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L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità di cui è egli stesso è responsabile. Minorità è
l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida d’altri. La responabilità di tale minorità va
attribuita all’uomo stesso, quando la sua causa non risiede in una carenza dell’intelletto, ma dipende dalla
mancanza di determinazione e di coraggio nel servirsene, appunto senza la guida di un altro. «Sapere aude!»
«Abbi il coraggio di servirti del tuo stesso intelletto!». È questo il motto dell’illuminismo.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Pigrizia e viltà sono le cause per cui una così gran parte dell’umanità, anche molto tempo dopo che la natura
l’abbia affrancata da guide esterne (naturaliter maiorennes), tuttavia continua a rimanere volentieri, per tutta
la vita, in condizione di minorità. E, per la stessa ragione, diviene tanto facile, ad altri, assurgere al ruolo di
suoi tutori. In fondo è così comodo essere minorenni! Se ho un libro che ragiona al mio posto, se ho un
direttore spirituale che ha coscienza anche per me, se ho un medico che stabilisce quale dieta io debba
seguire, e così via, io, per quanto mi riguarda, non ho più bisogno di fare alcuno sforzo.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Lo spirito ha i suoi bisogni, come il corpo. I bisogni del corpo sono il fondamento della società, quelli dello
spirito il suo ornamento. Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini
associati, le scienze, le lettere, le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle
ferree catene che li gravano, soffocano il sentimento di quella libertà originaria per cui sembravano nati; li
rendono amanti della loro schiavitù, ne fanno, come si dice, dei popoli civili.
J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti, Parte prima
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A ciò che precede si potrebbe aggiungere che all’attivo dello stato civile va anche ascritta la libertà morale,
che sola rende l’uomo veramente padrone di sé; perché l’impulso del solo appetito è schiavitù, mentre
l’obbedienza alla legge che ci siamo prescritta è libertà.
J.-J. Rousseau, Contrat social, I.8
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non è la verità che un uomo possiede o crede di possedere, ma lo sforzo sincero che egli ha impiegato per
conquistarla, che fa il valore di un uomo. Infatti, non è attraverso il possesso, ma attraverso la ricerca della
verità che aumentano e si fortificano le sue potenzialità, e solo in quest’incremento delle potenzialità consiste
la sua sempre crescente perfezione. Al contrario, l’esercizio del possesso rende inerti, pigri e superbi.
Se Dio tenesse racchiusa nella sua mano destra ogni verità e nella sua mano sinistra, invece, stringesse
soltanto la sempre desta tensione verso la verità – quand’anche questa fosse accompagnata dal corollario che
io debba, perciò, sempre e in eterno errare –, e mi dicesse: «scegli!», allora io, con umiltà, gli afferrerei la
mano sinistra esclamando: «Padre, dammi questa! La pura verità spetta comunque a te solo e soltanto!»
G.E. Lessing, Eine Duplik
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Ma non dovrebbe essere consentito, forse, a un’assemblea di ecclesiastici, quale sarebbe un sinodo o una
«Venerabile Classe» (come vien detta in Olanda), di impegnarsi, sotto giuramento reciproco, al rispetto di un
certo credo immutabile, così da esercitare una sorta di supervisione continua su ciascuno dei suoi membri e,
attraverso questi, sul popolo, e, per di più, con lo scopo di perpetuarne la tutela nel tempo? Io sostengo che
ciò è assolutamente impossibile. […]
Un singolo uomo, infatti, per quanto riguarda la sua persona, può rinviare l’opera dell’illuminismo in ciò che
gli compete sapere, ma, anche in questo caso, solo per un breve lasso di tempo. Tuttavia, rinunziarvi del
tutto, sia pure limitatamente alla propria persona o, addirittura, coinvolgendo anche la sua discendenza,
significa violare e calpestare i sacri diritti dell’umanità.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Io dico dunque che la sovranità, altro non essendo che l’esercizio della volontà generale, non può mai essere
alienata […]: il potere si può trasmettere ma di certo non la volontà.
[…] Il corpo sovrano può senza dubbio dire: «Io voglio attualmente ciò che vuole quel tale uomo o, quanto
meno, ciò che dice di volere», ma non può dire: «Ciò che quell’uomo vorrà domani, io pure lo vorrò ancora»,
perché è assurdo che la volontà si dia delle catene per l’avvenire e perché non dipende da alcuna volontà il
consentire a nulla che sia in contrasto col bene dell’essere che vuole. Se dunque il popolo promette
semplicemente di obbedire, egli si dissolve per questo stesso atto, perdendo la sua qualità di popolo: dal
momento che egli ha un padrone non vi è più corpo sovrano e allora il corpo politico è distrutto.
