuncia, con attitudine ad assumere autorità di giudicato, sullo "status"
dell'imprenditore artigiano, cui conseguono diritti ed obblighi, e, pertanto, ove
non sia altrimenti impugnabile, perché emesso dal giudice di secondo grado sul
reclamo proposto ai sensi dell'art. 739 c.p.c., può essere oggetto di ricorso per
Cassazione, per violazione di legge, a norma dell'art. 111 Cost.” [Cass. civ., Sez.I,
29/01/2003, n.1337].
Ed ancora che “ciascun partecipante ai concorsi per il pubblico impiego, al fine di
beneficiare dell'aliquota di posti riservati messi a concorso, deve provare oltre allo
stato di invalidità, anche lo stato di disoccupazione mediante produzione dei
relativi certificati entro i termini prescritti dal bando. Resta fermo peraltro che gli
inabili i quali, ancorchè idonei, disoccupati e riservatari, non siano risultati
vincitori di uno dei posti messi a concorso (ad es. perchè in sopravanzo rispetto al
limite dei posti ad essi riservati nel procedura selettiva), potranno essere
successivamente assunti dall'amministrazione, indipendentemente dal fatto che
nelle more abbiano perso lo "status" di disoccupati, ritenendo in tal caso
opportuno optare per la nuova e più favorevole offerta di lavoro” [T.A.R. Puglia
Bari, Sez.I, 22/11/2002, n.5090]; che “le quote di partecipazione ad una società a
responsabilità limitata, esprimendo una posizione contrattuale a cui fanno capo
(oltre i relativi doveri) tutti i diritti nei quali si compendia lo "status" di socio,
costituiscono beni immateriali equiparabili ai beni mobili non iscritti in pubblico
registro ai sensi dell'art. 812 c.c.; per tali ragioni, essi sono assoggettabili a
sequestro giudiziario e, tenuto conto che si tratta di un'entità dinamica di cui
assicurare una corretta ed imparziale amministrazione, è ammissibile, accanto allo
strumento della custodia, anche quello della gestione temporanea” [C. Conti
Lazio, Sez.Giurisdiz., 23/10/2002, n.2876]; che “la sussistenza dei presupposti e
delle condizioni per l'assunzione riservata con particolare riferimento al perdurare
dello "status" di invalido, vanno verificati alla stregua della classificazione fattane
dal legislatore al momento della sottoscrizione del contratto di lavoro” [T.A.R.
Puglia Bari, Sez.I, 23/07/2002, n.3522].
4.1. Anche la condizione di invalidità e di handicap sembrerebbe aver subito, nel
lessico giurisprudenziale, la trasformazione da qualità (invero negativa) in status
atto a riassumere una congerie di interessi (a conseguire prestazioni) che
l’Ordinamento giuridico ritiene meritevoli di protezione.
Lo status diviene allora formula riassuntiva di un sistema di tutela in cui si
sostanzia il riconoscimento della garanzia del valore della persona umana siccome
fondata sulla GrundNorm al di là delle strettoie patrimoniali di cui le nozioni di
capacità giuridica da un lato e di soggettività, dall’altro, appaiono quasi
irrimediabilmente intrise.
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L’affermazione dei diritti sociali ed il delinearsi di una politica di Welfare State
ha segnato, pertanto, una ricostruzione della nozione di status, i cui confini
risultano oramai allargati rispetto a quelli consegnati dalla tradizione giuridica e
che riflette infine l’esigenza di individuare strumenti utili per un esercizio
migliore e più efficiente delle libertà fondamentali ed una tutela effettiva dei
diritti sociali.
In un modello sociogiuridico di Stato sociale e quindi di Stato delle prestazioni
(Leiststungsstaat) lo status diviene status activus processualis incentrato sul
potere di attivare i procedimenti previsti dall’ordinamento a tutela ed
affermazione delle libertà sociali.
Si è affermato in particolare come “la condizione d'invalido civile e' delineata e
classificata per percentuali di minorazioni e peculiari connotazioni (riguardanti, in
particolare, la causa invalidante e la natura dell'invalidita'), in relazione alle quali
sono immediatamente configurabili corrispondenti diritti soggettivi, senza che per
alcuni di essi, come per quelli all'assunzione obbligatoria presso le p.a. e le
aziende private o per quelli ai benefici disciplinati nell'ambito della normativa del
servizio sanitario nazionale, siano previsti requisiti economici o di reddito;
pertanto, l'anzidetta condizione d'invalido civile, ancorche' non collegata alla
richiesta di attribuzione di una determinata provvidenza, può costituire oggetto
(una volta divenuti definitivi i provvedimenti amministrativi previsti dalla cit.
legge) di azione di mero accertamento, la cui ammissibilità trova fondamento
nell'interesse dell'invalido all'immediata eliminazione non altrimenti ottenibile, di
una situazione di obiettiva incertezza, a lui pregiudizievole, in ordine al grado e
alla natura della sua invalidita” [Cass., sez. lav. 6.7.98, n.6571; Cass. sez. lav.
15.7.87 n.6192].
Nei repertori di giurisprudenza, si legge anche recentemente, pertanto, come “a
seguito della distinzione delle competenze amministrative del Ministero del tesoro
e del Ministero dell'interno per l'accertamento dei requisiti sanitari e per la
concessione di provvidenze economiche agli invalidi civili, secondo la disciplina
introdotta dagli art. 3 e 6 d.P.R. n. 698 del 1994, deve ritenersi ammissibile
l'azione di mero accertamento dello stato invalidante proposta nei confronti del
Ministero del tesoro (anteriormente al trasferimento delle relative funzioni alle
regioni, ex art. 130 d.lg. n. 112 del 1998), a prescindere da qualsiasi domanda di
erogazione di una determinata prestazione, ben potendosi configurare l'interesse
ad agire in relazione ad uno "status", quale quello di invalidità totale,
potenzialmente produttivo di una serie indeterminata di diritti ricollegata
dall'ordinamento alla condizione fisica dell'invalido [Cass. civ., Sez.lav.,
22/06/2002, n.9146]
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno invero affrontato nel 2000 la
problematica in esame, osservando quanto segue: “E' talvolta avvenuto che il
soggetto privato abbia chiesto al giudice non gia' la condanna dell'ente pubblico
alla prestazione assistenziale o previdenziale bensi' soltanto l'accertamento dei
requisiti di fatto, necessari per la nascita del credito, oppure per l'iscrizione negli
elenchi per collocamento obbligatorio, ossia che abbia chiesto una sentenza di
mero accertamento.
Da tempo la dottrina processualistica pone in luce come oggetto della tutela
giudiziaria di mero accertamento, cosi' come oggetto di qualsiasi tutela giudiziaria
contenziosa, possano essere soltanto diritti, ossia situazioni giuridiche concrete
anche se future, e non meri fatti anche se giuridicamente rilevanti. Cio' perche' il
diritto di difesa della controparte, protetto dall'art. 24, secondo comma, Cost., puo'
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essere in concreto esercitato solo se il titolare sia in grado di conoscere
esattamente i punti su cui difendersi, vale a dire il bene preteso dall'attore ed il
danno che per lui, convenuto, deriverebbe dall'accoglimento della domanda. Nel
caso in cui dal medesimo fatto possa nascere una pluralita' indeterminata di effetti
giuridici, solo la precisa indicazione di questi, quali oggetto della pretesa
dell'attore, puo' permettere al convenuto l'apprestamento degli adeguati strumenti
di difesa, ne' l'accertamento del mero fatto basta a formare l'oggetto dell'azione.
La medesima dottrina riconosce pero' che la distinzione tra fatto e situazione
giuridica soggettiva puo' talvolta non essere agevole, a causa delle incertezze nella
configurazione della seconda. Cio' e' vero, ad esempio, quando l'attore affermi la
propria titolarita' non di un diritto soggettivo, assoluto o relativo, bensi' di uno
status, e ne chieda l'accertamento.
La categoria degli status e' di costruzione teorica poiche', quando la legge adopera
l'espressione "stato" (ad es. nell'art. 9, secondo comma, cod. proc. civ.), si
riferisce ad una posizione di appartenenza ad una comunita' (status civitatis, status
familiae), dalla quale nasce una serie a priori indeterminata di altre situazioni
soggettive, attive e passive. Pero' la dottrina piu' recente pone in luce come, in
seguito allo sviluppo della tutela, legislativa e amministrativa, delle categorie di
cittadini piu' deboli, debba accogliersi una piu' ampia nozione di status, inteso
come posizione soggettiva, sintesi di un insieme normativo applicabile ad una
determinata persona e rilevante per il diritto in maniera non precaria ne'
discontinua; una situazione che secondo l'apprezzamento comune distingue un
soggetto dagli altri.
Benche' questa posizione soggettiva sia caratterizzata principalmente dalla
potenzialita' ossia dall'impossibilita' di definirne a priori il contenuto, si concorda
che essa possa essere accertata in sede giudiziaria, e piu' precisamente possano
esserne accertati i fatti costitutivi, poiche' il convenuto puo' valutarne, sia pure
con approssimazione, gli effetti per lui svantaggiosi e cosi' apprestare la propria
difesa. L'interesse ad agire (art. 100 cod. proc. civ.) e' poi dato dalla contestazione
dello status da parte dix soggetto controinteressato.
7. In base a queste nozioni e per quanto attiene al diritto dell'assistenza sociale, il
regolamento ha, con le norme di cui sopra […], previsto l'azione di accertamento
dello stato di invalido civile, individuando nel Ministero del tesoro il soggetto
prima competente a verificare, ad esito di un procedimento amministrativo, i fatti
costitutivi e poi legittimato passivo in sede giudiziaria, nel caso di contestazione
della verifica negativa.
Trattasi dunque di norma regolamentare intesa alla ripartizione di competenze tra
organi dello stato ed alla conseguente attribuzione di posizioni sostanziali, e non
di norma direttamente incidente sull'ordinamento del processo civile.
Questo e' il significato da attribuire all'art. 3, comma 5, d.P.R. n. 698 del 1994
(nei procedimenti giurisdizionali concernenti gli accertamenti sanitari la
legittimazione passiva spetta al Ministero del tesoro), poi confermato dall'art. 3,
comma 3, l. n. 335 del 1995 nonche' dall'art. 37, comma 5, l. n. 448 del 1998 per
quanto concerne la verifica di persistenza dell'invalidita' civile.
Gia' con sentenza 6 luglio 1998 n. 6571 la Sezione lavoro di questa Corte giudico'
ammissibile, una volta contestata in sede amministrativa la pretesa al
riconoscimento di un certo grado di inabilita', l'azione di accertamento dello stato
di invalido civile, ancorche' la domanda non risultasse finalizzata all'attribuzione
di alcuna provvidenza specifica. La sentenza pose in luce la distinzione tra
domanda di semplice accertamento di uno status, potenzialmente produttivo di
"un ventaglio di diritti", e domanda di condanna della pubblica amministrazione
8
9
all'erogazione di un certo beneficio economico (pensione, indennita', assegno) e,
ancora, interesse alla realizzazione di altri diritti conseguenti allo stato di
invalidita' (iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio, esenzione dal
ticket sanitario, fruizione delle provvidenze per l'addestramento e la
qualificazione professionale, congedo per cure, ecc.).
Che il semplice accertamento della titolarita' di un rapporto giuridico di durata,
capace di produrre una serie non del tutto deteminabile a priori di effetti o
situazioni soggettive, possa formare oggetto di un'azione giudiziaria e' stato piu' di
recente confermato dalla Sezione lavoro di questa Corte (sent. 17 novembre 1999
n. 12778, e vedi anche Cass., sez. lav., 7 novembre 1998 n. 11250).
Diversa dall'azione di mero accertamento dello stato di invalido e' dunque l'azione
di condanna ad una provvidenza economica ad esso conseguente.
All'esito negativo del procedimento amministrativo di accertamento del requisito
sanitario (questo procedimento e' in ogni caso condizione di procedibilita' della
domanda giudiziaria, ai sensi dell'art. 443 cod. proc. civ.), l'azione di condanna
trova il contraddittore necessario nel Ministero dell'interno, ai sensi dell'art. 6,
comma 4, del d.P.R. n. 698 del 1994.
Nel processo che consegue a questa azione l'accertamento del requisito sanitario,
da compiere attraverso la consulenza tecnica di cui all'art. 445 cod. proc. civ., ha
un'efficacia soltanto incidentale e non vale a formare la cosa giudicata sullo status
di invalido. Se pero' una delle parti chieda che l'efficacia della cosa giudicata si
estenda all'accertamento sanitario (non puo' escludersi che sia la pubblica
amministrazione a chiedere l'accertamento negativo), in tal caso la questione della
sussistenza e del grado dell'invalidita' si trasforma in causa pregiudiziale, nella
quale il Ministero del tesoro dev'essere chiamato quale litisconsorte necessario
designato dalla legge.
Contro questa interpretazione della normativa vigente non valgono gli argomenti
dell'ordinanza 25 maggio 1999, resa dalla Sez. lavoro e sopra illustrata […], tutti
intesi a dimostrare la diversita' dell'azione esercitata contro il Ministero del tesoro
rispetto a quella rivolta contro il Ministero dell'interno. Diversita' che certamente
esiste - trattandosi come s'e' detto nell'un caso di azione di mero accertamento e
nell'altro caso di azione di condanna - ma che non porta a ritenere la necessita' del
previo esperimento della prima quando voglia ottenersi la sola condanna, ne'
parta, in tal caso, a vedere nel Ministero del tesoro un litisconsorte necessario.
Che poi l'azione di condanna, esercitata contro il Ministero dell'interno dopo il
compimento dell'accertamento sanitario in sede amministrativa, escluda il
procedimento amministrativo di verifica dei requisiti ulteriori, di eta', di reddito e
di non fruizione di altre prestazioni incompatibili, e' eventualita' che non lede
alcun interesse della pubblica amministrazione: la stessa ordinanza […] riconosce
che tali fatti sono facilmente accertabili, onde l'affidamento del relativo compito a
due distinte autorita' e con due distinti procedimenti, amministrativo e giudiziario,
non corrisponderebbe all'interesse di nessuno e contrasterebbe con finalita' di
semplificazione proclamata nell'art. 11, lett. a, della legge n. 537 del 1993.
La vanificazione di questa finalita' determinerebbe l'illegittimita' del regolamento
per contrasto con la legge delega, come si legge nelle due ordinanze del 16
maggio 1999 […], e quindi la sua disapplicabilita' ai sensi dell'art. 5 l. 20 marzo
1865 n. 2248, all. E.
Ma l'imposizione di due procedimenti amministrativi e due procedimenti
giudiziari all'invalido, che eserciti il diritto soggettivo avente ad oggetto una
provvidenza economica, infirmerebbe il regolamento anche di altra e piu' grave
9
10
illegittimita' giacche' sarebbe idoneo a rendere eccessivamente difficile il diritto di
difesa in giudizio, garantito dall'art. 24 Cost.
Questo articolo tutela anche la speditezza dello strumento processuale di
realizzazione delle posizioni sostanziali; come ha di recente ripetuto la Corte
costituzionale (sent. 22 ottobre 1999 n. 388), esso "implica una ragionevole durata
del processo perche' la decisione giurisdizionale alla quale e' preordinata l'azione,
promossa a tutela del diritto, assicuri l'efficace protezione di questo e, in via
definitiva, la realizzazione della giustizia".
he il cittadino inabile al lavoro o addirittura non in grado di compiere gli atti
quotidiani della vita debba procacciarsi il mantenimento e l'assistenza sociale
percorrendo due procedimenti amministrativi e due cause giudiziarie sarebbe
certamente contrario anche allo spirito dell'art. 38, primo comma, della
Costituzione.
E' possibile che col d.P.R. n. 698 del 1994 sia stato perseguito un fine, peraltro
non palesato, di migliore ordine nella complessa attivita' di amministrazione
dell'assistenza sociale: ma, come esattamente rileva la dottrina, le esigenze
organizzative della pubblica amministrazione non possono prevalere sul diritto
dell'individuo all'effettivita' della tutela giurisdizionale.
Ne' e' da trascurare l'esigenza di orientare l'interpretazione delle disposizioni,
legislative e regolamentari, verso obiettivi di economia processuale, cio' che si
traduce in economia di spesa in favore non solo dei privati ma anche della finanza
pubblica: esigenza segnalata anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
156 del 1996, nell'ultimo capoverso della parte motiva.
L'art. 130, comma 3, d.lgs. 31 marzo 1998 n. 112, qui non applicabile ratione
temporis, conferma ulteriormente l'interpretazione ora accolta. Esso infatti
riafferma il principio della separazione dei procedimenti amministrativi di
accertamento sanitario e di concessione dei benefici economici, ma precisa che
nei procedimenti giudiziari aventi ad oggetto questi ultimi solo le regioni debitrici
oppure l'ente erogatore, ossia l'INPS, debbono essere convenuti in giudizio.
8. Deve in conclusione affermarsi che nella vigenza della legge 24 dicembre 1993
n. 698 (art. 1, 3 e 6) il cittadino che, dopo avere inutilmente esperito il
procedimento amministrativo di accertamento della sua condizione di invalidita',
pretendesse in giudizio una prestazione pecuniaria di assistenza sociale, doveva
convenire soltanto il Ministero dell'interno e, in caso di accoglimento della
domanda, otteneva un accertamento soltanto incidentale dello status di invalido.
La domanda - proposta dal privato o dal Ministero - di accertamento di tale status
con efficacia di giudicato comportava invece la chiamata in giudizio del Ministero
del tesoro” [Cass. SSUU 12.7.00 n.483].
Salvo rinviare al termine di questi rapidi appunti l’esame della problematica
affrontata dalle Sezioni unite in merito alla necessità di azionare distinti giudizi
funzionali rispettivamente all’accertamento del diritto alla prestazione ed alla
consequenziale condanna al pagamento e senza valutare la possibile
qualificazione dell’azione di accertamento di status quale espressione di
un’azione costitutiva [Proto Pisani 1979, 664; cfr anche Caponi 1991, 168;
Fornaciari 1999, 65ss e 131], occorre osservare come la soluzione indicata in
merito all’ammissibilità di una mera domanda di accertamento di una condizione
di disabilità appaia affatto pacifica. Infatti, ripete altra giurisprudenza come, al di
là delle ipotesi puntualmente individuate dalla legge, le azioni di mero
accertamento (in cui l'accertamento stesso non ha valore pregiudiziale come in
tutte le altre azioni di cognizione, esaurendo semmai lo scopo del processo)
10
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possono avere ad oggetto, al pari di ogni altra forma di tutela giurisdizionale
contenziosa, soltanto i diritti e non anche i fatti, sia pure giuridicamente rilevanti.
La Corte Suprema, in una fattispecie anteriore all’entrata in vigore del d.P.R. n.
698 del 1994, ha negato l’ammissibilità di uno status di invalido ed affermato che
“l'accertamento giudiziale non puo' avere ad oggetto, salvo i casi eccezionalmente
previsti dalla legge, una mera situazione di fatto, ma solo diritti concretamente
venuti ad esistenza, nella concorrenza di tutti i loro elementi costitutivi. Ne
consegue che, in relazione a una domanda diretta al conseguimento di specifiche
prestazioni previste dalla legge a favore degli invalidi civili, il giudice, ove difetti
il necessario requisito reddituale, deve rigettare la domanda, senza poter
dichiarare la sussistenza dello stato di invalidita' in base alla sussistenza dei
relativi requisiti sanitari, anche perche' i diritti, diversi da quelli azionati,
dipendenti dalla condizione di invalido civile (quali quelli in materia di assunzioni
obbligatorie, di esenzione dalle tasse scolastiche, di congedi straordinari per cure)
presuppongono a loro volta la concorrenza di ulteriori specifici fatti costitutivi e,
comunque, il giudicato sulla sussistenza del requisito sanitario non potrebbe fare
stato nei confronti di terzi rimasti estranei al giudizio e titolari di rapporti
autonomi e distinti” [Cass., sez. lav.15.6.99, n.5973].
Ed ancora: “In materia di prestazioni per la invalidita' civile, ai sensi della nuova
disciplina di cui all'art. 130 del D.Lgs. n. 112 del 1998, che ha accentrato presso
le Regioni o l'Inps la erogazione delle pensioni, assegni e indennita' per la
invalidita', soltanto i suddetti enti, chiamati a rispondere del debito, e cioe' le
Regioni, per le provvidenze dalle stesse concesse, ovvero l'Inps, negli altri casi,
devono essere convenuti in giudizio nei procedimenti giurisdizionali di
accertamento del diritto alla prestazione per la invalidita' o di condanna (essendo
per contro inammissibile la azione di mero accertamento delle condizioni
sanitarie), e dovendosi pertanto escludere la legittimazione passiva del Ministero
dell'Interno” [ Cass., sez. lav.,24.9.02, n.13892].
Significativamente si è peraltro evidenziato come “l'azione di accertamento non
puo' avere ad oggetto, salvo i casi eccezionalmente previsti dalla legge, una mera
situazione di fatto, ma deve tendere all'accertamento di un diritto che sia gia'
sorto, in presenza di un pregiudizio attuale, e non meramente potenziale. Ne
consegue l'inammissibilita' di una domanda, sia pure formulata in via subordinata,
diretta ad un accertamento della sussistenza dei requisiti di invalidita' per il
conseguimento dell'assegno di invalidita' civile, che non sia funzionale al
contestuale riconoscimento del diritto all'assegno stesso, nella concorrenza di tutti
i relativi elementi costitutivi, tra cui quello riguardante il requisito reddituale o
economico, anche perche' i diritti di diversa natura dipendenti dalla condizione di
invalido civile (quali quelli in materia di assunzioni obbligatorie, di esenzione
dalle tasse scolastiche, di congedi straordinari per cure) presuppongono a loro
volta la concorrenza di ulteriori specifici fatti costitutivi e, comunque, il giudicato
sulla sussistenza del requisito sanitario non potrebbe fare stato nei confronti di
terzi rimasti estranei al giudizio e titolari di rapporti autonomi e distinti” [Cass.,
sez. lav., 18.6.99 n.6142]. Lì dove, evidentemente, la carenza di interesse ad agire
ex art.100 cpc è strettamente connessa con la ricostruzione della situazione di
invalidità in termini di mera situazione di fatto, e non di diritto, di per sé
insuscettibile di accertamento.
Infatti, “poiche' l'interesse ad agire di cui all'art. 100 cod. proc. civ. deve essere
attuale e il diritto all'azione ex art. 24 Costituzione ha per oggetto un diritto o un
interesse legittimo, deve escludersi l'ammissibilita' di un'azione di accertamento
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che abbia per oggetto un fatto che costituisca uno solo dei presupposti del diritto
(fattispecie relativa ad una domanda diretta all'accertamento del solo presupposto
sanitario del diritto alla rendita di passaggio ex art. 150 d.P.R. n. 1124 del 1965)”
[Cass., sez. lav. 22.6.01 n.8538].
Sicchè, deve ritenersi ad esempio “inammissibile, per difetto di interesse ad agire,
l'azione tesa ad accertare, in vista di eventuali postumi indennizzabili, il nesso di
causalità tra infortunio e prestazione di lavoro, atteso che il processo può essere
utilizzato solo a tutela di diritti sostanziali e deve concludersi (salvo casi
eccezionali) con il raggiungimento dell'effetto giuridico tipico, cioè con
l'affermazione o la negazione del diritto dedotto in giudizio, onde i fatti possono
essere accertati dal giudice solo come fondamento del diritto fatto valere in
giudizio e non di per sè e per gli effetti possibili e futuri che da tale accertamento
si vorrebbero ricavare, dovendosi rilevare che la natura lavorativa dell'infortunio
non costituisce una questione pregiudiziale al diritto alla rendita (come, ad
esempio, l'esistenza del rapporto assicurativo con un determinato soggetto, è
possibile chiedere un accertamento con efficacia di giudicato), bensì uno degli
elementi costitutivi del diritto medesimo [Cass. civ., Sez.lav., 10/07/2002,
n.10039]. Infatti, “la natura lavorativa dell'infortunio non costituisce una
questione pregiudiziale al diritto alla rendita, come tale suscettibile, a norma
dell'art. 34 cod.proc.civ., di accertamento incidentale con efficacia di giudicato
separatamente dall'esame della domanda principale, essendo invece uno degli
elementi costitutivi del diritto medesimo” [Cass., sez. Lav., 22.11.03 n.17788].
Del resto non di accertamento di uno status potrebbe comunque trattarsi:
“l'accertamento delle condizioni di invalidità o dei presupposti per l'indennità di
accompagnamento ai fini previdenziali e assistenziali che ne conseguono, non
costituisce accertamento sullo "status" della persona e cioè sulla di lei capacità di
agire, giacchè i presupposti dell'interdizione o della inabilitazione (incapacità
dell'interdicendo, per le condizioni di abituale infermità di mente - e, in minor
misura, dell'inabilitando - di provvedere ai propri interessi) sono diversi da quelli
di invalidità e di incapacità a compiere da soli gli abituali atti della vita, necessari
al riconoscimento della pensione di inabilità o dell'indennità di
accompagnamento. Ne consegue che non eccede dall'ambito delle proprie
competenze, a scapito di quelle del tribunale in sede camerale ai sensi dell'art. 712
c.p.c., il giudice che accerti le condizioni di invalidità o i presupposti per il
riconoscimento dell'indennità di accompagnamento o della pensione di inabilità”
[Cass. civ., Sez.lav., 04/04/2002, n.4834]
5.Il soggetto disabile è in quanto persona fisica titolare di situazioni giuridiche
soggettive. Tuttavia, la compressione della condizione fisica e mentale condiziona
l’esercizio di quelle situazioni sì da sollecitare una protezione focalizzata
sull’handicap ed imporre pertanto misure di tutela giuridica proporzionali al grado
di lesione della salute psicofisica del soggetto; basti pensare agli istituti codicistici
dell’interdizione e dell’inabilitazione oltre a quello dell’incapacità naturale. Si
tratta di formule di tutela in cui l’esigenza di protezione del soggetto
rispettivamente interdetto, inabilitato ovvero naturalmente incapace si
accompagnia, risultandone variamente condizionata, alla necessità di protezione
anche del terzo che con quello si debba confrontare sul piano negoziale.
