Spettacoli 27 Dicembre 2008 I GRANDI DEL BALLETTO L'intervista a Bolle: «Io, star negli Usa» «Sogni? Non ne ho più: ho avuto tutto, anche molto di più di quello che potevo sperare quando da ragazzino ho lasciato la mia famiglia per andare a Milano a studiare alla Scuola di ballo della Scala». Questo è l’effetto che la nomina a principal dancer - noi diremmo primo ballerino - dell’American Ballet Theatre di New York fa a Roberto Bolle. Il popolare danzatore, unico italiano ai vertici della compagnia newyorkese, la prossima primavera ballerà sul palcoscenico del Metropolitan. «Mi aspettano Giselle, Il lago dei cigni, Sylvia e Romeo e Giulietta. Poter ballare con questa compagnia era il sogno di una vita. E ora si realizza». Scusi Bolle, ma c’è un prezzo - dire addio all’Italia, ad esempio - che dovrà pagare? Nessun prezzo, se non quello di adattare la mia agenda ai ritmi di lavoro di New York. Non lascerò l’Italia: alla Scala ballo in apertura e chiusura di stagione mentre la primavera sarà tutta dedicata all’America. Se poi per prezzo si intendono fatiche e rinunce per il successo le dico molto serenamente che nella mia vita non ho mai intrapreso lotte per affermarmi, ho sempre tenuto tutte le energie per la sala prove e per il palcoscenico per essere sempre ai massimi livelli. E sono convinto che questa sia stata la mia carta vincente. Anche a New York? Direi di sì. La nomina è arrivata dopo il successo di Manon e Romeo che ho ballato all’American Ballet nel 2007 con Alessandra Ferri per il suo addio alla danza. Subito mi hanno chiesto di tornare, ma per il 2008 la mia agenda era già piena. Arrivo ora, con la maturità giusta, pronto ad arricchire ulteriormente il mio percorso artistico. Cosa deve imparare la nostra danza dall’America? Il modo di lavorare: al Metropolitan si prova per due mesi e si va in scena per tre mesi tutte le sere. L’American Ballet, poi, porta gli spettacoli in tournée nel paese per diffondere la cultura del balletto. E noi cosa possiamo insegnare? La qualità dei nostri spettacoli, la grande sensibilità che mettiamo nella preparazione e nell’interpretazione dei ruoli. In attesa di New York, com’è il bilancio del suo 2008? Più che positivo perché ho ballato in teatri storici come l’Opera di Parigi e in scenari suggestivi come il Colosseo e la Valle dei templi. Ma quello di cui vado più orgoglioso è di aver portato la danza fuori dai teatri, in piazza Plebiscito a Napoli e in piazza Duomo a Milano. Ritengo importante, poi, aver partecipato ad alcune campagne pubblicitarie, non per la cosa in sé, quanto per il fatto che è stato scelto un ballerino come testimonial: un segnale che dice come stia cambiando la mentalità nei confronti della danza non più un’arte per pochi, ma capace di parlare a molti. C’è, però, chi ha storto il naso vedendola girare una pubblicità come fanno calciatori e veline. Rispondo molto tranquillamente. Innanzitutto ho sempre cercato la qualità anche in uno spot. Dirò, poi, che aver legato il mio nome a uno sponsor ha fatto sì che questo coprisse molti dei costi degli spettacoli nelle piazze. Non mi scandalizzo di fronte a simili commistioni, soprattutto se alla fine chi ci guadagna è la danza. Vuol dire che, dato che la cultura deve fare i conti con i tagli statali, appoggiarsi ai privati è la strada da seguire? È chiaro che la situazione deve cambiare: non possiamo più pensare di andare avanti solo con i fondi pubblici. Occorre far leva su finanziamenti privati, incoraggiare donazioni attraverso la detassazione. La grande macchina dell’American Ballet che mette tutto all’asta (la cena con i ballerini, la possibilità di assistere alle lezioni e alle prove) può essere un buon esempio. A proposito di asta, quella per una cena con lei a New York è arrivata a 5mila dollari. Di recente, poi, è uscito un libro sulla sua carriera. Come fa a restare con i piedi per terra? Mi aiutano l’educazione che ho ricevuto in famiglia e la disciplina della danza: ogni giorno, anche se la sera prima ho avuto un grandissimo successo in scena, devo sempre ripartire da zero, mettermi alla sbarra e superare i miei limiti, allenarmi e provare, piegare il mio corpo e modellarlo. E quando il corpo non risponderà più come oggi come la prenderà? Posso solo augurarmi di avere la serenità e l’intelligenza delle mie due storiche colleghe, Alessandra Ferri e Darcey Bussel, che hanno scelto di lasciare le scene nel pieno della forma. Vedere il sorriso con il quale hanno compiuto questo passo mi ha davvero rinfrancato sulla scelta che anch’io dovrò fare. A gennaio ci sarà il cambio ai vertici del Corpo di ballo della Scala: Elisabetta Terabust lascia e arriva Makhar Vaziev. Mi dispiace che Elisabetta, che ha creduto in me nominandomi primo ballerino della Scala a 21 anni, se ne vada. Sono convinto che Vaziev porterà i suoi tratti distintivi - qualità, rigore e pugno di ferro -, ma saprà anche rispettare la grande tradizione di quello che è il primo teatro del mondo. Pierachille Dolfini