J.-J. Rousseau, Contrat social, II.1
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Un’epoca non può impegnarsi e giurare, mettendo l’epoca che verrà in condizioni tali da impedirle di
ampliare le proprie conoscenze (soprattutto quelle che le sono più necessarie), di far piazza pulita degli
errori e, in generale, di progredire nell’opera dell’illuminismo. Si tratterebbe, a tutti gli effetti, di un crimine
contro la natura umana, la cui destinazione originaria consiste proprio in questo continuo progredire. I
posteri hanno, perciò, ogni diritto di respingere risoluzioni di quel tipo, prese in modo così illegittimo e
prevaricatorio.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Dire che un uomo si dà gratuitamente, è dire cosa assurda e inconcepibile; un tale atto è illegittimo e nullo,
per il solo fatto che chi lo compie è fuori di senno. Dire la medesima cosa di tutto un popolo, significa
presupporre un popolo di folli; e la follia non fa diritto.
[…] Rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell’umanità, e
perfino ai propri doveri.
J.-J. Rousseau, Contrat social, I.4
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La più antica tra tutte le società, e la sola naturale, è la famiglia. Tuttavia i figli restano legati al padre solo
per il periodo in cui hanno bisogno di lui per mantenersi in vita. Appena questo bisogno cessa, il legame
naturale si scioglie. Una volta che i figli siano stati esentati dall’obbedienza che dovevano al padre, e il padre
esentato dalle cure che doveva ai figli, tutti rientrano egualmente nell’indipendenza. Se continuano a restare
uniti, ciò non accade più naturalmente, ma volontariamente; e la famiglia stessa si conserva soltanto per
convenzione.
J.-J. Rousseau, Contrat social I.2
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In effetti, c’è qualcosa che ti sembri più insensato di un precetto che proscrive il cambiamento che è in noi,
che richiede una costanza che non può esistere, e che vìola la natura e la libertà del maschio e della femmina,
incatenandoli l’uno all’altra? C’è qualcosa di più assurdo di una fedeltà che limita il più capriccioso dei
godimenti di uno stesso individuo; di un giuramento di immutabilità pronunciato da esseri fatti di carne,
davanti a un cielo che non è mai lo stesso, all’interno di antri che cadono in rovina, sotto una roccia che va in
polvere, ai piedi di un albero che si fessura, su una pietra che vacilla? Credimi, voi avete reso la condizione
dell’uomo peggiore di quella degli animali.
D. Diderot, Supplemento al viaggio di Bougainville
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Con ciò lo spirito ha raggiunto lo stadio in cui l’uomo deve trovare in se stesso il vero contenuto. È la
posizione a cui si è dato il nome di illuminismo. Il principio fondamentale di esso è il dominio della
«ragione», l’esclusione di ogni autorità. Le leggi stabilite dall’intelletto, queste determinazioni universali,
basate sulla coscienza attuale, concernenti le leggi di natura e il contenuto di ciò che è giusto e buono, ebbero
il nome di «ragione». Illuminismo fu chiamato il regno di queste leggi. Il criterio assoluto di fronte al quale
era chiamata ogni autorità della fede religiosa, delle leggi giuridiche positive e specialmente del diritto
pubblico, fu ora riposto nel fatto che il loro contenuto fosse esaminato, in libera presenza, dallo spirito stesso.
G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia
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Con ciò lo spirito è dato come libertà assoluta. Lo spirito è adesso l’autocoscienza che comprende se stessa nel
senso che la sua autocertezza è l’essenza di tutte le masse spirituali, tanto del mondo reale quanto del mondo
sovrasensibile […]. La coscienza considera il mondo assolutamente come propria volontà […].
La coscienza singolare, che apparteneva a un membro di tale organizzazione e in questo ambito particolare
esplicava la sua volontà e portava a compimento i propri fini personali, ha adesso rimosso il proprio limite: il
suo fine è il fine universale, il suo linguaggio è la legge universale e la sua opera è l’opera universale. […]
Affinché l’universale giunga a un atto, è necessario che si concentri nell’Uno dell’individualità e che collochi
al vertice un’autocoscienza singola; la volontà universale, infatti, è volontà reale solo in un Sé che è Uno. In
tal modo, però, tutti gli altri singoli sono esclusi dal Tutto di questo atto e vi giocano soltanto un ruolo
limitato, e quindi l’atto non sarebbe atto dell’autocoscienza universale reale.
La libertà universale, dunque, non può produrre nessuna opera e nessun atto positivi, e le resta soltanto
l’attività negativa. La libertà universale è soltanto la furia del dileguare.