Mentre la condizione di malattia ha carattere tendenzialmente temporaneo, quella
di handicap attribuisce a chi ne sia portatore la possibilità di “pretendere dalla società,
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in applicazione del principio di eguaglianza inteso come eguaglianza sostanziale, misure di
carattere permanente volte a consentire di ridurre al minimo le conseguenze negative derivanti
dalla situazione di inferiorità in cui si trova, anche qui salvo il bilanciamento del corrispondente
interesse con quelli che alla sua soddisfazione si contrappongono ” [PIZZORUSSO 1988, 134].
Che è quanto vale infine a rompere quel modello antropologico (consegnato dalla
tradizione) che riteneva l’uomo una questione oramai chiusa, preferendo ad una
polimorfa condizione umana una comoda unicità ed univocità di profili
esistenziali su cui fondare una struttura gnoseologica avente vis inglobante,
capace di legittimare un diritto indifferente alla diversità dei bisogni.
Considerazione questa da cui possono agevolmente discendere almeno tre rifiuti.
Quello ad un soggetto quale gabbia d’acciaio della civiltà e quindi misura unica
ma convenzionale del diritto cui ridurre la complessità della realtà; quello ad una
soddisfazione dei bisogni del singolo secondo schemi nutriti del formalismo delle
astrazioni giuridiche e delle leggi economiche del mercato; quello infine ad una
separazione delle forme giuridiche dal fondamento antropologico siccome
viceversa elaborata dal razionalismo occidentale [LUHMANN 1985].
Condividono questo atteggiamento ribelle all’uniformismo antico le dichiarazioni
dei diritti che nel tempo hanno rotto quella chiusa omogeneità giuridica e semmai
riproposto, anche sul piano del diritto, quella differenziazione che si era cercato di
disconoscere. E’ questa la prospettiva di cui si è nutrita l’affermazione della tutela
delle libertà individuali (libertà dalla schiavitù, libertà dal bisogno e quindi diritto
ad una vita dignitosa, diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla casa, al
riposo, al tempo libero, ad un ambiente salubre, alla riservatezza etc…), questo il
background culturale da cui si è avviato il processo di «liberazione» delle libertà
civili dalle anguste strettoie delle situazioni giuridiche soggettive [BARBERA, 65ss]
Il punto nodale è quindi il riconoscimento di una tutela che, al contempo,
sottintende il riconoscimento di una libertà e pretende l’individuazione di un
limite connesso non soltanto con la vocazione relazionale dell’interesse protetto,
ma anche con la possibilità della tecnica e con le risorse (finanziarie e naturali)
pur sempre limitate.
6. La legge 104\1992 affida al I comma dell’art.3 la definizione di “portatore di
handicap”.
“E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale,
stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione
lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.
Il successivo III comma traccia invece la nozione di handicap grave: “qualora la
minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da
rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera
individuale o in quella relazionale, la situazione assume carattere di gravità”.
Il legislatore ha costruito quelle nozioni non soltanto su un dato empirico ma
anche su un apprezzamento in chiave essenzialmente relazionale di una
condizione materiale [BREDA-SANTANERA 1995, 9]. Il legislatore abbandona
pertanto la prospettiva inappagante delle valutazioni di tipo medico\scientifico,
per introdurre una nozione impregnata di una socialità che meglio rifletta la
vocazione relazionale dell’interesse tutelato. Infatti, la nozione di handicap “means
the loss or limitation of opportunities to take part in the life of the community on an equal level
with others” [Standard Rules on the Equalization of Opportunities for Persons with
Disabilities, §18, Assemblea generale delle Nazioni Unite, risoluzione 20
dicembre 1993, n.48\96].
Che è quanto impone, allora, di individuare i confini della nozione al di là delle
coordinate medico\legali e di verificare infine se ad una nozione per tal via
allargata corrisponda una qualsiasi forma di tutela.
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Giova, allo scopo, muovere dal dato normativo. “La cura e la riabilitazione della persona
handicappata si realizzano con programmi che prevedano prestazioni sanitarie e sociali integrate
tra loro, che valorizzano le abilità di ogni persona handicappata e agiscano sulla globalità della
situazione di handicap, coinvolgendo la famiglia e la comunità ”. Così recita il I comma
dell’art.7 l. n.104\1992 che se non già consuma già lo scarto tra condizione di
invalidità e situazione invalidante, quanto meno rappresenta il presupposto
normativo per tracciare, parallelamente ad una ben nota elaborazione sociologica
[DONATI 1987, 42; BELSEY 1987, 63; SERGI-BONETTI 1988, 671], una politica
assistenziale anche a favore di chi, per lo più in conseguenza di rapporti di natura
familiare, sia chiamato a convivere con una condizione di disabilità psicofisica e
divenga pertanto parte di quella situazione globale di handicap e quindi
meritevole di beneficiare degli interventi socio\economici funzionali infine alla
cura ed alla riabilitazione del disabile. Interventi questi ultimi che non possono
prescindere dal quadro relazionale entro cui la minorazione è radicata e che si
palesa esso stesso bisognoso di sostegno e protezione da parte del sistema.
L’handicap quindi quale evento critico familiare capace di viziare anche
irreparabilmente le dinamiche endo\relazionali ed esorelazionali, ovvero di
attentare alla rete di relazioni che si consumano all’interno del circuito familiare
ed all’esterno dello stesso ovvero nel quadro del tessuto sociale entro cui quello
opera.
Si scopre così la famiglia non soltanto quale strumento di una politica di sicurezza
a favore del portatore di handicap in senso stretto, ma quale oggetto e beneficiaria
di quella politica e quindi di quella tutela, al di là dei sussidi economici (tra cui gli
assegni e le pensioni di invalidità ed inabilità, le indennità di frequenza e quelle di
accompagnamento) con cui viceversa si è ritenuto di poter soddisfare, in realtà
immiserendola, la vocazione sociale dell’assistenza siccome imposta dalla
Costituzione.
La tutela della famiglia del portatore di handicap è pertanto apprezzabile non solo
in funzione esclusiva di quest’ultimo cui occorre garantire quanto meno la
dimensione affettiva, ma quale comunità direttamente bisognevole di protezione.
Scarsa è invero l’eco nella giurisprudenza della complessità e della problematicità
della nozione di handicap siccome appena suggerita.
Giova in proposito ricordare una pronunzia, non isolata del resto, delle Sezioni
Unite della Corte Suprema del 1994 [11.10.94, n.8297, Presidente Brancaccio est.
Finocchiaro] che ha rintracciato nel contributo economico in favore delle famiglie
che assistano soggetti non autosufficienti portatori di handicap psicofisici, di cui
all'art. 26 della legge della Regione Campania 15 marzo 1984 n. 11, l’oggetto di
un’obbligazione pubblica fondata non sulla legge, ma su di un provvedimento
amministrativo di natura concessoria e quindi di carattere discrezionale, adottato
in seguito alla verifica delle condizioni e dei presupposti di fatto indicati dalla
norma e della valutazione di interessi pubblicistici comparati a quelli privati. Che
è quanto per un verso è valso a qualificare in termini di interesse legittimo la
situazione giuridica soggettiva riconoscibile al familiare destinatario del
beneficio, e per l’altro verso a rimettere la controversia instaurata contro l'unità
sanitaria locale dall’aspirante al contributo in questione alla giurisdizione di
legittimità del giudice amministrativo; potendosi viceversa configurare una
posizione di diritto soggettivo, come tale tutelabile davanti al giudice ordinario,
soltanto dopo l'emanazione del provvedimento predetto, e quindi solo dopo il
riconoscimento del diritto alla percezione del contributo anche nella sua totale
estensione quantitativa e nella sua esigibilità.
D’altra parte, la giurisprudenza ha offerto spunti di riflessione utili ad apprezzare
il ruolo della famiglia nelle dinamiche processuali connesse alla tutela della
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condizione di debolezza psichica e fisica della persona. Si è, infatti, affrontato il
problema della legittimazione ad esercitare un’azione funzionale alla tutela del
soggetto svantaggiato; tematica questa che attiene non solo alla sfera processuale,
ma anche a quella sostanziale del diritto. A lungo, infatti, si è ritenuto che la tutela
processuale civile, sia essa risarcitoria oppure inibitoria, come quella penale
ovvero amministrativa sottintenda l’esistenza di un interesse del singolo titolare di
una posizione sostanziale individuale e differenziata (si tratti poi di un diritto
soggettivo ovvero di un interesse legittimo). Un siffatto presupposto giuridico,
invero, è proponibile solo in relazione ai diritti patrimoniali e non ai diritti
fondamentali non patrimoniali in relazione a cui appare irrilevante l’emergenza di
un esclusivo legame tra bene e soggetto; il che tuttavia non compromette la
possibilità di ravvisare una situazione giuridica soggettiva di vantaggio attiva.
Risale, infatti, agli anni ’80 una pronunzia della Pretura romana [4.6.80, G.C.
1980, I, 1990] che, appunto sulla scorta di detto rilievo, ha ritenuto possibile
l’attribuzione di un diritto soggettivo alla categoria dei portatori di handicap che
in quel giudizio lamentavano come il comune di Roma non avesse predisposto
mezzi idonei a consentire loro di accedere alla metropolitana siccome previsto
dagli art.27 l.118 del 1971 e 19 DPR 383 del 1978.
Soluzione questa che , con gli opportuni adattamenti, potrebbe riproporsi in
relazione ad un soggetto non individuale e tuttavia dotato di una propria
soggettività (non meramente accidentale quand’anche priva di personalità
giuridica) qual è la famiglia cui infine riconoscere una situazione giuridica
soggettiva tutelabile e quindi una legittimazione ad agire. Soluzione questa che
sottintende, a ben vedere, una rivisitazione degli istituti propri del nostro sistema
processuale e che parrebbero ostacolare irrimediabilmente una siffatta
legittimazione: limiti soggettivi del giudicato (art.2909 c.c), rappresentanza e
sostituzione processuale (art. 81 cpc); integrità del contraddittorio ( artt.101 e 102
cpc).
7. Si tratta, del resto, di distinguere il ruolo del familiare a seconda che sia
soggetto agente di quella tutela a favore del portatore di handicap oppure mero
destinatario di una politica assistenziale.
Nel primo caso si pone non soltanto il problema di inquadrare giuridicamente gli
accordi conclusi dai componenti il nucleo familiare in funzione di una tutela
endo- oppure eso- familiare, ma anche quello di rivisitare il ruolo delle formazioni
sociali nel quadro di una politica di protezione del singolo individuo.
Del primo e del terzo dei nodi problematici suggeriti, giova subito trattare.
In relazione all’assistenza prestata direttamente dalla famiglia, giova sottolineare
come il ricorso all’accordo, benchè il codice civile sembrerebbe imporlo soltanto
in funzione della determinazione dell’indirizzo della vita familiare e della scelta
della residenza, rappresenti il normale modello operativo in relazione a tutto
quanto assuma rilevanza particolare nello svolgimento della dinamica familiare,
ivi compresa l’individuazione del quomodo dell’assistenza a favore di uno dei
componenti il nucleo familiare. In materia è nota la querelle in ordine alla natura
negoziale di siffatti accordi. Accanto a chi vi ravvisa, apprezzando la portata
specificativa del contenuto degli obblighi legali di assistenza, esempi di negozi di
accertamento, vi è chi, viceversa, denunzia l’incompatibilità della portata
vincolante del negozio rispetto ad un regime familiare improntato alla libertà dei
coniugi ed alla incoercibilità dell’azione dell’uno ad opera dell’altro; apparendo
poco coerente “configurare l’accordo fra i coniugi come materia di un vero e proprio obbligo
giuridico, che incombe su ciascuno di essi ed è sanzionabile in caso di inadempimento ”[ROPPO
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1988, 6] e lamentando l’incompatibilità dell’opzione negoziale rispetto alla spirito
del nuovo diritto di famiglia. “Quelle tesi infatti, mirando ad «attribuire a tali accordi portata
vincolante e coercibilità diretta», appaiono incompatibili con la logica della riforma, che preferisce
investire i coniugi del «nuovo e più arduo compito … di rinnovare continuamente le ragioni della
convivenza attraverso una determinazione comune delle sue caratteristiche e modalità»”
[ROPPO 1988, 6].
La tematica, invece, relativa al ruolo della famiglia e delle formazioni sociali in
genere, nel quadro della politica di assistenza, sottintende una più ampia
prospettiva di analisi, rispetto a quella finora adottata e di cui pare opportuno dare
a questo punto contezza.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nel testo approvato dal
Consiglio europeo di Nizza nelle sedute del 7, 8 e 9 dicembre 2000, prevede al
secondo capoverso dell’art.34, quale strumento idoneo a contrastare il fenomeno
dell’emarginazione sociale e della povertà, il diritto all’assistenza sociale ed
all’assistenza abitativa. La Corte sollecita all’uopo interventi funzionali a
garantire un’esistenza dignitosa a quanti non dispongano di risorse sufficienti,
secondo modalità stabilite dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi
nazionali.
Significative appaiono del resto alcune norme della naufragata Costituzione
europea che, “vietata qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, sul sesso,
la razza, il colore della pella o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche
genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o
di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale” [art.II-81] e
precisato che “l’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità
di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e
professionale e la partecipazione alla vita della comunità” [art.II-86] prevede
all’art.II-93, [dettato in tema di vita familiare e vita professionale], I comma, che:
“è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”
ed al successiva art.II-94 [in materia di sicurezza sociale ed assistenza sociale] al
II cpv, che “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione
riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a
garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse
sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e
prassi nazionali”.
Sull’orizzonte europeo si profila pertanto una politica improntata a solidarietà
anche attraverso l’assistenza abitativa, e conseguentemente il riconoscimento di
uno stretto ed irrinunziabile legame tra tutela del singolo e quella della famiglia
sicché il rispetto della dignità del singolo passa anche attraverso la tutela della
famiglia.
Se questa costituisce la premessa, agevole appare uno sviluppo logico nel senso di
affermare la necessità di interventi funzionali anche al mantenimento del soggetto
all’interno della propria famiglia, apprezzata non solo quale rete parentale, ma
piuttosto quale centro di una trama di relazioni intersoggettive di natura
spiccatamente affettiva.
Del resto, siffatta soluzione è avallata da quella produzione normativa cheorientata dalla Costituzione, ha riconosciuto una funzione assistenziale
privilegiata al modello familiare. Giova, in proposito, una rapida ricognizione:
dlgs 28 luglio 1989 n.272 relativo alle “norme di attuazione sul decreto del
Presidente della Repubblica sui procedimenti penali per i minori”; l.5 giugno
1990 n.135 in tema di “programma di interventi urgenti per la prevenzione e la
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lotta contro l’AIDS” [BRUSCUGLIA 1997, ed in particolare GIAQUINTO,
1997, 9ss e OLETTO, 1997, 13ss]; dPR del 9 ottobre 1990 n.309 ovvero il “testo
unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”; l.19
luglio 1991 n.216, sui “primi interventi a favore dei minori soggetti a rischio di
coinvolgimento in attività criminose”; l.28.8.97 n.285 (“Disposizioni per la
promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”).
Tuttavia, al di là delle affermazioni di principio, il ruolo della famiglia nel quadro
della politica sociale appare ancora ambiguo tant’è che il rapporto tra prestazione
pubblica di assistenza ed obbligazione alimentare sembra strutturato non su di un
rapporto di mera sussidiarietà della prima rispetto alla seconda ma viceversa, o
quanto meno in termini di “reciproca autonomia e indipendenza dei due sistemi che, per
presupposti, caratteri, finalità, si muovono su piani del tutto distinti, senza possibilità di confusioni
e commistioni; ma non per questo si potrebbe sostenere, magari fondandosi sul processo di
contrazione e <<nuclearizzazione>> della famiglia, la necessità di un superamento
dell’obbligazione alimentare, considerata nulla più di un arcaico residuo del passato. Si è visto che
il nostro ordinamento, anche al di là del sistema alimentare, pur necessariamente privilegiando la
famiglia composta da genitori e figli, non esclude, per taluni fini e particolari situazioni, la
rilevanza di una famiglia più estesa. D’altra parte, anche in un perfezionatissimo sistema di
sicurezza sociale- e, nonostante i profondi mutamenti degli ultimi decenni, non si può certo dire
che sia tale quello del nostro paese, senza contare l’incidenza di atteggiamenti neoliberistici,
periodicamente ricorrenti, volti al ridimensionamento e alla riduzione del sistema stesso- l’obbligo
alimentare conserverebbe la sua rilevanza. Guai a riporre ogni fiducia soltanto nello Stato, per la
soddisfazione dei bisogni di tutti i cittadini (e un drammatico riscontro si rinviene nel crollo,
apparentemente improvviso, di regimi, che erano stati costruiti e si erano sviluppati su questa
convinzione)” [DOGLIOTTI - GIORGIANNI, 1996, 369s].
8. E’ possibile del resto che l’assistenza familiare sia prestata in forma mediata
attraverso strutture pubbliche.
Il rifiuto del contratto nella dimensione familiare, allorché la prestazione di
assistenza rintracci creditore e debitore in soggetti naturalmente radicati
nell’orizzonte della solidarietà endofamiliare non è di per sé proponibile quando
la prestazione suddetta debba essere fornita da soggetti estranei a quel nucleo,
benché a ciò tenuto per legge. La letteratura scientifica ha in proposito coniato
l’espressione “negozio assistenziale” atta a contrassegnare quello strumento
utilizzato dalle famiglie nello svolgimento del proprio ruolo di protezione del
familiare svantaggiato, sia pure spesso immiserito riducendolo ad una mera
partecipazione (totale o parziale) ai costi relativi all’assistenza prestata in strutture
pubbliche realizzate ad hoc e finanziate appunto tramite questi canali.
Infatti non è affatto occasionale da parte degli istituti di assistenza pubblica la
richiesta ai parenti di un contributo “per il pagamento delle rette relative al ricoverato. In
realtà la prassi sarebbe stata illegittima perfino quando era operante la […] l. n. 1580 del 1931, che
si riferiva a manicomi ed ospedali, e non era certo suscettibile di interpretazione estensiva; a
maggior ragione oggi con l’abrogazione implicita di tale disciplina. E la prassi diventa ancor più
intollerabile, quando la richiesta di contributo si rivolge ai parenti di soggetti cronici non
autosufficienti, i quali sono sicuramente <<malati>> (la malattia non è certo tale solo nella fase
acuta), avrebbero diritto a prestazioni sanitarie, e invece, dopo dimissioni spesso precipitose dagli
ospedali, sono rifiutati dal servizio sanitario, e ricevono (dopo l’effettuazione di indagini sociali,
che spesso comportano notevoli discriminazioni tra assistito e assistito) prestazioni insufficienti da
strutture (case protette, cronicari) appartenenti al sistema assistenziale (strutture per la cui
esistenza la legge non definisce standard minimi, con un personale per il quale non si prevedono
abilitazioni o titoli specifici né un preciso mansionario)” [DOGLIOTTI - GIORGIANNI,
1996, 368s].
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Soluzione operativa questa che sembra sottintendere l’emergenza di una norma –
invero inesistente- di rivalsa verso i parenti, tale da legittimare una sostituzione
processuale dell’assistito da parte degli enti erogatori.
La scelta del legislatore di non prevedere alcun diritto di rivalsa è tuttavia
vanificata dall’opzione negoziale. Infatti, gli istituti spesso procedono alla stipula
di un contratto con il parente, sicché “la facoltà di ottenere il pagamento trova la sua fonte
nel contratto, e non già nell’obbligo alimentare del parente: non rileva minimamente la qualità di
figlio, fratello, ecc. dell’assistito; anche un estraneo potrebbe impegnarsi al pagamento ”
[DOGLIOTTI - GIORGIANNI 1996, 369].
Contratto la cui validità appare invero incerta potendosi ipotizzare il vizio di
violenza (qualora l’ente abbia condizionato il ricovero alla prestazione economica
del parente).
Salvo poi recuperare il contratto de quo allo schema di quello a favore di terzo: “e
si dovrebbe allora precisare che, ai sensi dell’art.1411 c.c., lo stipulante avrebbe sempre facoltà di
revoca finché il terzo non avesse dichiarato di accettare la prestazione. Ma sembra decisiva, per
sostenere l’invalidità della convenzione, l’osservazione che la prestazione è dovuta, in virtù di un
obbligo istituzionale dello Stato, e non può trovare la sua fonte in un accordo jure privatorum”.
[DOGLIOTTI - GIORGIANNI 1996, 369].
9.Il riconoscimento di un ruolo primario della famiglia nel quadro della politica
assistenziale dei soggetti disagiati si riflette nell’attribuzione a ciascun familiare,
di un interesse a stipulare convenzioni funzionali a predisporre forme di
assistenza a favore del portatore di handicap.
Che è quanto vale infine a risolvere una volta per tutte (sempre che si rintraccino
profili patrimoniali utili a recuperare il negozio assistenziale alla categoria
contrattuale, sia pure nell’ambito dell’art.1322 c.c.) la questione relativa alla
meritevolezza che quest’ultima norma pone in quanto prevede la possibile
conclusione di contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina
particolare, purché funzionali a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico.
Atipicità che, del resto, non preclude aprioristicamente la possibilità di siffatti
negozi non apparendo la materia negoziale di per sè inconciliabile con il diritto di
famiglia e quindi con le posizioni giuridiche che coinvolgono diritti fondamentali
dell’individuo.
“Il principio di tipicità non rappresenta un limite generale alla esplicazione dell’autonomia privata
familiare, ma un limite relativo ad alcune categorie di atti: quelli attributivi di status e le
convenzioni matrimoniali … Per tutti gli altri accordi, invece, vale la regola generale
dell’autonomia privata e conseguentemente si dovrebbe ritenere operante la norma di cui all’art.
13222 c.c.” [COSTANZA, 1981, 55 ss.].
Invero, sottintesa la meritevolezza degli interessi perseguiti mediante una siffatto
esercizio dell’autonomia delle parti, diviene al tempo stesso meno problematica la
questione relativa alla eventuale atipicità del contratto stipulato dal familiare in
funzione del perseguimento di quell’interesse. Semmai si impone solo il problema
relativo all’individuazione della disciplina applicabile; problema che si traduce,
alla fin fine, nella costrizione di una ipotetica atipicità negoziale in un peraltro
diffuso meccanismo di trasformazione del contratto atipico in prassi e quindi in
norma [ROPPO 2001, 1085].
Giova a questo punto tracciare una distinzione a seconda che la prestazione
assistenziale sia resa da soggetti pubblici verso la corresponsione di un contributo
indennitario oppure da terzi (sia pure enti pubblici economici, esercitanti quindi
attività di tipo imprenditoriale) verso pagamento di un corrispettivo.
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Nel primo caso, difficilmente è dato rintracciare un contratto mancando il
requisito della corrispettività di attribuzioni patrimoniali, rintracciandosi solo una
prestazione di un servizio pubblico da parte dell’ordinamento a favore di soggetti
privati normalmente selezionati in base a determinate condizioni economiche e
sociali, salvo come si è detto ravvisare un contratto a favore di terzi.
Quando l’assistenza, invece, si svolge nella dimensione privatistica di un rapporto
tra la famiglia e terzi, rectius soggetti privati, il discorso è destinato
inevitabilmente a complicarsi, nella misura in cui suggerisce percorsi normativi in
bilico tra tipicità ed atipicità negoziale e sollecita comunque raffronti tra la
tradizione giuridica italiana e quella di alcune esperienze europee [ZANA 2000].
Inevitabile sembra allora il confronto con gli schemi contrattuali elaborati dal
legislatore ed in particolare con la rendita vitalizia.
Il codice del 1942, è noto, traccia la disciplina della rendita vitalizia e di quella
perpetua.
La prima, differentemente dalla seconda, si colloca nella categoria dei negozi
aleatori e manifesta una significativa vitalità in quanto capace di assicurare ad un
soggetto, per la durata della sua vita, la disponibilità di prestazioni economiche
necessarie anche ad una sopravvivenza dignitosa. Si tratta di una figura
contrattuale tipica nonostante l’assenza di una qualsiasi definizione normativa; il
che testimonia non un assenza di causa, quanto piuttosto una significativa
elasticità causale del paradigma contrattuale peraltro sollecitata dalle inevitabili
commistioni tra i profili causali delle possibili fonti (onerose e non) del negozio e
che possono rintracciarsi sia in leggi dettate in materia assistenziale che in
contratti a titolo oneroso (il che avviene quando il vitaliziato alieni un bene -sia
esso mobile o immobile- ovvero ceda un capitale quale corrispettivo della
prestazione del vitalizzante) oppure a titolo gratuito (per donazione o per
testamento), nel contratto a favore di terzo, nel contratto di assicurazione, nella
promessa al pubblico, nel contratto di divisione, nella sentenza con cui si
liquidino i danni permanenti della persona (art.2057 c.c.), nelle prescrizioni
normative dettate in tema di diritto di famiglia, come nel caso di assegno
successorio a favore dei figli naturali non riconoscibili (artt.580 e 594 c.c.) ed al
coniuge superstite già separato dal de cuius con addebito (548, cpv, c.c.), ma
anche negli interventi legislativi a favore del divorziato, nella misura in cui si
protragga per tutta la vita il relativo bisogno (art. 7 bis L.D.).
