PER UNA BREVE STORIA CRITICA DELLA PREVENZIONE IN AMBITO GIOVANILE Dalla dissuasione scientifica alla teoria del disagio. Prendiamo ad esempio in analisi alcuni modelli di prevenzione. Un modello tuttora prevalente ritiene che le persone debbano essere informate ed in maniera il più possibile scientifica e neutrale riguardo ai rischi che corrono ed alle misure da prendere per evitare tali rischi. Secondo tale ipotesi è necessario e sufficiente informare le persone dei rischi della droga, del fumo, delle cattive abitudini alimentari per ottenere i cambiamenti sperati e scoraggiare le condotte dannose. Molti credono ancora che tale modello di per sé funzioni. Esso ha certamente una sua validità relativa in molte situazioni ed in senso generale è certamente meglio e bene che le persone posseggano conoscenze scientifiche adeguate. Tuttavia tale pratica in moltissimi casi si è rivelata inutile, insufficente o addirittura controproducente anche perché ogni informazione spesso veicola un giudizio morale. Recentemente sono stati pubblicati i risultati assolutamente sconsolanti (result : no effect, (Lynam D, Milich R. et al., 1999) dell’importante e molto propagandato progetto D.A.R.E. (Drug Abuse Resistance Education) statunitense che aveva visto un impegno massiccio di fondi e di coinvolgimento di vari esperti (poliziotti, studiosi etc). La consapevolezza del limite di tali approcci si è sempre più rivelata in ampi settori dell’intervento sociale stimolando - ad esempio nel caso della droga – interventi che evitassero di parlare di sostanze. Il dato paradossale è che, se per taluni parlare di sostanze appare necessario e sufficiente, per altri sarebbe da evitare e controproducente. In questo dibattito curiosamente elementi importanti quali :il chi (parla),il dove (parla), a chi (parla), il perché (parla) e di cosa (parla) ( le famose cinque W dell’ inglese why, who,where,whom, what) sono passati in secondo ordine così come il “come” se ne parla. Certo è che era necessario un paradigma diverso che permettesse di realizzare politiche di intervento preventivo. Ed è in questa fase che è stato coniato l’infelicissimo concetto di disagio che tanto successo poi avrà. Infelicissimo per varie ragioni e da non ultimo per il fatto di indurre taluni a pensare che, essendo l’agio l’opposto del disagio, compito della prevenzione sarebbe portare o mantenere le persone nell’agio. Piuttosto possiamo pensare come fattore predittivo sia non il permanere nell’agio ma la capacità di soffrire e di reggere l’insicurezza. Il cambio di prospettiva tuttavia è stato notevole ed ha prodotto interventi ed attenzioni più ampie ed articolate portando ad adottare politiche di intervento preventivo che, mettendo tra parentesi la presenza o meno di sostanze, giocassero nel produrre forme di svago e di realizzazione che di per se potessero fungere da fattori di protezione dall’uso di sostanze. In ultima analisi il paradigma che sorregge tale ipotesi parte dalla premessa che una persona che usa sostanze lo farebbe per rispondere ad un bisogno di sofferenza e di disagio. La prevenzione pertanto consisterebbe nel fare in modo di evitare che le persone si trovino a disagio o meglio nel favorire le condizioni di agio. Ma siccome la definizione stessa di disagio risulta di difficile cittadinanza in territorio scientifico, il problema che si è venuto a determinare è stato che, pur concordando - la maggior parte delle persone dotate di buon senso- sul fatto che qualsiasi intervento, progetto, iniziativa che “lavori in positivo” favorendo la partecipazione ed il protagonismo da parte dei giovani debba essere vista con simpatia e supportata, molto difficile se non impossibile sarebbe invece riuscire a delimitare il confine o la connessione tra una determinata azione e la prevenzione o meno di sostanze stupefacenti. In altre parole, se qualsiasi politica nei confronti dei giovani avrebbe comunque una intenzione preventiva, risulta difficile se non impossibile discriminare tra azioni maggiormente efficaci, inefficaci o controproducenti. Questa logica ha di fatto alimentato uno scetticismo scientifico dello stesso segno nei confronti delle politiche di prevenzione: per cui, se qualsiasi cosa è potenzialmente positiva, qualsiasi cosa è - se non potenzialmente negativa -quantomeno potenzialmente inutile . Il riconoscimento e l’intervento sugli indicatori precoci di disagio e di devianza. Se prevenzione è arrivare prima che “le cose arrivino” oppure che i guai diventino troppo grossi (vedasi ad esempio il concetto di prevenzione secondaria) è evidente l’importanza che possono assumere gli indicatori di rischio in modo da intervenire il più precocemente possibile. Ma il disagio giovanile non lo si prende attraverso germi o virus precisi come molte malattie. E la storia di molti interventi cosiddetti “precoci” sui soggetti a rischio ha segnalato come talvolta l’intervenire prima abbia di fatto favorito in molti casi la possibilità di chiudere dei percorsi anziché di aprirli. Tale fatto è noto in molti interventi precoci di tipo individuale ove “l’individuazione” di chi potrà avere un determinato problema talvolta anziché scongiurare o limitare il problema stesso, innesca il cosiddetto meccanismo della profezia che si autodetermina. Tale meccanismo è stato ben dimostrato da una ricerca condotta nelle scuole primarie americane (Rosenthal R., Jacobson L, 1972 ) dove 5OO bambini furono sottoposti a test di intelligenza i cui risultati furono comunicati agli insegnanti con degli errori intenzionali. Vennero cioè comunicati i nominativi di bambini ritenuti intellettualmente iperdotati quando in realtà non lo erano ma semplicemente erano stati scelti a caso. Il test fu ripetuto a sei mesi ed ad un anno e si riscontrò un progresso intellettuale in tali bambini a differenza degli altri. Cosa ci insegna tale esperimento? Era accaduta una cosa molto singolare e cioè che l’aspettativa e l’idea - degli insegnanti - di avere a che fare con bambini molto dotati aveva di fatto funzionato come catalizzatore per lo sviluppo intellettuale di questi bambini. E ciò avvenne nonostante il tempo dedicato a questi bambini non fosse superiore a quello dedicato per gli altri bambini. Comprensibili ragioni di tipo etico impediscono di ripetere tale esperimento selezionando a caso bambini o adolescenti ritenuti a rischio di qualsiasi problema, e quindi verificare se il fatto di osservarli e relazionarci con loro con l’idea che essi presentino quel determinato problema, possa prevenire tale problema oppure (come tale esperimento sembrerebbe indicare) funga da catalizzatore per l’instaurarsi o l’aggravarsi del problema. Certamente tale ricerca dovrebbe mettere maggiormente in guardia dal rischio di interventismo precoce se questo risulta selettivo per i soggetti a rischio e crea percorsi, identità, spazi (anche solo mentali) “speciali e separati”. Riguardo sempre ai fattori di rischio in particolare riguardo il disagio e la devianza minorile, in molti operatori è avvenuto un passaggio da ipotesi di lombrosiano (la causa sta nell’individuo) influsso ( e riflusso dato il ritorno di letture biologiche ed individualistiche) verso l’idea che i fattori di rischio fossero ricercabili e ben visibili, ben strutturati, ben chiari in precisi parametri sociali : il quartiere, la carenza di servizi, le carenze familiari, e in questi ambiti andassero sviluppati interventi per situazioni a rischio rispetto alle quali si potesse fare una azione di prevenzione della devianza. Tuttavia come nota De Leo (1995) “Da molto tempo gli studiosi hanno detto ai politici, anche se non sempre i politici hanno ascoltato questo discorso, che se avessero voluto intervenire per migliorare la qualità dei quartieri o per la qualità della vita delle famiglie sarebbe stato molto importante, ma che non lo facessero per prevenire la devianza, perché questo cambia la natura dell’intervento. “Dovrebbe essere fatto per la qualità della vita, poiché questo è un diritto di tutti “ e non solo dei giovani o peggio ancora dei giovani devianti “ e questo forse farà anche prevenzione alla devianza, ma se si inserisce questo lavoro in un programma di prevenzione della devianza, succederà un qualcosa che strutturerà in maniera rigida questi interventi in modo tale che si andranno a pescare certe persone prima che queste siano entrate in una “carriera” e forse come è successo tante volte nella storia si faciliterà l’ingresso in questa “carriera”. Perché un’attenzione selettiva ai fattori di rischio della devianza può produrre un irrigidimento di questo