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito
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la libertà nel pensare significa anche che la ragione deve sottomettersi solo alla legge che essa stessa si dà; il
suo contrario è rappresentato dalla massima di un uso della ragione non sottoposto a leggi [gesetzloses
Gebrauch] (al fine, come fantastica il genio, di vedere più lontano che non sotto la limitazione imposta dalla
legge). Ne discende in modo naturale questa conseguenza: se la ragione non vuole essere sottomessa alla
legge che essa stessa si dà, le occorre soffrire il giogo di leggi che altri le impongono; senza una qualche
legge, infatti, niente riesce a lungo a reggere il proprio gioco, neanche la più grande delle assurdità. Perciò
l’inevitabile conseguenza dell’esplicita assenza di leggi nel pensare (d’un affrancamento dalle restrizioni
imposte dalla ragione) è che la libertà di pensiero finisce per scapitarci; e poiché ne va imputata la colpa non
a qualche sfortuna, ma a una vera e propria spavalderia, possiamo ben dire, nel vero senso della parola, che
ci giochiamo la libertà.
I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare?
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Pensare da se stesso significa cercare in se stesso (cioè nella propria ragione) la suprema pietra di paragone
della verità; e la massima di pensare in ogni circostanza da se stesso è l’illuminismo. Ciò implica molto meno
di quanto non immaginino coloro che ritengono che l’illuminismo consiste di conoscenze: è piuttosto un
principio negativo dell’uso [Gebrauch] della facoltà di conoscere, e spesso accade che chi è oltremodo ricco di
conoscenze sia poi il meno illuminato nel farne uso. Servirsi della propria ragione significa semplicemente
chiedersi, in merito a tutto ciò che si deve ammettere, se sia opportuno concepire il fondamento per cui si
ammette qualcosa, oppure la regola derivante da ciò che si ammette, come un principio universale del
proprio uso [zu bedienen] della ragione. Questa verifica ognuno può farla con se stesso; e presto grazie a
questo esame vedrà dissiparsi superstizione ed esaltazione fantastica, pur essendo ben lungi dal possedere le
conoscenze per confutare sia l’una che l’altra sulla base di fondamenti oggettivi. Infatti, egli si serve
semplicemente della massima dell’autoconservazione della ragione. È facile, di conseguenza, instaurare
l’illuminismo nei singoli soggetti per mezzo dell’educazione; è sufficiente avvezzare di buon’ora le giovani
menti a una siffatta riflessione. Ma illuminare un’epoca [Zeitalter] è impresa lunga e ardua, giacché sorgono
molti ostacoli esterni che rendono in parte vana, in parte più gravosa un’educazione del genere.
I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare?
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per ogni uomo, preso singolarmente, è difficile emanciparsi da una condizione di minorità che si è
tramutata, per lui, quasi in una seconda natura. […]
Vi sono, invece, maggiori possibilità che un pubblico sia in grado di illuminare se stesso: anzi, se solo gli
viene concessa la libertà di farlo, questo processo è pressoché inevitabile.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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È facile, di conseguenza, instaurare l’illuminismo nei singoli soggetti per mezzo dell’educazione; è
sufficiente avvezzare di buon’ora le giovani menti a una siffatta riflessione. Ma illuminare un’epoca
[Zeitalter] è impresa lunga e ardua, giacché sorgono molti ostacoli esterni che rendono in parte vana, in parte
più gravosa un’educazione del genere.
I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare?
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Si vede subito che l’illuminismo è una cosa facile in tesi, ma difficile e lunga ad ottenersi in ipotesi; perché il
non esser passivo con la propria ragione, facendola essere sempre legislatrice di se stessa, è qualcosa di
molto facile per un uomo che vuol restare fedele al suo scopo essenziale e non desidera sapere ciò che è al di
sopra della sua intelligenza; ma poiché la tendenza a sapere al di là si può appena impedire, e non mancherà
mai chi promette con molta sicurezza di potere appagare questo desiderio di sapere, sarà molto difficile
mantenere o stabilire la semplice negativa (che costituisce il vero illuminismo) nel modo di pensare
(specialmente presso l’opinione pubblica).
I. Kant, Critica del Giudizio, § 40
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Ci vuole qualcosa di più del senso comune più modesto per intuire almeno che è un delitto, una follia odiarsi
e tormentarsi a vicenda per delle credenze assurde su un essere di questa sorta?
Paul-Henry Thiry d’Holbach, Il buon senso
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Per sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo in comune, cioè di una facoltà di
giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori del modo di rappresentare di tutti gli altri, per
mantenere in certo modo il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso, e per evitare
così la facile illusione di ritenere come oggettive delle condizioni particolari e soggettive; illusione che
avrebbe una influenza dannosa sul giudizio.
I. Kant, Critica del Giudizio, § 40
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Le massime del senso comune [sono]: (1) pensare da sé; (2) pensare mettendosi al posto degli altri; (3)
pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stessi. La prima è la massima del modo di pensare libero
dai pregiudizi, la seconda del modo di pensare largo, la terza del modo di pensare conseguente.