Giova, peraltro, a questo punto ricordare come la legge di conversione n.51\2006
del d.l. 273\2005 abbia introdotto nel codice civile l’art.2645 ter (dettato in
materia di trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi
meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni,
o ad altri enti o persone fisiche) in base a cui “gli atti in forma pubblica con cui
beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un
periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica
beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone
con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai
sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di
rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali
interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita
del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo
per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di
esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per
debiti contratti per tale scopo”.
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Tuttavia, la materia parrebbe prestarsi ad un approccio capace di individuare una
categoria unitaria a dispetto dell’intersecazione di più fattispecie tipiche; ovvero
quella del contratto di assistenza alla persona di cui occorre valutare l’atipicità
oppure il possibile recupero ad un tipo legale in considerazione delle prestazioni
dedotte, del rapporto giuridico voluto dalle parti, della natura onerosa, gratuita se
non espressione di una liberalità, aleatoria, … del regolamento. Analisi questa che
risulta però complicata dal rilievo del condizionamento del processo di
qualificazione negoziale, che pur ne dovrebbe essere sottratto, alla volontà delle
parti; infatti, la volontà del contenuto negoziale è destinata a vincolare il processo
di qualificazione negoziale allorquando, nel difetto di elementi tipizzanti
significativi, si debba ricorrere a criteri soggettivistici di matrice psicologica.
Appare comunque necessario preliminarmente tracciare una definizione della
nozione di assistenza.
10. Nella letteratura, la complessità semantica della nozione di assistenza è risolta
nello schema bipolare che contrappone una prestazione spirituale ed una
materiale, lì dove con la prima si contrassegnano gli interventi che perseguono il
soddisfacimento dei bisogni psicologici dell’individuo attraverso il sostegno
appunto morale del soggetto disagiato e l’offerta di compagnia e che pertanto si
segnalano quali prestazioni infungibili dal punto di vista soggettivo. Invece,
l’assistenza materiale soddisfa le esigenze materiali dell’individuo attraverso
prestazioni per lo più soggettivamente fungibili attenendo all’offerta di alloggio,
di vitto, del vestiario e così via.
Queste prestazioni (peraltro di norma offerte parallelamente e non singolarmente,
essendo strettamente connesse) rappresentano una forma di aiuto per il soggetto
debole affinché possa superare o quanto meno meglio sopportare momenti di
disagio determinati dalla sua condizione di debolezza e ad entrambe deve essere
riconosciuto pari rilievo, tant’è che si è affermato che la tutela della salute
psichica deve essere di grado pari a quella fisica [ C. Cost. 29/04/1999,n.167
Presidente Granata, estensore Marini]. Peraltro, appare alquanto improbabile che
le parti di un ipotetico contratto di assistenza enumerino, analiticamente, le
singole prestazioni, piuttosto che richiamare genericamente la nozione di
assistenza, al massimo aggettivandola quale materiale o morale. Il che non vale
certamente a viziare la validità del contratto ex art.1346 c.c.. Peraltro, ad una
possibile elencazione puntuale si potrebbe, sulla scorta di un processo
ermeneutico condotto anche alla luce dell’art.1366 c.c., pur sempre attribuire una
valenza meramente esemplificativa.
Il rinvio in materia all’opzione contrattuale rappresenta, a dispetto dell’istintiva
irriducibilità nella logica del rapporto giuridico patrimoniale di una relazione
assistenziale, il riflesso della apparentemente inevitabile collocazione del
fenomeno dell’assistenza, una volta che risultino abbandonati gli schemi
assistenziali di cui si nutre la fitta trama delle reti informali, nella prospettiva
dello scambio di attribuzioni patrimoniali tra soggetto bisognoso (ovvero altri a
quello legati, ad esempio, in virtù di rapporti di parentela o affinità) e soggetto
privato (persona fisica e comunque soggetto di diritto, che eserciti
professionalmente prestazioni recuperabili nel quadro dell’assistenza).
Siffatta angolazione di analisi, d’altra parte, riflette il modello giuridico del
capitalismo occidentale capace di tradurre gli interessi, le aspettative ed i sacrifici
necessari alla loro realizzazione nella logica imprenditoriale del profitto e quindi
in quella giuridica del rapporto patrimoniale.
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21
Scelta la dimensione contrattuale, si impone poi il confronto con i tipi disciplinati
dal codice; confronto che corre sul filo del compromesso, rectius che rischia la
compressione della volontà privata: nota è la tendenza della giurisprudenza a
ridimensionare la portata dell’art.1322 c.c. in virtù del diffuso rifiuto dell’idea di
una funzionalizzazione del contratto privato, preferendosi nelle sentenze limitarsi
a cogliere il dato formale del rispetto di norme inderogabili e dei principi di
ordine pubblico e di buon costume, in modo tale da semplificare infine discorso e
soluzioni. Invero, “sarebbe il principio di solidarietà economica e sociale, il principio
costituzionale alla stregua del quale dovrebbe valutarsi l’atipicità e prima ancora l’ammissibilità di
un contratto atipico.
Sono discorsi che aggiungono poco ad una considerazione quale si vede condotta dai giudici: essi
non scendono a comparare gli interessi concreti perseguiti dalle parti con l’intero quadro degli
interessi garantiti o promossi o favoriti dal sistema. Quando ricercano indici «sociali» di
valutazione dell’esercizio dell’autonomia privata, generalmente non scendono su terreni difficili
da percorrere, come sarebbe l’esigenza della produttività o della solidarietà economico-sociale,
poiché rifuggono, ragionevolmente, dall’idea di una «funzionalizzazione» del contratto privato, da
piegare a scopi di generale utilità”[RESCIGNO 1991, 9].
L’abbandono dello schema contrattuale in materia di assistenza a soggetti deboli
si traduce, piuttosto che nella constatazione di un’esperienza, nella indicazione di
una prospettiva auspicabile nell’ottica costituzionale dei principi di solidarietà.
11. Rimane comunque l’insoddisfazione per un recupero della categoria
contrattuale in una materia in cui l’autonomia privata interseca profili patrimoniali
con quelli contrassegnati da una spiccata personalità e che dovrebbero ritenersi
prevalenti non fosse altro in virtù di un apprezzamento qualitativo degli interessi
in gioco.
Che è quanto vale a sollecitare il giurista ad un compromesso terminologico
capace di esaltare il profilo personale su quello patrimoniale, salvo poi comunque
verificare entro che limiti si debba conseguentemente affermare l’impossibilità di
recuperare (parzialmente ovvero in toto) la disciplina contrattuale, e quindi la
reale portata normativa di una siffatta opzione terminologica.
Ebbene, la nozione di accordo assistenziale sembra, in effetti, rappresentare la
formula capace di individuare quegli strumenti negoziali atipici con cui è
assicurato a soggetti deboli assistenza non soltanto materiale e sanitaria, ma anche
psicologica a fronte di una prestazione economica che non rappresenta il
corrispettivo dell’assistenza offerta, ma soltanto un indennizzo delle spese
sostenute. Il che fa saltare il modello sinallagmatico, incrinandosi il rapporto di
proporzionalità tra prestazioni che comunque la disciplina del contratto (non
determinato da liberalità di un soggetto nei confronti di un altro) sottintende.
In proposito significative sono state alcune iniziative parlamentari ed in
particolare la formulazione del testo proposto dalla II Commissione permanente
(Giustizia) per i disegni di legge; testo comunicato alla Presidenza del Senato il
15 novembre 2000, nel corso della XIII legislatura ed intitolato “Introduzione nel
libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I relativo all’istituzione
dell’amministrazione di sostegno. Modifica degli articoli 414, 417, 418, 424, 427
e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione”.
Siffatto testo rappresenta un momento di sintesi rispetto a tre disegni di legge e
cioè quello relativo alle “Norme per la tutela delle persone fisicamente o
psichicamente non autosufficienti e per l’istituzione dell’amministratore di
sostegno a favore delle persone impossibilitate a provvedere alla cura dei propri
interessi” presentato alla Presidenza il 17.1.97 [A.C. 1968]; quello (“Istituzione
dell’amministratore di sostegno e degli uffici pubblici di tutela”) presentato alla
Presidenza il 30.7.98 [A.C. 3491]; ed infine il disegno di legge presentato alla
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22
Presidenza della Camera dei deputati in data 26.10.99, concernente “Disposizioni
in materia di funzioni del giudice tutelare e dell’amministratore di sostegno”.
L’iniziativa legislativa mirava, è noto, ad intervenire a favore di soggetti in tutto o
in parte privi di autonomia nell’espletamento delle funzioni di vita quotidiana,
attraverso interventi di supporto temporaneo o permanente nella sfera individuale
ed in quella di relazione, capaci di assicurare la migliore tutela della qualità della
vita, della dignità, dei bisogni e degli interessi dei soggetti de quibus. Tuttavia il
testo unificato non ha recuperato tutte le soluzioni elaborate dai singoli disegni di
legge.
Ebbene, il capo II del disegno di legge nr.1968 era dettato in tema di “accordo di
affidamento a favore di persone non autosufficienti” e riconosceva la possibilità
di stipulare siffatti accordi ai “soggetti interessati”; nozione questa che, al di là
della formulazione genericamente onnicomprensiva, in effetti si scompone,
secondo un ordine progressivo, nell’elencazione di determinate categorie:
ciascuno dei genitori, anche adottivi o affidatari, parenti entro il quarto grado,
affini entro il terzo grado, sindaco del comune di abituale dimora della persona
non autosufficiente, tutore o curatore. L’interlocutore negoziale di siffatti soggetti
era, a sua volta, individuato in persone singole o famiglie (possibilmente scelte
dai genitori tra chi conosce la persona non autosufficiente), in comunità gestite da
associazioni di volontariato, di mutuo aiuto, cooperative sociali, fondazioni e
istituzioni pubbliche di assistenza o beneficenza (che, di preferenza, si trovino
nell’ambito della comunità locale di abituale dimora della persona non
autosufficiente e purché le stesse non abbiano più di altre cinque persone ospiti
nello stesso luogo), nei servizi sociali di comuni o di unità sanitarie locali. Il
profilo di maggior interesse di questa disciplina va rintracciato nella sottrazione
(soltanto abbozzata, in quanto non mancano richiami alla disciplina codicistica
anche dei contratti) di siffatte convenzioni allo schema patrimoniale della
dimensione contrattuale per costituire piuttosto formula giuridica della solidarietà
sociale, con consequenziale spostamento della linea di demarcazione tra pubblico
e privato.
L’affidatario, nel quadro di detta disciplina, è chiamato all’assistenza ed al
mantenimento della persona non autosufficiente, e comunque a prestazioni da
eseguirsi possibilmente nel corso di una coabitazione oltre al compimento di atti
di amministrazione ordinaria dei beni della persona non autosufficiente se
all’uopo delegato dall’amministratore di sostegno. Inoltre, l’affidatario dovrebbe
presentare un rendiconto annuale al giudice tutelare circa l’andamento
dell’esecuzione dell’accordo e della qualità dei risultati dell’affidamento e
dell’amministrazione dei beni se tenuto alla stessa. D’altra parte, il soggetto
affidante dovrebbe stipulare, nei limiti delle proprie possibilità economiche
accertate dal giudice tutelare, un contratto con enti assicurativi o mutualistici,
funzionale alla costituzione di una rendita per sostenere in tutto ovvero in parte, i
costi necessari all’attività assistenziale dell’affidatario oltre che alla funzione di
amministratore di sostegno; mentre la retta, che la pubblica amministrazione
dovrebbe corrispondere in caso di ricovero della persona non autosufficiente in
istituto, andrebbe versata agli affidatari per il 75% del suo ammontare.
12. Le coordinate dell’assistenza a soggetti deboli devono essere individuate nella
geografia della prestazione e nei soggetti comunque coinvolti. Infatti, accanto
all’assistenza incardinata nelle dinamiche familiari in virtù del precetto
costituzionale di solidarietà endofamiliare, vi è quella, come si è già anticipato, di
matrice esofamiliare.
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La materia della solidarietà è infatti lo spazio privilegiato di azione delle reti
informali attraverso cui il principio della solidarietà intersoggettiva trova
attuazione.
Vale in proposito ricordare la la legge quadro dell’11 agosto del 1991 n. 266 che
disciplina il volontariato ed introduce la prima definizione di lavoro gratuito
risolvendo un nodo problematico della letteratura giuslavoristica che registrava lo
scontro tra la dottrina che negava la dignità a detto istituto e l’atteggiamento per
lo più favorevole della giurisprudenza maggioritaria cui tuttavia la prima
rimproverava l’incontrollato ossequio al dogma della volontà e l’ispirazione
“dunque ad una concezione che, di già superata almeno per la sua più rigorosa formulazione
rispetto alla teoria del negozio, appare addirittura anacronistica, se la si commisura ai principî che
costituiscono il fondamento e la stessa ragione di esistere del diritto del lavoro ”
[SCOGNAMIGLIO, 1960, 606].
Ebbene, la legge suddetta all’art.2, traccia una definizione di volontariato,
evidenziando come attività di volontariato sia quella prestata in modo personale,
spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza
fini di lucro, anche indiretto, ed esclusivamente per fini di solidarietà.
L’attività del volontario è pertanto incompatibile con qualsiasi forma di
retribuzione, potendo al più consentire un rimborso, ma corrisposto non dal
beneficiario, ma dall’organizzazione di appartenenza, per le spese effettivamente
sostenute e comunque soltanto entro limiti preventivamente individuati dalle
stesse organizzazioni.
Solo in relazione all’attività svolta con funzione lucrativa è dato poi proprorre la
ulteriore distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, ma non in
relazione all’attività di volontariato; d’altra parte la assenza di detta funzione non
implica quella circa la rilevanza patrimoniale dell’attività svolta dal volontario,
costituendo solo la spia del rifiuto già sul piano strutturale a detto rilievo di un
qualsiasi ruolo nello svolgimento del rapporto e comunque nella nascita dello
stesso.
Pertanto, l’attività del volontario appare non inquadrabile in alcuna forma di
rapporto di lavoro subordinato ovvero autonomo e comunque entro qualsiasi altro
rapporto a contenuto patrimoniale tenuto con l’organizzazione di appartenenza.
Sembra piuttosto che la prestazione lavorativa del volontario rifiuti il contratto
quale sua fonte.
Non è mancato chi tuttavia ha rintracciato un rapporto sinallagmatico tra
prestazione lavorativa e realizzazione della finalità solidaristica, individuandone
poi la fonte nell’adesione del volontario all’organizzazione tramite il contratto di
adesione, oppure in virtù di un contratto atipico [OLIVELLI, 1991, 203ss].
In proposito occorre però osservare come la natura solidale che anima l’attività
del volontario come quella del familiare del soggetto debole consenta il recupero
dell’una e dell’altra “prestazione” ad un unico modello di intervento assistenziale,
essendo entrambe, al di là della matrice endofamiliare o esofamiliare, espressione
di partecipazione, solidarietà e pluralismo.
Che è quanto poi induce a preferire la soluzione non contrattuale e quindi rende
possibile il recupero degli strumenti di analisi propri della disciplina del settore
del diritto di famiglia a quella dell’altro e viceversa.
13. La pretesa del diritto giuridicizzare ogni manifestazione umana, quand’anche
fondata sui credi religiosi ha posto infine un problema di qualificazione delle
attività prestate da religiosi a favore di soggetti (persone fisiche o giuridiche)
laiche.
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Ci si è interrogati circa la possibilità di un relativo recupero nel quadro dei
rapporti di lavoro subordinato, con riflessa tutela previdenziale. Soluzione quella
che si è ritenuta possibile ogni qualvolta risulti pattuito un compenso determinato
e periodico, quand’anche rappresentato dalla fruizione di vitto e di alloggio a
carico dell’assistito, integrato dalla prestazione di una limitata somma di denaro;
ma non quando l’attività, quand’anche non di natura assistenziale, sia svolta alle
dipendenze della congregazione di appartenenza.
Vale ricordare una lontana pronunzia della Corte Suprema che, con sentenza
dell’8 gennaio 1991, n.69 ha ritenuto che l’attività didattica prestata dal religioso
nell'ambito della propria congregazione e quale componente di essa, secondo i
voti pronunciati, non costituisca prestazione di attività lavorativa ex art. 2094 cod.
civ., soggetta alle leggi dello Stato italiano, ma soltanto opera di
evangelizzazione, funzionale all’attuazione dei fini della congregazione stessa, sì
da essere conseguentemente disciplinata, in forma esclusiva, dal diritto canonico.
Il che troverebbe riscontro nel combinato disposto tra gli artt. 1 e 2 della legge 27
maggio 1929 n. 810 e l’art. 2 dell'Accordo del 18 novembre 1984 fra l'Italia e la
S. Sede, ratificato con legge 25 marzo 1985 n. 121, nonché nel disposto dell'art. 7
della Costituzione. Sicchè, una volta negata l’emergenza di un rapporto di lavoro
subordinato, né il religioso potrebbe domandare emolumenti che individuino il
proprio elemento causale in una allegata prestazione lavorativa; né quella attività
potrebbe fondare un rapporto previdenziale. Né varebbe a coonestare una diversa
soluzione l’affermazione della sentenza della Corte Costituzionale (la n. 108 del
1977), circa l’illegittimità della legge 3 maggio 1956 n. 392 nella sola parte in cui
escludeva l'obbligatorietà della tutela previdenziale per l'attività prestata dal
religioso alle dipendenze di terzi. Ciò perché è, appunto, il rapporto di
subordinazione (utile ai fini di una ricostruzione della fattispecie de qua nel
quadro tracciato dall’art.2094 c.c.) a non emergere piuttosto che una relazione di
obbedienza che si nutre di profili squisitamente morali e religiosi con insofferenza
ad alcuna collocazione in schemi patrimoniali. Eppure la stessa soluzione
dovrebbe infine proporsi anche quando l’attività di natura assistenziale
(quand’anche oggettivamente lavorativa) risulti resa direttamente a favore di terzi
bisognosi nell’esercizio della missione cristiana.
14. Giova, a questo punto, accennare ad i possibili risvolti della condizione
dell’handicap in materia di responsabilità aquiliana.
La causa dell’handicap può affondare le proprie radici nella genetica o nel
comportamento assunto, prima della nascita del soggetto debole, da terzi (legati o
no a quello da rapporti qualificati).
Si pensi ad esempio ad un genitore che, pur nella consapevolezza di una
condizione patologica (eventualmente ereditaria), decida comunque di concepire
un figlio; ad una madre che durante la gestazione persista nell’assunzione di
sostanze stupefacenti ovvero conduca una vita spericolata esponendo il feto al
rischio di danni che poi in effetti si verifichino; al medico che con errati interventi
terapeutici e chirurgici abbia causato lesioni al feto.
Si pongono pertanto le condizioni per un problema di responsabilità civile
[MASTROPAOLO 1987, 543ss].
In siffatte ipotesi, più che un problema di matrice processuale in relazione alla
legittimazione ad agire; ci si deve interrogare circa l’eventuale emergenza, invero
problematica, di una situazione giuridica soggettiva tutelabile.
Infatti se pacifica appare la possibilità per i genitori di agire in proprio per
ottenere il risarcimento del danno subito a seguito della lesione arrecata al figlio
24
25
in epoca prenatale, tale non è quella relativa alla possibilità per gli stessi di agire
nella qualità di rappresentanti legali del figlio e pertanto nel suo interesse, in
quanto non essendo ancora il figlio nato, si dovrebbe ipotizzare un danno arrecato
ad un soggetto privo di capacità giuridica.
Nei repertori di giurisprudenza si registrano poche e non particolarmente
significative pronunzie. La Corte Suprema, con sentenza del 28.12 73, n.3467 ha
negato l’emergenza di alcun danno risarcibile. Tuttavia, siffatta soluzione
dovrebbe essere rimeditata in considerazione sia dell’elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale a margine della tutela giuridica del concepito nel nostro
Ordinamento (riscontrabile paradossalmente persino nella legge che ha introdotto
in Italia la possibilità dell’aborto) [BUSNELLI 1978], che della rimeditazione
della categoria dell’ingiustizia del danno, essendo meritevole di tutela non
soltanto la situazione giuridica soggettiva per eccellenza qual è il diritto
soggettivo, ma anche l’interesse legittimo e le situazioni di fatto [RESCIGNO
1956].
Del resto, con la conquista di dignità normativa da parte della categoria del danno
biologico si è abbandonato quell’indirizzo che, per star dietro al processo di
espansione della provincia della responsabilità civile, al criterio dottrinale della
valutazione sociale degli interessi tutelabili [BUSNELLI 1963] –non imbrigliata
da classificazioni giuridiche- preferisce un processo necessario di trasformazione
dell’interesse che si intende tutelare in un diritto soggettivo secondo un modello
operativo la cui necessità appare peraltro dubbia nei suoi presupposti (non
tutelando l’articolo 2043 cod. civ. diritti soggettivi, semmai situazioni giuridiche
soggettive normativamente apprezzabili) [FRANZONI 1993, 173ss].
Eco di ciò è dato riscontrare nella giurisprudenza anche di legittimità tant’è si
legge che “in presenza di lesioni gravi del nascituro, posta l'esistenza nel nostro
ordinamento di norme dalle quali si evince l'intenzione del legislatore di tutelare
l'individuo sin dal suo concepimento, una volta accertata l'esistenza di un rapporto
di causalità tra un comportamento colposo anteriore alla nascita ed il danno ad un
soggetto che, con la nascita, abbia acquisito la personalità giuridica, deve essere
riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento del danno. Qualora le
lesioni riportate dal nascituro siano imputabili a comportamento colposo dei
sanitari, l'ente ospedaliero deve rispondere a titolo di responsabilità contrattuale
nei confronti del soggetto leso, trovando tale obbligo risarcitorio il proprio
fondamento nel contratto con effetti protettivi nei confronti di terzi concluso dalla
partoriente con la Usl antecedentemente al parto” [Cass. Civ. 22 novembre 1993,
n. 11503, in Riv. It. Medicina Legale 1995, 1275].
15. La situazione di handicap si presta pertanto ad essere scomposta in quella del
disabile e del soggetto che in virtù di legami familiari lo assiste.
Siffatta prospettiva appare utile per esaminare la tensione solidaristica che,
attraversando le disposizioni della Costituzione, si traduce in meccanismi
variamente articolati e destinati ad operare a diversi livelli di formazione sociale,
dal nucleo familiare (si pensi agli assegni alimentari) alla scuola, dalla fabbrica
allo Stato.
La tutela dei soggetti portatori di handicap è operativa anche nel quadro delle
dinamiche relazionali dei rapporti di lavoro, essendo chiamato il datore di lavoro
ad osservare forme di tutela del dipendente e dei suoi familiari. Non si tratta
invero di una vocazione sociale del datore; semmai costituisce l’indice del
particolare rilievo riconosciuto dall’ordinamento al lavoro su cui, del resto, è
25
26
fondata la Repubblica e che costituisce il luogo privilegiato per l’attuazione di una
qualsiasi politica sociale.
In proposito, spunti significativi è dato cogliere negli artt. 36 e 41 Cost. Dal primo
emerge appunto la connotazione sociale attribuita alla retribuzione, recuperata a
strumento capace comunque di assicurare al lavoratore un’esistenza libera e
dignitosa. La seconda norma, invece, garantisce la libertà dell’iniziativa
economica che tuttavia non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale ovvero
in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.
Il datore di lavoro si trasforma, allora, in intermediario obbligato di una politica
sociale di tutela del lavoratore e di garanzia della sua libertà dal bisogno. Si pensi
in proposito ai permessi retribuiti ed alle indennità di astensione facoltativa dal
lavoro a favore dei lavoratori che siano genitori di soggetti handicappati; senza
dimenticare poi l’impegno richiesto allo stesso sul fronte della prevenzione dei
fattori che possano determinare l’emergenza di una condizione patologica di
handicap. Significative appaiono l’art.2087 c.c. ed il dlgs 626 del 1994 in materia
di sicurezza degli ambienti di lavoro; la l.482 del 1968 in tema di collocamento
obbligatorio degli invalidi; ma anche il dlgs 645 del 1996 in relazione alle
lavoratrici gestanti o puerpere, il dlgs 26.3.01 n.151; il dlgs 216\2003 e da ultimo
la l.67\2006 con cui si è dato attuazione alla direttiva 2000/78/Ce del 27.11.00 e si
è introdotta una rete di protezione delle persone con disabilità, non soltanto
nell’ambiente di lavoro, dalle discriminazioni dirette ovvero indirette ovvero
mediate da prassi, atti, comportamenti o patti anche apparentemente neutri e che
tuttavia valgono a porre il disabile in una condizione di svantaggio e risultino
motivate dalla condizione di disabilità: in siffatta evenienza, su sollecitazione del
disabile o delle associazioni e degli enti individuati con decreto del ministero
delle pari opportunità (scelta questa che invero non può non suscitare qualche
perplessità) sulla base delle finalità statutaria e della stabilità dell’organizzazione,
il giudice può ordinare al privato o alla Pa cui debba imputarsi l’azione
discriminatoria la cessazione del comportamento pregiudizievole e l’adozione di
ogni provvedimento idoeno a rimuovere gli effetti della discriminazione.
Non è questa la sede per affrontare compiutamente la materia delle garanzie –
dirette ed indirette- dei portatori di handicap nell’ambito della disciplina
lavoristica e non, semmai appare opportuno limitarsi a ricordare alcune pronunce
della Consulta (chiamata a valutare la disciplina dell’avviamento al lavoro e della
cessazione del rapporto di lavoro degli invalidi) e che testimoniano lo sforzo della
Corte Costituzionale di calare la protezione degli invalidi in uno schema capace di
bilanciare opposti interessi.
