FACOLTA’ DI ECONOMIA Dottorato di Ricerca in “DIRITTO DELL’ECONOMIA, DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE” Ciclo XXII DANNO ALL’AMBIENTE E PROFILI DI RESPONSABILITA’ ____________________ IUS/ 09 Tesi di Dottorato di: ESTER DAINA Il Coordinatore: Ch.mo Prof. SALVATORE PIRAINO Il Tutor: Ch.mo Prof. SALVATORE PIRAINO Sommario INTRODUZIONE .......................................................................................... 5 CAPITOLO I IL DANNO AMBIENTALE ..................................................... 8 1. La definizione dell’ambiente nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. ...................................................................................... 8 1.1. Il concetto di ambiente attraverso l’ evoluzione legislativa ............8 1.2.L’ambiente come bene giuridico. ................................................... 14 1.3. L’apporto ricostruttivo della Corte costituzionale. La pluralità delle situazioni giuridiche soggettive afferenti al bene ambiente: l’ambiente come valore costituzionale. ................................................ 17 1.4. L’evoluzione normativa nella UE ................................................ 24 1.5 L’evoluzione normativa internazionale .......................................... 25 1.6 Evoluzione normativa italiana....................................................... 26 2. Il danno ambientale nelle tappe europee ....................................................... 28 3. Il Danno ambientale nell’ordinamento interno: evoluzione giurisprudenziale e normativa ........................................................................................................ 42 3.1 La “prima comparsa” del concetto di danno ambientale nella giurisprudenza contabile...................................................................... 44 3.2 L’orientamento della Corte Costituzionale sulla nozione di danno ambientale ............................................................................................ 45 3.3 L’orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla nozione di danno ambientale anche alla luce dell’art. 18 della legge 349/86......................................................................................... 49 4. La nozione di danno ambientale nella direttiva 35/2004/CEE...................... 54 5. La nozione di danno ambientale nel Dlgs n.152/06 : il danno ambientale di matrice comunitaria e la sua trasposizione nell’ordinamento nazionale. .......... 56 6. Il “danno ambientale” tra fattispecie e realtà. ............................................... 64 -2- 6.1 Riflessi soggettivi del danno ambientale: a) danno morale da disastro ambientale; b) danno morale da ambiente insalubre; c) danno esistenziale da inquinamento ambientale; d) danno ambientale come compromissione della reputazione turistica. ............................. 65 6.2 Ulteriori fattispecie di danno ambientale individuate dalla giurisprudenza: a) danno ambientale come “lesione alla reputazione commerciale e diminuzione dell’attività turistica” e “perdite provvisorie”; b) danno ambientale da occupazione usurpativa ......... 77 CAPITOLO II LA RESPONSABILITA’ DA DANNO AMBIENTALE .......... 85 1. La disciplina dell’art.18 della L. n.349/1986 ................................................ 85 2. L’elemento specializzante della fattispecie: la “violazione di legge” ........... 89 3.1) Il criterio di imputazione della responsabilità nell’art. 18 L. 349/1986 :orientamenti e soluzioni .................................................... 91 3.2) Il criterio di imputazione della responsabilità nell’art. 18 L. 349/1986: ipotesi (presunte) di responsabilità oggettiva. ..................98 4. Il principio “chi inquina paga” : definizione e rinvio. ............................... 106 5. I criteri di imputazione della responsabilità per danno ambientale nella direttiva 2004/35/CE ....................................................................................... 108 6. La responsabilità per danno ambientale nel D.Lgs. 152/2006. ................... 111 7. Le esclusioni espresse di responsabilità nel regime del D.Lgs. 152/2006 e la responsabilità per colpa presunta .................................................................... 116 8. Le novità normative sulla responsabilità per danno ambientale nel D.L. 135/2009.......................................................................................................... 118 9. Il principio chi inquina paga: a) gli orientamenti della giurisprudenza; b) ipotesi di responsabilità oggettiva nella giurisprudenza del giudice ordinario e del giudice amministrativo c) principio di precauzione e principio chi inquina paga; d) analisi della legislazione e prassi giurisprudenziale ......................... 121 10. La responsabilità per danno ambientale secondo la pronuncia della Corte di Giustizia sulla 9 marzo 2010-n.378/10 ........................................................... 155 -3- CAPITOLO III IL RISARCIMENTO E LA QUANTIFICAZIONE DEL DANNO AMBIENTALE ................................................................................... 161 1. Il titolo III e le procedure per il risarcimento del danno ambientale: presupposti ed alternative di azioni ................................................................. 161 2. L’ordinanza di risarcimento. ...................................................................... 163 3. Il risarcimento del danno ambientale in forma specifica o per equivalente.165 3.1 Il risarcimento del danno ambientale alla luce dell’art.5 bis del DL n. 135/09 ............................................................................................ 168 3.2 L’obbligo di adottare misure di riparazione complementare e compensativa...................................................................................... 170 3.3 Le ipotesi di risarcimento in forma monetaria. ........................... 176 3.4 Il decreto sui criteri di quantificazione .........................................177 3.5 La disapplicazione dell’art.18 della legge 349/86 ....................... 179 3.6 La quantificazione presuntiva del danno in caso di illecito penale o amministrativo ................................................................................... 181 3.7. Il risarcimento del danno come fattispecie premiale ............... 182 3.8 Il risarcimento del danno come circostanza attenuante. ............ 185 4.La prova del danno ambientale .................................................................... 186 5. Il risarcimento del danno ambientale nella scienze economiche. ............... 189 6 La valutazione del danno ambientale nella giurisprudenza di merito: i primi casi concreti di quantificazione del danno. ..................................................... 194 6.1 segue: La valutazione del danno ambientale nella giurisprudenza di merito:un clamoroso caso di quantificazione del danno. ............ 199 7) Aspetti problematici della tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente .. 205 CONCLUSIONI.................................................................................................. 211 Bibliografia ......................................................................................................... 217 Dottrina ........................................................................................................... 217 Giurisprudenza ................................................................................................ 221 -4- INTRODUZIONE L’evoluzione della materia del “danno ambientale” e della responsabilità con esso connessa stimola il tentativo di tratteggiarne gli aspetti soprattutto nei suoi risvolti pratici, ovvero, nella sua applicazione effettiva alle fattispecie sottoposte al vaglio della giurisprudenza, nella ormai, veste ufficiale di illecito e/o danno ambientale al verificarsi del quale scaturisce la responsabilità sanzionabile. La complessità dell’argomento, affrontato e disaminato in tempi recenti da illustre dottrina e autorevole giurisprudenza, suggerisce di evidenziare come, ancor oggi, l’apparente semplicità dell’assioma “danno = responsabilità” si deve scontrare con la identificazione stessa degli elementi costitutivi responsabilità, ed identificativi del danno e della connessa in un contesto storico giuridico in cui l’evoluzione normativa e la pressante spinta sociale non rendono sempre agevole inquadrare la fattispecie concreta secondo schemi precisi e definiti così come una trattazione giuridica processuale auspicherebbe. Difatti, se in linea teorica il concetto di danno ovvero di responsabilità sembrano rispondere ai normali schemi giuridici per cui la fattispecie astratta si traspone nelle fattispecie concreta, nondimeno la connaturata astrattezza dello stesso concetto di danno ambientale (per non parlare delle difficoltà definitorie dello stesso presupposto concetto -5- giuridico di ambiente) ha da sempre reso incerto il confine di delimitazione tangibile della fattispecie concreta. Ciò premesso, la tematica richiede una trattazione tendente essenzialmente a privilegiarne l’aspetto pratico sulla base degli orientamenti giurisprudenziali che hanno caratterizzato la reale applicazione dei citati istituti. La trattazione dell’argomento suddiviso in tre parti si articolerà in tale tipo di approccio metodologico in una tripartizione del presente lavoro, secondo il seguente schema: la prima parte riguarderà il concetto di danno ambientale, (previa breve disamina dello stesso concetto di “ambiente” come oggetto della lesione), anche tenendo conto dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria, da cui, del resto, trae origine l’attuale legislazione nazionale, secondo gli stessi spunti forniti dalla giurisprudenza di legittimità e merito, nonché dalla Corte Costituzionale; la seconda parte si svolge attraverso la identificazione della conseguente responsabilità ambientale sotto numerosi profili inerenti la sua natura giuridica, oggettiva e soggettiva, nonché attraverso la individuazione del soggetto attivo che, autore dell’inquinamento, deve pagare (con riferimento al principio chi inquina paga che, se appare di semplice applicabilità pratica, in realtà determina non poche difficoltà di identificazione); -6- la terza parte è volta alla individuazione concreta operata dalla giurisprudenza in ordine ai criteri (giuridico economici) di valutazione e quantificazione del danno, nella patologica conseguenza di un risarcimento del danno causato solo ove non sia possibile ovviare con le alternative misure ripristinatorie o riparatorie. Quest’ultima parte non può non prescindere dalla considerazione dello stesso regime processuale che deve essere seguito per la tutela del danno ambientale che, coinvolge, in un’ottica di singolare par condicio, i diversi organi giurisdizionali ( giudice ordinario, civile, penale, contabile!). -7- CAPITOLO I IL DANNO AMBIENTALE 1. La definizione dell’ambiente nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. 