La prima è la massima di una ragione che non è mai passiva. La tendenza alla ragione passiva, quindi
all’eteronomia della ragione, si chiama pregiudizio; e il più grande di tutti consiste nel rappresentarsi la
natura come non sottoposta a quelle regole che l’intelletto le dà a fondamento, in virtù della propria legge
essenziale – ed è la superstizione. La liberazione dalla superstizione si chiama illuminismo; perché, sebbene
questo nome convenga anche alla liberazione dai pregiudizi in generale, la superstizione merita d’esser
chiamata il pregiudizio per eccellenza (in sensu eminenti), considerata la cecità in cui ci trascina e che impone
quasi come un obbligo, mettendo nella migliore evidenza il bisogno di essere guidati dagli altri, e quindi lo
stato di una ragione passiva.
I. Kant, Critica del Giudizio, § 40
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Per ciò che riguarda la seconda massima del modo di pensare, noi siamo già ben abituati a chiamar ristretto
(limitato, il contrario di largo) colui del quale i talenti non sono capaci di qualcosa di grande (soprattutto di
qualche cosa d’intensivo). Ma qui non si tratta della facoltà della conoscenza, ma del modo di pensare, del
modo di fare un uso appropriato della facoltà della conoscenza; per cui un uomo, per quanto siano piccoli in
lui la capacità e il grado delle doti naturali, mostrerà di avere un largo modo di pensare, quando si elevi al di
sopra delle condizioni soggettive particolari del giudizio, tra le quali tanti altri sono come impigliati, e
rifletta sul proprio giudizio da un punto di vista universale (che può determinare soltanto mettendosi dal
punto di vista degli altri).
I. Kant, Critica del Giudizio, § 40
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La terza massima, cioè quella del modo di pensare conseguente, è la più difficile da applicare, e non si può
raggiungere se non con l’unione delle due prime, e dopo che per una costante abitudine si sia acquistata in
queste una certa abilità. Si può dire che la prima di questa massime è la massima dell’intelletto, la seconda
del Giudizio, la terza della ragione.
I. Kant, Critica del Giudizio, § 40
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Se, a questo punto, ci si chiedesse: «viviamo ora in un’epoca [Zeitalter] illuminata?», la risposta sarebbe: «no,
ma, senz’ombra di dubbio, viviamo in un’epoca di illuminismo». Allo stato attuale, siamo ben lungi dal poter
dichiarare che gli uomini, presi nel loro insieme, siano già in grado, o anche solo possano esser messi in
condizione, di servirsi [zu bedienen] bene e con sicurezza, senza alcuna guida esterna, del proprio intelletto in
materia di religione.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Semplicemente, abbiamo chiari segnali che indicano come, agli uomini, sia stato sgombrato il campo per
lavorare alla propria emancipazione, e come diminuiscano, un po’ alla volta, gli ostacoli che impediscono la
diffusione generale dell’illuminismo o l’uscita da quella condizione di minorità di cui sono responsabili essi
stessi. Sotto questo profilo, quest’epoca [Zeitalter] è l’epoca dell’illuminismo, ovvero il secolo di Federico.
[…] Sotto il suo regno autorevoli personalità ecclesiastiche, senza pregiudicare gli obblighi di servizio del
loro ufficio, hanno potuto sottoporre liberamente e pubblicamente alla verifica del mondo, in quanto esperti
della materia, i loro giudizi e le loro opinioni, benché esse divergessero in più punti rispetto al credo
riconosciuto. Ma, a maggior ragione, ha potuto farlo qualunque altro suddito che non fosse vincolato ad
alcun obbligo di servizio. Questo spirito di libertà si diffonde anche oltre i confini e fa irruzione anche
laddove debba lottare con ostacoli frapposti da un regime che male intende il proprio compito.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Che cos’è l’illuminismo lo sa chiunque abbia imparato a distinguere, con un paio d’occhi in grado di vedere,
la differenza fra chiarore e oscurità, luce e tenebra. […]
«Chi è legittimato a illuminare l’umanità?» Chi ne è capace! […] E chi mai non ne è capace? […] Chiunque,
senza eccezione, da Socrate o Kant sino al più oscuro dei sarti e calzolai, magari dotato di una
sovrannaturale illuminazione, è legittimato, quando il suo genio, buono o malvagio, ve lo spinga, a
illuminare l’umanità, per quanto gli è possibile. Da qualsiasi punto di vista si osservi la cosa, si scoprirà che
la società umana è infinitamente meno minacciata da questa libertà di quanto non lo sia quando
l’illuminazione delle teste e del tran-tran quotidiano degli uomini viene trattata come un monopolio, ovvero
come questione d’esclusiva pertinenza di una corporazione.