genere. Questo per quanto concerne il territorio, la scuola , le politiche per la famiglia. E’ molto importante fare interventi in questi ambiti per migliorare la qualità del servizio in questi ambiti. C’è un’enormità di cose da fare per la scuola, ma è diverso farlo per la qualità della scuola o per prevenire la devianza”. Disgraziatamente avviene che gli interventi per la scuola non trovano finanziamenti mentre quelli per la devianza, trovano immediatamente finanziamenti. C’è una sorta di stupidità sociale strutturata in questa direzione: la gente è disposta a spendere soldi per la paura della droga , ma non è disposta a spendere soldi per la scuola o per le famiglie: è troppo generico. Ci deve essere una minaccia perché si spendano dei soldi. Ma proprio quando si spendono soldi per dare una risposta alla minaccia il risultato è molto diverso”. (De Leo, ibidem) L’individuazione delle categorie a rischio: il caso dell’AIDS. Esito ancora peggiore hanno avuto le politiche di individuazione di categorie a rischio nel caso dell’AIDS ove l’individuazione di categorie a rischio (gli omosessuali, i tossicodipendenti etc) ha causato notevoli guai. I principali sono stati l’avere favorito nei confronti di tali “categorie” processi di esclusione e l’aver associato a tale malattia (anche nei confronti di chi l’aveva contratta in maniera diversa) uno stigma sociale. In secondo luogo l’idea che il problema fosse legato a categorie e non a comportamenti a rischio ha portato molti di coloro che si riconoscevano parte di tali gruppi ad un sentimento generalizzato ed indistinto di pericolo talvolta da negare anche attraverso atteggiamenti fatalistici. Ma il dato più paradossale è stato il rinforzare la percezione - in chi non si sentiva parte di “tali categorie” - che la cosa non li riguardasse. Il risultato è che nonostante le innumerevoli campagne e gli innumerevoli sforzi in tale direzione ci si è resi conto che la diffusione dell’AIDS ha ora tranquillamente traghettato “dalle categorie a rischio” ad altri strati di popolazione. E allora la prevenzione? Il fatto che la prevenzione sia una scienza piuttosto “complessa e debole” per cui le facili e forti certezze si scontrano con le evidenze e le complessità del reale (che non è mai un laboratorio ma la quotidianità e lo spazio vitale di tutti noi) non deve tuttavia portare a pensare che allora sia meglio non fare nulla ed investire il denaro pubblico in altri settori. Il rischio che attualmente si sta correndo è infatti che la prevenzione sempre meno interessi il dibattito tecnico -scientifico e politico (soprattutto in ambito sanitario) concentrato su altre problematiche vuoi più semplici o che presentano più evidenti segni di leggibilità , di correlabilità e di visibilità tra “ ciò che vi era, ciò che è stato fatto “. Di fatto l’ offrire modelli e azioni di carattere preventivo soprattutto in ambito giovanile pone problemi metodologici ed applicativi di non facile soluzione. Da un punto di vista teorico i modelli si presentano spesso o come troppo complessi o come troppo generici, e difficilmente risultano applicabili in contesti diversi. Non raramente si chiedono soluzioni a problemi di un target i cui appartenenti - non raramente - hanno una diversa definizione della realtà e dei propri bisogni. Ad esempio i ragazzi si ritengono estranei alla definizione di problema che viene attribuita a loro atteggiamenti o comportamenti, oppure non si ritrovano nelle soluzioni e negli interventi che vengono loro proposti. A loro volta gli insegnanti possono interpretare le richieste degli operatori sanitari (volte ad esempio ad acquisire maggiori elementi per comprendere la realtà ; a porsi in appoggio agli insegnanti evitando interventi diretti ; a collocare le singole azioni in un quadro progettuale maggiormente articolato etc.), come tentativi di non coinvolgersi e delegare agli insegnanti la soluzione di problemi cui non hanno competenza tecnico-professionale alimentando un sentimento di emarginazione. Gli operatori possono pensare a loro volta che la scuola sia un terreno dove si giocano questioni molto importanti che riguardano la salute ed i percorsi di molte persone in formazione (altrimenti difficilmente intercettabili da parte dei servizi sociosanitari), ma anche “un luogo” che