1.1. Il concetto di ambiente attraverso l’ evoluzione legislativa La necessità di affrontare la tematica connessa alla non facile definizione dell’ambiente appare imprescindibile, al fine di potere identificare, in concreto, l’oggetto della lesione. Da un punto di vista semantico e non giuridico, si può considerare l'ambiente come il complesso di risorse naturali ed umane singolarmente considerate ovvero poste in diretta e/o indiretta interrelazione ed interazione tra loro. In ordine al significato da attribuire, sul piano giuridico, al termine ambiente secondo l'elaborazione sviluppata in Italia negli anni '70 da un’autorevole dottrina1, non può che muoversi dal rapporto uomoambiente che è un rapporto di mutua aggressione. Nel senso che, quando l'ambiente viene aggredito (es. mediante un carico di 1 Cfr S.M. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. Trim. Dir. Pubbl.,1973, 15 ss. -8- inquinanti) esso restituisce l'aggressione e il risultato è uno sbilanciamento del rapporto verso una condizione ancor più pericolosa per l'uomo stesso. Un fondamentale contributo dottrinale è stato offerto in ordine all’individuazione anche nel “paesaggio” di una delle componenti delle risorse che riguardano direttamente l'uomo, in tal modo anticipandosi alcune, norme come ad es. la legge Galasso. In dottrina, negli anni successivi al boom economico, cominciò a parlare di “ambiente” in tre distinte materie giuridiche: 1. le bellezze paesaggistiche (l’art. 9 della Costituzione italiana contiene di fatto l'unico esplicito riferimento all'ambiente riferito al paesaggio) e le tutele del paesaggio sviluppatesi già a partire dagli anni '30; 2. la salute umana: art. 32 della Costituzione prevede principi a tutela della salute dell'uomo; 3. il territorio. Un orientamento dottrinale ha individuato un diritto soggettivo pubblico all’integrità del territorio, ovvero una forma di tutela indiretta, della salute nonché di tutela dell’interesse della -9- collettività alla fruizione dell’ambiente. 2 Altri indirizzi dottrinali hanno ritenuto inaccettabile, per la sua indeterminatezza, considerare il termine ambiente come bene giuridico unitario, opponendosi l’esistenza di tanti e diversi beni ambientali tutelati, a seconda della diversità degli interessi collettivi, dall’ordinamento. 3 In ogni caso le singole res che compongono il bene “ambiente” sono considerate come tra loro strettamente collegate, ritenendosi, pertanto, “logicamente corretto parlare di essi (i singoli beni) come di un bene economico unitario:il bene ambiente”4 La giurisprudenza ha rinvenuto le maggiori difficoltà della definizione del concetto nell’assenza, al momento della nascita della Costituzione della Repubblica (1948), di una definizione di “ambiente”: vuoto normativo, questo, protrattosi nel tempo. 2 Cfr Cocco, Tutela dell’ambiente e danno ambientale. Riflessioni sull’art.18 della legge 8 luglio 1996, in Riv. Giur. Amb. 1986, 485 3 Cfr A.Libertini, La nuova disciplina del danno ambientale e i problemi generali del diritto all’Ambiente, in Riv. Crit. Dir. Priv, 1987, 556: “… a mio avviso , non è possibile parlare di “ambiente” come di un bene giuridico unitario. Infatti, rispetto all’ambiente naturale, sono disparati gli interessi umani presi in considerazione dal diritto e in corrispondenza sono numerose e differenti le posizioni soggettive individuali” 4 Cfr P. Maddalena, Il danno all’ambiente tra giudice civile e giudice contabile, in Riv. Crit. Dir. Priv., 1987,442. - 10 - I primi accenni all'ambiente in Italia sono legati ad una visione estetica e statica del paesaggio come bellezza naturale percepita dall’esterno: infatti al momento della Costituente erano già in vigore due norme, per molti versi ancora attuali, la Legge 1089/1939 sui Beni Culturali e la Legge 1497/1939 sulle Bellezze Naturali. Dagli anni '70 e '80 si sviluppa una giurisprudenza consolidata sull'ambiente che viene visto come valore e come insieme: si definisce5 l'ambiente come bene che deve essere tutelato in quanto tale, inteso come valore unitario intrinseco (ad esempio si parla di servizio pubblico di depurazione). Al tempo stesso nel codice penale l'art. 734 stabilisce che "Chiunque in qualsiasi modo distrugge o altera bellezze naturali è punito ...", risultando evidente il superamento della visione estetica e statica del paesaggio come bellezza naturale percepita dall'esterno, e procedendosi verso un’accezione più ampia del concetto di ambiente come avente proprietà emergenti che sono al di sopra delle sue componenti essenziali ed intrinseche (flora, fauna, geologia, ecc.) e, che nel suo insieme andrebbe inteso nella sua totalità. L’ambiente si delinea come un fenomeno unitario che, alla 5 Cfr Cass. S.U. 6 ottobre 1979 n. 5172, in www.diritto.it - 11 - stregua di un diritto della personalità, costituisce un diritto fondamentale dell’uomo. In proposito significativa è una pronuncia della Corte Costituzionale 6 sull’ambiente come una situazione che non è passibile di una situazione soggettiva di tipo appropriativo appartenendo alla categoria dei beni liberi, fruibili dalla collettività e non dai singoli. Anche se, in relazione all’ambiente salubre”, inteso in una concezione sanitaria di ambiente giuridicamente apprezzabile e rilevante (art. 32 Cost.), esso si ritiene collegabili ai diritti della persona e, dunque, anche all’integrità fisica e psichica e alla salvaguardia della qualità della vita. L’ambiente in senso giuridico tende a configurarsi come un insieme che, pur comprendendo diverse componenti, si distingue ontologicamente da queste e tende ad identificarsi in una come realtà priva di consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento"7 . 6 Cfr Corte Costituzionale, 17 dicembre 1987, n.641, in GU 13.1.1988, I^ serie spec. n.2, 28 ss ; La stessa Corte Costituzionale con la sentenza del 24 febbraio 1992 n.67, in Riv. Amb, 1992,363 ha ribadito che: “l’integrità ambientale è un bene unitario che va salvaguardato nella sua interezza” 7 Cfr Cass. Civ., 9 aprile 1992 , n.4362, in Mass.Giust. Civ, secondo cui “..rispetto ad illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con specifico riguardo a siffatto valore ed indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o più delle dette singole componenti, secondo un concetto di pregiudizio che,sebbene riconducibile a - 12 - Da ciò discende l’unitarietà degli effetti giuridici della nozione di ambiente8 e la sua considerazione come “bene sintesi”, caratterizzato da una relazione di equilibrio tra uomo, fauna, flora, secondo una definizione esplicitata dall’art. 1 della legge federale svizzera sulla protezione dell’ambiente del 7 ottobre 1983.9 L’approdo ad una conclusione unitaria del concetto di ambiente si coglie, altresì, nella disciplina legislativa in materia di danno ambientale (art.18 della legge n.349/86 istitutiva del Ministero dell’Ambiente e oggi dall’art.311 del DLgs n.152/06), che ha permesso di considerare l’ambiente come bene unitario, composto da beni che sono tra loro in una determinata relazione ed in continuo processo di evoluzione. quello di danno patrimoniale, si caratterizza tuttavia, per una più ampia accezione, dovendosi avere riguardo – per la sua identificazione- non tanto alla mera differenza tra il saldo attivo del danneggiato prima e dopo l’evento lesivo, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato può disporre, svincolata ad una concezione aritmetico-contabile” contra Cons. di Stato, 11 aprile 1991, n.257, in Riv. Giur. Amb, 1992, 130 secondo cui non è configurabile l’esistenza di un “bene-ambiente” come autonoma categoria giuridica, direttamente tutelabile nella sua globalità, bensì una pluralità di beni giuridici distinti (acqua, aria, flora, fauna, ecc..) convenzionalmente ricompresi nel termine e che sono oggetto di tutele giuridiche distinte. 