C.M. Wieland, Qualche granello d’oro dalle scorie, ovvero sei risposte a sei domande
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Il diritto umano che spetta collettivamente al popolo intero altro non è che il diritto all’illuminismo. Tutti gli
altri, infatti, sono diritti personali e il loro influsso su una rivoluzione dipende, a sua volta, dal grado di
illuminismo di un popolo. […]
Si può anche supporre che il grado di illuminismo decresca nel ceto nobiliare e si accresca, invece, presso il
popolo. Allora, ciò non può che condurre, inesorabilmente, il popolo a sollevarsi contro rapporti giuridici
che non hanno più, ormai, alcun fondamento morale. […]
Se dal risultato di una cosa si potesse ricavare lo scopo a cui essa serve, allora dovremmo dire che lo scopo
della società civile è proprio l’illuminismo.
J.B. Erhard, Sul diritto del popolo a una rivoluzione
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D’altra parte, solo colui che, illuminato egli stesso, non arretra dinanzi alle ombre, e contemporaneamente ha
a disposizione un esercito ben disciplinato e numeroso per garantire la pubblica pace, può dire ciò che,
invece, una libera repubblica non potrebbe mai osare: «ragionate quanto volete e su ciò che volete, ma obbedite!»
Emerge, allora, una tendenza sorprendente e inattesa delle cose umane – e del resto, se si considera questa
tendenza da un punto di vista più generale, quasi tutto, in essa, appare orientato verso il paradosso. Così, un
maggior grado di libertà civile sembra giovare alla libertà spirituale di un popolo, ma, al contempo, le
impone limiti invalicabili, mentre un grado minore di libertà civile offre allo spirito lo spazio in cui può
espandersi secondo tutte le sue potenzialità. Infatti, se la natura ha fatto spuntare sotto quella dura scorza
questo germoglio a cui dedica le più tenere cure, ossia l’inclinazione e la vocazione [Bedruf] al libero pensiero,
ciò, a sua volta, ha un graduale effetto retroattivo sull’indole del popolo (per cui esso si trova sempre più
all’altezza della libertà di agire) e, da ultimo, persino sui fondamenti del governo che trova corrispondente ai
suoi fini trattare l’uomo – che oramai è ben più che una macchina – in modo conforme alla sua dignità.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Non disdegnino i re di ammettere nei loro consigli le persone più capaci di consigliarli bene: rinuncino al
vecchio pregiudizio inventato dalla superbia dei grandi, che l’arte di governare i popoli è più difficile di
quella di illuminarli: quasi fosse più facile indurre gli uomini a operare bene di buon grado che non
costringerveli con la forza. Che i sapienti di prim’ordine trovino asili onorevoli nelle loro corti. Che vi
possano ottenere la sola ricompensa degna di loro: quella di contribuire col loro prestigio alla felicità dei
popoli che da loro avranno imparato la saggezza. Solo allora si vedrà ciò che possono la virtù, la scienza e
l’autorità quando, animate da una nobile emulazione, si accordano nell’impegno di promuovere la felicità
del genere umano. Ma finché da un lato ci sarà solo la potenza, dall’altro i lumi e la saggezza, raramente i
sapienti penseranno grandi cose, più raramente ancora i principi faranno cose belle, e i popoli continueranno
a essere vili, corrotti e infelici.
J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti, Parte seconda
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O Borussia! Tu risplendi al mondo come un sole! Il tuo re era il terrore delle nazioni, così com’è stato un
idolo per il suo popolo. […] Il tuo popolo è stato, sotto il suo re, il più libero del mondo, poiché ogni uomo
dotato di ragione, illuminato o meno che fosse, poteva pensare e agire come voleva, purché non offendesse i
diritti dell’umanità. Tu sei la prova più eloquente del fatto che l’illuminismo è in grado di rendere felice lo
Stato in cui esso attecchisce! Oh, voglia il cielo che mai la doppiezza pretesca e l’ignoranza dispieghino su di
te le loro nere ali infernali [...] strappandoti dal capo la corona celeste della tolleranza universale. […]
Certo, l’illuminismo non incensa il tiranno, né adula deboli in stato di minorità solo perché siedono sul
trono. Ma persino nel governante più debole l’illuminismo rispetta i benefici della successione ereditaria e,
senza muovere offesa alcuna (poiché il vero illuminismo non offende mai la maestà), diviene il consigliere
del principe e il benefattore dello Stato.