Ebbene, la Consulta nel 1998 ha ritenuto conforme alla Costituzione ed in
particolare agli artt. 2, 3 e 10, primo e secondo comma, Cost., il combinato
disposto degli artt. 1 e 5 della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Norme in materia
di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro
le immigrazioni clandestine), nel testo novellati dagli artt. 2, 3, comma 4, e 21 del
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte
in cui si attribuisce al Ministro del lavoro il potere di fissare le direttive in materia
di impiego e di mobilità professionale dei lavoratori subordinati extracomunitari,
senza garantire il diritto degli extracomunitari invalidi civili ad essere iscritti
nell'elenco di cui all'art. 19 della legge n. 482 del 1968 [ma, cfr. l.68 del 1999].
Siffatta affermazione tuttavia si spiega in quanto la Corte ha comunque ravvisato
il diritto dei lavoratori extracomunitari (aventi titolo per accedere al lavoro
26
27
subordinato stabile in Italia in condizioni di parità con i cittadini e che ne abbiano
i requisiti) ad iscriversi negli elenchi di cui all'art. 19 della legge n. 482 del 1968
ai fini dell'assunzione obbligatoria. “Invero - premesso che l'interpretazione del sistema
normativo da cui prende le mosse il rimettente si fonda sulla assenza di una norma specifica che affermi il
diritto degli extracomunitari invalidi disoccupati ad ottenere l'iscrizione negli elenchi degli aspiranti al
collocamento obbligatorio; ma considerato che, in presenza della garanzia legislativa di <<parità di
trattamento e piena uguaglianza di diritti>> per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani (art.
1 della legge n. 943 del 1986, e oggi art. 2, comma 3, del testo unico approvato con d.lgs. 25 luglio 1998, n.
286), occorrerebbe, per giungere alla predetta conclusione, rinvenire una norma che, esplicitamente o
implicitamente, negasse ai lavoratori extracomunitari, in deroga alla <<piena uguaglianza>>, il diritto in
questione -, nella materia, una siffatta norma derogatoria non esiste. Pertanto, una volta che i lavoratori
comunitari siano autorizzati al lavoro stabile in Italia, godendo di un permesso di soggiorno rilasciato a tale
scopo o di altro titolo che consenta di accedere al lavoro subordinato nel nostro Paese, e siano posti a tal fine
in condizioni di parità con i cittadini italiani, e così siano iscritti o possano iscriversi nelle liste ordinarie di
collocamento, essi godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani, nè perdono i loro diritti per il fatto
di rimanere disoccupati” [16.12.98, n.454 Presidente Granata estensore Onida].
Per tal via la Consulta sembrerebbe aver recuperato una soluzione invero già
elaborata negli anni ’60 dalla stesa Corte Costituzionale [nn. 38/1960 e 55/1961],
in base alla quale la speciale disciplina sul collocamento obbligatorio degli
invalidi deve essere ricondotta alle forme di attuazione del diritto che <<gli inabili
e i minorati>>, senza che in proposito possa assumere alcun rilievo la relativa
nazionalità, hanno, ex art. 38, terzo comma, della Costituzione, all'avviamento
professionale.
Anche il cittadino straniero ha, quindi, titolo ad accedere al lavoro subordinato nel
territorio dello Stato in condizioni di eguaglianza con i cittadini, non emergendo,
sotto questo profilo, ragione di differenziarne il trattamento rispetto al cittadino
italiano.
L’affermazione della rilevanza costituzionale della tutela degli inabili e dei
minorati, al di là dell’indentità nazionale, deve tuttavia confrontarsi anche con
altri interessi egualmente tutelati dalla GrundNorm.
Si è affermato così che l’assunzione obbligatoria dei lavoratori invalidi avviati al
lavoro ai sensi della legge n. 482/1968 sia compatibile con un patto di prova
purchè la prova tenga in considerazione le minorate capacità lavorative
dell'interessato [sentenza n. 541 del 2000, Presidente ed estensore Santosuosso;
cfr. anche sentenza n. 255/1989]. Sul punto significativa appare del resto la
giurisprudenza della Corte Suprema secondo cui, ad esempio: “Le disposizioni
della legge 2 aprile 1968 n 482, sulle assunzioni obbligatorie presso pubbliche
amministrazioni ed aziende private di invalidi, ciechi o sordomuti, ovvero di altri
soggetti appartenenti alle categorie elencate nell'art. 1 della legge medesima, non
ostano a che, nel rapporto di lavoro subordinato in concreto instaurato con
l'assunzione fatta in ottemperanza dell'obbligo di legge, sia ammissibile il patto di
prova, in forza di previsione dei contratti collettivi o del contratto individuale, ma
operano, in relazione alle finalita' perseguite ed al principio inderogabile della
parita' di trattamento di detti soggetti con gli altri lavoratori (art. 10), nel senso di
imporre: a) che la prova venga condotta in mansioni compatibili con lo stato
dell'invalido o menomato; b) che la prova non sia riferibile a condizioni di minor
rendimento dovuto all'invalidita'; c) che il giudizio negativo reso dal datore di
lavoro sia assoggettato al sindacato di legittimita', ma non di merito, dell'autorita'
giudiziaria, risultando il recesso viziato da motivo illecito in caso di violazione
delle due prime condizioni. La prova del motivo illecito grava sul lavoratore in
base alla regola generale di cui all'art. 2697 cod.civ.” [Cass., sez. Lav. 16.8.04
n.15942].
Ed ancora: “Le disposizioni della legge 2 aprile 1968 n 482, sulle assunzioni
obbligatorie presso pubbliche amministrazioni ed aziende private, di invalidi,
27
28
ciechi o sordomuti, ovvero di altri soggetti appartenenti alle categorie elencate
nell'art. 1 della legge medesima, non ostano a che, nel rapporto di lavoro
subordinato in concreto instaurato con l'assunzione fatta in ottemperanza
dell'obbligo di legge, sia ammissibile il patto di prova, in forza di previsione dei
contratti collettivi o del contratto individuale, ma operano, in relazione alle
finalita' perseguite ed al principio inderogabile della parita' di trattamento di detti
soggetti con gli altri lavoratori (art. 10), nel senso di imporre che la prova venga
condotta con mansioni compatibili con lo stato dell'invalido o menomato; il patto
di prova inoltre tende ad accertare non solo la capacita' tecnica del lavoratore, ma
anche la sua personalita' professionale e morale, di cui sono componenti
essenziali anche l'onesta' e la diligenza” [Cass., sez. lav. 18.3.04 n.5522].
In relazione invece alla problematica relativa alla tutela indiretta del soggetto
disabile attraverso l’enucleazione di regole di favore in punto di cessazione del
rapporto di lavoro, pare opportuno a questo punto ricordare come la Corte
Costituzionale non abbia ravvisato alcun contrasto con la garanzia costituzionale
del diritto al lavoro nelle disposizioni dell'art. 9, ultimo comma, del decreto-legge
29 gennaio 1983, n. 17 (convertito con modificazioni nella legge 25 marzo 1983,
n. 79) e degli artt. 5, secondo comma, e 24, primo comma, della legge 23 luglio
1991, n. 223, in base a cui, in caso di licenziamento collettivo, la proporzione
numerica tra lavoratori ordinari e riservatari stabilita dalla legge sul collocamento
obbligatorio n. 482 del 1968, deve essere rispettata, nell'ambito dei licenziandi,
anche quando, all'esito del licenziamento, non risulti mantenuta nell'ambito del
personale residuo. “Il diritto al lavoro sancito dall'art. 4 Cost. risulta infatti assicurato, in relazione ai
licenziamenti, dalle norme limitative del potere di recesso del datore di lavoro, disciplina che garantisce
uguaglianza di trattamento per tutti i lavoratori. Nè può sostenersi - come nel caso dal giudice a quo - che in
seguito a licenziamento per riduzione di personale la precedenza nella riassunzione presso la medesima
azienda, entro un anno, prevista dall'art. 15, sesto comma, della legge n. 264 del 1949, sia possibile solo per i
lavoratori ordinari e non anche per i lavoratori assunti con avviamento obbligatorio, giacchè, ai sensi dell'art.
10 della legge n. 482 del 1968, anche a questo riguardo, "a coloro che sono assunti in forza della presente
legge deve essere applicato il normale trattamento economico, giuridico e normativo” [08/03/95
17/03/95 n.86 Presidente Baldassarre estensore Santosuosso].
La gravità della condizione patologica può tuttavia concretamente pregiudicare il
possibile svolgimento di alcuna attività lavorativa ovvero concretamente
condizionare le modalità della stessa, minando la possibilità di ricavare un reddito
proficuo.
Ebbene, è noto, l’art.38 Cost. prevede non solo che gli inabili ed i minorati hanno
diritto all’educazione e all’avviamento professionale; ma anche che ogni cittadino
inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al
mantenimento ed all’assistenza sociale; che i lavoratori hanno diritto a che siano
preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di
infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria; che ai
compiti de quibus provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato
e che l’assistenza privata è libera.
16. Nel solco del dettato costituzionale di cui all’art.38 Cost, l’attuale sistema
normativo contempla numerose prestazioni periodiche di natura economica (a
carico della comunità che vi provvede normalmente attraverso Inps) a favore dei
soggetti che inabili al lavoro siano sprovvisti dei mezzi necessari per vivere.
È questo il caso della l. l.30 marzo 1971 n.118 che, in favore degli invalidi civili
(ovvero dei soggetti che risultino affetti da minorazioni congenite o acquisite)
28
29
prevede due prestazioni, svincolate dall’emergenza di qualsiasi requisito
assicurativo.
La pensione di inabilità civile ex art.12 l. 118 del 1971 è concessa con decorrenza
dal primo giorno del mese successivo a quello della presentazione della domanda
amministrativa, ai mutilati ed invalidi civili di età compresa tra il diciottesimo ed
il sessantaquattresimo anno, nei cui confronti, in sede di visita medico sanitaria,
sia accertata una totale inabilità lavorativa.
Il riconoscimento del diritto a siffatta prestazione sottintende non soltanto la
presentazione della domanda, ma anche l’emergenza tanto di un requisito
sanitario che di uno reddituale.
La domanda amministrativa svolge infatti una funzione costitutiva testimoniata
dalla prevista decorrenza del beneficio dal mese successivo alla presentazione di
detto atto di impulso di parte. “In materia di pensione di inabilita' in favore degli
invalidi civili di cui alla legge n. 118 del 1971, la domanda amministrativa
costituisce presupposto necessario per il diritto alle prestazioni assistenziali sia
perche' cio' risulta espressamente dal disposto dell'art. 11 legge cit., sia perche' la
richiesta del riconoscimento dello "status" di invalido civile potrebbe essere
proposta non gia' per ottenere i benefici di cui alla legge 118/71, ma ad altri fini,
quali il diritto all'assunzione obbligatoria o il congedo per cure ai sensi dell'art. 26
della medesima legge 118. Ne consegue che, fatto valere il riconoscimento
dell'invalidita' civile, la prestazione economica successivamente richiesta avra'
decorrenza dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della
domanda, dovendosi anche escludere che la domanda di pensione di inabilita' sia
compresa in quella volta a conseguire l'indennita' di accompagnamento” [Cass.,
sez. lav., 24.2.04 n.3679]. Nella fattispecie esaminata dalla Corte Suprema,
l'istante aveva presentato la sola domanda di invalidita' civile il 29 ottobre 1992,
ottenendo il riconoscimento nel febbraio 1993 e la Suprema Corte ha confermato
la sentenza di merito che aveva riconosciuto la decorrenza dell'indennita' di
accompagnamento e della pensione di inabilita' rispettivamente dal settembre
1993 e dal primo agosto 1995, mesi successivi alla presentazione delle relative
domande.
Per quanto concerna, invece, il requisito sanitario, il quadro patologico deve
essere apprezzato sulla scorta di un approccio di tipo funzionale, svincolato dalla
rigidità ragionieristica delle tabelle elaborate dalla letteratura scientifica e dalla
Pubblica Amministrazione. Pertanto, la totale inabilità lavorativa utile al
conseguimento della prestazione assistenziale in oggetto va apprezzata quale
assoluta e permanente impossibilità di svolgere non già una qualsiasi attività, ma
una attività lavorativa. Conseguentemente detta condizione non può essere esclusa
sulla scorta, ad esempio, del mero rilievo che l’infermità riscontrata consenta
tuttavia al soggetto di far fronte, anche se con difficoltà, alle esigenze domestiche
specie che si consideri come tale attività neppure sia equiparabile all’attività
propria del lavoro domestico subordinato.
Assumono rilevanza al fine di tracciare una valutazione finale del quadro
patologico anche gli aggravamenti intervenuti nel corso del giudizio. Infatti, trova
applicazione anche in questa materia la previsione di cui all’art.149 disp. att cpc
in base al quale, nelle controversie in materia di invalidità pensionabile deve
essere valutato dal giudice anche l’aggravamento della malattia, oltre a tutte le
infermità comunque incidenti sul complesso invalidante che si siano verificate nel
corso del procedimento amministrativo oppure giudiziario, senza che sussista la
necessità di una nuova domanda amministrativa e senza che sia configurabile
29
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alcuno spazio per una nuova determinazione da parte della P.A. (art.7 l.533 del
1973).
Semmai si tratta di verificare se la previsione della decorrenza della prestazione
dal mese successivo alla data di presentazione della domanda debba tradursi, in
ipotesi di positiva applicazione dell’art.149 disp att. cc, nella individuazione della
decorenza suddetta a partire dal mese successivo rispetto alla data di insorgenza
del necessario quadro patologico.
In proposito entrambe le tesi sono state sostenute. Si è affermato infatti che “i
benefici economici connessi al riconoscimento del diritto ad una prestazione
assistenziale (nel caso di specie, indennita' di accompagnamento), nel caso in cui
il requisito sanitario si concretizzi successivamente alla proposizione della
domanda in giudizio, per effetto dell'art. 149 cod.proc.civ. decorrono
immediatamente a partire dalla data dell'accertata insorgenza dello stato
invalidante” [Cass., sez. lav., 6.2.04 n.2314]; che “in tema di indennita' di
accompagnamento, qualora i requisiti condizionanti l'attribuzione del diritto alla
prestazione assistenziale vengano ad esistenza in epoca successiva alla richiesta
formulata in sede amministrativa, il diritto non decorre dal primo giorno del mese
successivo a quello nel quale e' stata accertata l'insorgenza della inabilita' totale,
ma dalla data di insorgenza dell'inabilita', quale accertata alla stregua della
consulenza tecnica d'ufficio, non sussistendo motivi per escludere i referti di
carattere medico - legale contenuti nella consulenza tecnica dalla disciplina
prevista, dall'art. 5, del d.P.R. n. 698 del 1994, per le commissioni sanitarie
[Cass., sez. lav.26.2.04 n.3936]. In particolare le Sezioni Unite della Corte
Suprema, sia pure in materia di indennità di accompagnamento, hanno affermato
come “in materia di prestazioni assistenziali, i benefici spettanti agli invalidi
civili, decorrenti - ove tutti i requisiti per la loro attribuzione siano gia' presenti
all'atto della domanda amministrativa - dal primo giorno del mese successivo alla
domanda stessa, decorrono invece, ove il requisito sanitario si concretizzi nel
corso del procedimento giurisdizionale, dalla data di insorgenza dello stato
invalidante e non anche dal primo giorno del mese successivo a tale accertamento,
atteso che, secondo il principio della perpetuatio actionis, rinvenibile nell'art. 24
Cost., la durata del processo non puo' pregiudicare i diritti della parte che ha
ragione, principio che con riguardo al procedimento amministrativo non ha valore
generale ne' gode di analoga garanzia costituzionale” [Cass.SSUU., 5.7.04
n.12270].
Ma si è affermato anche che “il trattamento di invalidita', nel caso in cui la soglia
invalidante risulti superata nel corso del giudizio, decorre, secondo la regola
stabilita dall'art. 18 del d.P.R. 27 aprile 1968 n. 488, dal primo giorno del mese
successivo a quello dell'insorgenza dell'invalidita', e non immediatamente dal
momento dell'insorgenza del requisito sanitario [ Cass., sez. lav., 21.8.03
n.12303].
Il meccanismo ex art.149 disp. att. cc si riflette inevitabilmente sulla problematica
relativa alla decorrenza degli accessori e quindi ai margini di applicabilità
dell’art.442 cpc, dovendosi ritenere che rivalutazione ed interessi decorrano
comunque, a prescindere dalla imputabilità del ritardo dell’ente erogatore, a
partire dalla data dalla quale è dovuta la prestazione assistenziale, benché in
ipotesi successiva alla conclusione del procedimento amministrativo ma anteriore
alla proposizione della domanda giudiziale [ Cass., sez. lav., 26.9.97 n.9434].
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La disposizione dell'art. 149 disp. att. cod. proc. civ., che impone di valutare
anche gli aggravamenti incidenti sul complesso invalidante verificatisi nel corso
del procedimento amministrativo e giudiziario, trova applicazione ai fini di
valutare gli aggravamenti coevi o successivi ai suddetti procedimenti, per
verificare l'effettivo raggiungimento, anche in corso di causa, della soglia di
inabilità\invalidita' e quindi la decorrenza del diritto alla prestazione, ma non
anche allo scopo di retrodatare la decorrenza all'atto della domanda,
amministrativa o giudiziaria, ossia ad epoca anteriore al raggiungimento della
soglia d'inabilità\invalidita' indennizzabile [cfr. Cass., sez. lav., 22.8.03 n.12369].
In relazione poi al requisito reddituale, vale osservare come, almeno secondo la
giurisprudenza maggioritaria, costituisca elemento costitutivo e non mera
condizione di erogabilità del diritto alla prestazione assistenziale sicchè il giudice
adito è tenuto alla verifica della relativa sussistenza.
Tant’è che la Corte Suprema [5.2.98 n.1167] ha ritenuto, già lo si è sottolineato,
l’inammissibilità di un’azione volta ad accertare la sussistenza del solo requisito
sanitario, e quindi di uno solo dei fatti costitutivi del diritto di cui si chiede il
riconoscimento. Si deve, pertanto, ritenere la parte tenuta a provare il requisito
reddituale richiesto per beneficiare della pensione in oggetto.
Semmai ci si può interrogare se a fronte della mancata allegazione il silenzio della
Pa convenuta valga a ritenere operante il principio di non contestazione e
comunque se il giudice adito sia tenuto a rilevare d’ufficio il difetto di una prova
rigorosa della sussistenza del requisito de quo.
Si registrano invero pronunce in base alle quali la rilevabilità d’ufficio
dell’inosservanza di un elemento costitutivo sarebbe esclusa allorché la
sussistenza di tale elemento debba ritenersi pacifica tra le parti e perciò estranea al
thema decidendum.
In proposito, vale comunque osservare quanto segue.
Nel processo del lavoro, le parti concorrono a delineare la materia controversa, di
talche', la mancata contestazione del fatto costitutivo del diritto rende inutile
provare il fatto stesso perche' lo rende incontroverso, mentre la mancata
contestazione dei fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria opera unicamente
sulla formulazione del convincimento del giudice . Tuttavia, intanto la mancata
contestazione da parte del convenuto puo' avere le conseguenze ora specificate, in
quanto i dati fattuali, interessanti sotto diversi profili la domanda attrice, siano
tutti esplicitati in modo esaustivo in ricorso (o perche' fondanti il diritto fatto
valere in giudizio o perche' rivolti a introdurre nel giudizio stesso circostanze di
mera rilevanza istruttoria), non potendo, cio' che non e' stato detto, anche perche'
il rito del lavoro si caratterizza per una circolarita' tra oneri di allegazione, oneri di
contestazione ed oneri di prova, donde l'impossibilita' di contestare o richiedere
prova - oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito - su fatti non allegati
nonche' su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi
condizionanti il diritto azionato, non siano stati esplicitati in modo espresso e
specifico nel ricorso introduttivo [Cass., SSUU, 17.6.04 n.11353].
Ebbene, giova sottolineare come il III comma dell’art.416 cpc ponga a carico del
convenuto un onere di contestazione dal contenuto variabile. Infatti, in ordine ai
fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda il convenuto è tenuto a
prendere posizione in maniera puntuale, senza limitarsi ad una generica
contestazione. Viene per tal via adombrato l’istituto, di matrice giurisprudenziale,
della cosiddetta non contestazione ed i cui confini di operatività sono
rappresentati, evidentemente, dalle difese in fatto e non da quelle in diritto.
31
32
La qualificazione giuridica dei fatti e quindi la corretta applicazione della legge
prescinde dalla valutazione giuridica che dei fatti venga offerta dalle parti;
viceversa l’accertamento dei fatti è rimessa alla disponibilità delle parti la cui
inerzia può assumere un significativo rilievo giuridico. Per i fatti costitutivi del
diritto, allegati dal ricorrente e non contestati da parte del resistente, viene ad
operare un meccanismo vincolante l’attività del giudice chiamato ad astenersi da
qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato. Effetto questo che si
verifica, peraltro, non in virtù dell’art.416 c.p.c. nel cui III comma non si prevede
alcuna decadenza, quanto piuttosto in virtù dell’art.420, I co., cpc in relazione alla
modifica delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate.
Una volta superata detta fase, si determina la preclusione della non contestabilità
tardiva dei fatti costitutivi del diritto. Siffatto meccanismo, tuttavia, non si può
ritenere invece operante per quanto concerna i fatti dedotti in esclusiva funzione
probatoria (ossia fatti dedotti in quanto idonei a provare, sia pure indirettamente,
altri fatti costitutivi del diritto azionato). In siffatta evenienza, la mancata
contestazione tempestiva vale quale mero argomento di prova, liberamente
apprezzabile dal giudice al fine del giudizio di sussistenza del fatto da provare.
Soluzione questa che non vale a minare il sistema difensivo garantito al ricorrente
e che costituisce semmai mera tecnica difensiva del resistente.
Il principio di non contestazione non può qualificarsi universale, non operando:
a) nei processi relativi a diritti indisponibili, il sistema normativo sottrae alle parti
la possibilità di disporne anche con comportamenti processuali (si pensi ad
esempio all’art.2733 cpv c.c. che disconosce valenza di prova legale alla
confessione resa su fatti relativi a diritti indisponibili; all’art.2739 I comma c.c.),
non potendo il soggetto conseguire tramite sentenza quanto non potrebbe
conseguire nell’esercizio dell’autonomia privata. In siffatte ipotesi, il contegno
omissivo (non contestazione) rileva quale contegno processuale e quindi quale
fatto secondario da cui il giudice può desumere l’esistenza del fatto ignoto mentre
il comportamento positivo (ammissione) costituisce dichiarazione di scienza
rimessa, a differenza della confessione, al prudente apprezzamento del giudice;
b) in relazione ai contratti per i quali è richiesta la forma ad substantiam, dovendo
il giudice rilevare ex art.1421 c.c. la nullità di un contratto concluso in violazione
dell’art.1350 c.c. ed essendo vietato di provare con testi siffatti contratti salva
l’ipotesi di perdita incolpevole del documento da parte del contraente;
c) nei processi in cui sia intervenuto il P.m. ovvero si registri comunque
l’intervento (volontario o coatto) di un terzo che sia titolare del diritto dipendente
oppure contitolare dello stesso diritto od obbligo oggetto del processo; in siffatte
evenienza semmai alla non contestazione anche del terzo o del Pm deve
riconoscersi speciale inferenza probatoria;
d) nei processi contumaciali in considerazione della neutralità del comportamento
di chi scelga di rimanere contumace.
Tuttavia vale osservare come, in relazione ad istituti assistenziali\previdenziali,
l’ente pubblico convenuto appaia munito di un'attenuata libertà dispositiva dei
diritti soggettivi dedotti in giudizio, e in osservanza del principio di buon
andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), che impone di evitare
ingiustificati arricchimenti a detrimento delle casse pubbliche, la non tempestiva
contestazione di un fatto dedotto dalla controparte, pur dovuta a negligenza, non
può assumere il significato di una tacita ammissione in base al dovere di prendere
precisa posizione sulla domanda a norma dell'art. 416, terzo comma, cod. proc.
civ.
32
33
Anche se poi si è affermato anche che “in relazione a domanda giudiziale volta a
conseguire l'indennita' di accompagnamento, la carenza della relativa domanda
amministrativa non puo' essere eccepita oltre i tempi e le modalita' previste
dall'art. 416 cod. proc. civ., ne' puo' essere, in mancanza di tempestiva eccezione
da parte dell'ente convenuto, rilevata d'ufficio dal giudice, dovendosi peraltro
evidenziare che l'onere di tempestiva contestazione gravante sul convenuto nel
rito del lavoro assume rilievo ancora maggiore quando convenuto sia un ente
previdenziale, atteso che non possono farsi ricadere sull'assicurato gli effetti della
violazione di un dovere di vigilanza istituzionale non tempestivamente esercitato
in relazione a situazioni ostative all'esercizio di un diritto di questi” [Cass., sez.
lav.19.9.03 n.13924].
In ordine poi alle modalità di assolvimento di detto onere probatorio in materia di
requisito reddituale, giova osservarsi come traducendosi nella prova di fatti
negativi, potrebbe essere integrata anche da un meccanismo presuntivo ex
art.2729 c.c.
Ebbene, si è in proposito osservato come ai fini del riconoscimento del diritto alla
pensione di inabilita' o all'assegno di invalidita' civile, la situazione sanitaria, la
situazione reddituale e la situazione di incollocazione o - per gli
ultracinquantacinquenni - di disoccupazione costituiscono non meri requisiti di
erogazione della prestazione, ma elementi costitutivi del diritto, che devono essere
attualizzati al momento della decisione e che possono essere provati anche
mediante autocertificazione, la quale è oggetto di valutazione da parte del
giudicante in base all'art. 116, comma primo, cod. proc. civ. [ Cass., sez.
lav.,11.12.02 n.17664]
Invero, si deve ritenere che alcun rilievo probatorio possa essere attribuito alle
dichiarazioni sostitutive rese ex l.15\1968 ed alle autocertificazioni; infatti,
l’equiparazione probatoria tra la dichiarazione resa dal soggetto interessato e
quella resa da terzi (tracciata dall’art.4 l.15\68) esaurisce la propria operatività
nell’ambito del procedimento amministrativo e non in quello dinanzi all’autorità
giudiziaria.