8 Cfr, Rodotà, Relazione introduttiva al Convegno sul tema Il danno ambientale tenutosi a Benevento nei giorni 2-3 ottobre 1987: “si spiega così la sottolineatura di una concezione unitaria del bene ambientale, comprensiva dell’insieme delle risorse naturali e culturali, bisognose in qualche misura di un governo comune, espresso da leggi nazionali” 9 Aderisce a questa definizione Barbiera, Qualificazione del danno ambientale nella sistematica generale del danno in Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile a cura di Perlingeri, Napoli, 1991, 109 - 13 - Quanto osservato si ritiene che suffraghi l’opinione di chi considera la tutela rivolta, non già ai beni cui le leggi di settore fanno espressamente riferimento, bensì al “sovrapposto” bene ambiente, che subisce lesione significativa ogniqualvolta vi sia aggressione di un bene sottostante.10 1.2.L’ambiente come bene giuridico. Un modo diverso di individuare la rilevanza dell’ambiente sul piano giuridico è rinvenibile nella letteratura giuridica, allorchè, da parte di alcuni, si è tentato di utilizzare in proposito la teoria dei beni giuridici così come configurata dalla dottrina civilistica. Dai più, peraltro, si è rilevato che la nozione di “bene” (inteso come “sintesi tra il particolare interesse tutelato e la situazione soggettiva predisposta dall’ordinamento giuridico come strumento di tutela destinato ad un soggetto particolare”11) tecnicamente non potrebbe essere traslata all’ambiente -inteso sia come tutto unitario, sia come singoli fattori ambientali distinti- difettando per esso l’interesse soggettivo differenziato che di quella nozione costituisce “l’utilità tipica”. In riferimento all’ambiente è di tutta evidenza che questa utilità non può che avere natura super-individuale, coincidendo con la generale e 10 Cfr Mattini Chiari, in Il danno da lesione ambientale, Rimini, 1990 11 Cfr S. Pugliatti, Beni (Teoria generale) ED,V,1979 - 14 - comune esigenza di tutela delle risorse ambientali12. Seguendo questa linea ricostruttiva, occorre superare l’impostazione tradizionale che collega il bene alle norme rivolte alla tutela di interessi individuali13, con la conseguenza di considerare come beni in senso giuridico pure quelli “da cui derivano utilità per (l’individuo e) la collettività”.14 Taluno 15, pur convenendo su questo punto, ha ritenuto -per poter utilizzare la nozione di bene in riferimento all’ambiente- di dover spostare l’angolo visuale dal piano degli interessi a quello della “possibile specificazione dei danni”. Si è tentato, così, di apprezzare sub specie damni la rilevanza degli interessi che avrebbero potuto subire nocumento. In tal senso, ex art. 18 della l. n. 349 del 1986, si evidenzia che sui beni ambientali gravitano una pluralità di interessi: secondo la logica propria dell’impostazione soggettivista andrebbe ricercato “l’interesse di volta in volta tutelato dall’ordinamento”, ma, nel caso dell’ambiente, ciascun interesse non si dirige al bene “per realizzare utilità diverse le une 12 Cfr F. Di Giovanni, Strumenti privatistici e tutela dell’Ambiente, Padova, 1982 13 Cfr P.Rescigno, Disciplina dei beni e situazioni della persona, in Qud. Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Padova, 1978 14 Cfr S. Patti, Ambiente e tutela nel diritto civile, in Dizionario di diritto privato, Irti, 1980 15 Cfr L. Francario, Danni Ambientali e tutela civile, Padova, 1990 - 15 - dalle altre”. La pluralità degli interessi è espressione della stessa valenza e della stessa esigenza di tutela: l’esigenza che sia acclarata la responsabilità dell’autore dannoso che compromette l’ambiente, e sia ottenuta la riduzione in pristino. Il carattere omogeneo degli interessi afferenti all’ambiente è il motivo per cui va attribuita oggettività ai beni ambientali, senza essere filtrata da alcuna situazione soggettiva16 . Non meglio precisata resta la configurazione della natura del bene ambiente: parte della dottrina ha ritenuto di dover riconoscere all’ambiente la qualificazione di bene pubblico, muovendo dall’assunto secondo cui esso sarebbe oggetto di una situazione di diritto soggettivo in capo allo Stato, per cui la titolarità statale troverebbe fondamento nell’essere destinata al soddisfacimento dei bisogni della collettività17. Altra parte della dottrina, critica quest’ultima impostazione che, nel ritenere lo Stato l’ente titolare del bene ambiente, importerebbe il ritorno ad una logica esclusivamente proprietaria, oltre a non rendere “un buon servizio alla collettività, che deve pur sempre avere a disposizione strumenti autonomi che permettano di esercitare un controllo diffuso 16 Cfr opera citata nota 15 17 Cfr E. Spagna Musso, in Riflessioni critiche in tema di tutela civilistica dell’ambiente, in Rass. Critica Civ., 1991 - 16 - sull’esercizio dei poteri di gestione statale, e preferisce riconoscere all’ambiente la natura di bene collettivo”18. Dalla tesi dell’ambiente come bene pubblico, che precisamente muove dall’idea secondo cui gli interessi diffusi della collettività, afferenti all’ambiente, debbano essere assorbiti nell’interesse pubblico alla sua protezione e, conseguentemente, rendere coincidente la tutela degli interessi diffusi e la tutela degli interessi pubblici, di modo che la lesione dei primi fosse intesa di per sè come danno allo Stato persona, da parte di un filone ricostruttivo composito19, si è tratta la conseguenza che i danni all’ambiente dovessero essere concepiti come danni pubblici erariali, cioè danni allo Stato, con attribuzione dell’azione relativa al Procuratore generale presso il Collegio erariale. Questo modo di vedere -frutto di una precipua “operazione di politica del diritto”- è tuttavia rimasto del tutto isolato nella letteratura giuridica20. 1.3. L’apporto ricostruttivo della Corte costituzionale. La 18 Cfr opera citata nota 15 19 Cfr P.Maddalena, in Responsabilità amministrativa, danno pubblico e tutela all’ambiente, Rimini, 1985 20 Cfr F. Giampietro, Diritto alla salubrità dell’Ambiente, Inquinamenti e riforma sanitaria, Bologna 1980 - 17 - pluralità delle situazioni giuridiche soggettive afferenti al bene ambiente: l’ambiente come valore costituzionale. La questione della rilevanza giuridica dell’ambiente e delle connesse esigenze di tutela ha avuto negli ultimi anni, specialmente per iniziativa della Corte costituzionale 21 , un chiarimento notevole soprattutto in termini concettuali. Di fronte ad un quadro normativo alquanto insicuro per la mancanza di appigli diretti in Costituzione e, di contro, per la presenza di una legislazione disorganica, pletorica e prevalentemente di carattere emergenziale 22 , il giudice delle leggi ha svolto una intensa attività di interpretazione del dato positivo e di creazione in via “pretoria” 23 di autentici modelli di riferimento normativo. In questo modo la Corte costituzionale, partendo dal concetto di “bene immateriale unitario”, (supra n 1.2) ha definitivamente riconosciuto la natura di valore costituzionale all’ambiente: in sostanza il giudice delle leggi, abbandonando l’ottica riduttiva della ricostruzione della rilevanza dell’ambiente in termini di situazione giuridica soggettiva, ha ancorato la 21 Cfr D. Borgonovo, Corte Costituzionale ed ambiente, RGA, 1990 22 Cfr B. Caravita, I poteri sostitutivi dopo le sentenze della Corte Costituzionale, PD, 1987 23 Cfr. A. Baldassarre, Profili costituzionali- Razionalizzazione della normativa in materia ambientale a cura dell’Istituto per l’ambiente, Milano, 1994 - 18 - pluralità degli interessi afferenti al bene ambiente al tessuto dei valori che contraddistinguono il patto costituzionale. In questo ambito, il valore ambiente, al pari degli altri valori che godono dello stesso rango costituzionale (ma infra sub art. 41 Cost.), rappresenta uno dei canoni alla cui stregua orientare ogni manifestazione della legalità. Nella giurisprudenza costituzionale non sempre univoco, peraltro, è stato il modo di definire gli interessi ambientali24 : in talune pronunce si parla di “beni rilevanti costituzionalmente” 25 ; raramente la Corte si è riferita all’ambiente con il termine di “interesse fondamentale” 26 ; nettamente prevalente, infine, è il ricorso al concetto di “valore costituzionale” ovvero di “valore costituzionalmente garantito e protetto”27 . In altre occasioni la Corte Costituzionale ha precisato che l’ambiente, “in una corretta e moderna concezione”, costituzionale dal contenuto “integrale” 28 , costituisce un valore nel senso che in esso sono 24 Cfr M. Cecchetti, Rilevanza costituzionale dell’ambiente e argomentazioni della Corte, RGA, 1994 25 Cfr C. Cost. ord. n. 183 del 1983, GCOST, 1983, 977. 26 Cfr C. Cost. sent. n. 194 del 1993, GCOST, 1993, 1320. 27 Cfr C. Cost. sent. n. 167 del 1987, GCOST, 1987, 1212. 28 Cfr A. Morrone, La Corte Costituzionale e la cooperazione nella fattispecie dell’intesa, analisi critica di un modello contraddittorio, RGA, 1996 - 19 - sommati una pluralità di valori non limitabili solo agli aspetti esteticoculturali, sanitari ed ecologici della tutela, ma ricomprensivi pure di esigenze e di istanze partecipative, la cui realizzazione implica l’attivazione di tutti i soggetti pubblici, in virtù del principio della “leale collaborazione”29, ma pure dei membri della collettività statale, dei quali non può essere trascurato il positivo contributo per una efficace tutela dei beni ambientali30. Alla luce di questa giurisprudenza si desume che il concetto giuridico di ambiente non può essere inteso solamente come oggetto di un diritto soggettivo ovvero di un dovere di protezione da parte dello Stato. In ordine al primo aspetto, la formula “diritto all’ambiente” va intesa non già nel senso tecnico dell’esistenza di una pretesa soggettiva riferibile all’ambiente, bensì come formula sintetica per indicare un fascio di situazioni soggettive diversamente strutturate e diversamente tutelabili: non esiste dunque un “diritto all’ambiente”, azionabile da un soggetto individuale o collettivo davanti ad un giudice, ma tante situazioni soggettive (di volta in volta coincidenti con il diritto alla salute, il diritto alla salubrità dell’ambiente, il diritto alle informazioni ambientali, il diritto all’associazionismo ambientale etc.), che si pongono nei confronti 29 Cfr C. Cost. sent. n. 302 del 1994, GCOST, 1994, 2590. 