A. Riem, Sull’illuminismo, e sulla possibilità che esso sia o divenga pericoloso per lo Stato e per la religione
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Per conseguire quell’illuminismo non occorre altro che la libertà; e, precisamente, la più inoffensiva di tutte le
forme che possono essere chiamate in tal modo, ossia: il far pubblico uso della propria ragione in ogni campo.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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La mia risposta è: l’uso pubblico della propria ragione dev’essere sempre libero ed esso, solo, può realizzare
l’illuminismo fra gli uomini. Invece il suo uso privato può anche essere fortemente ridotto, senza che ciò
costituisca un ostacolo particolare per il progresso dell’illuminismo.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Per uso pubblico della propria ragione io intendo quello che un individuo può esercitare in quanto esperto
della materia di fronte al pubblico intero del mondo dei lettori. Chiamo, invece, uso privato quello che è
consentito a un individuo in quanto gli è stata affidata una determinata carica civile o funzione pubblica.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Ora, per alcuni compiti che vanno nell’interesse del bene comune, si richiede un certo meccanicismo in base
al quale alcuni membri della comunità devono comportarsi in modo esclusivamente passivo, al fine di essere
orientati dal governo, mediante una sorta di artificiosa unanimità, in vista della realizzazione di scopi
pubblici o, quantomeno, perché venga impedito loro di essere d’ostacolo a tali scopi. In questo caso,
ovviamente, non è consentito mettersi a ragionare, ma bisogna obbedire.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Sarebbe indubbiamente deleterio se un ufficiale, a cui un superiore ha impartito un ordine, volesse star lì a
cavillare, mentre è in servizio, sull’opportunità o sull’utilità di tale ordine: egli deve obbedire. […]
[deve illustrare fedelmente] dottrine che, per parte sua, non sottoscriverebbe con pieno convincimento, e che,
tuttavia, può impegnarsi a esporre, perché non è del tutto impossibile che, comunque, esse celino in sé
qualche verità e, in ogni caso, quanto meno non includano nulla che contraddice la sua religione interiore. Se
infatti egli credesse di scorgervi qualcosa del genere, non potrebbe assolvere la sua funzione con coscienza,
ma dovrebbe dimettersi.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Vi deve essere, in ogni comunità, un’obbedienza, mediante il meccanismo della costituzione, alle leggi coattive
(che hanno di mira il tutto) e, nel tempo stesso, vi deve essere uno spirito di libertà, per cui ognuno, in ciò che
concerne i generali doveri dell’umanità, esige di essere razionalmente convinto che siffatta coazione è
legittima, affinché egli non venga a trovarsi in contraddizione con se stesso. La prima condizione senza la
seconda è la causa che dà luogo alle società segrete: è infatti vocazione naturale degli uomini comunicare gli
uni con gli altri nelle materie che riguardano l’umanità in generale. Le società segrete, pertanto, cadrebbero
da sé, se questa libertà fosse favorita. E come altrimenti il governo potrebbe acquisire le conoscenze di cui ha
bisogno per attuare i suoi compiti, se non permettesse allo spirito di libertà, così nella sua origine come nei
suoi effetti, di manifestarsi?
I. Kant, Sul detto comune: «Questo può essere giusto in teoria ma non vale per la pratica»
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Anzi, ha addirittura il compito di comunicare al pubblico tutte le opinioni, purché vagliate con cura e in
buonafede, che ha maturato sugli elementi erronei […].
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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La costituzione fondata: 1) sul principio della libertà dei membri di una società (come uomini); 2) sul
principio della dipendenza di tutti da un’unica comune legislazione (come sudditi); 3) sulla legge
dell’uguaglianza di tutti (come cittadini) – e, cioè, l’unica costituzione che derivi dall’idea del contratto
originario, sul quale la legislazione di ogni popolo deve fondarsi – è la costituzione repubblicana. Questa
costituzione è quindi in se stessa, per ciò che riguarda il diritto, quella che sta originariamente a fondamento
di tutte le specie di costituzione civile, e v’è solo da chiedersi se essa sia anche la sola che può condurre alla
pace perpetua.
I. Kant, Per la pace perpetua
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Per uso pubblico della propria ragione io intendo quello che un individuo può esercitare in quanto esperto
della materia [Gelehrter] di fronte al pubblico intero del mondo dei lettori.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Pensare da se stesso significa cercare in se stesso (cioè nella propria ragione) la suprema pietra di paragone
della verità; e la massima di pensare in ogni circostanza da se stesso è l’illuminismo. Ciò implica molto meno
di quanto non immaginino coloro che ritengono che l’illuminismo consista di conoscenze […]. Questa
verifica ognuno può farla con se stesso […]
I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare?
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Illuminare il popolo significa insegnargli pubblicamente i suoi diritti e doveri rispetto allo Stato di cui fa
parte. Qui si tratta solo dei diritti naturali che il comune intelletto è capace di cogliere, sicché quelli che li
proclamano e li interpretano presso il popolo non sono persone ufficiali da designare dallo Stato, ma sono
liberi cultori del diritto, cioè i filosofi che per la libertà che si permettono riescono odiosi allo Stato che voglia
sempre solo dominare, e col nome di illuministi sono diffamati come gente pericolosa per lo Stato […]
I. Kant, Il conflitto delle Facoltà
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L’illuminismo è la conoscenza razionale di tutti quei saperi che, indipendentemente dalla nostra particolare
professione o dal nostro mestiere, sono necessari alla nostra felicità.
