CLASSIFICARE LA MALATTIA NON VUOL DIRE CURARLA Il Sole 24 Ore – DOMENICALE – 9 giugno 1996 La recente traduzione in italiano della quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV) ha segnato un'altra tappa nel dibattito che si è aperto nella letteratura psichiatrica internazionale a partire dal 1980, (anno della pubblicazione del DSM-III negli Stati Uniti) intorno alla clinica ed alla classificazione dei disturbi mentali. E' noto come una delle esigenze più fortemente sentite negli ultimi anni sia stata proprio quella di affinare gli strumenti diagnostici in maniera tale che fossero soddisfatti i parametri di validità, attendibilità, sensibilità e specificità della diagnosi psichiatrica. A fronte della precedente Babele di differenti formulazioni diagnostiche il DSM nelle sue varie edizioni ha rappresentato il tentativo di elaborare sistemi di diagnosi e classificazione internazionali che raggiungessero un elevato grado di attendibilità, vale a dire un alto coefficiente di accordo nella diagnosi da parte di osservatori differenti. Da questo punto di vista il passaggio dalla condizione pre-DSM-III a quella post-DSM-III è stato visto da alcuni come il passaggio da una condizione pre-paradigmatica alla nascita di un vero e proprio paradigma in psichiatria, una vittoria della scienza analoga alla introduzione in terapia del capostipite degli psicofarmaci, l'ultima e forse la più importante «rivoluzione» psichiatrica. Il termine «rivoluzione» sembra tuttavia essere stato usato con troppa disinvoltura nella storia della psichiatria, tanto che l'incalzante succedersi delle «rivoluzioni» (la «rivoluzione psicodinamica», la «rivoluzione psicofarmacologica», la «grande rivoluzione della psichiatria sociale», la «rivoluzione biologica») ha indotto, negli psichiatri epistemologicamente più avveduti, un salutare scetticismo. L'esigenza di punteggiare di «rivoluzioni» la storia della propria disciplina suggerisce infatti il bisogno di individuare punti di svolta radicale, elementi di rottura con il passato e di apertura verso un futuro radioso, attraverso i quali consolidare una identità basata sulla contrapposizione con un prima dominato dalla oscurità e dalla ignoranza. Ogni nuova «era» sembra ogni volta dischiudere nuove e impreviste opportunità e reca con sé l'illusione di lasciarsi alle spalle una volta per sempre interrogativi e problemi che restano invece spesso drammaticamente aperti. Nella imperante «cultura del DSM» un manuale diagnostico statistico, invece di costituire un catalogo della patologia mentale da consultare soltanto quando sia indispensabile una esatta codifica oppure un riconoscimento della copertura assicurativa di un dato disturbo, è assurto, soprattutto negli Stati Uniti, a principale strumento di formazione dei nuovi psichiatri. Non se ne può certo addebitare la responsabilità al DSM. Sarebbe un po' come dire che se nelle conversazioni le parole fossero sostituite da numeri telefonici, la colpa sarebbe dell'elenco del telefono. Questo uso del DSM di turno come vero e proprio libro di testo e di studio della «moderna» psichiatria fa avvertire sempre più l'urgenza di schiodare le nostre menti dalla logica del catalogo prima che anche l'intera attività professionale dello psichiatra, frettolosamente asserragliatasi intorno a false sicurezze, resti intrappolata in questo sistema diagnostico. A questo proposito, nonostante fin dalle prime pagine il DSM faccia ostentatamente professione di a-teoreticità dichiarando di usare un approccio puramente descrittivo a-teoretico, è a tutti noto che dietro di esso si nasconde un preciso modello teorico che risponde in primo luogo alle esigenze di una impostazione di ricerca biologica in psichiatria. La assunzione «implicita» di questo modello di riferimento rischia tuttavia di apparire - soprattutto nella sua applicazione clinica - soltanto la caricatura di una disciplina scientifica. L'insistenza quasi maniacale sulla oggettività, sulla attendibilità e sulla operazionalizzazione ad oltranza della diagnosi si è rivelata una sorta di maquillage che ha la pretesa - «scimmiottando» presunti canoni di scientificità di dare uno statuto scientifico forte a questa psichiatria, finendo invece per rivelarne la miseria. Nonostante i dati di cui fino ad oggi disponiamo, ad esempio nel campo della ricerca sulla schizofrenia, configurino al massimo uno sketch e non certo un modello esplicativo nel senso pieno del termine, troppo spesso i dati ricavati dalle ricerche nel campo delle neuroscienze vengono indebitamente generalizzati e presentati come verità assolute suscettibili di dirette e risolutive ricadute applicative. «Nei loro momenti di sincerità gli stessi psichiatri dubitano che le loro esposizioni puramente descrittive meritino il nome di scienza. I sintomi che compongono questi quadri morbosi sono sconosciuti per quanto riguarda la loro origine, il loro meccanismo e i loro reciproci legami; ad essi non corrisponde alcuna dimostrabile alterazione dell'organo anatomico della psiche, oppure vi corrispondono alterazioni dalle quali non si può trarre alcun chiarimento». Queste parole sono state scritte da Sigmund Freud nel lontano 1915 ma sono ancora assai vicine alla nostra esperienza se in una recentissima rassegna sulle cause della schizofrenia Heinz Häfner ha scritto che la conoscenza dei fattori che causano la più grave malattia mentale non ha fatto grandi progressi dai primi anni del secolo: «i dati di cui oggi disponiamo sono ancora frammentari e senza chiara connessione reciproca». Chi oggi non vuole tenere conto o peggio ignora tutto questo e pretende - spesso con una certa tracotanza - di presentare come risolti problemi che non lo sono è quindi aggiungeva Freud - soltanto un «briccone che dà più di ciò che ha». Molti dei disturbi elencati nel DSM vengono invece presentati come delle vere e proprie entità di natura, che emergono come Atena armata di tutto punto dalla testa di Zeus, senza alcun rimando o nesso significativo con la vita psichica, relazionale e sociale del soggetto. Rimanere abbagliati dal gioco di specchi generato da una nosografia soltanto «descrittivo-comportamentale» fa perdere di vista il nodo costituito dal rapporto tra fenomeni psicopatologici, struttura profonda della personalità, disposizione biologica, storia di vita ed ambiente. Non tenere conto di tutto questo significa più o meno esplicitamente svalutare il rapporto con il paziente o addirittura rischiare di perdere la capacità stessa di parlare con lui, nascondendosi dietro scale di misurazione attraverso le quali rilevare comportamenti che fungano da criteri per così dire «oggettivi» di inclusione o di esclusione per un determinato disturbo. Se è vero che i nostri pazienti tentano spesso di dirci qualcosa che noi non riusciamo a capire, il timore è che questa estrema possibilità di ascolto possa ulteriormente decadere. Infatti, come si dice, non c'è peggior sordo di chi non vuole (o non può più) sentire. Mario Rossi Monti