30 Cfr C. Cost. sent. n. 356 del 1994, GCOST, 1994, 874. - 20 - dell’ambiente come valore in rapporto di mezzi al fine. Sotto il secondo profilo, il dovere di protezione dell’ambiente coinvolge non solo lo Stato apparato, ma pure la sovranità statale sia nelle sue articolazioni territoriali interne (Regioni, Lander, Comunità autonome, minori enti locali) che nella sua proiezione sovranazionale (le comunità internazionali), oltrechè i singoli consociati, singolarmente e nelle formazioni sociali in cui si esprime la persona umana. Ancora recentemente, dopo l’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione, la Corte costituzionale ha confermato la sua posizione sull’ambiente come valore costituzionale 31 : secondo la Corte, infatti, non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come materie in senso stretto, poichè, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie. In questo senso l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una materia in senso tecnico, qualificabile come tutela dell’ambiente, dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenze. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte, antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione, è agevole ricavare una 31 Cfr sentt. 407 e 536 del 2002 in www.diritti&diritti.it - 21 - configurazione dell’ambiente come valore costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia trasversale, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale32 I lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della Costituzione inducono, d’altra parte, a considerare che l’intento del legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il potere di fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali. In definitiva, si può quindi ritenere che riguardo alla protezione dell’ambiente non si sia sostanzialmente inteso eliminare le preesistenze pluralità di titoli di legittimazioni per interventi regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell’ambito delle proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dalla Stato. Da ultimo la giurisprudenza costituzionale 33 afferma che l’ “ambiente” è materia a sé, non trasversale dello Stato. 32 Cfr da ultimo, sentenze n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998 in www.diritti&diritti.it 33 Cfr Corte Cost, sentenza n. 225, 22.07.09, Giuffrè 2010 - 22 - Secondo la Corte, la materia è determinata dal fine e dall’oggetto precisamente, la materia è determinata dal fine costituzionale della “conservazione” e poi dal suo sostrato naturale: ha per oggetto specifico il “bene materiale”, la biosfera comprensiva degli interessi vitali degli individui, intesi come persone e come cittadini. Secondo tale impostazione l’ambiente si identifica per mezzo di due elementi: il fattore normativo e quello materiale. Il fattore normativo si desume dalla previsione dell’art. 117 lett. s) cost. ed è il fine: la materia si identifica con il fine di conservazione affidato allo Stato. Questo permette di identificare i singoli “oggetti” delle discipline legislative che diventano attribuibili allo Stato rispetto al fine normativo: il fine che la disciplina statale deve avere è il fine costituzionale della “conservazione” del bene. L’elemento materiale si identifica grazie al suo stesso sostrato naturale: l’ambiente è un “bene materiale” comprensivo di tutti gli interessi degli individui. Si delinea una nozione di ambiente come interesse costituzionale, pubblico, primario per lo Stato e come interesse individuale all’ambiente, quest’ultimo come un interesse legittimo a base civica e personale che, tuttavia, gode di una tutela sostanziale, garantita costituzionalmente. - 23 - E proprio da ciò ne deriva un suo preciso riflesso soggettivo: quell’interesse è garantito a tutti, come persone e come cittadini. La tutela di questo interesse ha fonte nella Costituzione stessa derivando dagli artt. 2, 9 e 117 lett. s) della Costituzione e dalla legislazione speciale. In breve, la Costituzione e le norme codicistiche proteggono un interesse ambientale alla conservazione e, soprattutto, permettono che quell’interesse sia personificabile rispetto allo Stato e rispetto all’individuo.34 1.4. L’evoluzione normativa nella UE Nonostante la molteplicità delle norme sull’argomento, ancora oggi la descrizione del concetto di ambiente appare parziale e non soddisfacente. La prima elaborazione del concetto di ambiente in sede europea risale alla Direttiva sulla Valutazione di Impatto ambientale ( Direttiva 85/337/CE) in cui l'art. 3 circoscrive " … l'ambiente alle risorse complessive naturali e culturali in un giusto equilibrio dei fattori fisici (suolo, acqua, aria, clima), del paesaggio e della cultura". 34 Cfr A. Cioffi, L’ambiente come materia dello stato e come interesse pubblico. Riflessioni sulla tutela costituzionale, note a margine alla sentenza n. 225/09, in Riv. Giur. Ambientale, 2009, 06, 1970 - 24 - In un unico atto della UE (allegato VI della Direttiva 98/8/CEE del 16 febbraio 1998 e relativa all'impiego di sostanze pericolose) viene proposta la seguente nozione di ambiente: "per ambiente deve intendersi: acqua, compresi i sedimenti, aria, terra, specie della fauna e flora selvatiche e relative interrelazione, nonché le relazioni tra tali elementi e gli organismi viventi". Tale definizione ancora oggi parziale perché non comprende aspetti fondamentali, quali l'uso del territorio, l'aggressione al paesaggio, la violazione al bene storico-artistico, le diverse forme di inquinamento, le varie aggressioni alla salute dell'uomo. 1.5 L’evoluzione normativa internazionale Nell’attività definitoria dell’ ambiente offerte dalle Istituzioni Internazionali sono ancora indietro rispetto all'UE. Il primo documento con il quale è stata formulata a livello internazionale la nozione di ambiente è rappresentato dal testo elaborato da un Comitato di esperti incaricati dalla 15° conferenza dei Ministri di Giustizia del Consiglio d'Europa ad Oslo (17-19/06/1986), in materia di responsabilità per danni da attività pericolose. In tale contesto fu elaborata per la prima volta una definizione giuridica di ambiente come bene componenti: - 25 - costituito dalle seguenti 1. le risorse naturali biotiche ed abiotiche; 2. l'interazione tra le citate componenti, il paesaggio e il patrimonio culturale. 1.6 Evoluzione normativa italiana Nel nostro ordinamento, la elaborazione del concetto di ambiente si articola sostanzialmente su tre normative: 1. Legge 979/1982 “Disposizioni per la difesa del mare” 2. Legge 394/1991 “Legge quadro sulle aree protette” 3. Decreto Legislativo 16 gennaio 2008 nr. 4 (di modifica al D.legs. 152/206 e approfondito nel prossimo paragrafo) All'art. 25 della legge n.979/82 contenente disposizioni per la difesa del mare definisce le Riserve marine come le riserve naturali marine “costituite da ambienti marini, dati dalle acque, dai fondali e dai tratti di costa prospicienti che presentano un rilevante interesse per le caratteristiche naturali, geomorfologiche, fisiche, biochimiche con particolare riguardo alla flora e alla fauna marine e costiere e per l'importanza scientifica, ecologica, culturale, educativa ed economica che rivestono." Mediante questa definizione la normativa pone le basi per inquadrare il concetto di ambiente comprensivo di risorsa- cultura, educazione, economica. - 26 - Nella legge quadro sulle aree protette (legge n. 349/86) si enucleano i principi fondamentali del nostro sistema giuridico ambientale, facendosi esplicito riferimento a: a) norme costituzionali (art. 9 sulle bellezze paesaggistiche e art. 32 sulla salute umana), b) riferimenti scientifici (scienza, patrimonio valorizzazione e naturale), conservazione c) del politiche ambientali territorio), d) (tutela, riferimenti giurisprudenziali (in particolare agli interventi della Corte Costituzionale quando invita ad una leale cooperazione tra Enti (Regione, Provincia, ecc.), e) carta della natura (adottata da una comitato su proposta del Ministro dell'ambiente che ha la finalità di evidenziare lo stato dell'ambiente, i punti migliori e i vulnerabili). Il Decreto Legislativo 16 gennaio 2008 n. 4 (di modifica al D.lgs. 152/206) non offre una definizione esplicita di ambiente, limitandosi a circoscriverla nella definizione di impatto ambientale. All'art. 5, comma 1, lettera c, il decreto definisce l'impatto ambientale come "l’alterazione qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa dell’ambiente, inteso come sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza dell’attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di - 27 - eventuali malfunzionamenti". Sebbene nella norma non vi sia una lettera dedicata alla definizione di "ambiente", è evidente, nel passaggio "inteso come”, la implicita definizione del termine all'interno di una più ampia definizione del concetto di impatto ambientale. La preliminare essenziale panoramica normativa sull’evoluzione della nozione del bene “ambiente”, che permette di individuare il bene e di caratterizzare l’oggetto della lesione, offre quanto basta ad introdurre il tema del danno ambientale, del danno che scaturisce dalla lesione del bene ambiente. 