pone domande e chiede soluzioni a problematiche troppo complesse per le risorse a disposizione , oppure ancora che non pone domande o contrappone elementi di rigidità istituzionale (Croce M, Vassura M, 1998). In questa fase storica , che vede la scuola confrontarsi con la realtà dell’autonomia e la sanità pubblica con una organizzazione di tipo aziendale si nota come la prima stia sforzandosi di ‘aprire i cancelli’ per offrire ed incontrare spaccati di società, mentre la sanità pubblica sempre più appaia interessata ad incontrare nuovi target e nuovi contesti di intervento. Tuttavia l’interazione tra “mondo della scuola” e “mondo della sanità e dei servizi psicosociali “ non raramente rischia di produrre ad uno o più degli attori coinvolti sentimenti di incomprensione e di impotenza oppure aspettative deluse, percezioni distorte e fantasie di manipolazione. Da qualche tempo inoltre si stanno facendo più frequenti le richieste da parte del mondo della scuola (dirigenti, insegnanti o studenti per il tramite degli insegnanti) di interventi rapidi e incisivi, sulla base di domande/bisogni a volte generici ( “vorremmo capire che cosa interessa i giovani”), altri oltremodo specifici ( “in quella classe c’è un clima conflittuale”), e a volte anche precisi e vincolanti (“i ragazzi sono interessati a capire il significato del rischio per gli adolescenti”). Gli operatori si ritrovano con un risicato bagaglio di un ‘paio d’ore’, aspettative elevate e tempi strettissimi per mettere a punto un intervento con un capo ed una coda. Se è facile ed opportuno in molti casi simili decidere di non intervenire, è anche vero come in molte situazioni sia opportuno avere a disposizione uno strumento agile di analisi ed intervento che permetta di penetrare in universi ed attori comunque importanti con i quali aprire canali comunicativi e costruire ipotesi di analisi partecipata, di coinvolgimento e di alleanza.. Ma uno degli elementi spesso fonte di inquinamento in ambito scolastico è probabilmente costituito dalla ‘difesa’ nei confronti di attività per le quali i ragazzi non sono minimamente stati coinvolti. Se è vero che in genere non è l’operatore diretto responsabile della situazione, è altrettanto innegabile che un suo approccio corretto alla questione può, almeno in parte, ovviare alle difficoltà iniziali. Si è pertanto posta una forte attenzione alla situazione di partenza, all’imprinting dell’intervento, attraverso la messa in crisi degli assunti iniziali ed usando una metafora sportiva si può pensare che la filosofia di base dell’approccio sia quella di ‘ributtare la palla nel campo avversario’ anche per vedere quale gioco vuole, sa e gli è concesso di giocare : se lo si vuole giocare insieme e con quali regole. Ciò significa che , avversari a parte, dal momento iniziale il gruppo è chiamato a ridiscutere le opzioni di avvio ed eventualmente proporne di nuove all’interno di una cornice chiara e condivisa. L’obiettivo è quindi quello di chiamare in causa direttamente i soggetti (a volte oggetti? Non dimentichiamoci che il tanto ab-usato termine target significa bersaglio!) dell’intervento, rendendoli realmente partecipi e corresponsabili del percorso che si intende attivare. (Croce M, Vassura M, 1999). Dall’intervento sul target alla peer-education Quando alcuni anni fa ci ritrovammo un piccolo gruppo di operatori e l’associazione contorno viola per pensare e realizzare un programma di prevenzione dall’AIDS non sapevamo bene come muoverci. Da tempo eravamo impegnati e coinvolti “ nel problema” e con le persone sieropositive in vario modo ed in vari luoghi (l’ospedale, il carcere, l’ambulatorio, il gruppo di auto-aiuto, la casa, etc). Sentivamo importante entrare anche nel mondo della scuola ed incontrare i giovani ma volevamo evitare tutti gli errori ed i rischi che seppur in misura sbrigativa e parziale ho cercato di esporre. Inoltre ci sembrava (se non rischioso e controproducente ) quantomeno discutibile entrare in aula con un tema così denso di implicazioni calandolo dall’alto. Certamente la cosa si poteva risolvere restando su un “piano tecnico ed asettico” tuttavia non era quello che volevamo. Gli strumenti (economici, umani, teorici) a disposizione erano quelli che erano ma sapevamo che tale tema si poteva affrontare solo