ix
PRESENTAZIONE
Uno scopo ambizioso, quello di Cristina Passetti, come l’autrice stessa dichiara
introducendo al suo lavoro: comprendere le ragioni della «conversione
rivoluzionaria di un’intera generazione di riformatori meridionali», comprendere
come e perché, da riformatori, diventassero rivoluzionari.
L’interrogativo non è certo nuovo. Esso si colloca al cuore di qualunque
riflessione storica sulle rivoluzioni, fin quasi dal momento in cui esplodono. Si
possono ricordare, in proposito, le ben note proposte interpretative sulle cause
della rivoluzione inglese e sulla formazione del «rivoluzionario» elaborate da
Lawrence Stone più di trent’anni fa in un lavoro che rimane esemplare: proposte
complesse, che articolavano motivazioni sociali e culturali, politiche e
economiche, differenze e divergenze geografiche, non senza qualche, sia pur
cauta, incursione sul terreno delle relazioni familiari e della psicanalisi1. Per
quanto riguarda, poi, la Rivoluzione francese, il tema si è posto al centro
dell’attenzione fin dalle prime considerazioni dei contemporanei (pro o contro che
fossero) sul ruolo dei Lumi e delle idee in genere, sui rapporti tra monarchia e
società, su sviluppo e miseria, ambizioni e frustrazioni individuali e collettive,
anche in questo caso senza trascurare di mettere in campo caratteri personali e
psicologici e osservazioni fisiognomiche, prima ancora che Cesare Lombroso li
codificasse nella sua raffigurazione del rivoluzionario come criminale politico2.
Della formazione e dell’agire del rivoluzionario in Francia gli storici hanno a
lungo discusso le origini, cercandole nelle appartenenze sociali e nelle condizioni
economiche, nel movimento illuministico e nella sua crisi o, ancora, in pulsioni
freudiane alla morte del padre, nell’emergere di un «inconscio collettivo
politico»3. Da ultimo, la ricerca di Timoty Tackett su come divennero
rivoluzionari i membri dell’Assemblea costituente ha ampliato l’indagine a una
pluralità di variabili, analizzandone provenienze sociali e regionali, gli studi e le
letture, le biblioteche e le carriere; e ha messo in rilievo gli orientamenti
riformatori e generalmente moderati e pragmatici di quegli uomini, prima che la
profondità delle tensioni fra nobiltà, clero, Terzo stato, e fra corte e paese, li
spingesse alla lotta e al conflitto politico aperto4.
1
L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese 1529-1642, Torino, Einaudi, 1982, ed. or. The
causes of the English Revolution 1529-1642, London, Routledge & Keagan, 1972.
2
C. Lombroso, Il delitto politico e la rivoluzione in rapporto al diritto, all’antropologia
criminale ed alla scienza di governo, Torino, Bocca, 1890; Id., La delinquenza nella Rivoluzione
francese, in La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l’Impero, 3 voll., Milano, fratelli
Treves, 1897, vol. I, pp. 1-56. Sulla sua raffigurazione del “rivoluzionario” e i suoi giudizi sulla
rivoluzione, cfr. la voce di L. Mangoni in L’albero della rivoluzione. Le interpretazioni della
Rivoluzione francese, a cura di B. Bongiovanni e L. Guerci, Torino, Einaudi, 1989, pp. 401-404.
3
L. Hunt, The Family Romance of the French Revolution, Berkeley-Los Angeles, University of
California Press, 1992. Ma si ricordino in proposito gli interventi di C. Dean, C. Lucas, R. Pozzi e
P. Viola e la replica della stessa L. Hunt in «Società e storia», XVII, 1994, pp. 611-652. Si veda
anche la Préface di J. Revel alla tr. fr., Le roman familial de la Révolution française, Paris, Albin
Michel, 1995.
4
T. Tackett, Becoming a Revolutionary. The Deputies of the French National Assembly and
the Emergence of a Revolutionary Culture (1789-1790), Princeton, New Jersey, Princeton
x
Anche per quanto concerne il triennio repubblicano italiano, l’interrogativo non
è stato certamente eluso, né dai contemporanei né dagli storici che vi si sono
ripetutamente affacciati nel corso di più di duecento anni. Dalla metà del
Novecento, esso ha occupato un posto centrale nel ben noto dibattito sulla
«questione del giacobinismo italiano», da Delio Cantimori a Armando Saitta, da
Giorgio Spini a Franco Venturi e a Furio Diaz. Né, naturalmente, è mancato a
proposito della rivoluzione napoletana del 1799 e ha anzi generalmente percorso
gli studi, da quelli di Giuseppe Galasso e Pasquale Villani ai tanti altri che li
hanno seguiti: bastano, a ricordarlo, i fitti rinvii bibliografici che percorrono la
ricostruzione di Cristina Passetti. Esso figurava, del resto, all’ordine del giorno del
Convegno inaugurale delle iniziative per il secondo centenario della Repubblica
napoletana del 1799, che tra le principali questioni sottoposte ai partecipanti
chiedeva: «come si diventa rivoluzionari a Napoli, per riprendere di nuovo il titolo
del lavoro di Tackett, che cosa porta uomini e donne che fino al 1789 o, meglio,
ancora fino al 1792 e oltre, sono convinti assertori non solo della necessità ma
della possibilità di realizzare progetti di riforma economica, sociale, giuridica
all’interno di una monarchia non assoluta ma temperata dai Lumi, che cosa, nel
volgere di breve tempo, li porta a trasformarsi in sostenitori della repubblica, in
cospiratori, in rivoluzionari?»5. Si possono ora leggere negli Atti di quel
Convegno, pubblicati in questa stessa collana, alcuni tentativi di risposta, con
particolare riferimento ai diversi sviluppi, di fronte alla crisi delle riforme e allo
scoppio della rivoluzione in Francia, del pensiero e delle posizioni di Francesco
Mario Pagano, Francesco Conforti, Giuseppe Maria Galanti; e agli sbocchi
costituzionali della riflessione di Filangieri (come di altri riformatori) già prima di
un’esplosione alla quale non gli fu dato di assistere6.