2. Il danno ambientale nelle tappe europee L’ambiente ha cominciato a porsi come problema di politica mondiale a partire dagli anni 70. In questo periodo, infatti, sono emerse fortemente le problematiche legate al degrado ambientale e si è cominciata a sentire l’esigenza improcrastinabile di adottare misure idonee e sistemi efficaci di prevenzione e di controllo, nella consapevolezza che lo sviluppo economico non poteva più essere fine a sé stesso, incurante delle conseguenze e dell’impatto sull’ambiente e sulla biodiversità. La simbolica soglia è stata varcata nel 1972, anno in cui si sono - 28 - tenute la Conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma ed il Consiglio delle Comunità Europee a Parigi: in queste sedi, infatti, si prese atto dei danni che uno sviluppo industriale ed economico indifferente ai problemi ecologici provocava all’ambiente, e delle necessità di difendere e migliorare l’ambiente per le generazioni presenti e future. Inizialmente, le politiche ambientali sono state attuate mediante strumenti di diritto pubblico, scelta, questa, dovuta innanzitutto al fatto che si riteneva che gli strumenti pubblicistici fossero più idonei di quelli privatistici, in un settore in cui è prevalente l’interesse pubblico alla prevenzione del danno. Progressivamente gli strumenti di diritto pubblico sono stati considerati i soli in grado di offrire un certo livello di protezione al danno all’ambiente, la quale richiede un’attività di pianificazione mirante a salvaguardare particolari assetti ecologici ed a coordinare le attività antropiche maggiormente incidenti sull’assetto del territorio con le finalità di protezioni di equilibrio ecologico generale. A partire dall’inizio degli anni 80, è iniziato il trend legislativo di rivalutazione della responsabilità civile come strumento di prevenzione del danno derivante da attività potenzialmente pericolose per l’uomo e per l’ambiente. In dottrina, si è soliti scandire la politica della Comunità in diverse “tappe”, ad ognuna delle quali corrisponde un determinato indirizzo di - 29 - politica ambientale. a) Dal trattato CEE al vertice di Stoccolma del 1972 La prima tappa va dal 1958 (anno di entrata in vigore del Trattato di Roma) al 1972 (che rappresenta la data a partire dalla quale si è cominciata gradualmente ad avvertire la consapevolezza della necessità di una politica ambientale comunitaria). In questo periodo, nonostante l'emanazione di alcune norme, come la Direttiva 67/584 sulla classificazione, l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze pericolose, la Direttiva 70/157 sull'inquinamento acustico e la Direttiva 70/220 sulle emissioni inquinanti provocate dagli autoveicoli, rivolte, anche se solo parzialmente, alla tutela ambientale, è mancata la consapevolezza della emergente questione ambientale e della necessità di intraprendere una seria politica capace di contrastare i problemi causati dal rapido sviluppo industriale. Il perseguimento dello sviluppo sostenibile, nella determinazione e nella realizzazione della politica ambientale, il quale rappresenta, oggi, uno dei principali settori in cui si articola la politica comunitaria, non costituiva ancora, allora, un obiettivo imprescindibile per le istituzioni comunitarie, tanto che nell'originario testo del Trattato Istitutivo della Comunità Economica Europea del 1957, i concetti di ambiente, di tutela - 30 - ambientale e di politica ambientale non erano neppure menzionati. b) Dal vertice di Parigi (1972) all'Atto Unico Europeo (1987): lo sviluppo sostenibile Nel vertice di Parigi dell'ottobre del 1972, che inaugurò la "seconda fase" della politica europea, il Consiglio prese atto dei danni che uno sviluppo industriale ed economico indifferente ai problemi ecologici provocava all'ambiente, e dichiarò che "la crescita economica non è fine a se stessa, ma dovrebbe tradursi in un miglioramento della vita e del benessere generale ... e, in conformità con i tratti fondamentali della cultura europea, attenzione particolare dovrà essere data ai valori intangibili e alla protezione dell'ambiente". Vennero enunciate, in questa sede, le linee direttrici della futura politica ambientale comunitaria, tra queste figuravano due principi che avrebbero assunto, in futuro, un ruolo sempre più importante: il principio "chi inquina paga" e quello dell'"azione preventiva" e correzione alla fonte dei danni, attraverso la c.d. valutazione d'impatto ambientale. Il principio "chi inquina paga" è stato definito, negli obiettivi e nei mezzi per attuarlo, nell'allegato ad una importante raccomandazione del Consiglio adottata congiuntamente dalle tre Comunità (racc. 75/436/Euratom, CECA, CEE del 3 marzo 1975). - 31 - Secondo tale principio "le persone fisiche o giuridiche, di diritto pubblico o privato, responsabili di inquinamento debbono sostenere i costi delle misure necessarie per evitare questo inquinamento o per ridurlo ...La protezione dell'ambiente non deve essere assicurata da politiche basate sulla concessione di aiuti, che addosserebbero alla collettività l'onere della lotta contro l'inquinamento" Inquinatore è "colui che degrada direttamente o indirettamente l'ambiente, ovvero crea le condizioni che portano alla sua degradazione".L'atto contempla anche casi di "catene di inquinatori" e di "inquinamento cumulativo". I mezzi principali di cui si raccomanda l'adozione ai pubblici poteri al fine di attuare il principio "chi inquina paga" sono le norme ed i canoni. L'imposizione di questi ultimi ha una funzione di stimolo, inducendo il responsabile a prendere le misure necessarie per ridurre l'inquinamento di cui è autore, ed una funzione di ridistribuzione, facendogli sostenere una parte delle spese per le misure collettive di disinquinamento. Si precisa, infine, che quanto previsto non pregiudica la normativa in materia di responsabilità civile e gli eventuali risarcimenti dovuti in base al diritto nazionale o internazionale. In questo periodo il Parlamento europeo e il Consiglio dell'Unione hanno emanato tre programmi d'azione –( 1973/1977; 1977/1981; 1982/1986) - con i quali la Comunità, dopo aver stabilito la centralità - 32 - dell'interesse ambientale in relazione a qualunque tipo di programmazione o decisione, intensificò e riorganizzò la propria politica, affiancando alle tradizionali iniziative basate sul controllo degli inquinanti e sul contenimento degli inquinamenti, una politica di prevenzione dei danni all'ambiente, nell'ottica dello sviluppo sostenibile attraverso l’adozione di numerose direttive, quali, ad esempio, la direttiva 75/442 sui rifiuti, la direttiva 76/464 sulle sostanze pericolose nelle acque, la direttiva 80/778 sulle acque destinate al consumo umano e via dicendo. Nel 1986 i ministri della Giustizia dei 21 paesi del Consiglio d'Europa approvarono una risoluzione sulla responsabilità civile per il risarcimento dei danni causati all'ambiente da attività pericolose, nella quale, preso atto che "il danno all'ambiente non può essere oggetto di prevenzione in ogni caso, ma deve essere riparato in modo adeguato", si decise di porre allo studio un regime di responsabilità civile basato, da un lato, sulla presunzione di colpa o sulla responsabilità oggettiva, (con un sistema collettivo di riparazione fondato sull'assicurazione o la costituzione di un fondo), dall'altro sull'obbligo di rimessione in pristino o di misure di risanamento. c) Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Maastricht La fase che segue è segnata dalla proposta di direttiva comunitaria sui danni all'ambiente causati da rifiuti, dalla Convenzione di Lugano e dal - 33 - Libro Verde sulla responsabilità civile per danno all'ambiente. Tale momento rappresenta un importante punto di svolta, in quanto per la prima volta, è stata introdotta una espressa competenza della CEE in materia ambientale, mediante l'inserimento nel testo del trattato del titolo VII, dedicato all'ambiente. Il quarto programma d'azione (1987/1992), oltre a ribadire obiettivi di tutela già contenuti nei precedenti programmi, lanciò il nuovo concetto dell'integrazione della politica ambientale con le altre politiche comunitarie, nell'intento di diffondere una maggiore convergenza di interessi e di comportamenti degli Stati membri, dell'opinione pubblica e di tutti i settori interessati nei confronti dei problemi ambientali. In questo periodo, in sostanza, emerse l'esigenza di dettare delle regole uniformi, mediante le quali la comunità potesse affrontare in maniera più efficace i problemi ambientali, in considerazione dell'incapacità delle sole misure pubbliche di tipo preventivo, adottate da ciascuno Stato, di scongiurare episodi di disastro ambientale, specie se imprevisti. Inoltre, si cominciarono a prendere in considerazione, nell'ambito degli strumenti internazionali sul risarcimento del danno da determinate attività pericolose, profili economici e giuridici di danno all'ambiente, che non si esauriscono nelle conseguenze pregiudizievoli cagionate a cose o persone. Nel settembre 1989, la Commissione presentò al Consiglio dei - 34 - Ministri della Comunità economica europea una proposta di direttiva sulla responsabilità per danni causati da rifiuti:si trattò, in sostanza, di una proposta incentrata sul chiaro obiettivo della prevenzione della lesione all’ambiente. L’assenza, però, di una qualsiasi previsione del risarcimento in termini monetari, sia nell’ipotesi in cui il ripristino della situazione ambientale preesistente all’evento lesivo fosse tecnicamente impossibile, sia in quella in cui, dall’evento di danno sino al momento del ripristino, fosse trascorso un periodo di tempo non irrilevante, determinò, con la Convenzione internazionale di in Lugano (1993), evoluzione la che prefigurazione e apparve di subito un trend come la regolamentazione più organica della responsabilità civile per danni alle cose, alle persone, all’ambiente. Innanzi tutto venne introdotta, per la prima volta, una definizione giuridica espressa di ambiente, le cui componenti fondamentali comprendevano non solo le risorse naturali (biotiche, abiotiche, paesaggistiche) suscettibili di danno, ma anche le interazioni tra le medesime , nonché il paesaggio e il patrimonio culturale. La Convenzione prese, altresì, in considerazione le attività pericolose, esercitate professionalmente, che ponevano in essere un rischio significativo per l’uomo, l’ambiente e la proprietà. Venne riconosciuta la legittimazione ad agire giudizialmente alle - 35 - associazioni ambientaliste, che potevano chiedere al giudice, oltre alle misure di prevenzione o ripristino, anche l'interdizione di un'attività economica esercitata illegittimamente che costituisse una minaccia grave di danno all'ambiente. Infine, venne rimessa alla legislazione nazionale degli Stati sia la determinazione di un tetto o limite massimo della responsabilità per tipologia di danno, sia la previsione di un obbligo di assicurazione, o di garanzia finanziaria, come requisito necessario per ottenere autorizzazioni all'esercizio delle attività. Nello stesso anno la Commissione CEE