Siffatta soluzione trova l’avallo di altro indirizzo della Corte Suprema
[Cass.26.2.2001, n.2628; Cass. Sezioni Unite 14 ottobre 1998, 10153] secondo
cui nessun valore probatorio, neppure indiziario, può essere riconosciuto nel
giudizio civile (strutturato sul principio dell’onere probatorio) alla dichiarazione
sostitutiva dell’atto di notorietà diretta ad accertare fatti, stati e qualità personali
dedotti a sostegno della domanda ed eccezione.
Una diversa soluzione varrebbe ad integrare una pericolosa violazione del
principio giuridico secondo cui la parte non può derivare, ai fini del
soddisfacimento del proprio onere probatorio, elementi di prova a proprio favore
da proprie dichiarazioni. Che quanto trova riscontro in una distinzione operata dai
giuristi in materia di testimonianza. In relazione infatti alla rilevanza probatoria
delle deposizioni di persone che hanno solo una conoscenza indiretta di un fatto
controverso, giova invero distinguere i testimoni "de relato actoris" da quelli "de
relato" in genere. I primi depongono circa fatti e circostanze di cui sono stati
informati dallo stesso soggetto che ha proposto il giudizio, sicchè la rilevanza
probatoria della relativa deposizione è sostanzialmente nulla in quanto vertente
sul fatto della dichiarazione di una parte del giudizio e non sul fatto oggetto
dell'accertamento, che costituisce il fondamento storico della pretesa.
33
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Viceversa, i testi "de relato" in genere depongono su circostanze che hanno
appreso da soggetti estranei al giudizio e pertanto sul fatto della dichiarazione di
costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni, pur attenuata in quanto indiretta, può
assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice nel concorso di altri
elementi oggettivi e concordanti che valgano a suffragarne la credibilità [cfr.
Cass. 5.1.1998 n.43].
Semmai, siccome affermato dalla Corte di legittimità, i requisiti reddituali
possono essere provati in sede amministrativa con autocertificazione
dell’interessato; atto questo che, se non contrastato dalle risultanze certificative
acquisite dalla Pubblica Amministrazione, è suscettibile di valutazione anche da
parte del giudice ex art.116, I comma, cpc, purchè già prodotto nella fase
amministrativa [Cass.12.8.2001 n.11031].
Inoltre, vale ricordare come ai fini dell'accertamento del requisito reddituale per la
pensione di inabilita' all'invalido civile totalmente inabile deve essere apprezzato,
ai sensi del combinato disposto del secondo comma dell'art. 12 della legge 30
marzo 1971 n.118 e dell'art. 26 primo comma della legge 30 aprile 1969, n.153
(richiamato dal citato secondo comma per estenderne l'applicazione alla pensione
di inabilita'), il cumulo del reddito del coniuge con quello del dichiarato inabile.
Invece in relazione agli inabili parziari, beneficiari dell'assegno mensile di
invalidita' civile di cui all'art. 13 della citata legge n.118 del 1971, l'art. 14 septies,
quinto comma, del D.L. 30 dicembre 1979,n. 633, convertito con modificazioni
nella legge 29.2.1980,n. 33, prevede ai fini della sussistenza del requisito
reddituale l'esclusione del cumulo del reddito del beneficiario non solo con
riferimento al coniuge, ma anche a tutti gli altri componenti del nucleo familiare [
Cass., sez. lav.,11.9.03 n.13363]. Peraltro, alla stregua dei principi enunciati nella
sentenza n. 258 del 1992 della Corte costituzionale, in ogni caso di tutela
previdenziale o assistenziale rapportata ad un limite di reddito, ai fini della
determinazione di tale reddito vanno valutate, salvo diversa disposizione di legge,
tutte le attuali disponibilità di mezzi economici, perciò con inclusione, nel
computo dei redditi dell'anno considerato, anche delle eventuali somme percepite
per arretrati relativi ad anni precedenti, secondo un criterio di cassa e non di
competenza, ed a prescindere dalla natura reddituale ovvero risarcitoria delle
somme per tal via conseguite.
Il giudice adito dal ricorrente in funzione del conseguimento della pensione di
inabilità può riconoscere, ricorrendone i presupposti ex lege, il diritto all’assegno
di invalidità. Detto minore beneficio, infatti, può ritenersi compreso
implicitamente nella prestazione viceversa richiesta. Né varrebbe a coonestare una
diversa soluzione il rilievo che l’art.13 l.118\71 richiede la condizione
d’incollocazione al lavoro e la revocabilità del beneficio in ipotesi di mancato
accesso da parte dell’invalido a posti di lavoro adatti alle relative condizioni
fisiche solo in relazione all’assegno di invalidità. Si tratta, infatti, di requisiti
assorbiti da quello previsto per la pensione di inabilità in ordine alla totale
incapacità lavorativa.
L’assegno mensile è riconosciuto ai mutilati ed invalidi civili di età compresa tra i
18 e 64 anni di età in possesso del requisito reddituale di cui all’art.12 l.118 del
1971 ed incollocati al lavoro, nei cui confronti, ai sensi dell’art.9, I comma,
dlgsvo 23.11.88 n.509, sia accertata, a decorrere dal 12 marzo 1992 (ovvero dalla
data di entrata in vigore del D.M. 5\2\92 con cui è stata approvata la nuova tabella
indicativa delle percentuali di invalidità) una riduzione della capacità lavorativa in
34
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misura pari o superiore al 74% (mentre prima era richiesta una riduzione della
capacità di lavoro in misura superiore ai 2\3).
Per quanto concerna la natura ed il conseguente onere probatorio circa il requisito
reddituale, vale richiamare quanto supra evidenziato a margine dell’esame
sommario della pensione di inabilità.
Semmai, in relazione al requisito della incollocazione al lavoro, giova osservare
che la condizione di incollocazione non possa equipararsi a quella di
disoccupazione o non occupazione, essendo semmai integrata dalla situazione di
chi non abbia conseguito una occupazione in mansioni compatibili con le sue
condizioni fisiche, pur avendo compiuto l’onere di cercarla avvalendosi
dell’iscrizione nelle speciali liste degli aventi diritto al collocamento obbligatorio
a norma della legge 482 del 1968.
Ebbene, l’’iscrizione o la domanda di iscrizione in tali liste può essere provata con
qualsiasi mezzo idoneo, la cui idoneità probatoria deve essere liberamente
valutata dal giudice. Inoltre, qualora non sia intervenuto alcun accertamento della
invalidità e della misura di essa, con conseguente impossibilità di iscrizione alle
liste del collocamento obbligatorio a dispetto della domanda dell’interessato, lo
stato di non occupazione può essere provato con ogni mezzo, comprese le
presunzioni. Infatti in questo caso lo stato di incollocazione al lavoro deve essere
intesa quale condizione di disoccupazione e non occupazione. Solo dopo la
comunicazione all’interessato del verbale di visita della commissione sanitaria o
dopo la pubblicazione della sentenza, che riconosca un grado di invalidità
sufficiente all’iscrizione nelle predette liste speciali del collocamento, sorge per
l’invalido, per continuare a fruire dell’assegno di invalidità di cui all’art.13 l.118
del 1971, l’obbligo di iscriversi nelle liste del collocamento obbligatorio.
In particolare in giurisprudenza si è osservato in materia quanto segue.
“In materia di diritto all'assegno mensile di invalidita', per gli invalidi
infracinquantacinquenni, deve ritenersi incollocato al lavoro non gia' l'invalido
che sia disoccupato o non occupato, bensi' colui che, essendo iscritto nelle liste di
collocamento obbligatorio, non abbia trovato una occupazione compatibile con le
sue condizioni psico - fisiche, a nulla rilevando il fatto che non abbia ancora
ottenuto il riconoscimento della percentuale di riduzione della sua capacita' di
lavoro da parte delle competenti commissioni sanitarie, essendo necessaria, in
questo caso, l'esistenza della domanda di iscrizione nelle predette liste, elemento
al quale non si puo' supplire con la prova dello stato di disoccupazione, anche
perche' e' possibile inoltrare la domanda all'ufficio del lavoro senza che sia
necessario il preventivo accertamento da parte delle competenti commissioni
sanitarie. Nell'ipotesi di invalido che abbia superato i 55 anni (ma non i 65) e che
non ha piu' diritto ad essere iscritto nelle liste di collocamento obbligatorio,
invece, il requisito della incollocazione al lavoro coincide con uno stato di
effettiva disoccupazione, che deve essere provato con gli ordinari mezzi di prova,
comprese le presunzioni” [ Cass., sez. lav., 24.1.03 n.1096].
Pertanto, ai fini del diritto all'assegno di invalidita' civile, l'integrazione del
requisito - costitutivo del diritto - dello stato di incollocazione al lavoro
presuppone necessariamente che l'interessato si sia iscritto nelle liste speciali
degli aventi diritto al collocamento obbligatorio o che lo stesso, quanto meno,
abbia presentato la relativa domanda all'ufficio competente. Alcuna valenza
esonerativa può attribuirsi al mancato conseguimento del riconoscimento, da parte
delle commissioni sanitarie di cui alla legge n. 118 del 1971, di un grado di
invalidita' sufficiente ai fini del collocamento agevolato, considerato che appare
possibile la presentazione della domanda di iscrizione all'ufficio di collocamento
35
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anche in difetto del preventivo accertamento del requisito sanitario da parte delle
commissioni sanitarie, con allegazione della documentazione apprestata
dall'interessato. Che è quanto sembra confermato dal tenore dell'art. 19 della legge
n. 482 del 1968 e dal fatto che l'art. 11 della legge n.118 del 1971, nel disciplinare
la presentazione delle domande alle commissioni sanitarie istituite con la stessa
legge, fa riferimento solo a quelle finalizzate al conseguimento delle provvidenze
ex artt. 12, 13, 23 e 24. Pertanto, il requisito dell'incollocazione al lavoro può
essere valutato a prescindere dall'iscrizione nelle liste del collocamento
obbligatorio solo nel caso di impossibilità di iscrizione determinata dal
superamento del limite di eta' di cinquantacinque anni (poi eliminato, come si
vedrà infra, dalla nuova disciplina delle assunzioni obbligatorie di cui alla legge n.
68 del 1999, nell'ottica della massima valorizzazione di un collocamento mirato
dei lavoratori piu' deboli). Peraltro, lo stato di incollocazione puo' intervenire alla stregua del disposto dell'art. 149 disp. att. cod. proc. civ. - anche in corso di
causa , ferma restando la regola secondo la quale il trattamento decorre dal primo
giorno del mese successivo a quello in cui si sia perfezionata la fattispecie e senza
che sia necessaria la presentazione di una nuova domanda diretta alla verifica
della sussistenza di detto requisito [ Cass., sez. lav.,28.3.02 n.4555]. Il requisito
dell’incollocazione al lavoro può intervenire pertanto anche in corso di causa e
deve comuqnue rimanere nel tempo, non potendosi riconoscere l’assegno mensile
de quo se non per il periodo di non collocazione.
Ebbene, già lo si è anticipato, la legge 12 marzo 1999 n.68, all’art.22, ha abrogato
a decorrere dal 17 gennaio 2000 la legge 482 del 1968 il cui art.19 prevedeva, per
le singole categorie di invalidi, l’iscrizione in apposite liste ai fini del
collocamento obbligatorio, introducendo con l’art.2 per tali soggetti disabili un
sistema di collocamento mirato costruito su di una valutazione adeguata della
capacità lavorativa del soggetto al fine del suo proficuo inserimento nel mondo
del lavoro. In particolare è stato previsto all’art.8 che gli uffici competenti, all’atto
della iscrizione delle persone disabili disoccupate nell’apposito elenco, debbano
annotare, per ogni persona, le capacità lavorative, le abilità, le competenze e le
inclinazioni, nonché la natura ed il grado della minorazione, analizzando le
caratteristiche dei posti da assegnare a detti soggetti.
Ebbene, accanto alle suddette prestazioni altre ve ne sono.
La l.21.11.88 n.508, ad esempio, prevede, a favore dei soggetti affetti da sordità
congenita o acquisita che ne abbia compromesso il normale apprendimento del
linguaggio parlato, una indennità di comunicazione erogata a prescindere dalla
verifica circa la sussistenza di qualsiasi condizione reddituale; viceversa ai
minorati ipoacusici (i quali soffrano una perdita uditiva superiore ai 60 decibel
nell’orecchio meno malato nelle frequenze di 500, 1000 e 2000 hertz) è
riconosciuto il diritto ad una indennità mensile di frequenza siccome prevista per i
mutilati ed invalidi civili minori di 18 anni.
Vi è poi l’indennità di accompagnamento che spetta ai mutilati ed invalidi civili
totalmente inabili per affezioni fisiche o psichiche di cui agli artt.2 e 12 della
l.30.3.71 n.118, nei cui confronti le commissioni sanitarie abbiano accertato che si
trovano nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un
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accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita,
abbisognano di un’assistenza continua. I suddetti requisiti (impossibilità di
deambulazione e necessità di assistenza continua per inidoneità al compimento
degli atti della vita quotidiana) sono qualificati quali alternativi dalla
giurisprudenza maggioritaria, sicchè ciascuno di essi è di per sé sufficiente a
fondare l’attribuzione del beneficio in oggetto.
“Poiche' l'indennita' di accompagnamento, ai sensi dell'art. 1 della legge 11
febbraio 1980, n. 18, spetta qualora sussistano, ancorche' alternativamente, le
condizioni della impossibilita' di deambulare senza l'aiuto permanente di un
accompagnatore o della incapacita' di compiere gli atti quotidiani della vita senza
continua assistenza, l'accertamento giudiziario deve avere ad oggetto tali
presupposti e la mera coincidenza di uno di essi con quello che giustificherebbe
un provvedimento di interdizione, da adottarsi con il procedimento di cui agli artt.
712 e seguenti cod. proc. civ., non assume alcun rilievo preclusivo ai fini
dell'attribuzione del beneficio richiesto” [Cass. sez. lav.12.12.03 n.19005].
Ai fini della valutazione di dette situazioni non rilevano episodici contesti, ma è
richiesta la verifica della loro inerenza costante al soggetto, non in rapporto ad
una soltanto delle possibili esplicazioni del vivere quotidiano (quali per esempio il
portarsi fuori dalla propria abitazione), ovvero alla necessità di assistenza
determinata da patologie particolari e finalizzata al compimento di alcuni,
specifici, atti della vita quotidiana.
Come la Corte ha gia' rilevato, riconoscendo la possibilita' di cumulo delle
prestazioni assistenziali connesse all'invalidita' con l'indennita' di
accompagnamento, tale indennita' ha un carattere autonomo e aggiuntivo,
derivante da una funzione e da una natura del tutto specifiche e costituisce una
particolare provvidenza in favore di soggetti non autosufficienti al fine di porli in
grado di far fronte alle esigenze che la loro condizione comporta, consentendo ad
essi condizioni esistenziali compatibili con la dignita' della persona umana. Fermi
detti principi, e' evidente che ai fini dell'attribuzione dell'indennita' di
accompagnamento, il compimento o meno della maggiore eta' non costituisce
affatto un criterio razionale adeguato, ma appare, anzi, un incongruo elemento di
discriminazione [C.Cost.pres. Casavola est Ferri, 8.3.93 n.88].
La nozione di permanenza di cui supra comporta l’impossibilità di riconoscere il
suddetto diritto nelle ipotesi in cui l'incapacità a deambulare o a compiere gli atti
quotidiani della vita si presenta come conseguenza di una patologia a rapida
evoluzione.
Infatti, in caso di gravi malattie, tali da rendere l'individuo inabile al 100% e da
fare ragionevolmente prevedere che la morte sopraggiunga appunto in dipendenza
delle stesse, finchè l'evento letale sia "certus an ma incertus quando" non può
negarsi la necessità di un'assistenza permanente, destinata a protrarsi a tempo
indeterminato, salvo che sia possibile formulare un giudizio prognostico in ordine
all'inevitabile sopravvenienza della morte in un ambito temporale ben preciso e
ristretto, al punto che la "continua assistenza" risulti finalizzata non già a
consentire il compimento degli atti quotidiani bensì a fronteggiare un'emergenza
terapeutica. Il giudizio sulla tendenziale "permanenza" dello stato invalidante
deve avvenire con riguardo al momento della presentazione della domanda e non
ex post, in relazione al verificarsi del decesso poco dopo il riconoscimento dello
stato invalidante, atteso che per numerose patologie il decesso è evento sempre
possibile ma non necessariamente imminente, onde il breve lasso di tempo
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intercorso tra l'insorgere dello stato invalidante e il decesso non dimostra, di per
sè, la rapida evolutività della malattia.
Si è osservato, in particolare, come “gli esiti permanenti delle infermita', previsti
dall'art. 1 del d.lgs. n. 509 del 1988 (con riferimento all'art. 2 comma secondo
della legge 30 marzo 1971, n. 118) non possono che essere quelli destinati
prevedibilmente a permanere nel corso successivo della vita del soggetto,
indipendentemente dalla durata (constatabile ex post) della vita medesima; ne
consegue che la piu' o meno rapida evoluzione di quelle infermita' verso la morte
del soggetto che abbia precedentemente presentato domanda per il trattamento
assistenziale a carico dello Stato non incide sul carattere permanente degli esiti
delle infermita' medesime, e, anzi, ne costituisce da un punto di vista logico e
giuridico conferma evidente” [Cass., sez. lav., 17.12.03 n.19338].
Pertanto, “ai fini del riconoscimento del diritto alla indennita' di
accompagnamento prevista dalla legge 11 febbraio 1980, n. 18, e' necessario il
raggiungimento della soglia invalidante nella misura del 100 per cento e che il
soggetto si trovi nella incapacita' di deambulare senza l'aiuto permanente di un
accompagnatore, ovvero che abbisogni di una assistenza continua per non essere
in grado di compiere autonomamente le attivita' della vita quotidiana, senza che
rilevi ai fini della esclusione della "permanenza" dello stato invalidante il decesso
del soggetto che si verifichi anche a meno di un mese dalla maturazione del diritto
al beneficio e senza che alla liquidazione dell'indennita' in riferimento al periodo
inframensile sia d'ostacolo il fatto che l'indennita' e' quantificata mensilmente,
potendosi in tal caso procedere al relativo frazionamento proporzionatamente a
quel periodo [Cass.sez. lav., 9.11.04 n.21328 che ha affermato questo principio in
relazione ad un caso di decesso dopo ventisei giorni dalla data di maturazione del
diritto].
Conseguentemente, il diritto ad indennita' di accompagnamento ben può essere
riconosciuto, ricorrendone le condizioni, anche per periodi molto brevi,
eventualmente inferiori al mese. È quanto ha sottolineato la Suprema Corte in una
fattispecie in cui la CTU aveva accertato che l'impossibilita' di deambulare era
intervenuta meno di un mese prima della morte dell'assistito e la sentenza di
merito, cassata dalla Corte di Cassazione., aveva rigettato la domanda dell'erede
agente in giudizio, negando il diritto all'indennita', senza fornire alcuna
motivazione in proposito [Cass., sez. lav., 27.5.04 n.10212].
D’altra parte, la sussistenza del presupposto della necessità di un aiuto
permanente rimane esclusa in presenza di malattie suscettibili di stabilizzazione
ad un livello tale da consentire all'assistito una residua capacità di svolgere le
attività fondamentali.
La nozione di incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita vale ad
individuare chiunque, pur potendo spostarsi nell'ambito domestico o fuori, non sia
capace per la natura della malattia di provvedere alla propria persona o ai bisogni
della vita quotidiana, ovvero non possa sopravvivere senza l'aiuto costante del
prossimo, riferendosi la nozione di soggetti che "abbisognano di un'assistenza
continua", cui all'art. 1 della legge n. 18/1980, anche a coloro che, a causa di
disturbi psichici, non siano in grado di gestirsi autonomamente per le necessità
della vita quotidiana. Nè è incompatibile con la attribuibilità della suddetta
prestazione la circostanza che l'invalido psichico, in caso di patologie di
particolare gravità, possa necessitare anche di altre forme di tutela (come ad
esempio il controllo continuo con eventuale ricovero in appositi istituti),
considerato che tali forme di tutela operano su un piano e con funzione ben
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diversa dalla finalità economica propria dell'indennità di accompagnamento. In
materia di patologie psichiche e pur sempre ai fini dell'attribuzione dell'indennità
di accompagnamento deve sussistere la necessità di una assistenza continua per il
compimento degli atti necessari della vita quotidiana e non esclusivamente
finalizzata alla prevenzione o al contenimento di possibili ed episodiche
manifestazioni violente o comunque pericolose di una malattia psichica.
Giova, del resto, anticipare fin d’ora come nella disciplina di cui all’art.1 l.18 del
1980, l’indennità di accompagnamento spetta non solo ai ciechi assoluti (per i
quali non è richiesta neanche la prova dell’esigenza di accompagnamento), ma
anche ai soggetti affetti da cecità parziale per i quali sia accertato, in base alla
prova offerta in relazione alle specifiche condizioni patologiche, la necessità
dell’assistenza continua ovvero dell’aiuto permanente di un accompagnatore.
Il diritto all’indennità non può essere concesso a favore degli invalidi civili gravi
ricoverati gratuitamente nelle strutture pubbliche; non è subordinato ad alcun
limite reddituale e decorre dal primo giorno del mese successivo a quello nel
quale venne presentata la domanda o a quello nel quale è stata accertata
l'insorgenza della inabilità totale; tale decorrenza vale a configurare la consistenza
stessa del diritto riconosciuto dalla legge e non rappresenta affatto uno "spatium
deliberandi" concesso all'ente assistenziale in ipotetica analogia con il criterio dei
centoventi giorni dalla domanda amministrativa, previsto in via generale dall'art.
7 della legge 11 agosto 1973, n. 533, perchè si verifichi la mora relativamente alla
corresponsione degli interessi legali.
In particolare si è evidenziato che “l'art. 3 l. n. 18 del 1980, nel disporre che
l'indennita' di accompagnamento decorre dal primo giorno del mese successivo a
quello nel quale viene presentata la domanda, non pone una presunzione di
sussistenza, a quella data, dei presupposti per il riconoscimento del beneficio
richiesto, ma pone, al contrario, un limite temporale alla riconoscibilita' di detto
beneficio, nel senso che, ove dall'accertamento sanitario risulti che la situazione
legittimante il beneficio era presente gia' al momento della domanda
amministrativa, o prima ancora, il suddetto beneficio non puo' in ogni caso essere
riconosciuto anteriormente al primo giorno successivo a quello di presentazione
della domanda, ferma restando la possibilita' di una decorrenza successiva in caso
di accertamento della decorrenza dei presupposti di legge da epoca successiva”
[Cass., sez. lav., 20.4.04 n.7576].
Del resto, nella ipotesi di istanza di riconoscimento del diritto a tale beneficio, una
volta che l'invalido abbia fornito la dimostrazione della sussistenza delle patologie
legittimanti la erogazione della prestazione, automaticamente la decorrenza di
essa deve collocarsi, a norma dell'art. 3, terzo comma, della legge n. 18 del 1980,
al primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda, restando
invece a carico dell'amministrazione onerata della prestazione di provare la
eventuale diversa data di insorgenza dello stato inabilitante.
“Nell'ipotesi di istanza di riconoscimento del diritto all'assegno di invalidita',
come pure del diritto alla pensione di invalidita' nonche' dell'indennita' di
accompagnamento, una volta che l'invalido abbia fornito la dimostrazione della
sussistenza delle patologie legittimanti il beneficio, automaticamente la
decorrenza di questo si colloca - in assenza di una diversa data indicata dalle
competenti Commissioni sanitarie - al primo giorno del mese successivo a quello
di presentazione della domanda in sede amministrativa, restando a carico della
Amministrazione debitrice della prestazione l'onere di provare eventualmente una
39
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diversa data di insorgenza dello stato inabilitante” [Cass. sez. lav.27.8.03 n.
12564].
Semmai non è possibile fissare un termine ad quem della prestazione.
“L'accertamento dei requisiti sanitari previsti dalla legge per la concessione della
indennita' di accompagnamento non consente al giudice di merito di stabilire un
termine finale per il beneficio, a meno che il Ministero competente non fornisca la
prova di un successivo miglioramento delle condizioni sanitarie tale da non
comportare piu' il godimento del beneficio, o lo stesso miglioramento non risulti
comunque accertato in causa. Cio' non significa peraltro che, una volta accertata
la esistenza, ad una determinata data, dei requisiti sanitari relativi alle prestazioni
richieste, ricada sull'amministrazione convenuta l'onere di provare il successivo
venir meno degli stessi, ponendosi una tale affermazione in contrasto con il
principio secondo il quale, anche in caso di revoca di una prestazione in atto,
l'amministrazione non ha l'onere di provare, nel giudizio promosso
dall'interessato, il mutamento delle condizioni di fatto rispetto a quelle in presenza
delle quali il beneficio era stato concesso (salvo il caso di giudicato sulla
preesistenza del diritto), in quanto oggetto della controversia non e' la legittimita'
dell'atto di revoca, ma la esistenza del diritto stesso alla prestazione. E' il giudice
che, a seconda delle circostanze, puo' valorizzare presunzioni di fatto circa la
permanenza nel tempo di determinate situazioni psicofisiche e sanitarie, in difetto
di contrarie emergenze” [Cass., sez. lav. 14.7.04 n.12998].
D’altronde, comunque, la permanenza del diritto al conseguimento della
prestazione postula la sopravvivenza delle condizioni ex lege in virtù delle quali
la prestazione era stata riconosciuta.