se si riusciva a collegare ad altri temi che non era giusto né possibile decidere a priori. Ma soprattutto era importante che i ragazzi fossero parte progettuale e realizzativa del progetto. Non so a chi (purtroppo credo che non fui io) venne l’idea della peer-education. E’ curioso come le parole riescano a costruire nei gruppi, nuovi significati che magari non sono chiari a tutti ma certamente catalizzano intorno ad una idea. Poi quando non si sa bene spiegare cosa si vuole fare funziona molto dire magari in inglese un qualcosa. Ed in quel caso suonava bene dire a chi chiedeva cosa si stava facendo che si stava facendo della “peer education”. Ognuno a modo suo poteva avere i riferimenti teorici che potevano essere utili a “giustificare o razionalizzare” l’idea della peer education, ed il fatto che siano stati diversi tra loro è probabilmente importante. Nel mio caso i riferimenti erano (e sono almeno quelli di cui vorrei essere consapevole) a Kurt Lewin, alla teoria delle minoranze attive di Moscovici, all’intervento di rete ed all’empowerment sociale. Certamente i riferimenti teorici sono importanti ma talvolta sono un pretesto per fare comunque quello che si crede sorretti da teorie. Altre volte ahimè fungono a sorreggere la mancanza di idee e di la non vogliacapacità di confronto dietro una cortina fumogena di teorie. Spero nel nostro caso che valga la prima ipotesi. Lewin , le reti, le minoranze attive e l’empowerment. Di Lewin mi affascinava (oltrechè l’action-research) l’idea del cambiamento nei gruppi ed in particolare il metodo di lavoro nei gruppi sapendo che una azione esercitata per modificare le norme produce la comparsa di forze che neutralizzeranno l’effetto di questa pressione ed aumenta l’equilibrio quasi stazionario. Secondo Lewin sarebbe più “economico” ed efficace cercare di ridurre l’intensità delle forze che si oppongono alla modificazione delle norme di un gruppo, piuttosto che esercitare una modificazione crescente che imporrà all’individuo tensioni conflittuali : cosa che tra parentesi viene spesso proposta in molti interventi. Lewin giunse a tali concetti dalla sua esperienza sulla modifica delle abitudini alimentari negli Stati Uniti ove era necessario per problemi di economia bellica “convincere” vasti strati di popolazione al consumo di frattaglie che risultavano oggetto di avversione alla maggior parte delle casalinghe. Tali studi hanno non solo spiegato il perché dell’inefficacia di metodi stile conferenza,ma hanno soprattutto dimostrato i meccanismi attraverso i quali avvengono i cambiamenti nei gruppi. Tali meccanismi non risiedono nella “semplice” organizzazione di un setting di apprendimento attivo, quanto nella comprensione di come l’elemento di conformità al gruppo sia uno degli elementi di maggiore resistenza al cambiamento e sia quindi necessario riorientare questa forza per ottenere un cambiamento. Ma se si agisce rafforzando le forze che spingono nella direzione desiderata dal conduttore, si determina nel gruppo uno stato di tensione elevato (aggressività, fuga, abbassamento del livello della azione costruttiva, resistenze etc) mentre l’agire sulle forze opposte favorisce il cambiamento attraverso le fasi di a) scongelamento (unfreezing);b) cambiamento (moving);c) cristallizzazione (freezing). Ma anche la ricerca di Berkam e Syme (1979) sulle reti sociali (l’insieme delle persone che si conoscono, si frequentano, fanno parte della nostra storia), ed i successivi sviluppi ed attenzione che ha avuto questo concetto (Speck, Attneave,1976, Amerio, Croce,2000 ) credo possa essere un riferimento importante. La ricerca di Berkam e Syme ha infatti dimostrato l’importanza di come il grado di estensione delle reti , il grado di integrazione ed i contatti sociali abbiano delle connessioni significative con lo stato di salute individuale , al punto di influenzare lo stato di sopravvivenza. La ricerca è stata condotta su 7.OOO soggetti dei quali sono stati raccolti dati relativi allo stile di vita, allo stato di salute ed alle modalità di relazione interpersonale con una osservazione longitudinale e protratta per nove anni (!) riguardo l’estensione delle reti sociali. In altre parole di ogni persona sono state raccolte notizie sullo stato civile, il numero di amici, parenti e