Il «rapporto con la Rivoluzione francese, sempre incombente sulla categoria
dei Lumi a partire da Tocqueville», come ha di nuovo recentemente ricordato
Giuseppe Ricuperati7 (e il rapporto si può far risalire anche più indietro nel tempo,
se si considera, ad esempio, l’immediata condanna ecclesiastica), nel caso italiano
ha dovuto attraversare tutte le vicissitudini, le diffidenze, le ostilità, i rifiuti, i
fraintendimenti provocati dall’ipoteca nazionalistica, per poi ritrovare
considerazioni più pacate e, soprattutto, più argomentate e documentate. Per
University Press, 1996, trad. it. In nome del popolo sovrano. Alle origini della Rivoluzione
francese, Roma, Carocci, 2000.
5
A.M. Rao, Il 1799 e la Repubblica napoletana: il progetto e i lavori del Convegno, in Napoli
1799. Fra storia e storiografia. Atti del Convegno internazionale di Napoli (21-24 gennaio 1999),
a cura di A.M. Rao, Napoli, Vivarium, 2002, pp. 63-113: 67.
6
Si vedano in particolare, ivi, i contributi di C. De Pascale, Miti dell’antichità e figure del
moderno in F.M. Pagano, pp. 117-142; F. Lomonaco, L’anticurialismo di Gianfrancesco Conforti
dalle riforme alla rivoluzione, pp. 167-199; V. Criscuolo, L’esperienza della Repubblica
napoletana nel quadro del triennio rivoluzionario 1796-1799, pp. 241-294; V. Ferrone, Gaetano
Filangieri, l’Illuminismo e la critica politica della scientia juris, pp. 143-165. Sui fondamenti
teorici e pratici del distacco dalla monarchia borbonica di Pagano, si veda anche G. Imbruglia,
Rivoluzione e civilizzazione. Pagano, Montesquieu e il feudalesimo, in Poteri, democrazia, virtù.
Montesquieu nei movimenti repubblicani all’epoca della Rivoluzione francese, a cura di D. Felice,
Milano, F. Angeli, 2000, pp. 99-122.
7
G. Ricuperati, Le categorie di periodizzazione e il Settecento, in Id., Frontiere e limiti della
ragione. Dalla crisi della coscienza europea all’Illuminismo, a cura di D. Canestri, Torino, Utet
Libreria, 2006, pp. 168-283: 282 (versione aggiornata del saggio Le categorie di periodizzazione e
il Settecento. Per una introduzione storiografica, in «Studi settecenteschi», XIV, 1994, pp. 9-106).
xi
indicare questo rapporto, e più generalmente la relazione di dipendenza e
superamento tra Illuminismo riformatore e rivoluzione, accanto all’espressione
crociana del passaggio dei patrioti meridionali dall’«idealismo monarchico»
all’«idealismo democratico» richiamata più avanti8, altre se ne potrebbero
ricordare, altrettanto efficaci e, al tempo stesso, insoddisfacenti, come lo sono
quasi sempre e inevitabilmente i tentativi di riassumere brevemente in una
formula fenomeni storici complessi. Così quella cantimoriana dei giacobini come
«illuministi che entrano in azione»9, che a sua volta riecheggiava la suggestiva
riflessione di Paul Hazard sul passaggio «des idées pures aux faits réels»10. Per
Cantimori, fu «nelle necessità dell’azione politica fusa con la morale e la
religiosità la differenza decisiva e sostanziale fra la pacata lucidità e la eloquenza
patetica dei “philosophes” e la tragica energia giacobina, preoccupata in primo
luogo della consapevole azione rivoluzionaria in vista d’un programma ideale»11.
Dalle idee ai fatti, dal pensiero all’azione, dunque: ma non solo, poiché nel
passaggio all’azione erano le idee stesse a trasformarsi e, insieme, erano i
precedenti mutamenti culturali a determinare il passaggio all’azione12, in un
contesto politico e culturale, peraltro, che l’irruzione della Rivoluzione francese
modificava nel suo complesso, sollecitando non solo a essere pro o contro, ma
delineando una pluralità di reazioni, attitudini, gradi diversi, per così dire, di
simpatie o di ostilità13.
Perché, allora, riprendere ancora una volta l’interrogativo su come e perché dei
riformatori diventino rivoluzionari e farne oggetto di una ricerca specifica? Non è
un caso che una giovane studiosa ne abbia sentito il bisogno, per varie ragioni. In
primo luogo, l’evidente insoddisfazione per le risposte abbozzate o tentate finora,
soprattutto, come si vedrà, per quanto riguarda la periodizzazione; e il rifiuto del
tema, ancora spesso ricorrente, della “passività” della rivoluzione napoletana.