“Premesso che il diritto alle prestazioni assistenziali nasce dalla legge, quando si
realizzino le condizioni da questa previste, e che gli atti dell'amministrazione o
dell'ente pubblico hanno la natura di meri atti di certazione, ricognizione e
adempimento - e non di concessione della prestazione -, il diritto alla prestazione
viene meno nel momento in cui venga accertata la insussistenza delle condizioni
cui la legge subordina la corresponsione della prestazione. Ne consegue che le
erogazioni indebite effettuate dopo l'accertamento della insussistenza dei requisiti
non sono sottratte alla regola generale dell'art. 2033 cod. civ., restando irrilevante
il mancato rispetto delle norme che impongono all'amministrazione di attivarsi
prontamente, sospendendo i pagamenti ed emanando il formale provvedimento di
revoca entro termini prefissati, concretizzandosi tali atti (sospensione e revoca) in
meri atti di gestione del rapporto obbligatorio. Ne', cosi' interpretato, il sistema
normativo della ripetibilita' delle prestazioni assistenziali indebitamente erogate
contrasta con l'art. 38 Cost., giacche' e' ragionevole che la fine dell'affidamento
dell'assistito nella definitivita' dell'attribuzione patrimoniale ricevuta venga fatta
risalire al momento dell'accertamento amministrativo(ancorche' precedente il
formale atto di revoca), del venir meno delle condizioni di legge per la erogazione
di quelle prestazioni” [Cass., sez. lav., 4.2.04 n.2056].
Giova, infine, ricordare come le condizioni di cui all’art.1 della l.11.2.80 n.18 ai
fini del riconoscimento del diritto all’indennità di accompagnamento (ovvero
l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore e
l’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita con conseguente necessità di
assistenza continua) siano necessarie anche per i soggetti ultrasessantacinquenni.
Né varrebbe a coonestare un assunto contrario il rilievo che l’art.6 del dlgs 509
del 1988 prevede che, per la concessione dell’indennità de qua, possano
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considerarsi mutilati ed invalidi civili gli ultrasessantacinquenni che abbiano
difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età:
costituisce questa, invero, non un’autonoma ipotesi di attribuzione dell’indennità,
semmai espressione di un’autonoma valutazione delle condizioni di invalidità, in
analogia del resto a quanto disposto per i minori di 18 anni dal capoverso
dell’art.2 l.n.118 del 1971 [ Cass., sez. lav.,3.2.99 n.931]. Soluzione questa in
linea con l’insegnamento della Corte Suprema che in più occasioni è intervenuta
in materia evidenziando come una siffatta definizione di invalidità sia resa
necessaria (in caso di infradiciottenni ed ultrasessantacinquenni)
dall’impossibilità di far riferimento alla riduzione della capacità lavorativa [
Cass., sez. lav.,13.5.00, n.6180; Cass., sez. lav., 3.2.99, n.931; cfr. del resto anche
Cass., sez. lav., 1339 del 1993].
“Tali requisiti sono richiesti anche per gli ultrasessantacinquenni, poiche' l'art. 6
del D.Lgs n. 509 del 1988 (che ha aggiunto il terzo comma all'art. 2, della legge n.
118 del 1971), lungi dal configurare un'autonoma ipotesi di attribuzione
dell'indennita', pone solo le condizioni perche' detti soggetti siano considerati
mutilati o invalidi – in analogia a quanto disposto per i minori di anni diciotto
dall'art. 2, comma secondo, della legge n. 118 del 1971 nel testo originario - non
potendosi, per entrambe le categorie, far riferimento alla riduzione della capacita'
lavorativa, senza che possano rilevare valutazioni per fasce d'eta' - con la
conseguenza di escludere l'indennita' quando il soggetto abbia raggiunto una
fascia di eta' avanzata o di decrepitezza tale che funzioni e compiti vengano meno
quasi del tutto - giacche' anche le persistenti difficolta' a compiere le residue
funzioni (per quanto ridotte esse siano) legittima il riconoscimento della suddetta
indennita'” [ Cass., sez. lav.,27.6.03 n.10281].
Ed ancora: “L'art. 6 D.Lgs. 23 novembre 1988 n. 509, nel modificare l'art. 2 legge
n. 118 del 1971 con l'aggiunta di un terzo comma e nel prevedere che, ai fini
dell'indennita' di accompagnamento, si considerano mutilati e invalidi gli
ultrasessantacinquenni che abbiano "difficolta' persistenti" a svolgere i compiti e
le funzioni proprie della loro eta', consente a tali soggetti di essere annoverati fra
gli aventi diritto all'indennita' di accompagnamento alla sola condizione che
abbiano non gia' l'impossibilita' ma soltanto la persistente difficolta' di
deambulare autonomamente senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o la
persistente difficolta' di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita; ne'
per gli stessi soggetti e' richiesto il presupposto della totale inabilita', essendo
inutile richiedere la totale inabilita' al lavoro a soggetti che, per l'avvenuto
raggiungimento dell'eta' pensionabile, non hanno necessita' di espletare un'attivita'
lavorativa” [ Cass., sez. lav.,3.4.01 n.4904].
Da ultimo vale evidenziare come “l'art. 149 disp. att. cod. proc. civ., che impone
di valutare gli aggravamenti incidenti sul complesso invalidante verificatisi nel
corso del procedimento amministrativo e giudiziario, trova applicazione, quale
espressione di un principio generale di economia processuale, nonche' in base al
canone interpretativo desunto dal precetto costituzionale di razionalita' e di
uguaglianza, oltre che per il riconoscimento del diritto alle prestazioni
assistenziali dovute ai mutilati e invalidi civili ai sensi della legge 30 marzo 1971,
n. 118, di conversione del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5, anche per la particolare
prestazione assistenziale dovuta agli invalidi non autosufficienti, e cioe' per
l'indennita' di accompagnamento di cui alla legge 11 febbraio 1980, n.18. Ne'
l'operativita' della citata disposizione puo' ritenersi limitata al solo giudizio di
primo grado, giacche' il giudizio concernente le prestazioni assistenziali non ha
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per oggetto l'atto amministrativo di reiezione della domanda bensi' l'esistenza del
diritto dell'assicurato alla prestazione stessa, e quindi dei relativi presupposti che,
in applicazione dell'art. 149 disp. att. cod. proc. civ., devono essere accertati non
solo con riferimento alla data dell'atto amministrativo di reiezione, ma con
riferimento al periodo successivo e fino alla pronuncia giudiziaria. Il relativo
obbligo non e' subordinato ad una richiesta di parte e neanche alla produzione di
documenti ad opera di questa, ma puo' essere assolto d'ufficio, anche in appello,
conservando il giudice anche in tale fase, nei limiti del devoluto, l'insindacabile
potere di apprezzare l'idoneita' degli elementi prospettati dalla parte o rilevati
d'ufficio ad esprimere un sopravvenuto deterioramento della condizione
patologica e a delineare l'esigenza di conseguenti accertamenti”. [Cass. sez.
lav.12.12.03.n.19005]
17. Ebbene, oltre alle suddette prestazioni di natura assistenziale e pertanto
svincolate da qualsiasi requisito contributivo (ovvero le cosiddette pensioni di
invalidità civile), l’Ordinamento giuridico conosce altre prestazioni riservate
appunto ai soggetti assicurati.
Ecco la pensione di inabilità che, come è noto, sottintende una assoluta e
permanente incapacità a svolgere qualsiasi attività lavorativa, a causa di infermità
ovvero di difetto fisico o mentale. Legittimato a conseguirla è l’assicurato il
quale, al tempo della domanda, abbia almeno cinque anni di assicurazione e
contribuzione, di cui quanto meno tre nel quinquennio precedente la domanda
stessa.
Infatti, il I comma dell’art.2 l.222 del 1984 recita: “si considera inabile, ai fini del
conseguimento del diritto a pensione nell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed
i superstiti dei lavoratori dipendenti ed autonomi gestita dall'Istituto nazionale della previdenza
sociale, l'assicurato o il titolare di assegno di invalidità con decorrenza successiva alla data di
entrata in vigore della presente legge il quale, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si
trovi nell'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa ”.
Il riconoscimento del diritto alla pensione di inabilità pretende pertanto
l’accertamento dell'impossibilità assoluta a svolgere qualsiasi attività lavorativa,
secondo il tenore di cui all’art. 2 della legge n. 222 del 1984 e quindi impone una
cauta valutazione di ogni singola fattispecie. Appare, infatti, necessario
apprezzare la concreta possibilità di reimpiego delle eventuali energie lavorative
residue da accertare in relazione anche alle generali attitudini del soggetto.
Conseguentemente, non significativa ai fini di una esclusione del diritto alla
prestazione de qua appare la circostanza che la patologia riscontrata non determini
una invalidità nella percentuale massima ipotizzabile. Occorre, infatti, verificare,
nel caso concreto, che la residua capacità non possa essere reinvestita in attività
confacenti rispetto a quella già svolta e comunque alle attitudini del soggetto de
quo. Né vale di per sé a pregiudicare la possibilità di conseguire detta prestazione
neppure quella residua capacità che consenta esclusivamente attività lavorative
non proficue; soluzione questa che sembrerebbe essere imposta dal combinato
disposto tra gli artt. 1 e 38 Cost.. Invero, il lavoro che non consente il
conseguimento della prestazione previdenziale è soltanto quello che, espletato in
attività confacenti alle attitudini dell'assicurato e non dequalificanti, abbia il
requisito della remuneratività, e sia quindi idoneo ad assicurare un'esistenza libera
e dignitosa (art. 36 Cost.).
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43
Il Giudice, adito al fine di conseguire la pensione ordinaria di inabilità, può
comunque riconoscere, ricorrendone i presupposti, il solo assegno ordinario [
Cass., sez. lav.,1.7.98 n.6433] che, è noto, spetta all’assicurato la cui capacità di
lavoro sia ridotta a meno di un terzo, per infermità, difetto fisico o mentale, in
relazione ad occupazioni compatibili rispetto alle sue attitudini.
In ordine alla domanda di attribuzione dell'assegno di invalidita', la valutazione
complessiva del quadro morboso dell'assicurato va effettuata con specifico
riferimento alla sua incidenza sull'attivita' svolta in precedenza e su ogni altra che
sia confacente all'assicurato ossia che, in relazione all'eta', capacita' ed esperienza
di quest'ultimo, non lo esponga ad ulteriore danno alla salute [ Cass., sez.
lav.,21.8.04, n.16522].
Legittimato a conseguirla è l’assicurato che, alla data della domanda, abbia già
maturato cinque anni di assicurazione e contribuzione, di cui almeno tre nel
quinquennio precedente la domanda relativa. L’esistenza del requisito
contributivo delle prestazioni previdenziali giudizialmente pretese deve essere
provata dall’assicurato e quindi verificata dal giudice adito, non potendo valere a
coonestare l’assunto contrario il rilievo della disponibilità in capo ad Inps della
documentazione amministrativa relativa.
Tuttava, si è osservato che “ove sia accertata l'esistenza del diritto alla pensione di
inabilita' prevista dall'art. 2 della legge n. 222 del 1984 e nel contempo sia
contestata la presenza dei fatti (assenza di compensi per lavoro autonomo o
subordinato; cancellazione dagli elenchi anagrafici degli operai agricoli, dagli
elenchi dei lavoratori autonomi e dagli albi professionali; rinuncia ai trattamenti a
carico dell'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione e ad ogni altro
trattamento sostitutivo od integrativo della retribuzione) ai quali e' condizionato il
relativo contenuto (la decorrenza), il giudice che non giunga all'accertamento di
questi fatti, non puo' respingere la domanda di condanna ma deve emanare
sentenza di accoglimento subordinando la decorrenza al verificarsi dei fatti in
condizione” [ Cass., sez. lav.,21.1.02 n.602].
La Corte Suprma, infatti, ha evidenziato come “in materia di pensione di inabilita'
i fatti cui si riferisce l'art. 2, commi secondo e quinto, della legge n. 222 del 1984
(assenza di compensi per lavoro autonomo o subordinato, cancellazione dagli
elenchi anagrafici degli operai agricoli, dagli elenchi nominativi dei lavoratori
autonomi e dagli albi professionali, rinuncia ai trattamenti a carico
dell'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione e ad ogni altro
trattamento sostitutivo o integrativo della retribuzione) non integrano requisiti
costitutivi del diritto alla pensione (ulteriori rispetto al requisito sanitario e a
quello contributivo), ma ne rappresentano semplici "conditiones iuris" incidenti
sul relativo contenuto e quindi sulla decorrenza della prestazione. Ne consegue
che ove sia stata accertata l'esistenza del diritto e nel contempo sia contestata la
presenza dei suddetti fatti il giudice che non giunga al relativo accertamento non
puo' respingere la domanda di condanna dell'Istituto assicuratore all'erogazione
della prestazione, ma ha l'obbligo di emettere sentenza con cui, accogliendo la
suddetta domanda, subordina la decorrenza del beneficio al verificarsi dei fatti in
condizione” [ Cass., sez. lav.,14.12.01 n.15806].
D’altra parte dinanzi al giudice adito al fine di conseguire l’assegno de quo, può
essere formulata ex art.149 cpc domanda tesa al conseguimento della pensione.
Infatti, ai sensi dell'art. 149 disp. att. cod. proc. civ. [che impone di valutare gli
aggravamenti incidenti sul complesso invalidante verificatisi nel corso del
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procedimento amministrativo e giudiziario, e che trova applicazione -quale
espressione di un principio generale di economia processuale, nonche' in base al
canone interpretativo, di rilievo costituzionale, di razionalita' e di uguaglianzaanche per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assistenziali dovute ai
mutilati e invalidi civili ai sensi della Legge n. 118 del 1971 (di conversione del
D.L. n. 5 del 1971) e per l'indennita' di accompagnamento di cui alla Legge n.18
del 1980], l'assicurato, ove abbia proposto domanda di attribuzione di assegno di
invalidita' e nel corso del giudizio sia stata accertata a suo carico la sussistenza di
aggravamenti o nuove infermita' tali da determinare una assoluta e permanente
impossibilita' di svolgere qualsiasi attivita' lavorativa, puo' nel medesimo giudizio
avanzare domanda di pensione d'inabilita', giacche' egli sarebbe altrimenti
costretto, secondo quanto dispone l'art. 11 legge n. 222 del 1984, ad attendere
l'esito del giudizio e a ricominciare successivamente l'iter amministrativo, con
l'oggettiva preclusione di una piena tutela del suo diritto proprio in una situazione
che maggiormente richiede sollecita tutela in considerazione del grave stato di
salute e della conseguente inabilita' ad ogni proficuo lavoro, risultando pertanto
conseguentemente lesiva di diritti fondamentali, quali quelli garantiti dagli artt. 3,
24 e 38 Cost..
Né può assumere rilievo, al fine di coonestare una diversa soluzione, la diversita'
dei requisiti posti a base dell'assegno di invalidita' e della pensione d'inabilita' e
che si deve apprezzare unicamente con riguardo al diverso grado di
compromissione della capacita' lavorativa e non anche ai requisiti assicurativi e
contributivi, in quanto la rinunzia alla retribuzione e ad ogni trattamento
sostitutivo o integrativo della stessa e la cancellazione da elenchi o albi
professionali di cui all'art. 2, secondo comma, legge n. 222 del 1984 non
integrano requisiti costitutivi ulteriori per il sorgere del diritto alla pensione di
inabilita', bensi' –come si è anticipato alla luce del ricordato indirizzo
giurisprudenziale- mere condizioni di erogabilita' del trattamento pensionistico, in
relazione ad un diritto gia' sorto e riconosciuto per effetto di quelli medico-legali e
contributivi [cfr. Cass., sez. lav.,8.7.04, n.12658].
18. Nella legge 3 aprile 2001, n. 138, dettata in materia di classificazione e
quantificazione delle minorazioni visive e norme in materia di accertamenti
oculistici, è dato rintracciare la definizione delle varie forme di minorazioni visive
suscettibili di riconoscimento giuridico, nel rispetto dei parametri accettati dalla
medicina oculistica internazionale.
È per tal via tracciata una classificazione, di natura tecnico-scientifica, tuttavia
incapace di incidere sulla normativa in materia di prestazioni economiche e
sociali in campo assistenziale.
Ebbene sono definiti ciechi totali (art.2):
a) coloro che sono colpiti da totale mancanza della vista in entrambi gli occhi;
b) coloro che hanno la mera percezione dell'ombra e della luce o del moto della
mano in entrambi gli occhi o nell'occhio migliore;
c) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 3 per cento.
Viceversa sono qualificabili quali ciechi parziali (art.3):
a) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/20 in entrambi gli occhi o
nell'occhio migliore, anche con eventuale correzione;
b) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 10 per cento.
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Accanto a queste due categorie sono quelle degli ipovedenti, gravi, medio-gravi e
lievi.
Si definiscono ipovedenti gravi (art.4):
a) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/10 in entrambi gli occhi o
nell'occhio migliore, anche con eventuale correzione;
b) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 30 per cento.
Invece ipovedenti medio-gravi (art.5) sono:
a) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 2/10 in entrambi gli occhi o
nell'occhio migliore, anche con eventuale correzione;
b) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 50 per cento.
Infine, sono definiti ipovedenti lievi:
a) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 3/10 in entrambi gli occhi o
nell'occhio migliore, anche con eventuale correzione;
b) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 60 per cento.
In effetti, l’ordinamento giuridico conosce altre definizioni di cecità.
La legge 10 febbraio 1962, n. 66, con cui sono state introdotte nuove disposizioni
relative all'Opera nazionale per i ciechi civili, recita all’art.8 che tutti coloro i
quali siano colpiti da cecità assoluta o abbiano un residuo visivo non superiore ad
un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione hanno diritto alla
corresponsione della pensione a decorrere dal compimento del 18° anno di età.
La l.5.3.65 n.155, dettata in tema di modifiche ed integrazioni delle norme sul
collocamento obbligatorio dei centralinisti ciechi considera privi della vista coloro
che sono colpiti da cecità assoluta o hanno un residuo visivo non superiore a un
decimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione (art.2).
A sua volta, la l. 27 maggio 1970, n. 382 contenente le disposizioni in materia di
assistenza ai ciechi civili, prevedeva all’art.1 che la pensione non riversibile, di
cui alla legge 10 febbraio 1962, n. 66, fosse aumentata:
da lire 18.000 a lire 32.000 mensili per i ciechi assoluti;
da lire 14.000 a lire 18.000 mensili per coloro che avessero un residuo visivo non
superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione.
Rispetto a quelle definizioni, l’intervento del legislatore del 2001 si segnala nella
misura in cui sembra avere recepito le indicazioni scientifiche dell’Oms che, è
noto, costruisce la nozione di cecità e di ipovedenza non soltanto sul visus ma
anche sul range del campo visivo.
Tuttavia, giova ripetere, in considerazione della natura meramente tecnica della
classificazione del 2001 e degli evidenziati scarti rispetto alle definizione di cecità
in relazione alle singole provvidenze economiche poste a tutela dei ciechi da parte
dell’Ordinamento giuridico, deve sottolinearsi la scarsa incidenza di detto
recepimento.
Non a caso la Corte Suprema [Cass., sez. lav., 8.4.00 n.4450] già in precedenza
aveva osservato come, la nozione di cecità da porre a fondamento del
riconoscimento del diritto a pensione di invalidita' per i soggetti privi di vista va
desunta dagli artt. 8 della legge n. 66 del 1962 e 1 della legge n. 382 del 1970 che sono le uniche due norme che si occupano della materia - secondo i quali
possono beneficiare della suddetta provvidenza i ciechi assoluti e coloro che
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hanno un residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con
eventuale correzione. Tale nozione non corrisponde a quella cui si riferiscono le
norme che prevedono, a favore della suddetta categoria di soggetti, il diritto al
collocamento al lavoro agevolato, le quali fanno riferimento ai ciechi assoluti e a
coloro che hanno un residuo visivo non superiore ad un decimo in entrambi gli
occhi con eventuale correzione. Infatti, la diversità delle situazioni
rispettivamente disciplinate dalle suddette normative da un lato ed il
riconoscimento di un potere discrezionale del legislatore di scelta circa il tipo di
intervento da praticare per i soggetti menomati nella vista valgono di per sé a
sottrarre la previsione di due differenti nozioni di cecita' a qualsiasi censura di
violazione dell'art. 3 della Costituzione.
Ebbene, la tutela dei soggetti affetti da cecità si indirizza su due canali di
intervento: accanto alla promozione di forme di inserimento e di integrazione
lavorativa dei suddetti disabili, il sistema normativo prevede, già lo si è
accennato, misure di natura patrimoniale.
Infatti, a favore dei ciechi assoluti, l’ordinamento conosce una pensione non
reversibile e l’indennità di accompagnamento.
A favore dei ciechi parziali (ventesimisti), invece, sono previste una pensione ed
una indennità speciale.
Per quanto concerna le misure di sostegno non patrimoniale, vale osservare come
la l.12.3.99 n.68, nel riformare il sistema del collocamento obbligatorio dei
disabili, ha comunque fatto salve quelle norme previgenti che tracciavano un
avviamento lavorativo agevolato dei centralinisti telefonici, dei fisioterapisti e
degli insegnanti affetti da cecità.
Ecco la l.29.3.85 n.113 [in tema di aggiornamento della disciplina del
collocamento al lavoro e del rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti] che
all’art.3 dettato in materia di obblighi dei datori di lavoro, recita quanto segue: “1.
I centralinisti telefonici in relazione ai quali si applicano le disposizioni della
presente legge sono quelli per i quali le norme tecniche prevedano l'impiego di
uno o più posti-operatore o che comunque siano dotati di uno o più postioperatore.
2. Anche in deroga a disposizioni che limitino le assunzioni, i datori di lavoro
pubblici sono tenuti ad assumere, per ogni ufficio, sede o stabilimento dotati di
centralino telefonico, un privo della vista iscritto all'albo professionale di cui
all'articolo 1 della presente legge.
3. I datori di lavoro privati sono tenuti ad assumere, per ogni centralino telefonico
con almeno cinque linee urbane, un privo della vista iscritto all'albo professionale
disciplinato dalla presente legge.
4. Qualora il centralino telefonico, in funzione presso datori di lavoro pubblici o
privati, abbia più di un posto di lavoro, il 51 per cento dei posti è riservato ai
centralinisti telefonici privi della vista.
5. Con provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri vengono
individuati i servizi dei datori di lavoro pubblici ai cui centralini telefonici i privi
della vista non possono essere adibiti ovvero possono esserlo in misura inferiore a
quella indicata nel comma precedente.
6. In attesa dell'individuazione dei servizi di cui al precedente comma, gli
obblighi della presente legge non si applicano a:
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a) [le centrali ed i centralini dell'Azienda telefonica di Stato destinati alla
esclusiva ed indiscriminata fornitura al pubblico di un servizio telefonico
immediato, continuativo ed incondizionato];
b) i centralini destinati ai servizi di polizia, della protezione civile e della difesa
nazionale.
7. L'esclusione di cui al precedente comma si applica, [con gli stessi limiti stabiliti
per l'Azienda, telefonica di Stato,] anche alle società private concessionarie dei
servizi telefonici.
8. I datori di lavoro pubblici e privati che, in base agli obblighi previsti dalla
presente legge, sono tenuti ad assumere un numero di centralinisti non vedenti
superiore rispetto a quello previsto dalla legislazione precedente, hanno facoltà di
ottemperare ai maggiori obblighi entro un anno dalla data di entrata in vigore
della presente legge.”
Ebbene, l'obbligo che la legge n. 113 del 1985 pone ai privati datori di lavoro
muniti di centralini telefonici aventi i requisiti dimensionali previsti dall'art. 3 di
assumere centralinisti privi della vista (ciechi) iscritti all'apposito albo
professionale trova deroga solo nelle ipotesi espressamente previste da detto
articolo, in relazione con quanto prescritto dall'art. 8 che pone a carico della
regione le spese per i necessari adattamenti tecnici del centralino.
Né può lamentarsi alcuna violazione dei precetti costituzionali ex artt.3 e 41 Cost.
nella normativa de qua, la quale rappresenta semmai appunto attuazione dell'art.
41 Cost., che, è noto, consente limitazioni della libertà nello svolgimento delle
attivita' economiche ai fini del perseguimento di finalita' sociali valendo per tal
via a giustificare il sistema delle assunzioni obbligatorie, ispirato appunto a
finalità di solidarietà sociale recuperabili ai principi di cui all'art. 2 Cost. e diretto
all'attuazione di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, quali quelli al
lavoro (art. 4 Cost.) e all'avviamento professionale degli inabili (art. 38, terzo
comma, Cost.).
Riflessioni queste che costituiscono, a ben vedere, la premessa logico\giuridica di
una pronunzia della Corte di Cassazione, chiamata a valutare il caso di una
societa', editrice di un quotidiano, che lamentava tra l'altro l'inesistenza
nell'assetto organizzativo aziendale della figura del centralinista puro e non
vedente. Ebbene la Suprema Corte, confermando la pronunzia del giudice di
merito, ha rilevato come le mansioni accessorie affidate ai centralinisti e
richiedenti l'uso della vista ben potessero essere svolte dai centralinisti vedenti,
rimanendo il lavoratore non vedente assegnato ai soli compiti della sua qualifica
[Cass. sez. lav. 11.12.99 n.13893].
Peraltro, vale ricordare come con Decreto Ministeriale 10 gennaio 2000 siano
state individuate qualifiche equipollenti a quella del centralinista telefonico non
vedente, ai fini dell'applicazione della legge 29 marzo 1985, n. 113, ai sensi di
quanto disposto dall'art. 45, comma 12, della legge 17 maggio 1999, n. 144.