pubblicò un Libro Verde sulla responsabilità civile per danno all'ambiente nel quale si esaminò l'utilità della responsabilità civile quale mezzo adatto per imputare la responsabilità per costi legati al risanamento ambientale. La Comunità, partendo dalla constatazione della diversità delle varie legislazioni nazionali, avvertì l'esigenza di procedere nel senso di uniformare le disposizioni esistenti in materia nei vari Stati membri, al fine di perseguire l'uniformità di tutela e di comportamenti all'interno della Comunità. La Commissione riconobbe la responsabilità civile quale strumento per imporre standard di comportamento come strumento preventivo nella disciplina del danno all'ambiente, per la realizzazione del principio "chi inquina paga", e come mezzo per obbligare coloro che causano - 36 - l'inquinamento a sostenere i costi del danno conseguente. Le tre linee fondamentali sulle quali si radicava la proposta furono individuate: a) in un regime generale fondato sulla colpa; b) in un regime speciale (per le attività a rischio aggravato) ancorato alla responsabilità oggettiva; c) in un fondo di indennizzo per danni non imputabili a soggetti individuati, alimentato con i contributi dei settori economici interessati e gestito nel rispetto del principio di sussidiarietà. Nel complesso, tuttavia, il Libro Verde apparve "datato", rispetto alle soluzioni codificate dal Consiglio d'Europa sulla responsabilità per danno all'ambiente da attività pericolose, svolgendo tuttavia un ruolo di “salvagente” rispetto alle indicazioni assai caute della Commissione. d) Da Maastricht al trattato di Amsterdam (1993- 1999) Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht il 1° Novembre 1993, vennero introdotte alcune modifiche al testo del Titolo VII del Trattato: in particolare, accanto agli obiettivi della salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente, della protezione e della salute umana, nonché dell’utilizzo accorto e razionale delle risorse naturali, - 37 - venne introdotto l’obiettivo della promozione a livello internazionale di misure destinate a risolvere problemi ambientali a livello regionale e mondiale. Nello stesso periodo, il quinto programma di azione in materia di ambiente (1993/2000) propose, per la prima volta, accanto alle misure di intervento tradizionali, basate su una logica di “comando e controllo”, l’utilizzo di misure di carattere economico, strumenti di mercato (ecolabel ed ecoaudit), strumenti orizzontali e meccanismi di sostegno finanziario al fine di correggere in senso ambientale le inefficienze di mercato. e)Dal Trattato di Amsterdam alla Direttiva 2004/35/CEE Dal 1999 le ulteriori tappe dell’evoluzione legislativa in materia di danno ambientale sono state dal Libro Bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente nonché dalla nota proposta di direttiva 2004/35/CEE. I punti fondamentali del Libro Bianco possono schematizzarsi come segue: 1) il termine danno ambientale viene impiegato in due accezioni specifiche come danno alle biodiversità e come danno sotto forma di contaminazione ai siti; 2) al fine di conferire una maggiore completezza all’intervento comunitario, il sistema di responsabilità delineato contempla sia il - 38 - danno all’ambiente che il danno alle persone e cose; 3) con riguardo alle tipologie di attività che possono comportare rischi ambientali, la Commissione opta per un approccio circoscritto; 4) i soggetti responsabili sono le persone che esercitano il controllo sulle attività che hanno occasionato il danno; 5) viene sancito il principio di irretroattività; 6) responsabilità oggettiva per danno causato da attività intrinsecamente pericolose, responsabilità per colpa per il danno alle biodiversità causato da attività non pericolose; 7) al giudice si offre la possibilità di decidere secondo equità in tutti quei casi in cui l’operatore che ha causato il danno possa provare che il danno stesso è stato interamente ed esclusivamente causato da emissioni esplicitamente permesse dalla sua licenza. Ma l’aspetto sicuramente più importante del Libro Bianco è costituito dall’affermazione dell’importanza dello strumento della financial responsibility. La Commissione, infatti, ha affermato che “l’assicurabilità è importante per consentire il raggiungimento degli obiettivi di un sistema di responsabilità per danni all’ambiente”, e ha auspicato lo sviluppo di un mercato assicurativo in grado di garantire la copertura dei rischi dei danni all’ambiente. - 39 - L’ultima tappa di questo lungo iter, che ha condotto, poi, all’emanazione della direttiva 2004/35/CEE, è rappresentata dalla proposta della Commissione del gennaio 2002, che tiene conto, oltre che dei diversi regimi di responsabilità ambientale vigenti nei sistemi nazionali europei, anche dell’esperienza statunitense. La proposta, tendeva ad introdurre un regime di prevenzione e riparazione del danno ambientale. Tendenza, questa, che nella proposta si è tradotta nella tipizzazione della fattispecie, sia perché l’oggetto investe solo determinate risorse (biodiversità, acque, suolo e sottosuolo) sia perché il campo operativo della direttiva è limitato ai danni, provocati esclusivamente da determinate attività, che producono gravi effetti negativi sotto il profilo ambientale o della salute umana. In generale, nelle ipotesi di attività pericolose il criterio di imputazione della responsabilità per tale danno significativo è di tipo oggettivo, mentre, ove si tratti di altre attività che cagionino minaccia immediata o danno alla biodiversità, l’agente è responsabile solo per dolo o colpa. In applicazione del principio “chi inquina paga” la proposta direttiva richiede che sia l’effettivo responsabile del danno a sopportare i costi del ripristino. Nel caso specifico di danno alla biodiversità, non presupponendo la proposta alcuna limitazione in ordine alle attività economiche da prendere - 40 - in considerazione, l’operatore tende ad essere ritenuto responsabile soltanto in caso di dolo o colpa. Al fine di garantire in ogni caso un’elevata protezione ambientale, la Commissione prevede una serie di casi in cui si debba comunque dare luogo al ripristino, ancorché il responsabile non possa essere identificato, oppure non abbia una sufficiente copertura finanziaria. La proposta delinea come figura principale di risarcimento del danno, la riparazione in forma specifica da conseguire riportando gli habitat e le specie danneggiate alle condizioni originarie. Qualora la restituito in integrum non sia più fattibile, spetta all’autorità competente la valutazione delle diverse opzioni a sua disposizione. Infine, la direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, segna un significativo punto d’arrivo nell’iter normativo , che compendia gli interventi più innovativi in materia. §§§ La descrizioni per grandi linee del percorso europeo in materia di tutela dell’ambiente, di un ambiente che assurge a bene da tutelare non solo nel preciso contingente storico ma anche in un’ottica futura, evidenzia come si siano privilegiati gli strumenti di tutela preventivi e - 41 - precauzionali più che quelli repressivi o punitivi. Ciò permette di delineare la storia del danno ambientale nell’ordinamento interno secondo le evoluzioni normative e giurisprudenziali pur sempre e, comunque, condizionata dalla politica giuridica comunitaria. §§§ 3. Il Danno ambientale nell’ordinamento interno: evoluzione giurisprudenziale e normativa La elaborata evoluzione e genesi del concetto di danno ambientale (prima di giungere alla definizione positiva di cui all’ art. 18 della legge 349/86 e art. 311 del Dlvo n. 152/06) non può che muovere, come detto, dalla definizione stessa del bene ambiente come sopra già delineata quale bene da tutelare e la cui lesione, per l’appunto, determina il danno da risarcire. Il concetto di ambiente, cui fa riferimento lo stesso legislatore della legge 349/86, prende spunto, come è naturale, dall’elaborazione dottrinale preesistente alla stessa. 35 Nella dottrina risalente, infatti, come già rilevato, sono individuabili 35 Cfr L. Prati, Il Danno all’ambiente e la bonifica dei siti inquinati, IPSOA, 2008, p.1 e ss. - 42 - almeno due orientamenti a seconda che all’ambiente sia riconosciuto o meno rilievo giuridico quale bene autonomo, oggetto di specifica e separata tutela rispetto alle sue singole componenti. Al primo orientamento si riportano coloro che concepiscono il concetto di ambiente non in termini unitari, bensì in modo frazionato. Tale dottrina trova conferma in quella disciplina positiva, che, soprattutto in origine, aveva affrontato le questioni ambientali in maniera settoriale e frammentata36 Tale orientamento, sulla base della legislazione del tempo, tende a distinguere l’ambiente nell’ottica della normativa relativa alla tutela del paesaggio, della difesa del suolo, dell’aria, dell’acqua,ed infine della tutela predisposta dalla normativa urbanistica.37 Al secondo orientamento fa riferimento l’ipotizzazione, già prima dell’entrata in vigore della legge 349/86, di concezione unitaria del bene ambiente, attraverso l’affermazione dell’ l’ambiente debba pur sempre essere inteso come un “diritto dell’uomo, attributo fondamentale della personalità e parallelo dovere di solidarietà sociale”38. 36 Cfr B. Carovita, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2001, p.19 37 Cfr M. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi aspetti giuridici, in Diritto e Ambiente. Materiali di dottrina e giurisprudenza, G. Alpa e M. Almerighi (a cura di), Padova, 1984,p.37. 38 Cfr A. Postiglione, Ambiente: suo significato giuridico unitario, in Riv. Trim. di dir. pubb., 1985, p.35 - 43 - Ad entrambi gli orientamenti comunque si riconnette la prima elaborazione del concetto di danno all’ambiente, sia esso inteso in senso unitario, dunque come lesione di un bene unico, sia esso connesso alla lesione di una delle sue componenti. 