Tutt’altro che “passiva” ricezione delle idee – e delle armi – francesi, la
rivoluzione fu preparata e operata da un gruppo di patrioti, certamente élitario ma
non irrilevante nemmeno sul piano numerico, che negli eventi d’Oltralpe
trovarono una risposta a aspirazioni e esigenze già maturate e meditate in
precedenza. Ancora una volta, si tratta di una proposta interpretativa tutt’altro che
inedita, largamente acquisita, anzi, nella considerazione storiografica. Ma un’altra
ragione concorre probabilmente a spiegare perché l’autrice abbia voluto
riprenderla, approfondirla, affinarla, e risiede nella recente ripresa di interesse e di
Cfr. l’Introduzione di C. Passetti, p. 1, nota 1.
D. Cantimori, Illuministi e giacobini, in La cultura illuministica in Italia, a cura di M. Fubini,
Torino, Eri, 1957, pp. 260-277: 263.
10
P. Hazard, La Révolution française et les lettres italiennes 1789-1815, Paris, Hachette, 1910,
p. 11. Sull’importanza di quest’opera, all’interno di una complessiva ricognizione della produzione
dell’autore, si vedano i contributi di G. Ricuperati, Paul Hazard, in «Belfagor», V, 1968, pp. 564595, Paul Hazard e la storiografia dell’Illuminismo, in «Rivista storica italiana», LXXXVI, 1974,
pp. 372-404, Rileggendo Paul Hazard e Franco Venturi: gli spazi italiani e la Rivoluzione
francese, in Le metamorfosi di Venezia. Da capitale di Stato a città del mondo, a cura di G.
Benzoni, Firenze, Olschki, 2001, pp. 39-62, ora rielaborati in Id., Frontiere e limiti della ragione,
cit., cap. 2, pp. 56-126 e cap. 6, pp. 299-322.
11
D. Cantimori, Illuministi e giacobini, cit., p. 271.
12
In proposito va ricordata soprattutto la ricerca di Eluggero Pii, in particolare Il confronto
politico in Italia nel decennio 1789-1799, Firenze, CET, 1992.
13
A questa pluralità di reazioni dedicavo il mio Napoli e la rivoluzione (1789-1794), in
«Prospettive settanta», VII, 1985, pp. 403-476.
8
9
xii
dibattiti intorno a questi temi, ricorrenti e ineludibili: il rapporto fra continuità e
fratture, particolarmente fra pensiero illuministico e ideologia rivoluzionaria, non
solo, ma anche fra “originalità” e “imitazione”, o “importazione”, nell’esperienza
politica italiana del triennio.
È il caso della linea interpretativa, largamente presente nel lavoro di Passetti,
perseguita da Vincenzo Ferrone, dai Profeti dell’Illuminismo all’ultimo suo lavoro
su Filangieri, che segna un ulteriore netto spostamento sul terreno della storia
delle idee, rispetto ai suoi precedenti lavori. Se nei Profeti dell’Illuminismo
Ferrone aveva assunto il caso meridionale a paradigma delle “metamorfosi” dei
Lumi anziché della loro fine (a correzione di Darnton), ora la Repubblica
napoletana del 1799 è assunta come momento finale della storia dell’Illuminismo
italiano: testimonianza della continuità culturale tra Illuminismo e rivoluzione,
essa segnò, secondo Ferrone, anche la fine sanguinosa dell’utopia14. Pur
esplicitamente lontano da qualunque tentazione di tipo nazionalistico, il lavoro di
Ferrone tende tuttavia in tal modo a sminuire nuovamente il ruolo della
Rivoluzione francese nella nascita della politica moderna. Già Franco Venturi
aveva messo in rilievo gli sbocchi costituzionali del pensiero riformatore italiano
del Settecento15. Ma Ferrone attribuisce caratteri pienamente moderni al
repubblicanesimo e al costituzionalismo illuministici, e vede nel periodo
repubblicano seguito alla Rivoluzione francese una fase involutiva, anziché, come
ha giustamente osservato Carlo Capra, una fase di accelerazione «dei processi di
maturazione politica»16.
Di questi dibattiti e di alcune tendenze recenti ha da ultimo offerto un’attenta
ricognizione Vittorio Criscuolo, in una densissima introduzione ad alcuni dei suoi
saggi sul triennio repubblicano italiano, intitolata «Vecchia» storiografia e nuovi
revisionismi nella ricerca storica sull’Italia in rivoluzione17. Proprio i suoi saggi,
V. Ferrone, L’Illuminismo italiano e la rivoluzione napoletana del ’99, in «Studi storici»,
XL, 1999, pp. 993-1007, e in appendice a Id., I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della
ragione nel tardo Settecento italiano, nuova edizione accresciuta, Roma-Bari, Laterza, 2000 (1a
ed. 1989), pp. 361-374; Id., La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in
Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2003.