conoscenti, la frequenza degli incontri con loro e l’appartenenza ed il ruolo svolto in gruppi ed associazioni. Sono stati anche quindi analizzati i dati relativi alla mortalità ed alla morbilità ed è stata notata una correlazione molto alta tra questi dati e le variabili inerenti le reti sociali. In particolare gli individui con scarsi legami hanno presentato una frequenza di morte da due a cinque volte più alta delle persone con una rete sociale più estesa. Questa differenza si è dimostrata indipendente dai noti fattori di rischio quali obesità, fumo ed uso di alcol. Detto questo come è possibile coniugare tali ipotesi e risultati in un progetto di prevenzione e di peer-education? Altri elementi teorici – ma non solo – sono necessari. Nel mio caso tra quelli teorici citerei ancora la teoria delle minoranze attive di Moscovici (1981) e cioè la spiegazione teorica (anche se apparentemente paradossale) di come “una minoranza di soggetti (il nostro gruppo? I peer educators?) può influenzare i soggetti a rivedere le basi profonde del suo giudizio, mentre invece una maggioranza può portare la maggior parte delle persone ad accettare il proprio punto di vista, se è unanime, senza però raggiungere il sistema cognitivo soggiacente. In altri termini l’influenza maggioritaria opera in superficie mentre quella minoritaria ha effetti profondi”.( Amerio,1995, pag.254). Un ultimo punto che vorrei riferire – scusandomi allo stesso tempo per l’eccessiva prolissità e sinteticità ! – interessa l’empowermet ovvero “il processo attraverso il quale le persone sono aiutate ad assumersi ruoli e responsabilità attraverso lo sviluppo di capacità che danno accesso ad opportunità prima impensate, e che consentono il godimento dei risultati associati al sentimento di dominio sugli eventi e di appropriazione delle situazioni”. (Amerio, Piccardo, 2OOO). Conclusioni Tra le tentazioni che talvolta ci hanno attraversati - ma io mi riferisco soprattutto alle prime fasi del progetto che meglio ho potuto seguire ed esserne parte organica - tra un “fare senza pensare” ( riferendosi o delegando a rassicuranti modelli) ed “un pensare senza fare” (in attesa di costruire e realizzare modelli) credo che l’idea forte (che poi sarebbe diventata anche un modello) sia stata quella di un fare-pensando. Un fare-pensando che vive della cosiddetta capacità negativa. “Un agire cioè che rende vulnerabili al dubbio ”senza volere a tutti i costi e rapidamente pervenire a fatti o a motivi certi”. Certamente può apparire inattuale o anacronistico dedicare attenzione a questa qualità in ambienti socio-culturali che premiano la prestazione specialistica, l’orientamento al risultato,(…), la conformità a norme e a modelli canonici di comportamento, e l’acquisizione di certezze, rinforzando così l’Incapacità Positiva - quel particolare tipo di incompetenza che si accompagna all’eccessiva competenza”. (Lanzara ,1993, pag.13). Il bello ed il triste di tante cose è che quando i gruppi partono sorretti da passione, desiderio di mettersi in gioco etc. talvolta i conflitti, i confini, le implicazioni e le aspettative diventano sempre più forti ed il continuo navigare tra certezze acquisite e ricerca di elementi critici diventa talvolta anche faticoso. Ma tali gruppi si trasformano nel tempo e nuove forze entrano in gioco. Indipendentemente dall’utilità o meno di tante teorie ciò che ha permesso di andare avanti è stato l’accettare collettivamente una sfida. Credo senza facile retorica che in questo caso la forza principale e più importante sia ora quella dei peer-educators. Tali ragazzi sono certamente diventati una risorsa. Il circuito tradizionale tra chj forma, in-segna e chi è formato e in-segnato probabilmente si è modificato. Ora però si tratta di accettare una nuova sfida. Ma l’adulto spesso non sa apprendere attraverso la sfida: scappa o interviene troppo rapidamente. Può però anch’egli imparare. Amerio P., Fondamenti di psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1995l Amerio P., Piccardo C, (2000), L’empowerment tra individuo ed organizzazione, in , Piero Amerio, Psicologia di Comunità, Il Mulino, Bologna. Amerio P.,Croce M.,(2000), Le reti sociali, in Piero Amerio, Psicologia di Comunità, Il Mulino, Bologna. 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