3.1 La “prima comparsa” del concetto di danno ambientale nella giurisprudenza contabile. Il concetto di danno ambientale, nel quadro dell’effettività del principio chi inquina paga, compare nel nostro ordinamento giuridico prima ancora della legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente, ad opera del giudice contabile. Infatti, il danno ambientale era stato ricondotto dal giudice contabile, fin dagli anni 70, alla nozione di danno erariale, con conseguente competenza esclusiva decisoria della Corte dei Conti, investita di fattispecie di pregiudizio ambientale prodotte dai dipendenti delle amministrazioni i cui costi ricadevano sui bilanci pubblici.39 In tale circostanza si poneva in evidenza come il pregiudizio non fosse a carico di uno o pochi soggetti privati, ma della stessa collettività, che, prima subiva gli effetti rovinosi, e poi, attraverso i pubblici bilanci alimentati dal prelievo fiscale, partecipava agli oneri economici del 39 Cfr. Corte dei Conti, II sezione,30.04.85, Riv. Corte dei Conti,1985, p.126. - 44 - ripristino. Ciò segnava la prima comparizione nel nostro ordinamento del concetto di danno ambientale inteso, come danno provocato da un singolo ad un bene di fruizione collettiva ed i cui costi di ripristino gravano sulla quella stessa collettività che ne risultava lesa. Tutto ciò caratterizza una fase ancora embrionale dello sviluppo del concetto di danno ambientale, la cui “essenza” non viene avvertita in termini concreti (e di tutela “effettiva” anche sotto il profili di danno sociale) e, soprattutto, non riesce a non collegarsi ad una lesione di una “cosa pubblica” nell’ambito di un rapporto esclusivamente pubblicistico. Seppur, già, essa tenta di ricollegare in termini più effettivi la causazione del danno come lesione del bene ambiente ad un soggetto specificato, che possa ricondursi al principio chi inquina paga, principio non ancora a quell’epoca fatto proprio dalla normativa italiana, ma già enucleato a livello comunitario. 3.2 L’orientamento della Corte Costituzionale sulla nozione di danno ambientale Sull’argomento di che trattasi appare fondamentale l’orientamento della Corte Costituzionale, emerso a seguito della pronuncia del 28 - 45 - maggio 1987, e di quella del 30 dicembre dello stesso anno40. Tale orientamento tende ad affermare una concezione unitaria del bene ambientale e della sua lesione (e dunque del danno che ad esso può essere cagionato), inclusiva di tutte le risorse naturali e culturali, e che comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali, l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale ed in definitiva della persona umana in tutte le sue estrinsecazioni. Tutto ciò viene rafforzato dalla considerazione dell’ambiente come bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di tutela e di cura, ma tutte nell’insieme riconducibili ad unità, e dell’ambiente come bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme. In tema di danno ambientale il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione. 40 Si fa riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 210/1987 e n. 641/1987, rispettivamente in Foro it, 1988, I, p. 333 e p. 641. - 46 - Il concetto giuridico di ambiente così delineato conduce ad evidenziare come l’aggressione di esso, attuata mediante la lesione di uno qualsiasi degli elementi che concorrono alla sua formazione, abbia un rilievo autonomo rispetto a quella concernente i suoi aggregati, così come del tutto indipendente appare l’area di incidenza del danno cagionato da tale lesione, il quale presenta connotazioni proprie e distinte rispetto alla alterazione provocata dal fatto illecito inerente a ciascuno dei suoi componenti. Si tratta, in particolare, di un pregiudizio che, pur riconducendosi al concetto di danno patrimoniale, postula un’accezione più ampia di questo, dovendosi avere riguardo, non tanto alla mera differenza tra il saldo attivo del danneggiato prima/dopo l’evento lesivo, quanto alla sua idoneità a determinare in concreto, secondo una valutazione sociale tipica, una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato può disporre secondo una prospettiva, per la quale il danno di cui si tratta, pur presentando indubbiamente la nota della patrimonialità, è svincolato da una concezione aritmetico contabile. In altri termini la protezione dell’ambiente non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini secondo i valori largamente sentiti: è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui essa assurge - 47 - a valore primario ed assoluto41. In conclusione l’orientamento della Corte Costituzionale, accedendo alla definizione del bene ambiente nel modo sopra riportato, conferisce al danno ambientale una rilevanza patrimoniale indiretta, nel senso che la tendenziale scarsità delle risorse ambientali-naturali implica una disciplina che eviti gli sprechi e i danni,così determinandosi una economicità ed un valore di scambio del bene Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta ad essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo. Consentono di misurare l’ambiente in termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui la gestione del bene in senso economico, col fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientale, cosicchè, questo, l’impatto ambientale possa essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare all’ambiente e, quindi, al danno ambientale un valore patrimoniale. Il superamento della considerazione secondo cui il diritto al risarcimento del danno sorge a séguito della perdita finanziaria contabile nel bilancio dell’ente pubblico, cioè della lesione del patrimonio dell’ente, non incidendosi su un bene appartenente allo Stato, porta a considerare la 41 Cfr. anche Tribunale di Venezia Penale 27 novembre 2002 n. 1286. - 48 - legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato e agli enti minori, come fondata sul fatto che tali soggetti hanno affrontato spese nel riparare il danno, o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica, nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo. Lo schema di azione adottato, riconducibile al paradigma dell’art. 2043, conduce ad identificare il danno risarcibile come perdita subìta, indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori. 3.3 L’orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla nozione di danno ambientale anche alla luce dell’art. 18 della legge 349/86 Sulla scorta degli insegnamenti della Corte Costituzionale, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto il contenuto stesso del danno ambientale come coincidente con la nozione non di danno “patito” bensì di danno “provocato” ed il danno ingiusto da risarcire come atteggiantesi in modo indifferente rispetto alla produzione di danniconseguenze, essendo sufficiente per la sua configurazione la lesione in sè di quell’interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale secondo - 49 - contenuti e dimensioni fissati da norme e provvedimenti. In tale contesto si inserisce la legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente n.349/86 che, con l’art. 18, dà attuazione al principio comunitario (sopra richiamato) chi inquina paga, secondo il quale i costi dell’inquinamento devono essere sopportati dal responsabile attraverso l’introduzione, quale forma particolare di tutela, dell’obbligo di risarcire il danno cagionato all’ambiente a seguito di una qualsiasi attività compiuta in violazione del dispositivo di legge: “ Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato.” Con tale norma, si introduce, così, nel nostro ordinamento il concetto di danno ambientale, finora definito praetorio, solamente dallo jus e si consacra un’ipotesi di condotta che, al verificarsi di determinati presupposti, può determinare in capo al soggetto agente una responsabilità per lesione del bene ambiente. Si configura in tal modo, come si avrà modo di evidenziare più avanti, una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno “ingiusto” all’ambiente, dove l’ingiustizia si individua nella violazione della disposizione di legge e dove il soggetto titolare del risarcimento è lo Stato. - 50 - La giurisprudenza ha seguito criteri ermeneutici diversi nell’elaborazione del concetto di danno come introdotto dall’art. 18 citato: dalla notazione iniziale sulla specialità dell’art. 18 rispetto al previsione generale dell’art.2043 cod.civ., all’impostazione successiva di un “regime misto”, che assorbe al suo interno le disposizioni più severe del codice civile sulla responsabilità oggettiva (per le attività qualificabili come pericolose) e sulla solidarietà (tra responsabili), in deroga ai corrispondenti profili dell’art. 18, del quale, comunque, sottolinea la specialità, ma limitatamente al danno-evento (lesione in sé dell’ambiente) rispetto a quello codicistico del danno-conseguenza, evidenziandone il “timbro repressivo” rappresentato dalla gravità della colpa, dal profitto conseguito dal trasgressore e dal costo necessario del ripristino.42 Tale orientamento giurisprudenziale non ha comunque esitato ad individuare nel dettato costituzionale la fonte stessa della norma sul danno ambientale, così sostenendo la rilevanza giuridica del bene ambiente in virtù del dettato costituzionale: la stessa configurabilità del bene ambiente e la risarcibilità del danno ambientale, pur specificamente regolato dall’art. 18 della legge n. 349/86, troverebbero la fonte genetica direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente e come diritto vigente e vivente, 42 G. Schiesaro, Gli aspetti sanzionatori della responsabilità per danno ambientale alla luce della nuova direttiva, in La responsabilità ambientale, a cura di B. Pozzo, Milano, 2005. - 51 - attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (artt. 