15
F. Venturi, La circolazione delle idee, in «Rassegna storica del Risorgimento», XLI, 1954,
p. 203 e si veda, più avanti, p. 208: «L’equilibrio dell’età delle riforme viene intaccato dalle più
diverse forze. L’individuo si ribella contro la benevola protezione dello Stato. La logica stessa
porta la classe dirigente che circonda il sovrano assoluto a chieder garanzie e a progettare
costituzioni. La resistenza delle classi privilegiate comincia a prendere forma organica e crea
fermenti complessi di libertà politica e non più soltanto civile. Accanto al cosmopolitismo
dominante si fanno sentire le prime confuse note d’un patriottismo nascente». Ed è questa «crisi
dell’Illuminismo […] che porta alle rivoluzioni della fine del secolo». Su Illuminismo e
rivoluzioni nell’opera di Venturi, mi permetto di rinviare ai miei Lumières et révolution dans
l’historiographie italienne, in «Annales historiques de la Révolution française», n. 334, octobredécembre 2003, pp. 83-104; Enlightenment and Reform: an overview of culture and politics in
Enlightenment Italy, in «Journal of Modern Italian Studies», 10, 2, june 2005, pp. 142-167; Franco
Venturi e le rivoluzioni del Settecento, in Il repubblicanesimo moderno. L’idea di repubblica nella
riflessione storica di Franco Venturi, a cura di M. Albertone, Napoli, Bibliopolis, 2006, pp. 449477.
16
C. Capra, Repubblicanesimo dei moderni e costituzionalismo illuministico: riflessioni
sull’uso di nuove categorie storiografiche, in «Società e storia», XXVI, 2003, pp. 355-371: 370.
17
In V. Criscuolo, Albori di democrazia nell’Italia in rivoluzione (1792-1802), Milano, F.
Angeli, 2006, pp. 25-178. Per un bilancio della questione, mi permetto di rinviare anche alla mia
Introduzione a A.M. Rao, M. Cattaneo, L’Italia e la Rivoluzione francese 1789-1799, in
Bibliografia dell’età del Risorgimento 1970-2001, Firenze, Olschki, 2003, vol. I, pp. 137-152.
14
xiii
pubblicati fra il 1987 e il 2003, forniscono risposte più che convincenti all’annosa
questione della continuità o rottura fra Illuminismo e rivoluzione. La vexata
quaestio, quale è giustamente definita, è affrontata da Criscuolo attraverso
un’attenta lettura dei testi di autori come Pietro Custodi, Giovanni Antonio Ranza,
Girolamo Bocalosi, Mario Pagano e altri, un rigoroso confronto tra edizioni
diverse, tra editi e inediti, scritti giornalistici, trattatistica filosofica e politica. Ne
scaturiscono itinerari complessi, tutt’altro che lineari, in cui influenze culturali
molteplici e varie motivazioni politiche accompagnano e segnano il passaggio dal
riformismo e dal pensiero illuministico alla rivoluzione. Indubbia la presenza del
pensiero dei Lumi, al quale esplicitamente si richiama la pubblicistica democratica
del triennio. Ma altrettanto sicura la sua crisi, la progressiva, più o meno netta
presa di distanza dalle sue illusioni e dal suo “intellettualismo” (termine che
compare spesso nel lavoro di Criscuolo), di fronte alle nuove sfide imposte dalla
irruzione delle masse sulla scena politica. Evidente, dunque, «l’intreccio
inestricabile di continuità e di rottura fra ideologia rivoluzionaria e cultura
illuministica»18 nel dibattito politico del triennio: sulla questione della lingua, ad
esempio, alla quale Criscuolo ha fra i primi dedicato, ormai quasi trent’anni fa,
uno studio ancora attuale, che meriterebbe anch’esso di essere autonomamente
ripubblicato19. Ma non solo di Lumi si tratta, francesi o italiani che siano.
Componente essenziale della formazione dei repubblicani italiani – e qui è il
rapporto tra esperienza italiana e modello francese, illuministico e rivoluzionario,
che si impone all’attenzione dello studioso – è la tradizione intellettuale nazionale.
Sicché accanto a Montesquieu, a Rousseau, a Mably – e Montesquieu forse più
che Rousseau –, alle radici del pensiero politico dei patrioti del triennio si
ritrovano riferimenti significativi al realismo e alla carica antidispotica e
repubblicana di Machiavelli e allo storicismo ciclico di Vico. In questo contesto
anche l’individualismo eroico di Vittorio Alfieri, nonostante i suoi diversi
sbocchi, mostra una delle strade attraverso le quali andò maturando una coscienza
rivoluzionaria già prima della rivoluzione20.
Nel riaprire il dibattito – in realtà, ovviamente, mai chiuso – sui rapporti tra
Illuminismo e rivoluzione in Italia, gli studi recenti lo hanno collocato
principalmente sul terreno delle idee, piuttosto che su quello dei rapporti fra le
idee e le pratiche, dei contesti politici generali nei quali le idee vengono elaborate,
maturano, circolano, si modificano nel momento stesso in cui dalla fase della
“produzione”, già di per sé complessa e mutevole e non dipendente
esclusivamente dalla volontà e dalle intenzioni dell’autore ma da una pluralità di
attori, passano a quello della circolazione e del “consumo” o, meglio, dei
18
Ivi, p. 132.
V. Criscuolo, Per uno studio della dimensione politica della questione della lingua:
Settecento e giacobinismo italiano, in «Critica storica», XV, 1978, fasc. 1, pp. 109-171, fasc. 2-3,
pp. 25-152.
20
Sul “caso” Alfieri, si vedano ora G. Santato, Tra mito e palinodia. Itinerari alfieriani,
Modena, Mucchi, 2000; A. Di Benedetto, Dal tramonto dei Lumi al Romanticismo. Valutazioni,
Modena, Mucchi, 2000, e i contributi raccolti nei convegni Alfieri in Toscana. Atti del Convegno
internazionale di studi, Firenze, 19-20-21 ottobre 2000, a cura di G. Tellini e R. Turchi, Firenze,
Olschki, 2002; Alfieri e il suo tempo. Atti del Convegno internazionale, Torino-Asti, 29 novembre1 dicembre 2001, a cura di M. Cerruti, M. Corsi, B. Danna, Firenze, Olschki, 2003; Alfieri a
Roma. Atti del Convegno nazionale, Roma 27-28 novembre 2003, a cura di B. Alfonzetti e N.