Giova a questo punto segnalare come il diritto al concreto avviamento,
nell’ambito del collocamento obbligatorio, risulti per un verso meritevole di per
sé di una speciale protezione sì da non incidere sulla operatività di altri istituti
patrimoniali posti a garanzia del soggetto debole e, per l’altro, presidiato dallo
strumento civilistico di cui all’art.2932 c.c..
In relazione al primo profilo, appare opportuno infatti ricordare come ai fini
dell'accertamento del diritto alla pensione di invalidità, la valutazione relativa alla
riduzione della capacità di guadagno debba essere compiuta "ex ante", cioè con
riferimento alle occupazioni dell'assicurato, anche diverse da quelle esercitate,
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confacenti in quel momento alle sue attitudini e tali da assicurargli un guadagno
non inferiore ai limiti stabiliti; successivamente, tuttavia, si deve procedere alla
soppressione della prestazione in atto, a norma dell'art. 10, secondo comma, del
R.D. n. 636 del 1939, ove detta capacita' di guadagno cessi, in concreto, di essere
inferiore ai limiti suddetti, in particolare per il conseguimento di una nuova
occupazione attraverso una riqualificazione professionale.
Ma a siffatta ultima regola l'art. 68 della legge 30 aprile 1969 n. 153 (non
modificato dalla legge n. 638 del 1983, di conversione del D.L. n. 463 del 1983)
introduce una deroga a favore dei ciechi che esercitano un'attività lavorativa, allo
scopo di favorire il loro reinserimento sociale [Cass. sez. lav. 23.3.98 n.3027].
In relazione invece al secondo profilo supra ricodarto, occorre sottolineare come,
in caso di indebito rifiuto di assunzione di un centralinista privo della vista
legittimamente avviato, il Giudice, se richiestone, debba applicare l'art. 2932 cod.
civ. e rendere tra le parti sentenza che produca in forma specifica gli effetti del
contratto non concluso, trattandosi di fattispecie possibile e non esclusa dal titolo,
considerato che la legge n. 113 del 1985, in tema di disciplina del collocamento al
lavoro e del rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti, fissa la qualifica, le
mansioni e il trattamento economico e normativo del lavoratore avviato, ivi
compresa l'indennità legale di mansione, mentre assume carattere meramente
residuale il risarcimento economico (art. 1223 e ss cod. civ.) destinato ad
assicurare l'integrale soddisfazione del diritto del centralinista, indebitamente
pretermesso dalla prestazione lavorativa per l'inadempimento del datore di lavoro
[Cass. sez. lav. 14.8.04 n.15913]. Del resto, si è in proposito osservato in
giurisprudenza come: “Il datore di lavoro, che rifiuti ingiustificatamente di
assumere il lavoratore avviato ai sensi della legge n. 482 del 1968, e' tenuto, per
responsabilita' contrattuale, a risarcire l'intero pregiudizio patrimoniale che il
lavoratore ha conseguenzialmente subito durante tutto il periodo in cui si e'
protratta l'inadempienza del datore di lavoro medesimo. Tale pregiudizio puo'
essere in concreto determinato, senza bisogno di una specifica prova del
lavoratore, sulla base del complesso delle utilita' (salari e stipendi) che il
lavoratore avrebbe potuto conseguire, ove tempestivamente assunto, mentre spetta
al datore di lavoro provare l'"aliunde perceptum", oppure la negligenza del
lavoratore nel cercare altra proficua occupazione” [ Cass., sez. lav.,9.2.04
n.2402].
Vale peraltro ricordare anche la legge 28 marzo 1991, n. 120 [Norme in favore dei
privi della vista per l'ammissione ai concorsi nonché alla carriera direttiva nella
pubblica amministrazione e negli enti pubblici, per il pensionamento, per
l'assegnazione di sede e la mobilità del personale direttivo e docente della scuola],
il cui articolo 1 prevede che la condizione di privo della vista di cui al primo
comma dell'articolo 6 della legge 2 aprile 1968, n. 482 non implica di per sé
mancanza del requisito dell'idoneità fisica all'impiego per l'accesso agli impieghi
pubblici, ivi comprese le magistrature ordinaria, militare, amministrativa e
contabile, e per l'ammissione ai concorsi per l'inquadramento nelle qualifiche
funzionali o profili professionali superiori a quelli di appartenenza o nella
qualifica di dirigente. Tuttavia è rimessa la possibilità che nel bando di concorso
si disponga in modo esplicito e motivato che tale condizione comporti inidoneità
fisica specifica alle mansioni proprie della qualifica o profilo professionale per il
quale è bandito il concorso; lì dove ciò che rileva non è tanto la previsione di una
esclusione, ma la esplicitazione della motivazione sottesa.
48
49
In relazione invece alle misure economiche di sostegno, giova osservare come la
pensione non reversibile spetti a favore dei ciechi assoluti o con residuo visivo
non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, a
prescindere dal requisito anagrafico (cfr. art.14 septies dl 30.12.79 n.663, conv.
con modifiche l.29.2.80 n.33).
Né del resto opera, al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, il
meccanismo (previsto per sordomuti ed invalidi civili) di sostituzione della
pensione de qua con quella sociale a carico di Inps. Infatti, la prestazione in
oggetto non mira a compensare una inabilità e quindi non è correlata all’età
lavorativa del soggetto disabile.
Al fine del conseguimento di detta prestazione è necessaria la sussistenza di un
requisito reddituale, le cui coordinate sono ricalcate su quelle fissate per la
pensione di inabilità, e quindi necessaria appare la non iscrizione nei ruoli per
l'imposta complementare sui redditi e comunque il possesso di redditi
assoggettabili all'imposta sul reddito delle persone fisiche di un ammontare
inferiore a un certo limite (art. 6 D.L. n. 30 del 1974, convertito dalla legge n. 114
del 1974, e poi art. 14 septies del D.L. n. 663 del 1979, convertito con
modificazioni dalla legge n. 33 del 1980).
Ai ciechi assoluti è altresì riconosciuta la indennità di accompagnamento, senza
necessità di sussistenza di alcun requisito anagrafico [C.Cost. 15.3.93 n.88] o
reddituale.
Ebbene, in tema di indennita' di accompagnamento in favore dei ciechi civili
assoluti , l'art. 7, secondo e quarto comma, della legge 27 maggio 1970, n. 382,
innovando rispetto alla precedente normativa, ha prescritto che detta indennita' sia
concessa a domanda e decorra dal primo giorno del mese successivo alla
domanda, principio quest’ultimo affatto modificato dalla successiva legge n. 508
del 1988, che ha unificato, è noto, il regime della indennita' per i ciechi e gli
invalidi. La legge n. 295 del 1990 ha, del resto, previsto, all'art. 1, la emanazione
di un decreto del Ministero del tesoro recante la indicazione del modello di
domanda. In adempimento di tale prescrizione, risulta essere stato emanato il
D.M. n. 387 del 1991, che, all'art. 2, fornisce tale modello. Ne consegue che la
domanda di concessione della provvidenza de qua deve essere prodotta nella
forma indicata con il citato decreto, non potendosi ritenere che, nel difetto di tale
forma, la prestazione assistenziale sia concessa sulla base della sola esibizione del
certificato medico attestante la cecita' assoluta [ Cass., sez. lav.,7.6.01 n.7712].
In materia, si è inoltre osservato come l’equiparazione della indennita' di
accompagnamento goduta dai ciechi civili a quella prevista per i grandi invalidi di
guerra riguardi esclusivamente la misura della indennita' stessa e le relative
modalita' di adeguamento automatico, senza tuttavia valere a supportare
l'estensione ai ciechi civili dell'intero complesso delle misure di assistenza
predisposte a favore degli invalidi di guerra, che comprendono l'assegno
integrativo sostitutivo della prestazione di accompagnatori militari, di cui all'art. 6
del d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834.
Del resto, tale mancata estensione non integra una ingiustificata disparita' di
trattamento, in considerazione di quanto affermato dalla Corte Costituzionale
(ordinanza n. 487 del 1988) sulla differenziazione di situazioni tra gli invalidi
civili e quelli di guerra, da ricercare appunto nella obiettiva diversità dei
presupposti che si pongono a valle del fatto invalidante, scaturente, nel secondo
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caso, da eventi bellici, che comportano anche un elemento risarcitorio, estraneo
viceversa all'ipotesi della invalidita' civile [ Cass., sez. lav.,9.8.04 n.15348].
A favore dei ciechi parziali, invece, la l.10.2.62 n.66 prevede il diritto ad una
pensione non reversibile a prescindere dall’età del soggetto, ma a condizione
dell’emergenza di un determinato requisito reddituale.
La legge 21 novembre 1988, n. 508, contenente norme integrative in materia di
assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti, prevede
poi, all’art.3 (Istituzione, misura e periodicità di una speciale indennità in favore
dei ciechi parziali) che, a decorrere dal 1º gennaio 1988, ai cittadini riconosciuti
ciechi, con residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con
eventuale correzione, sia concessa una speciale indennità non reversibile al solo
titolo della minorazione di L. 50.000 mensili per dodici mensilità e che detta
indennità sia corrisposta d'ufficio agli attuali beneficiari della pensione non
reversibile di cui all'articolo 14-septies del decreto-legge 30 dicembre 1979, n.
663, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33, e a
domanda negli altri casi con decorrenza dal primo mese successivo alla data di
presentazione della domanda stessa. La prestazione de qua prescinde dal requisito
anagrafico e reddituale del disabile e spetta per intero anche se questi sia
ricoverato in istituto.
La cecità parziale può poi concorrere con le altre patologie al fine di supportare
un giudizio finale di inabilità assoluta del soggetto minorato, giudizio funzionale
al conseguimento dell’indennità di accompagnamento, ma non della pensione di
inabilità.
In proposito si registra l’intervento della Corte Costituzionale 22.6.89 n.346
[Presidente Saja] che ha osservato che: “E’ d'uopo premettere che la normativa
vigente non vieta, in caso di pluriminorazione, il cumulo delle provvidenze
previste per l'invalidità civile e, rispettivamente, per la cecità (o il sordomutismo)
ove ricorrano i presupposti di ciascuna; prescrive, però, che il riconoscimento di
tali invalidità avvenga in base a malattie o minorazioni diverse, e ciò al fine di
evitare l'attribuzione al soggetto di piu prestazioni assistenziali per la stessa causa
(cfr. <…> parere del Consiglio di Stato, Sez. I, n. 1973/80 del 18 dicembre 1981).
Tale regola, connessa all'apprestamento di specifiche discipline per le sopraddette
cause di invalidità, e già di per sè suscettibile di valutazioni critiche ove la
separata considerazione delle singole minorazioni conduca ad un'insufficiente
individuazione delle complessive esigenze di assistenza del soggetto che ne è
affetto. Ma essa risulta priva di razionalità se applicata nei confronti dell'indennità
di accompagnamento: la quale spetta, oltre che ai ciechi assoluti, ai soggetti
totalmente inabili per affezioni fisiche o psichiche <che si trovino nella
impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore o,
non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di una
assistenza continua> (cfr. art. 1 legge n. 18 del 1980 e, oggi, art. 1 legge n. 508
del 1988). La legge, infatti considera qui una condizione specifica, quella dei
soggetti non deambulanti o non in grado di provvedere a se stessi per le esigenze
della vita quotidiana, che è ulteriore ed aggiuntiva rispetto allo stato di totale
inabilità al lavoro; e conseguentemente, appresta una specifica provvidenza per
porli in grado di far fronte alle esigenze di accompagnamento e di assistenza che
quella condizione necessariamente comporta.
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Tale carattere aggiuntivo dell'indennità in questione è dimostrato, da un lato, dal
fatto che essa non spetta ove il soggetto non abbia da provvedere a tali esigenze
perchè ricoverato gratuitamente in istituto (art. 1, terzo comma, legge n. 18 del
1980); dall'altro, dal fatto che essa si cumula con la pensione d'invalidità totale,
ove di questa ricorrano i requisiti reddituali, e spetta anche agli invalidi totali
minori di anni diciotto, che non fruiscono di detta pensione (artt. 1 della legge n.
18 del 1980 e 12 della legge n. 118 del 1971).
La possibilità di cumulo delle prestazioni assistenziali connesse alle invalidità con
l'indennità di accompagnamento trova quindi ragione nella diversa funzione di tali
provvidenze: le quali tendono, nell'un caso, a sopperire alla condizione di bisogno
di chi a causa dell'invalidità non è in grado di procacciarsi i necessari mezzi di
sostentamento; nell'altro, a consentire ai soggetti non autosufficienti condizioni
esistenziali compatibili con la dignità della persona umana.
L'assicurare tali condizioni rientra tra i doveri inderogabili di solidarietà additati
dall'art. 2 Cost., ed ha preminente rilievo nell'ambito dei compiti di assistenza
posti allo Stato dall'art. 38, primo comma; e per altro verso, data l'autonomia della
situazione in discorso, contrasta certamente col principio d'uguaglianza il
concedere o meno la relativa prestazione assistenziale a soggetti che ne siano
parimenti bisognevoli, a seconda che essi fruiscano o no di provvidenze
preordinate ad altri fini.
Le disposizioni impugnate vanno perciò, nel loro combinato disposto, dichiarate
costituzionalmente illegittime nella parte in cui escludono che ai fini della
valutazione dello stato di inabilita totale che da diritto all'indennità di
accompagnamento possa essere considerata la cecità parziale”.
La Consulta pertanto ha ritenuto l'illegittimità costituzionale del combinato
disposto degli artt. 1, primo comma, della legge 11 febbraio 1980, n. 18
(Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili) e 2, quarto
comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decretolegge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore di mutilati ed invalidi civili)
nella parte in cui esclude che ad integrare lo stato di totale inabilità con diritto
all'indennità di accompagnamento possa concorrere, con altre minorazioni, la
cecità parziale.
15. Giova a questo punto operare un mero accenno ad alcuni profili processuali in
relazione alla tutela giurisdizionale ed alla legittimazione passiva per quanto
concerna le prestazioni assistenziali.
Prima all’entrata in vigore del dpr 21 settembre 1994 n.698, emanato in attuazione
dell’art.11, I comma, della l.24.12 1993 n.537, appariva radicata nel Ministero
dell’Interno la legittimazione passiva nelle controversie promosse dagli interessati
davanti al giudice ordinario ed aventi ad oggetto l’impugnativa dei provvedimenti
definitivi adottati in relazione all’accertamento dell’esistenza dei requisiti sanitari
ed all’erogazione delle provvidenze economiche per quanto concerna le
prestazioni assistenziali. Siffatta legittimazione risultava peraltro confermata dal
V comma dell’art.6 del suddetto regolamento, secondo cui permaneva la
legittimazione passiva del suddetto Ministero in relazione ai procedimenti già
pendenti dinanzi al giudice ordinario alla data di entrata in vigore del
regolamento.
51
52
Ebbene, l’art.3, V comma, del regolamento di cui al dpr 21 settembre 1994 n.698,
dopo avere operato la distinzione del procedimento di accertamento sanitario da
quello funzionale alla concessione delle provvidenze economiche, ha prescritto
che nei procedimenti di accertamento sanitario relativo ad invalidità civile, alla
cecità civile ed al sordomutismo, effettuati a decorrere dalla data di entrata in
vigore del regolamento, la legittimazione passiva, anche per quanto concerna le
istanze già presentate rispetto a quella data, spetti a Regione ed al Ministero del
Tesoro, a seconda che l’atto impugnato sia stato emanato dalle commissioni
mediche operanti presso le usl oppure dalle commissioni mediche periferiche per
le pensioni di guerra e di invalidità civile. Viceversa le controversie attinenti alle
provvidenze economiche individuavano nel Ministero dell’interno il
contraddittore necessario.
Sulla scorta di una sentenza della Consulta (20 maggio 1996, n.156) è venuta
successivamente meno la legittimazione passiva della Regione, sicchè in materia
di accertamenti sanitari legittimato passivo era soltanto il Ministero del tesoro.
L’art.130 del decreto legislativo 31 marzo 1998 n.112 ha ridefinito le competenze
in materia di concessione e di erogazione delle provvidenze economiche a favore
degli invalidi civili.
Pertanto, a decorrere dal 3 settembre 1998, la funzione di erogazione di pensioni,
assegni ed indennità è stata trasferita ad un apposito fondo di gestione istituito
presso Inps. Alle Regioni invece risultano assegnate le funzioni di concessione dei
nuovi trattamenti economici a favore degli invalidi civili, ovvero quelle relative
agli accertamenti di natura amministrativa (istruttoria delle domande, emanazione
del formale provvedimento di riconoscimento, concessione della prestazione
economica).
Peraltro alle regioni è rimesso il potere di provvedere con le proprie risorse alla
concessione di benefici ulteriori rispetto a quelli determinati dallo Stato.
Conseguentemente, a norma dell’art.130 co. 3 del D. Lgs. 112\98, e con
decorrenza dal centoventunesimo giorno dall’entrata in vigore del D. L.gs.
medesimo (vale a dire dal 03.09.98), la legittimazione passiva nei procedimenti
giurisdizionali ed esecutivi, che abbiano ad oggetto la concessione delle
prestazioni e dei servizi relativi agli invalidi civili, è trasferita alle Regioni,
qualora la controversia riguardi provvidenze concesse da tali enti, oppure
all’INPS, negli altri casi ed anche relativamente a provvedimenti concessori
antecedenti al termine di cui al comma 1°.
La operatività della legittimazione passiva delle Regioni sottintende un
trasferimento alle stesse delle funzioni amministrative in materia.
Invece, la legittimazione passiva dell’INPS ha ad oggetto tutte le controversie
riguardanti l’erogazione delle prestazioni relative agli invalidi civili, in virtù
dell’istituzione di un apposito fondo di gestione istituito presso l’Istituto stesso.
Invero, con dpcm del 26.5.00 n.1010700 sono state individuate le risorse umane,
finanziarie ed organizzative da trasferire alle regioni per l’esercizio delle funzioni
di concessione dei trattamenti economici a favore degli invalidi civili. L’art.2 del
suddetto decreto individua nell’1.1.01 la data a far tempo dalla quale l’esercizio
delle funzioni di concessione dei trattamenti è stata trasferita mentre una tabella
allegata la tipologia dei trattamenti ricompresi nella disciplina.
Il capoverso di detto articolo individua le modalità di trasmissione dei verbali di
visita delle commissioni mediche alle regioni ed il III comma ripete l’attribuzione
ad Inps della funzione di erogazione dei trattamenti e quindi la ripartizione della
legittimazione passiva tra regione ed Inps con riguardo a provvidenze concesse
dalla regione oppure no.
52
53
Né varrebbe a coonestare un assunto contrario alla individuazione finora
prospettata dei profili di legittimazione processuale passiva la disciplina
sopravvenuta al decreto legislativo supra ricordato in funzione della distribuzione
delle funzioni amministrative tra regioni, enti locali ed Inps; infatti, legittimati
passivi risultano comunque solo i soggetti individuati ex lege al di là dei soggetti
amministrativi di cui Regione ovvero Inps si avvalgano, qualificabili del resto
quali ausiliari del debitore ex art.1228 c.c. (infatti, l’art.132 del suddetto decreto
legislativo riconosceva ad Inps e regioni la possibilità di conferire ai comuni ed ad
altri enti locali le funzioni ed i compiti amministrativi concernenti gli invalidi
civili, fatto salvo quanto previsto dall’art.130 e senza possibilità di alterare i
profili di legittimazione passiva siccome già enucleati).
Né su siffatto quadro può in alcun modo incidere il d.lvo 96\1999 con cui si è
inteso supplire alle inadempienze delle regioni, senza riflessi sul piano
processuale, limitandosi a prevedere le modalità di trasferimento di funzioni
amministrative, individuando ausiliari del debitore.
Quindi, nei procedimenti giurisdizionali concernenti pensioni, assegni e indennita'
spettanti agli invalidi civili e posti a carico dell'apposito fondo di gestione istituito
presso l'INPS, introdotti anteriormente all'entrata in vigore del decreto - legge 30
settembre 2003, n. 269, convertito nella legge 24 novembre 2003, n. 326, la
legittimazione passiva non spetta alle regioni, ancorche' titolari delle competenze
amministrative relative alla "concessione" dei benefici, ma unicamente - fatta
salva la legittimazione del Ministero dell'economia e delle finanze per le
controversie di cui all'art. 37, commi quinto e sesto, della legge 23 dicembre
1998, n. 448 - all'INPS, sia per le azioni di accertamento e condanna, sia per
quelle di mero accertamento del diritto (di "concessione" del trattamento), e cio' ai
sensi delle disposizioni dell'art. 130 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112,
non modificate, sul punto, dalla successiva normativa statale, fatti salvi gli
eventuali interventi legislativi delle regioni in materia di invalidita' civile,
nell'esercizio delle competenze loro attribuite dall'art. 117 della Costituzione,
come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 [ Cass., sez.
lav.,27.8.04 n.17070].
In particolare si è osservato che “in tema di controversie aventi ad oggetto il
diritto a prestazioni assistenziali statali secondo la disciplina di cui all'art. 130 del
D.Lgs. n. 112 del 1998, la legittimazione passiva, nei giudizi aventi ad oggetto il
riconoscimento dei benefici economici compete in via esclusiva all'INPS, in
quanto ente deputato a pagare la prestazione, come si desume sia dal primo
comma della norma, che trasferisce la funzione di erogazione ad un apposito
fondo costituito presso detto ente, sia dal terzo comma, che, con espressa norma
processuale, prevede quella legittimazione, attribuendola invece alle Regioni
soltanto quando si tratti di benefici aggiuntivi rispetto a quelli determinati con
legge dello Stato, che, ai sensi del secondo comma dello stesso art. 130, le
Regioni possono introdurre facendovi fronte con risorse proprie. Deve, inoltre,
escludersi che alle Regioni, per i benefici a carico del fondo costituito presso
l'INPS competa una legittimazione passiva concorrente in ragione
dell'attribuzione ad esse delle funzioni relative all'espletamento del procedimento
amministrativo inerente l'accertamento dello stato invalidante, dovendosi
considerare, altresi', che tale accertamento, nel giudizio inteso ad ottenere i
benefici economici, avviene "incidenter tantum", di modo che spiega effetti
limitati all'ambito del procedimento instaurato contro l'INPS e non si estende a
successivi giudizi aventi ad oggetto "petita" diversi dalle prestazioni assistenziali
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statali e che pure abbiano come presupposto logico l'esistenza di uno stato
invalidante [ Cass., sez. lav.,9.8.04 n.5347].
Risulta peraltro, comunque, confermata la distinzione tra procedimento di
accertamento sanitario e quello di concessione dei benefici economici secondo
una soluzione che collega l’art.11, I comma, l.n.537 del 1993 con il dpr 698\1994
che a quell’articolo ha dato attuazione ed il III comma dell’art.130 suddetto;
norma quest’ultima che non ha inciso sulla fase di accertamento sanitario che
continua ad essere regolata appunto dal dpr 698\1994. Conseguentemente in
ordine alle questioni che possano sorgere in relazione a quest’ultima fase
legittimato passivo nel giudizio promosso a seguito di un accertamento sanitario
negativo rimane il Ministero del Tesoro (ora Ministero dell’economia e delle
finanze).
In passato si è dubitato della legittimità costituzionale dell'art. 130 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112, per violazione della legge delega nella parte in
cui ha conferito all'INPS, e non alle regioni, la funzione di erogazione degli
assegni di invalidità; ma appare sufficiente ricordare come la stessa sia stata
ritenuta dalla Consulta manifestamente infondata. Infatti la legge delega, ovvero
la legge n. 59 del 1997, ha espressamente previsto la possibilità di conferire ad
idonee strutture centrali funzioni e compiti che non richiedano, per la loro natura,
l'esercizio esclusivo da parte delle regioni e degli enti locali.
Né, del resto, Inps potrebbe sottrarsi alla condanna all’erogazione della
prestazione, lamentando l’improponibilità di alcuna pretesa nei suoi confronti per
difetto di pregressa domanda in sede amministrativa e comunque
l’inammissibilità di una condanna non potendosi ravvisare inadempimento lì dove
ancora incerta appare l’emergenza della condizione di minorazione del soggetto
utile a conseguire detta provvidenza economica. Infatti, in proposito, vale
osservare, ponendosi nel solco tracciato dalle Sezioni Unite della Corte Suprema,
dapprima con sentenza del 12 luglio 2000, n.483 e poi con quella del 3 agosto
2000, n.529, come, nelle controversie soggette alla disciplina di cui alla legge 24
dicembre 1993 n.537 (e del relativo regolamento), il cittadino che, avendo
inutilmente esperito il procedimento amministrativo di accertamento della sua
condizione di invalidità, pretenda in giudizio una prestazione di assistenza sociale,
non sia tenuto a chiedere preventivamente in giudizio l’accertamento del requisito
sanitario nei confronti del Ministero del Tesoro e quindi, con distinto processo, il
riconoscimento della prestazione pecuniaria, risultando viceversa sufficiente che
egli proponga una unica azione nei confronti del legittimato passivo in ordine a
quest’ultima domanda, su cui il giudice provvederà, previo accertamento
incidentale dello status di invalido.
Qualora invece sia sollecitata una pronunzia su detto stato con efficacia di
giudicato è necessario che la parte convenga in giudizio il Ministero del Tesoro in
quanto la questione della sussistenza del necessario grado di invalidità si
trasforma in causa pregiudiziale, in relazione a cui il Ministero del Tesoro è
litisconsorte necessario individuato dalla legge.