G.C. Wedekind, Il programma dell’illuminismo
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quanto penseremmo, e quanto giustamente, se non pensassimo, per così dire, in comunione con altri, ai quali
comunichiamo i nostri pensieri, ricevendone i loro? Si può pertanto ben dire che il potere esterno che toglie
agli uomini la libertà di esprimere pubblicamente i loro pensieri toglie loro anche la libertà di pensare
I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare?
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Perché all’Università la scienza libera ci arrivi bisogna che la società sia di tale assetto da produrne gli
incentivi e le condizioni d’esistenza. Coteste condizioni sono ora tali da permettere alla scienza di svolgersi
fuori della cerchia dell’insegnamento in innumerevoli funzioni sociali. L’Università, in somma, come è ora, è
essa stessa un riflesso ed un risultato della vita sociale. […] L’opera nostra è tutta al giorno d’oggi nel lavoro,
che non è un semplice attributo dei singoli cervelli nostri, ma è quello che si fa, si produce e si sviluppa per
entro alla cooperazione di tanti discutitori, e critici, ed emuli, e concorrenti. Anche questo lavoro è, come
tutti gli altri, fondato su la secolare accumulazione delle energie, e sull’esercizio della cooperazione sociale.
Anche noi professori, con tutto quello che noi facciamo, noi siam vissuti dalla storia; che è la sola e reale
signora di noi uomini tutti.
A. Labriola, L’Università e la libertà della scienza
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La natura non costruisce macchine, locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi meccanici, ecc. Questi sono
prodotti dell’industria umana; materiale naturale, trasformato in organi della volontà dell’uomo sulla natura
o del suo operare in essa. Sono organi dell’intelligenza umana creati dalla mano umana; potenza
materializzata del sapere. Lo sviluppo del capitale fisso mostra in quale grado il sapere sociale generale, la
conoscenza [knowledge], si è trasformato in forza produttiva immediata, e quindi fino a che punto le
condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo dell’intelligenza generale
[general intellect], e sono state rimodellate in accordo con essa. Mostra in quale misura le forze produttive
sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, bensì come organi immediati della pratica sociale; del
processo reale della vita.
K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica (Grundrisse)
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che un pubblico sia in grado di illuminare se stesso […], se solo gli viene concessa la libertà di farlo, […] è
pressoché inevitabile [in quanto], in tal caso, si troveranno sempre, persino fra coloro che ufficialmente sono
stati preposti alla tutela della massa, alcuni liberi pensatori che, dopo essersi scrollati di dosso, da soli, il
giogo della minorità, renderanno palese, intorno a sé, il sentimento della stima razionale del proprio valore
e, quindi, della vocazione [Beruf] di ciascun uomo a pensare autonomamente.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Senza la forma della pubblicità non si darebbe giustizia di sorta (la quale può solo pensarsi in quanto venga
pubblicamente amministrata) e quindi nessun diritto, che solo dalla giustizia è conferito. Ogni pretesa
giuridica deve avere questo carattere della pubblicità […]. In base a siffatta astrazione da tutto ciò che di
empirico contiene il concetto del diritto pubblico interno e del diritto internazionale […], si può chiamare
formula trascendentale del diritto pubblico il seguente principio: «Tutte le azioni relative al diritto di altri
uomini, la cui massima non è conciliabile con la pubblicità, sono ingiuste»
I. Kant, Per la pace perpetua
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Questa insidia di una tenebrosa ragion di Stato verrebbe facilmente smascherata dalla filosofia mediante la
pubblicità delle sue massime, se la politica avesse il coraggio di permettere al filosofo di dare pubblicità ai
suoi principi. Con questo intendimento io propongo un altro principio trascendentale e positivo del diritto
pubblico, che potrebbe essere così formulato: «Tutte le massime che hanno bisogno della pubblicità (per non
venir meno al loro scopo) concordano insieme con la politica e col diritto»
I. Kant, Per la pace perpetua
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A misura che le limitazioni all’attività personale saranno tolte, che a tutti sarà riconosciuta la libertà
religiosa, si produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e di fantasie, l’illuminismo, come un gran bene
che la specie umana può derivare perfino dalle mire ambiziose di potenza dei suoi dominatori, anche se
questi perseguono il loro esclusivo vantaggio egoistico. E questo illuminismo, e con esso una certa
disposizione sentimentale che l’uomo illuminato non può fare a meno di avere nei riguardi del bene da lui
afferrato appieno, deve progressivamente elevarsi fino a i troni e anche influire sulle direttive fondamentali
del governo.