Bellucci, Roma, Bulzoni, 2006.
19
xiv
consumi21. Fra queste idee, particolarmente l’idea repubblicana, i suoi percorsi, le
sue trasformazioni hanno assunto, come si è visto, ancora maggior rilievo quale
filo rosso da seguire per comprendere le novità (o i presupposti) del
repubblicanesimo rivoluzionario22, riprendendo e sviluppando in termini nuovi le
considerazioni venturiane sull’idea repubblicana in età moderna23. Un approccio,
questo, che tende quasi naturalmente a mettere maggiormente in rilievo le
continuità e i lenti sviluppi piuttosto che le discontinuità o la brusca irruzione del
nuovo24.
In questo contesto storiografico, che sembra voler fare i conti con le ricerche
della metà del Novecento e prendere definitivamente le distanze dai loro risultati,
non è un caso, ancora, che anche un altro giovane studioso, Luca Addante, pur
seguendo un itinerario diverso, ispirato piuttosto dagli studi di Rosario Villari
sulla dissimulazione in età moderna, abbia scelto di affrontare la storia del
movimento rivoluzionario meridionale sul terreno specifico degli sviluppi e della
precoce elaborazione dell’idea repubblicana, partendo, ancora una volta, dalla
critica ai giudizi cuochiani (e crociani) sull’astrattezza e sulla “passività” dei
principi dei patrioti. Diverso il suo approccio rispetto al lavoro di Cristina Passetti,
pur condividendo con esso l’attenzione al caso delle Calabrie, oggetto specifico
dello studio di Addante: non il breve o il medio periodo, ma la lunghissima durata
di una autonoma tradizione repubblicana meridionale ricostruita con metodo
regressivo fino a Tommaso Campanella e a Antonio Serra, costretta a nascondere
fra le pieghe della simulazione e della dissimulazione le sue tensioni antiassolutistiche ma per esplodere, sia pure in termini e contesti, ovviamente, diversi,
nelle congiunture rivoluzionarie del 1647 e del 1799, all’interno di una «lotta dei
borghesi per l’accesso ai diritti politici […] [che] aveva respiro plurisecolare»25.
Cristina Passetti sceglie un’altra prospettiva, per affrontare in maniera
ravvicinata il problema della formazione dei rivoluzionari, o della “conversione”
21
Mi limito a rinviare in proposito al recente contributo di R. Chartier, Inscrire et effacer.
Culture écrite et littérature (XIe-XVIIIe siècle), Paris, Seuil/Gallimard, 2005, trad. it. Inscrivere e
cancellare. Cultura scritta e letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2006.
22
È il caso dei già citati studi di Vincenzo Ferrone su Filangieri. Ma va anche particolarmente
ricordato in proposito V. Criscuolo, L’idée de République chez les jacobins italiens, in «Annales
historiques de la Révolution française», n. 296, 1994, pp. 279-296.
23
Si vedano ora F. Venturi, Pagine repubblicane, a cura di M. Albertone, Torino, Einaudi,
2004, e Il repubblicanesimo moderno, cit., nel quale si suggerisce appunto di parlare di «idea
repubblicana» piuttosto che di «repubblicanesimo». Ma si veda anche V.I. Comparato, Note sul
repubblicanesimo nel Settecento: Vico critico della virtù repubblicana, in Dal modello inglese al
federalismo democratico. Studi in ricordo di Eluggero Pii, «Il Pensiero politico», XXXIV, 2001,
pp. 181-189. Del rischio che il «tema del “repubblicanesimo”, inaugurato sottilmente da Venturi
nel suo prezioso contributo» diventasse «un terreno obbligato e quasi una moda» scrive G.
Ricuperati, Crisi della coscienza europea e Illuminismo radicale (già In margine al «Radical
Enlightenment» di Jonathan I. Israel, in «Rivista storica italiana», CXV, 2003, pp. 285-329), in
Id., Frontiere e limiti della ragione, cit., pp. 134-135.
24
Per un bilancio critico della recente storiografia politica sul repubblicanesimo, cfr. ancora M.
Albertone, Nuove discussioni sull’idea di repubblica nel XVIII secolo, in «Rivista storica italiana»,
CXIV, 2002, pp. 458-476, e la recensione della stessa a Republicanism. A Shared European
Heritage, vol. I, Republicanism and Constitutionalism in Early Modern Europe, vol. II, The
Values of Republicanism in Early Modern Europe, ed. M. van Gelderen, Q. Skinner, Cambridge,
Cambridge University Press, 2002, in «Rivista storica italiana», CXV, 2003, pp. 800-807.