“In materia di prestazioni assistenziali in favore dei mutilati e degli invalidi civili,
la distinzione delle competenze per l'accertamento dei requisiti sanitari e per la
concessione delle provvidenze economiche, rispettivamente assegnate
(anteriormente al trasferimento delle relative funzioni statuali al fondo di gestione
Inps e alle regioni, ex art. 130 d.lg. n. 112 del 1998) al Ministero del tesoro e al
Ministero dell'interno, ai sensi dell'art. 11 l. n. 537 del 1993 e degli art. 3 e 6 del
regolamento contenuto nel d.P.R. n. 698 del 1994, comporta che l'interessato,
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dopo aver inutilmente esperito il procedimento amministrativo di accertamento
della sua condizione di invalidità, deve convenire in giudizio il Ministero
dell'interno per ottenere la condanna alla corresponsione della relativa
prestazione, previo l'accertamento solo incidentale dello stato di invalidità, mentre
la chiamata in causa del Ministero del tesoro si impone solo ove l'attore o il
Ministero convenuto abbiano domandato l'accertamento dello "status" di invalido
con efficacia di giudicato, dovendosi invece escludere che l'interessato debba
separatamente domandare nei confronti del Ministero del tesoro l'accertamento di
invalidità e successivamente nei confronti del Ministero dell'interno la
corresponsione della prestazione, in quanto l'imposizione di due distinti
procedimenti giudiziari, non prevista nel citato art. 11 l. delega n. 537 del 1993 e
peraltro contrastante con le finalità di semplificazione di tale disposizione,
renderebbe eccessivamente difficile il diritto di difesa in giudizio, garantito
dall'art. 24 cost., e pregiudicherebbe lo stesso diritto all'assistenza, garantito
dall'art. 38 cost.” [Cass. civ., Sez.lav., 05/04/2002, n.4887 che sulla scorta di detti
principi ha censurato una sentenza di merito che, in materia di prestazioni
assistenziali, pur esclusa la necessità della instaurazione di due procedimenti
giudiziari, aveva individuato quale unico legittimato passivo nel procedimento de
quo il Ministero dell'interno, senza considerare che la parte ricorrente, con il
chiamare in causa anche il Ministero del tesoro, mirava ad ottenere un
accertamento del suo stato di inabilità non solo incidentale ma con efficacia di
giudicato].
Le suddette considerazioni inducono a ritenere altresì ammissibile una domanda
di condanna di Inps, benché non possa configurarsi un suo inadempimento. Che è
quanto vale poi a ritenere forse possibile introdurre nel nostro ordinamento
giuridico la possibilità di una pronunzia di natura ordinatoria, ricalcando per tal
via il modello tedesco.
Peraltro, nonostante la distinzione tra accertamento ed erogazione, si deve ritenere
che il rapporto fra azione giudiziaria e procedimenti amministrativi non attenga
alla proponibilità della domanda, semmai alla sua procedibilità che deve ritenersi
soddisfatta con la conclusione del primo dei detti procedimenti (relativi
all’accertamento) davanti alle commissioni sanitarie, anche perché il secondo
procedimento ha natura meramente eventuale ed è condizionato appunto dall’esito
positivo del primo [cfr. Cass. SSUU, 24 ottobre 1985, n.5251].
Del resto, la tutela giurisdizionale non si configura come un rimedio ad una
decisione amministrativa viziata e quindi non è introdotta da una impugnazione di
quella decisione, ponendosi semmai su un piano autonomo di accertamento di un
diritto, nella specie, soggettivo (tant’è che la nomina di un consulente tecnico
d’ufficio mira non a controllare la correttezza dell’esito dell’accertamento
sanitario di cui al procedimento amministrativo sotteso, ma a verificare
l’emergenza dei requisiti ex lege per beneficiare della prestazione richiesta). La
separazione dei procedimenti amministrativi, conseguentemente, non può
riflettersi sulle modalità di tutela giurisdizionale, specie che si apprezzi la natura
di situazione giuridica soggettiva unitaria (e pertanto non suscettibile di
frazionamento) del diritto alle prestazioni di invalidità civile.
Giova, inoltre, ricordare come in tema di legittimazione passiva, una disciplina a
sé sia stata tracciata per i procedimenti giurisdizionali relativi ai verbali di visita
emessi dalle commissioni mediche di verifica e finalizzati ad accertare, nei
confronti dei titolari di trattamenti economici di invalidità civile, cecità e
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sordomutismo, la permanenza dei requisiti sanitari necessari per continuare a
fruire dei benefici, nonché per i giudizi di revoca emessi dal Ministero del tesoro.
L’art.37 l.23.12.98 n.448, infatti, attribuisce la legittimazione passiva al Ministero
del tesoro non solo in relazione alle azioni proposte per contestare la legittimità
del provvedimento di revoca e tendenti ad accertare la sussistenza del diritto alla
prestazione revocata (V comma), ma anche per i giudizi relativi al pagamento del
beneficio (VI comma).
Gli atti introduttivi relativi a controversie sorte in materia di invalidità civile ed in
relazione a provvedimenti adottati dal Ministero del tesoro devono essere
notificati alla predetta amministrazione presso gli uffici dell’Avvocatura dello
Stato e presso le commissioni mediche di verifica competenti per territorio.
Sicchè unico legittimato passivo nei procedimenti di revisione degli stati di
invalidità civile e di revoca delle prestazioni è il Ministero del tesoro, sì da
doversi escludere la distinzione tra il soggetto nei cui confronti debba chiedersi il
riconoscimento ed il ripristino della prestazione revocata ed il soggetto legittimato
alla concessione ed erogazione del beneficio economico.
In relazione a siffatti giudizi, appare comunque opportuno, benchè incidentalente,
segnalare come “le controversie in materia di soppressione, per asserito
miglioramento, di pensione di invalidita' civile, di assegno di invalidita' civile o di
indennita' di accompagnamento, al pari di quelle concernenti il diritto di ottenere
per la prima volta tali prestazioni, negate in sede amministrativa, non danno luogo
ad una impugnativa del provvedimento amministrativo di soppressione, ma hanno
direttamente ad oggetto il diritto del cittadino di ottenere quella tutela diretta che
la legge gli accorda, con la conseguenza che il giudice non e' tenuto ad accertare
la legittimita' o meno del provvedimento amministrativo di diniego o
soppressione, con la comparazione, nel secondo caso, con la situazione risultante
all'epoca della concessione amministrativa della prestazione, essendo irrilevante
la eventuale erroneita' del primo accertamento amministrativo; la comparazione e'
necessaria, invece, per le prestazioni che siano state concesse in forza di sentenza,
atteso che in tal caso il giudicato si estende anche alla valutazione del carattere
invalidante delle malattie che, se invariate, non possono essere diversamente
valutate” [Cass. sez. lav.29.8.03 n.12674].
La materia del processo in materia assistenziale è stata rivisitata dal decreto legge
30.9.03 n.269 [contenente disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la
correzione dell’andamento dei conti pubblici] che, nel testo convertito con
modificazioni dalla legge 24.11.03 n.326, prevede all’art.42 [in materia di
disposizioni in materia di invalidità civile] che “gli atti introduttivi dei
procedimenti giurisdizionali concernenti l’invalidità civile, la cecità civile, il
sordomutismo e l’handicap e la disabilità ai fini del collocamento obbligatorio,
devono essere notificati anche al Ministero dell’economia e delle finanze. La
notifica va effettuata sia presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi
dell’art.11 del regio decreto 30 ottobre 1933, n.1611, sia presso le competenti
direzioni provinciali dei servizi vari del Ministero. Nei predetti giudizi il
Ministero dell’economia e delle finanze è litisconsorte necessario ai sensi
dell’articolo 102 del codice di procedura civile e può essere difeso, oltre che
dall’Avvocatura di Stato, da propri funzionari, ovvero, in base ad apposite
convenzioni stipulate con l’I.N.P.S. e con l’I.N.A.I.L., senza oneri aggiuntivi a
carico della finanza pubblica, da avvocati dipendenti da questi enti. Nei casi in cui
il giudice nomina un consulente tecnico, alle indagini assiste un componente delle
56
57
commissioni mediche di verifica indicato dal direttore della direzione provinciale
su richiesta, formulata a pena di nullità, del consulente nominato dal giudice”.
Detto anche di ciò, non resta che evidenziare quanto segue.
Il decreto legge 30.9.03 n.269 ha stabilito all’art.42 che “la domanda giudiziale è
proposta, a pena di decadenza, avanti alla competente autorità giudiziaria entro e
non oltre sei mesi dala data di comunicazione all’interessato del provvedimento
emanato in sede amministrativa”.
Detta prescrizione risulta essere stata mantenuta nella l.24.11.03 n.326, di
conversione, con modificazioni, del decreto legge in oggetto.
Si deve ritenere l’operatività della prescrizione de qua in tutti i casi in cui la
comunicazione dell’esito del procedimento amministrativo risulti essere stata
effettuata successivamente alla data di entrata in vigore della normativa in oggetto
(1.1.05 ex d.l. 355.03).
Operando sul piano sostanziale il termine in questione deve qualificarsi di
decadenza.
Occorre, invero, distinguere tra condizione di proponibilità dell'azione giudiziaria
e termine di decadenza entro cui l'interessato deve far valere il diritto di opporsi
alla valutazione tratta dalle commissioni competenti e quindi al disconoscimento
del diritto allegato e che finisce con l’incidere sulla situazione soggettiva,
limitandone l'esercizio entro un arco temporale necessariamente circoscritto dalle
difficoltà di accertamento dei fatti. Sulla base di tale ultima qualificazione di
carattere sostanziale, si deve ritenere la legittimità nell’attuale ordinamento
giuridico della previsione de qua.
L'esperibilità dell'azione è soggetta quindi al termine di cui supra che, essendo
perentorio, deve essere osservato a pena di decadenza. Ne consegue che la
tempestività costituisce un presupposto necessario dell'esercizio dell'azione che
deve essere provato dal ricorrente.
20. Anche nella giurisprudenza della Corte Costituzionale è possibile rintracciare
– come già si è avuto modo di accennare - l’evoluzione dell’apprezzamento della
tensione solidaristica che anima la GrundNorm in particolare in relazione alla
dimensione handicap; ciò parallelamente a quella storia professionale, politica ed
umana dei giudici costituzionali cui quella giurisprudenza è infine
immancabilmente legata [RODOTÀ 1970, 37ss]. E la produzione legislativa in
materia non può non costituire infine l’indiretto riflesso di quella storia.
Pare opportuno prendere le mosse da una sentenza della fine degli anni ’80
(Presidente La Pergola, estensore Spagnoli, 3.6.87\8.6.87, n.215), e quindi
emanata prima ancora della promulgazione della legge quadro n.104 del 1992 e
secondo cui nella “condizione giuridica del portatore di handicaps confluiscono un complesso di valori
che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale: conseguentemente, il canone
ermeneutico da impiegare in materia è essenzialmente dato dall'interrelazione e integrazione tra i precetti in
cui quei valori trovano espressione e tutela”. Il che testimonia il rifiuto deciso ad un
approccio formale ad una materia in cui forte è il rischio di lasciarsi imprigionare
in schemi dialettici fuorvianti perché incapaci di cogliere la complessità della
realtà. In effetti, “la garanzia dell'inviolabilità del diritto non equivale alla intangibilità di esso in
presenza di modificazioni delle situazioni che ne costituiscono presupposto, nè esclude la possibilità che
l'interessato presti adesione ad un accertamento di insussistenza dei requisiti di legge, compiuto con tutte le
garanzie procedimentali previste dall'ordinamento e suscettibile di sindacato giurisdizionale ”
[C.Cost.17.10.96\05.11.96, n.382, Presidente Ferri, estensore Chieppa].
57
58
In effetti, il riconoscimento dell’inviolabilità di un diritto, quand’anche
fondamentale, a ben vedere, non può rappresentare l’approdo di una solitaria
ricerca giuridica; ma piuttosto l’occasione per un approfondimento circa la
socialità delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte e quindi impone una
relativa proiezione da un piano tecnico\ ricostruttivo ad un sistema relazionale
strutturato su centri di interesse che naturalmente coesistono e devono perciò
essere tutelati in termini non conflittuali.
Socialità quindi quale inevitabile disponibilità al confronto con altre situazioni
giuridiche soggettive, con possibile intersecazione di politiche di protezione. Del
resto, un problema di tutela del soggetto portatore di handicap di per sé
sottintende la possibilità di una lesione e quindi una relazionalità della situazione
giuridica soggettiva sottesa, in quanto la stessa nozione di lesione implica la
natura relazionale della situazione da tutelare.
Ciò che deve essere evitato è di ritenere possibile una tutela aprioristica del
soggetto handicappato, dovendo semmai quella tutela essere calibrata sulle
dinamiche fattuali, giuridiche e sociali entro cui poi deve essere calata.
Questa esigenza di armonizzazione tra tutele differenziate sembra quasi
riverberarsi nella reinterpretazione del valore da tutelare.
È pertanto spezzato il cerchio soggettivo entro cui istintivamente si sarebbe
portati a ridurre la nozione di portatore di handicap, proponendo piuttosto una
lettura della normativa in chiave di tutela delle relazioni affettive. In proposito
significativa appare una pronunzia del 1996 (Presidente Ferri, estensore Spagnoli,
18.7.96\29.7.96, n.325) che non ha ritenuto “fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 33, comma 5, della l. 5 febbraio 1992, n. 104, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione,
nella parte in cui tale norma, nel riconoscere il diritto del lavoratore dipendente, che assiste con continuità un
familiare o affine sino al terzo grado portatore di handicap, di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più
vicina al proprio domicilio, richiede come condizione che il lavoratore sia convivente con l'handicappato, in
quanto la maggior tutela in tal modo accordata all'ipotesi in cui il portatore di handicap riceve già assistenza
rispetto all'ipotesi, altrettanto meritevole di tutela, ma diversa dalla precedente, in cui l'esigenza sorge quando
il lavoratore non è convivente, e si rende quindi necessario il suo trasferimento per attendere alle cure del
congiunto, lungi dal rappresentare una discriminazione ingiustificata, costituisce una scelta discrezionale del
legislatore, non irragionevolmente finalizzata alla valorizzazione dell'assistenza familiare del disabile,
soltanto quando corrisponde ad una modalità di assistenza già in atto, la cui speciale salvaguardia valga ad
evitare rotture traumatiche e dannose alla convivenza”[in materia FERRARI 1996, 1475]. È la
convivenza in atto, anche in caso di soggetti portatori di handicap mentali, che
condiziona infine la possibilità di rinvenire una relazione affettiva possibilmente
da tutelare, salvaguardare e quindi non compromettere.
Invece, la possibilità di instaurare una convivenza tra il familiare o affine ed il
soggetto portatore di handicap, benchè espressione di una esigenza apprezzabile,
non merita necessariamente una tutela quando una sua affermazione si risolva nel
pregiudizio dell’interesse di terzi, siano essi lavoratori o datori di lavoro.
Principi, questi, fatti propri anche dalla Corte di Cassazione. In proposito giova
richiamare una pronunzia della sezione lavoro del 20.1.01 n.829, secondo cui in
“considerazione della "ratio" cui e' ispirata la legge n. 104 del 1992 e tenendo conto di quanto
precisato nelle sentenze n. 406 del 1992 e n. 325 del 1996 della Corte costituzionale, l'art. 33,
comma quinto, della citata legge n. 104 del 1992 (recentemente modificato dall'art. 19 della legge
n. 53 del 2000) deve essere interpretato nel senso che il riconoscimento in favore del genitore o del
familiare lavoratore dell'handicappato del diritto di scegliere la sede lavorativa più vicina al
proprio domicilio e di non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso presuppone, oltre
agli altri requisiti esplicitamente previsti dalla legge, sia l'attualità dell'assistenza (della quale il
legislatore si e' preoccupato di evitare interruzioni) sia la compatibilità con l'interesse comune.
Infatti, com'è dimostrato anche dalla presenza dell'inciso: "ove possibile", secondo il legislatore il
diritto alla effettiva tutela dell'handicappato - al cui perseguimento devono partecipare lo Stato, le
Regioni e gli altri enti locali, nel quadro dei principi posti dalla legge in argomento - non può
essere fatto valere quando il relativo esercizio venga a ledere in misura consistente le esigenze
economiche e organizzative del datore di lavoro, in quanto ciò può tradursi - soprattutto per quel
58
59
che riguarda i rapporti di lavoro pubblico - in un danno per la collettività”.
La Cassazione ha
affermato questo principio in una vicenda in cui un dipendente dell'AST, dopo
aver assunto servizio ed aver prestato attività lavorativa a Catania per diversi anni,
aveva chiesto il trasferimento a Palermo, dove aveva nelle more trasferito la
propria residenza anagrafica, per effettuare per la prima volta assistenza alla
sorella portatrice di handicap, cui fino ad allora avevano sempre pensato i
genitori.
Il rifiuto di una tutela indiscriminata di una convivenza ancora non in atto con
handicappati, non implica la preferenza per un sistema di garanzie fondato sul
trasferimento dall’ambito familiare a quello statuale dei doveri di solidarietà ex
art.38 Cost; né sottintende il rifiuto di una politica di tutela dell’invalido
all’interno del nucleo familiare.
Semmai quei principi tradiscono la legittimità costituzionale di un sistema di
protezione fondato sul riconoscimento di un potere discrezionale di sindacato da
parte del legislatore nel bilanciare situazioni giuridiche soggettive diversamente
orientate. In proposito significativa appare una pronunzia del 1995 (Presidente
Baldassarre, estensore Ruperto 18.5.95\26.5.95 n.196) che ha ritenuto non
fondata, in riferimento agli artt. 3 e 38, primo comma, Cost., la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 26 l. 30 aprile 1969, n. 153, come modificato
dall'art. 3 del d.l. 2 marzo 1974, n. 30, convertito nella l. 16 aprile 1974, n. 114, e
dell'art. 14 septies del d.l. 30 dicembre 1979, n. 663, introdotto con la l. 29
febbraio 1980, n. 33, osservando che “nel sistema dei requisiti reddituali massimi fissati per la
concessione dell'assegno mensile di invalidità parziale e per il conseguimento della pensione sociale, la
necessità di operare il cumulo del reddito dell'aspirante con quello del coniuge solo in relazione alla pensione
sociale diretta non è lesiva del principio di eguaglianza. Infatti, pur nella tendenziale indistinguibilità fra lo
stato di invalidità parziale e quello di vecchiaia, almeno quale condizione di fatto finale, nella valutazione
degli elementi significativi dello stato di bisogno ha un decisivo rilievo l'esistenza o meno nel soggetto, prima
del compimento del sessantacinquesimo anno, di pregresse patologie incidenti sulla idoneità a procurarsi,
attraverso la propria attività lavorativa, un reddito sufficiente per vivere ed una piena garanzia previdenziale
per la vecchiaia. Dinanzi ad una situazione implicante maggiori costi umani ed economici a carico del
soggetto e della sua famiglia, "rispetto a quella di colui la cui storia personale non ha risentito di un simile
impedimento" (sent. n. 88 del 1992), la scelta discrezionale del legislatore di fare ricorso, per l'adempimento
dei doveri di assistenza posti dall'art. 38, primo comma, Cost., rispettivamente, alla solidarietà della
collettività ovvero a quella del coniuge, risulta giustificata e non irragionevole, perchè riferita a situazioni
fondate su diversi presupposti di fatto, benchè non sia l'unica opzione costituzionalmente legittima”.
Si tratta allora di garantire una tutela, attenta e non indiscriminata, dei portatori di
handicap e comunque degli invalidi, specie nel quadro della disciplina lavoristica.
Sicchè affatto irragionevole ovvero priva di giustificazione è apparsa una norma
comunque “diretta ad assolvere un onere e un compito della collettività al fine di consentire a detti
beneficiari [ndr. invalidi di guerra], in base a condizioni e criteri prestabiliti, un più agevole
reperimento di una occupazione, pur nei limiti di percentuali prefissate in rapporto ai posti in organico per
ciascuna qualifica, nel contemperamento delle esigenze della pubblica amministrazione per la migliore
selezione dei propri impiegati con quelle di tutela degli appartenenti alle categorie protette, i quali comunque
possono accedervi solo dopo aver superato le prove concorsuali in posizione di parità rispetto agli altri
concorrenti. Peraltro, non resta preclusa al legislatore la possibilità di introdurre nella procedura concorsuale
prescelta, a favore di alcune categorie svantaggiate, deroghe suscettibili di realizzare quella particolare tutela
che detta normativa intende perseguire” [Presidente Granata, estensore Contri, 25.3.98
\1.4.98, n.88].
Del resto, gli archivi della giurisprudenza costituzionale tradiscono la
preoccupazione della Consulta di tentare di tracciare un equilibrio, in quanto tale
pur sempre precario, tra interessi opposti, misurando la portata del diritto
all’assistenza anche con le regole ferree del bilancio e delle regole che lo
disciplinano. Non a caso, accanto all’imposizione sia del divieto di “frapporre alla
realizzazione <…> [del diritto all’istruzione superiore) impedimenti non consentiti, alla stregua dei
richiamati precetti costituzionali, sia [dell’obbligo] di dare attuazione alle misure che possano già allo stato
essere concretizzate o promosse, spettando ovviamente al legislatore dettare quanto prima una compiuta
disciplina per risolvere un così rilevante problema umano e sociale”[03/06/87 08/06/87 , 217 Presidente
59
60
ed all’affermazione secondo cui “la legge quadro per
l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, n. 104 del 1992, rispondendo ad
un'esigenza profondamente avvertita, è volta a perseguire un evidente interesse nazionale, stringente ed
infrazionabile,quale quello di garantire in tutto il territorio un livello uniforme di realizzazione di diritti
costituzionali fondamentali dei soggetti portatori di handicaps e la cui realizzazione investe necessariamente
lo Stato, gli enti locali minori e le Regioni, nel quadro dei principi posti dalla legge stessa e secondo le
modalità ed i limiti necessari ad assicurare l'effettivo soddisfacimento dell'interesse medesimo” [21/10/92
La Pergola Estensore Spagnoli]
29/10/92, n.406 Presidente Corasaniti Estensore Spagnoli], vi è la censura di una
legge regionale con cui si preveda “che la concessione di un contributo alle Unità locali sociosanitarie per il potenziamento e l'integrazione dei servizi a favore dei portatori di handicaps sia finanziata
attingendo ad un fondo globale di bilancio alimentato col ricorso alla contrazione di mutui, è in contrasto con
l'art. 10 della legge 16 maggio 1970 n. 281, confermato per effetto dell'art. 22 della legge 11 maggio 1976 n.
335, secondo i quali le Regioni possono contrarre mutui esclusivamente per provvedere a spese di
investimento. La legge regionale, pertanto, viola l'art. 119 della Costituzione là dove è disposto che
l'autonomia finanziaria regionale è operante nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica ed è
costituzionalmente illegittima”[19/03/90 04/04/90 n.159, Presidente Saja Estensore
Borsellino].
Anche in questa direzione sembra proiettarsi la Corte di Cassazione. Infatti, già
nel 1999, la Corte Suprema, con una pronunzia del 24.11.99, la n.13052, ha
affermato che l’art. “3 del D.L. 22 dicembre 1981 n. 786, nel testo risultante dalla conversione
con modificazioni da parte della legge 2 febbraio 1982 n. 51, con riferimento ai servizi finalizzati
all'inserimento sociale dei portatori di handicap, espressamente menzionati nel settimo comma di
detto articolo, si limitò – con l'espressione <<fanno eccezione>> ivi figurante - a sottrarre quei
servizi alla regola generale del primo comma, che sancì l'obbligatorietà di una contribuzione
dell'utente per i servizi pubblici da svolgere a domanda, così conservando la situazione normativa
pregressa, nella quale i suddetti servizi erano soggetti ad un regime di gratuità facoltativa (non
rientrando tra quelli gratuiti per legge). La legislazione successiva non ha innovato tale previsione
normativa, che va coordinata con la legge quadro 5 febbrai 1992 n. 104 per l'assistenza,
l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, la quale parimenti non ha sancito il
principio dell'assoluta gratuità di tutte le prestazioni in favore degli handicappati, nonché,
nell'ambito dell'ordinamento della Regione Lombardia, con la legge reg. 23 gennaio 1986 n. 1,
relativa alla riorganizzazione e programmazione dei servizi socio - assistenziali nella Regione, la
quale negli artt. 61 e 63 ha stabilito che per gli oneri che in base al piano regionale socio assistenziale gravano su Comuni, gli utenti sono tenuti a concorrere in rapporto alle proprie
condizioni economiche, secondo tariffe determinate in base al reddito familiare, salva la gratuità
per coloro che versano in stato di bisogno. Ne discende che nell'ambito della Regione Lombardia
l'assistenza ai soggetti portatori di handicap fa carico integralmente al Comune solo se ricorra
questa condizione, sussistendo, in caso contrario un onere di contribuzione rapportato alle
condizioni economiche (principio enunciato dalla Suprema Corte in relazione a controversia di
opposizione ex R.D. n. 639 del 1910 avverso ingiunzione comunale per il pagamento di rette di
frequenza di minori handicappati a centri socio - educativi)”.
Significative del resto appaiono alcune pronunzie della giurisprudenza
amministrativa che riflettono, almeno così sembrerebbe, quello stesso indirizzo.
Si è affermato, ad esempio, che “per la definizione della giurisdizione in tema di
contributi, previsti dall'art. 26 della l. reg Campania n. 11 del 1984, a favore dei
portatori di handicap, la giurisprudenza ha sempre affermato che tali contributi
non integrano una obbligazione direttamente fissata dalle legge: trovano titolo in
un provvedimento amministrativo di natura concessoria e di carattere
discrezionale, reso in esito, non soltanto alla verifica delle condizioni e dei
presupposti all'uopo prescritti, ma anche alla valutazione di interessi pubblicistici,
comparati a quelli privati; ne consegue che le relative controversie, collegate alla
posizione di interesse legittimo al corretto esercizio del potere, posizione propria
del familiare del portatore di handicap nei confronti della Usl, è devoluta alla
giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo” [T.A.R. Campania
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