I. Kant, Idea di una storia universale
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Ho posto come tema centrale dell’illuminismo, cioè dell’uscita degli uomini dalla condizione di minorità di
cui essi stessi sono responsabili, principalmente le questioni religiose, perché, riguardo alle arti e alle scienze, i
nostri governanti non hanno interesse a mantenere la tutela sui loro sudditi. Per giunta, questa specie di
minorità, oltre a essere la più dannosa, è anche la più disonorevole.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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Io potrò dunque assumere che il genere umano sia costantemente in movimento riguardo alla cultura, in
quanto suo fine naturale, ma che sia concepito anche in progresso verso il meglio riguardo al fine morale del
suo esistere, e che questo sarà certo talvolta interrotto, ma mai spezzato. Non ho bisogno di dimostrare questo
presupposto: è l’avversario a doverlo provare. Infatti io mi reggo sul mio dovere innato, in ogni membro
della serie delle generazioni – in cui sono, come essere umano in generale, sebbene nella qualità morale a me
richiesta, non così buono come potrei, e dunque anche dovrei, essere – di agire sulla posterità in modo che
diventi sempre migliore (anche la possibilità della qual cosa deve quindi essere assunta) e che questo dovere
possa essere legittimamente trasmesso in eredità da un membro all’altro delle generazioni.
I. Kant, Sul detto comune: «Questo può essere giusto in teoria ma non vale per la pratica»
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Questo evento non consiste propriamente in importanti fatti o misfatti compiuti dagli esseri umani
attraverso i quali quello che tra loro è stato grande diviene più piccolo o ciò che fu piccolo grande […]. No:
niente di tutto ciò. Si tratta semplicemente del modo di pensare degli spettatori che, in questo gioco di grandi
trasformazioni, si rivela pubblicamente e manifesta una così universale e pure disinteressata partecipazione di
coloro che si schierano da una parte contro quelli che stanno dall’altra, pur con il pericolo che questo essere
di parte possa diventare per loro molto svantaggioso, ma così si mostra, almeno nella disposizione, un
carattere del genere umano nel suo complesso (per via dell’universalità) e insieme un suo carattere morale
(per il disinteresse) che non solo fa sperare nel progresso verso il meglio, ma, per quanto è sinora possibile, è
già come tale un progresso.
La rivoluzione di un popolo ricco di spirito che abbiamo visto avvenire nel nostro tempo, può avere successo
o può fallire; può essere così piena di miseria e di atrocità, che un uomo che pensa rettamente, se potesse
sperare di portarla a termine felicemente compiendola una seconda volta, non deciderebbe mai di ritentare
l’esperimento a tal prezzo – questa rivoluzione, dico, trova però nell’animo di tutti gli spettatori (i quali non
siano personalmente coinvolti in questo gioco) una partecipazione sul piano del desiderio che rasenta
l’entusiasmo, e la cui stessa manifestazione comportava qualche pericolo: una partecipazione che dunque
non può avere altra causa che una disposizione morale insita nel genere umano.
I. Kant, Conflitto delle Facoltà
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La posizione della filosofia della praxis è antitetica a questa cattolica: la filosofia della praxis non tende a
mantenere i «semplici» nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una
concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per
limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire
un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non
solo di scarsi gruppi intellettuali.
A. Gramsci, Quaderni del carcere, 11.12
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D’altra parte, solo colui che, illuminato egli stesso, non arretra dinanzi alle ombre, e contemporaneamente ha
a disposizione un esercito ben disciplinato e numeroso per garantire la pubblica pace, può dire ciò che,
invece, una libera repubblica non potrebbe mai osare: «ragionate quanto volete e su ciò che volete, ma obbedite!»
Emerge, allora, una tendenza sorprendente e inattesa delle cose umane – e del resto, se si considera questa
tendenza da un punto di vista più generale, quasi tutto, in essa, appare orientato verso il paradosso. Così, un
maggior grado di libertà civile sembra giovare alla libertà spirituale di un popolo, ma, al contempo, le
impone limiti invalicabili, mentre un grado minore di libertà civile offre allo spirito lo spazio in cui può
espandersi secondo tutte le sue potenzialità. Infatti, se la natura ha fatto spuntare sotto quella dura scorza
questo germoglio a cui dedica le più tenere cure, ossia l’inclinazione e la vocazione [Beruf] al libero pensiero,
ciò, a sua volta, ha un graduale effetto retroattivo sull’indole del popolo (per cui esso si trova sempre più
all’altezza della libertà di agire) e, da ultimo, persino sui fondamenti del governo che trova corrispondente ai
suoi fini trattare l’uomo – che oramai è ben più che una macchina – in modo conforme alla sua dignità.
I. Kant, Risposta alla domanda: «Che cos’è l’illuminismo?»
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