25
L. Addante, Repubblica e controrivoluzione. Il 1799 nella Calabria cosentina, Presentazione
di A.M. Rao, Napoli, Vivarium, 2005, p. 76.
xv
rivoluzionaria dei riformatori: una prospettiva che prende le mosse dalla metà del
Settecento, indirizzata a cogliere più precisamente nel tempo e nei suoi contenuti
ideali e politici la crisi del progetto riformatore, sulla quale a suo parere si innesta
una propensione eversiva già prima dell’89. Partita da studi di storia del pensiero
politico e filosofico, che l’avevano già portata a occuparsi del giacobinismo
meridionale26, in questo nuovo lavoro pone al centro dell’attenzione il magistero
genovesiano, ripercorso attraverso una aggiornata riconsiderazione critica della
lunga sedimentazione storiografica sul tema e del più generale contesto culturale,
politico, sociale del secondo Settecento meridionale. In questo magistero, nel
nuovo metodo scientifico e, insieme, nell’appassionato appello al risveglio delle
province e a una diffusa sociabilità patriottico-accademica, viene individuato il
filo rosso della formazione di un gruppo di riformatori-massoni-patrioti che avrà
un ruolo fondamentale nella rivoluzione del 1799. Ma il loro processo di
politicizzazione, nella ricostruzione dell’autrice, si colloca a ridosso della
Rivoluzione francese e non dopo di essa, più precisamente negli anni successivi
alla rivoluzione americana e ancora più precisamente nella drammatica fase aperta
dal terremoto calabro-messinese del 1783, che provoca una vera e propria crisi di
fiducia tra riformatori e monarchia, nonostante gli ultimi, apparenti più che reali,
tentativi di collaborazione, e alimenta una riflessione scientifica e politica che fa
della catastrofe un “ricominciamento”: «istruitevi una volta de’ nostri affanni» è
quasi il grido che erompe dalla penna graffiante di Francesco Salfi27.
Come e ancor più che nel lavoro di Addante, anche qui, per il breve periodo,
campeggia in tutto il suo rilievo la vicenda massonica, napoletana e calabrese, che
diventa chiave principale di lettura non solo e non tanto della prima attività
cospirativa del mondo patriottico meridionale nel 1792-93 ma delle sue
trasformazioni e propensioni eversive già prima dello scoppio della rivoluzione in
Francia. È soprattutto l’esperienza massonica, nel libro di Passetti, a dar conto di
un’evoluzione ideologica profonda: sicché non di un mero passaggio «dalle idee
pure ai fatti reali» si tratta, ma di un mutare delle idee stesse. Fortissima, in questo
mutamento, la dimensione religiosa: non solo nel senso di un regalismo e di un
giurisdizionalismo che attirano su questi uomini l’accanimento del clero ma
anche, e soprattutto, nel senso di una nuova fede, quella nella possibilità di
riscatto di un’umanità oppressa e dolente, che la paura, il terrore, l’immaginazione
spingono al fanatismo e alla superstizione e che solo ragione e sentimento insieme
potranno liberare28. Nel seguire, dunque, i mutamenti delle idee nel corso degli
anni Ottanta, non è solo e non tanto ai «germogli costituzionali» già ripetutamente
segnalati da Franco Venturi29 che qui si guarda, ma piuttosto all’affermarsi di una
religione civile dell’umanità e alle propensioni eversive che essa alimenta,
all’«energia creatrice» si potrebbe ripetere con Paul Hazard30, ma retrodatandola a
26
Si veda soprattutto C. Passetti, Il giacobinismo radicale di Vincenzo Russo, Napoli, La città
del sole, 1999.
27
Cfr. più avanti, p. 105, nota 40.
28
Su ragione e sentimento nell’Illuminismo e nella massoneria attira appunto l’attenzione G.
Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia, Marsilio, 1994.
29
A proposito, in particolare, di Pietro Verri: F. Venturi, Settecento riformatore, V, L’Italia dei
Lumi, t. I, La rivoluzione di Corsica, Le grandi carestie degli anni Sessanta, La Lombardia delle
riforme, Torino, Einaudi, 1987, p. 834. Ma sulle propensioni costituzionali e repubblicane di Verri
si veda ora C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, Il Mulino, 2002.
30
Cfr. G. Ricuperati, Rileggendo Paul Hazard, cit., p. 304.
xvi
prima dell’89. L’uso stesso del termine «conversione» rivoluzionaria, del resto,
rinvia a una dimensione religiosa, alla religiosità laica e civile dell’«uomo
dell’Illuminismo», alla sua fede nelle potenzialità trasformatrici della scienza31,
dapprima e, poi, alla nuova religione politica32.
La via prescelta per illustrare questa evoluzione non è quella della
prosopografia dei patrioti del 1799, che resta ancora tutta da fare e comunque
auspicabile per dar conto non solo della corrente filorivoluzionaria ma anche delle
sue differenze interne e più generalmente di un processo di politicizzazione
complessivo, nel quale tutte le diverse parti furono ugualmente coinvolte. Allo
stato delle fonti, l’impresa richiede un impegno che non può che essere collettivo.
Passetti ha ancorato la sua ricostruzione a tre figure dominanti, quelle di
Francesco Salfi, Antonio Jerocades, Carlo Lauberg, intorno alle quali è tuttavia
tutto un brulicare di figure maggiori e minori, note e meno note, Genovesi,
Filangieri, Pagano, Galanti, Andrea Serrao, i Grimaldi, certo, scienziati come
Domenico Cirillo, Giuseppe Vairo, Vincenzo Comi; non solo, ma anche
“maestri”, scrittori e accademici di provincia come Pietro Clausi, Francesco
Saverio Gagliardi, Gregorio Lamanna, Giuseppe Spiriti. Scienza e politica, natura
e storia, capitale e province sono gli spazi culturali e geografici in cui si muovono,
in un dialogo fitto e ininterrotto con un pensiero europeo, soprattutto francese,
continuamente rielaborato alla luce della tradizione culturale meridionale e dei
bisogni via via mutevoli del Regno.
Due nodi particolarmente significativi vanno segnalati, che l’autrice ha il
merito di mettere in rilievo, reciprocamente legati. In primo luogo, il problema
della comunicazione, della lingua e dei linguaggi da adottare per la diffusione
delle idee e la realizzazione di un progetto di istruzione e di rigenerazione morale
che è al cuore della riflessione genovesiana e del movimento riformatore che ad
essa si ispira: libri, giornali, scuola, teatro, poesia, tutto può e deve concorrere a
scuotere, istruire, “rigenerare”. In secondo luogo, l’importanza specifica
dell’insegnamento, non solo nelle sedi istituzionali delle strutture scolastiche e
universitarie ma anche nel pullulare di scuole private aperte a Napoli e,
soprattutto, in provincia dai tanti allievi, diretti e indiretti, della “scuola”
genovesiana, da Clausi a Gagliardi a Lauberg. Risalta così appieno la questione
della trasmissione orale del sapere, alla quale studi recenti hanno meritoriamente
apportato contributi notevoli, per la Francia e per l’Italia33, e che solo fonti fluide
e indirette (carteggi, memorie) possono aiutare a illustrare nel caso del Settecento
meridionale. Ne emergono anche, piuttosto vistosamente, le lacune documentarie
e bibliografiche che ancora impediscono una più concreta visione della vita
culturale del Regno di Napoli nel Settecento, solo in parte attenuate dai recenti
sviluppi della storia dell’editoria: soprattutto per quanto concerne l’istruzione, le
V. Ferrone, L’uomo di scienza, in L’uomo dell’Illuminismo, a cura di M. Vovelle, RomaBari, Laterza, 1992, pp. 199-243.
32
Su cui si veda M. Caffiero, La repubblica nella città del Papa. Roma 1798, Roma, Donzelli,
2005.
33
In particolare F. Waquet, Parler comme un livre. L’oralité et le savoir (XVIe-XXe siècle),
Paris, Albin Michel, 2003, e M. Roggero, Le carte piene di sogni. Testi e lettori in età moderna,
Bologna, Il Mulino, 2006. Sull’importanza della storia della scuola e dei relativi archivi per la
storia italiana nel suo complesso, si vedano G. e M. Giarrizzo, Per una storia d’Italia come storia
delle sue scuole: una scuola di frontiera, la “Manzoni” di Catania 1963-1988, Catania, G.
Maimone, 2005.
31
xvii
scuole pubbliche e private, l’Università, sulle quali, non a caso, conosciamo i
percorsi legislativi34 ma non la concreta articolazione degli studi, le dimensioni e i
caratteri del corpo insegnante.
Passetti anticipa dunque già agli anni Ottanta del Settecento, prima della
Rivoluzione francese, e nel contesto dell’assolutismo borbonico, quella teoria
della dissimulazione e della «doppia verità politica» che in molti studi, e
particolarmente nei lavori di Umberto Carpi, ha costituito una delle chiavi di
lettura dei comportamenti dei patrioti italiani nell’età napoleonica, in special
modo dopo l’affaire Ceroni35. Simulazione e dissimulazione, fedeltà e infedeltà
politiche, del resto, categorie solitamente applicate alla lettura delle vicende
culturali e politiche seicentesche, sono state recentemente estese alla ricostruzione
della congiuntura rivoluzionaria di fine Settecento, calandola in una prospettiva di
più lungo periodo36.
Simulazione, nella ricostruzione di Passetti, la fedeltà politica alla monarchia
borbonica dei patrioti meridionali, almeno di quelli impegnati in un sotterraneo
lavoro massonico che assume tratti cospirativi già dalla metà degli anni Ottanta.
Per poi seguire la vicenda cospirativa meridionale dopo l’89, dal «club sans
compromission» di Ciaja alla Società patriottica, via via fino alle congiure del
1794-95, una temperie che malgrado la ricchezza di documentazione offerta, in
questo caso, dalle carte processuali, presenta ancora zone d’ombra torbide e
profonde: quali l’uccisione a Napoli per mano di ignoti sicari di Giuseppe Spiriti37
e l’oscura morte per “suicidio” di Troiano Odazi. In questo livello cospirativo non
di mero adattamento della struttura organizzativa massonica si tratta, ma di piena
applicazione delle idee di rigenerazione maturate nel contesto dell’insegnamento
genovesiano, prima, e poi dell’esplosione «tremuotica» del 1783.
Tornando anch’egli, in un recente bilancio, sulla questione del rapporto Lumirivoluzione, e sulle tensioni interpretative che esso ha risollevato, Giuseppe
Ricuperati ha segnalato «un luogo di tensione, in realtà del tutto più civile e
34
Ne offre ora un nuovo bilancio il lavoro di M. Lupo, Tra le provvide cure di Sua Maestà.
Stato e scuola nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2005. Più
generalmente sulla concreta articolazione degli ambienti intellettuali meridionali mi permetto di
rinviare al mio Fra amministrazione e politica: gli ambienti intellettuali napoletani, in Naples,
Rome, Florence. Une histoire comparée des milieux intellectuels italiens (XVII e-XVIIIe siècles),
sous la direction de J. Boutier, B. Marin et A. Romano, Rome, École française de Rome, 2005, pp.
35-88. Sulle accademie si veda nello stesso volume il contributo di E. Chiosi, Istituzioni
accademiche a Napoli nel Settecento: continuità e mutamenti, in Naples, Rome, Florence, cit., pp.
105-122 e Id., Intellectuals and academies, in Naples in the Einghteenth Century, The Birth and
Death of a Nation State, edited by G. Imbruglia, Cambridge, Cambridge University Press, 2000,
pp. 118-134.
35
U. Carpi, Appunti su ideologia postrivoluzionaria e riflessione storiografica dopo il triennio
giacobino, in «Rivista italiana di studi napoleonici», XXIX, 1992, p. 41-129: 63. Ma si vedano ora
Id., Il programma nazionale di un intellettuale post-giacobino, in Ugo Foscolo, Orazione a
Bonaparte pel Congresso di Lione, a cura di L. Rossi, Roma, Carocci, 2002, pp. 9-42; Odi, slanci
e sciolti di Timone Cimbro: ancora sul celebre affaire del capitano Giuseppe Giulio Ceroni, in
L’affaire Ceroni. Ordine militare e cospirazione politica nella Milano di Bonaparte, a cura di S.
Levati, Milano, Guerini e associati, 2005, pp. 121-201.
36
È il caso, in particolare, di M. Formica, Sudditi ribelli. Fedeltà e infedeltà politiche nella
Roma di fine Settecento, Roma, Carocci, 2004, che, come il già cit. L. Addante, Repubblica e
controrivoluzione, rinvia esplicitamente ai lavori di Rosario Villari sulla dissimulazione e sulla
fedeltà politica nel Seicento.
37
Sulla vicenda cfr. L. Addante, Repubblica e controrivoluzione, cit., pp. 17-19.
xviii
componibile, tra coloro che ritengono il crogiolo del triennio essenziale per la
democrazia e i suoi valori e quanti, come Ferrone e me, che arretrano fino
all’Illuminismo, ponendone non solo il problema delle eredità, ma anche delle
latenze liberatorie interrotte. In questo senso – prosegue – la seconda edizione del
libro di Ferrone, I profeti dell’Illuminismo, non nasconde le differenze con
l’interpretazione di Guerci, Rao, Capra e Criscuolo. Quest’ultimo riassume il
dibattito con una grande equanimità, implicitamente superandolo»38. È un quadro
efficace delle linee interpretative e del dialogo in corso tra ricerche diversamente
orientate ma sempre reciprocamente rispettose dei risultati acquisiti. In questo
quadro, Cristina Passetti si colloca piuttosto sul terreno delle «latenze liberatorie
interrotte» o comunque preesistenti alla Rivoluzione francese e da questa
modificate, sollevando interrogativi suggestivi se si voglia guardare, come
suggeriva proprio uno studioso del triennio come Armando Saitta, non solo a «ciò
che è stato», ma anche a «ciò che fu soffocato ma che aveva una sua ragione
d’essere»39. Importante, soprattutto, è il suo richiamo alla vicenda massonica, i cui
intricati rapporti con le riforme e con la rivoluzione restano lontani dall’essere
dipanati. Così come restano sempre attuali gli interrogativi sollevati da Giarrizzo
sui rapporti tra le massonerie e la cultura del loro tempo: se si possa cioè parlare
di una reale autonomia di una “ideologia” massonica o questa non si alimenti
piuttosto, volta a volta, dell’arsenale di idee del contesto politico e intellettuale nel
quale si colloca.
Come già ricordava Walter Maturi facendo eco a Manzoni, non si tratta certo di
presentare due secoli, il Settecento e l’Ottocento, «l’un contro l’altro armato», ma
di comprenderli nella loro continuità e nella loro successione, senza accelerare i
tempi40. Resta comunque il fatto, e non sembri, questa, una considerazione da
storicismo “volgare”, che la rivoluzione scoppiò in Francia e non altrove. E che
dopo di allora, come ha osservato proprio Giuseppe Ricuperati, anche in Italia gli
uomini «divennero diversi»41.
Anna Maria Rao
38
G. Ricuperati, Epilogo. Radici e alternative tra presente e futuro, in Id., Frontiere e limiti
della ragione, cit., p. 351.
39
A. Saitta, Epilogo provvisorio, in «Movimento operaio», VII, 1955, p. 783.
40
W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant’anni di vita
intellettuale italiana 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo
compleanno, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, Esi, 1950, vol. I, p. 247. Rinvio anche al
mio Lumières et révolution, cit.
41
L’osservazione è riferita particolarmente al pubblico dei lettori: «Componendo materiali
ideologici che provenivano dalle “notizie del mondo”, i lettori degli spazi italiani, spiando gli
avvenimenti americani e poi quelli francesi, dopo essere stati philosophes con Voltaire e Diderot,
dopo essersi commossi con Rousseau, impararono a poco a poco a sperare come giacobini la
“rigenerazione” o a rimpiangere il passato come controrivoluzionari. In ogni caso divennero
diversi». G. Ricuperati, Radicamenti. Cultura italiana e pensiero europeo (già La cultura italiana
nel secondo dopoguerra storiografico, in Letteratura italiana e cultura europea tra Illuminismo e
Romanticismo, a cura di G. Santato, Ginevra, Droz, 2003, pp. 33-64), in Id., Frontiere e limiti
della ragione, cit., p. 44.