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale ed ambientale, e si è ritenuto, pertanto, che, anche prima della legge 349/86 la Costituzione e la norma generale dell’art. 2043 cc “apprestavano all’ambiente una tutela organica43. Si ribadisce la peculiarità del danno ambientale, pur nello schema della responsabilità civile, rilevandosi come esso consista nell’alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte dell’ambiente inteso quale insieme che, pur comprendendo vari beni appartenenti a soggetti pubblici o privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che costituisce come tale specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento44. Per la valutazione del danno ambientale, dunque, non può farsi ricorso ai parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi conto della natura di bene immateriale dell’ambiente nonché della particolare rilevanza del valore d’uso della collettività che usufruisce e gode di tale bene. 43 Cfr. Cassazione Penale, 19 giugno 1996, n. 5650 relativa alla catastrofe del Vajon 1963, in www.lexambiente.it 44 Cfr. Cassazione Civile, 9 aprile 1992, n. 4362. www.lexambiente.it - 52 - Si è altresì affermato che il danno ambientale presenterebbe una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale dell’ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell’ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana: art 2 Cost); pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni sociali e periferiche con specifiche competenze ambientali): sicchè il danno ambientale non consisterebbe solo in una compromissione dell’ambiente, in violazione delle leggi ambientali, ma anche contestualmente in un’offesa della persona umana nella sua dimensione individuale e sociale. In questo contesto persone, gruppi, associazioni e anche gli enti territoriali non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed agiscono in forza di una autonoma legittimazione.45 In altri termini, secondo la giurisprudenza, lo stesso art. 18 della l. 349/86 non avrebbe, in sostanza, né definito un nuovo diritto né individuato un nuovo bene giuridico meritevole di tutela, ma si sarebbe invece limitato a ripartire la legittimazione attiva tra i vari soggetti preposti alla protezione dell’ambiente, bene già tutelabile, sulla base del solo art.2043 cod.civ. 45 Cfr. Cassazione Penale, 19 gennaio 1994, n. 439, inwww.lexambiente.it - 53 - 4. La nozione di danno ambientale nella direttiva 35/2004/CEE La elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che ha condotto all’ ideazione del concetto di ambiente come bene unitario ed immateriale, come sopra menzionato, deve tuttavia confrontarsi con la nuova definizione di danno ambientale che è stata introdotta dalla direttiva 35/2004/CEE46 e trasmigrata nella parte VI del D.Lgs n. 152/06. La definizione di danno ambientale contenuta nella direttiva si presenta estremamente analitica: se è vero che per lungo tempo si è lamentata della genericità della definizione nazionale del “danno ambientale”, è altrettanto vero che anche l’approccio seguito dal legislatore europeo appare discutibile. In effetti, una definizione efficace, sotto il profilo giuridico, dovrebbe richiedere il contemperamento delle esigenze della certezza del diritto con quelle di un’applicazione sufficientemente “flessibile” della norma, tale da garantire l’efficacia della stessa in relazione al bene protetto anche nelle situazioni meno evidenti, ma, egualmente meritevoli di tutela in base alla ratio seguita dal legislatore. 46 Cfr per un excursus delle tappe più significative che hanno preceduto l’emanazione della Direttiva 200/35 CE, si rinvia a B. Pozzo, Verso una responsabilità per danni ambientali in Europa: il nuovo libro Bianco della Commissione delle Comunità Europee, in Riv. Giur Amb., 2000 pp 623e ss.; recentemente A. Quaranta, L’evoluzione del danno ambientale nella politica Comunitaria, in Ambiente 2004, 10, pp. 919 ss - 54 - Sotto questo profilo, la legislazione comunitaria continua invece ad esasperare la tendenza volta a definire pedissequamente anche i concetti di contenuto più ampio e generale, con il risultato di segmentare ed irrigidire eccessivamente situazioni giuridiche, che, al contrario, per loro natura, non possono vivere in un sistema a “compartimenti stagni”, quale quello che inevitabilmente si produce adottando un tipo di tecnica normativa, esageratamente appesantita da un numero eccessivo di definizioni e di rimandi ad altre norme di pari contenuto definitorio.47 La concezione di danno presente nella direttiva, con un azzardo linguistico, potrebbe definirsi “materialistica” se non addirittura Infatti, viene soprattutto in rilievo nella direttiva un danno “ingegneristica”. consistente nella “alterazione fisico – chimica” di una determinata risorsa naturale “misurabile in termini di effetti negativi sullo stato della stessa” . Pertanto, non viene perciò preso in considerazione qualunque deterioramento delle risorse in sé o dei suoi usi collettivi, ma una modifica negativa determinata e misurabile di quei servizi collettivi che l’ambiente può rendere. Alla concezione “materialistica” del danno, come effetto negativo 47 F. Giampietro, in Prevenzione e riparazione del danno ambientale: la nuova direttiva n.2004/35/CEE, in Ambiente, 2004, 10. - 55 - misurabile si accompagna , come logico corollario, la sua “frammentazione” in ipotesi distinte ed aventi presupposti, parzialmente diversi, a seconda della componente ambientale interessata: specie ed habitat protetti, acque e terreno. Lungi, dunque, dal prevedere una concezione unitaria del danno all’ambiente, il legislatore europeo si focalizza solo su alcune componenti dello stesso, più o meno individuate, e per esse rimanda al legislatore nazionale il compito di apprestare una specifica tutela. 5. La nozione di danno ambientale nel Dlgs n.152/06 : il danno ambientale di matrice comunitaria e la sua trasposizione nell’ordinamento nazionale. Recependo la direttiva 35/2004/CEE sul danno ambientale, il Codice dell’Ambiente, seppur indirettamente, ha ugualmente inciso sulla definizione di ambiente come bene giuridico oggetto di protezione. Per un corretto approccio logico-giuridico, il Codice dell’Ambiente avrebbe dovuto prevedere una definizione preliminare del bene protetto (l’ambiente), che si presentasse il più possibile univoca e, quindi, - 56 - descrivere il danno giuridicamente rilevante al medesimo bene48. Il DLgs n.152/06 si presenta, invece, già privo di chiarezza su tali fondamentali questioni. Ed infatti, ai sensi dell’art. 300 comma 1 del DLgs n.152/06, il danno ambientale viene definito come “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”. Il predetto articolo precisa, poi, al comma 2 che “ai sensi della direttiva 35/2004/CE” costituisce danno ambientale il “ deterioramento, in confronto alle condizioni originarie”, provocato agli habitat, alle acque interne, alle acque costiere e al terreno. L’art. 300 riprende, quindi, pedissequamente la definizione della direttiva europea, senza fare alcuno sforzo di adattamento della norma comunitaria all’ordinamento nazionale. Da quanto sopra consegue un’impostazione “riduttiva” 49 del c.d. danno ambientale, che, in particolare, dovrebbe coprire essenzialmente il 48 Cfr Sulle complesse problematiche relative alla molteplicità di definizione di “ambiente” come oggetto di tutela, si veda F. Giampietro, La nozione di ambiente e di illecito Ambientale, in Ambiente & Sviluppo, 2006, 5, pp464 ess. 49 Si pensi solo al danno al terreno, rispetto al quale viene in rilievo solo quella contaminazione che cagioni “un rischio significativo di effetti negativi sulla salute umana e derivi da un’introduzione diretta o indiretta nel suolo, sul suolo, o nel sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo”. L’evento di danno (o di pericolo concreto) è riferito quindi non all’ambiente ed alle risorse naturali, ma alla tutela della salute umana. Cfr anche F. Giampietro, La direttiva 2004/35/CE sul danno ambientale e l’esperienza italiana, Ambiente, 2004, 9. - 57 - danno alle specie ed agli habitat protetti, il danno ecologico chimico e quantitativo alle acque, e il danno da contaminazione del terreno che arrechi pregiudizio alla salute umana, secondo la concezione “materialistica” di danno presente nella direttiva, emergendo soprattutto, quindi, un danno consistente nella “alterazione fisico- chimica” di una determinata risorsa naturale, “misurabile in termini di effetti negativi sullo stato della stessa”, a cui si accompagna, come logico corollario, la “frammentazione” del danno in ipotesi distinte, ed aventi presupposti parzialmente diversi, a seconda della componente ambientale interessata: specie ed habitat protetti, acque e terreni. Alla tutela “frazionata di alcune componenti del bene ambiente” descritte nell’art. 300, commi 1 e 2, segue però la tipizzazione dell’illecito ambientale contenuta all’art. 311, comma 2, del DLgs n.152/06, in base al quale: “Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, e' obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”. Appare evidente la pressoché totale mancanza di coordinamento tra - 58 - l’art. 300 e l’art. 311 comma 2. 50 Ed infatti, mentre il primo limita la definizione di danno ambientale a quanto contemplato dalla direttiva europea, indicando in modo puntuale e tassativo ciò che costituisce oggetto di “deterioramento significativo e misurabile di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, l’art. 311, comma 2, riproduce in larga misura la più ampia e onnicomprensiva fattispecie già contenuta nell’art. 18 dell’abrogata legge n. 349/86, che dà rilievo a qualsiasi “alterazione, deterioramento o distruzione in tutto o in parte dell’ambiente”. La definizione di matrice “comunitaria” di danno all’ambiente (deterioramento significativo e misurabile di una specifica componente ambientale) continua quindi a convivere con una fattispecie analoga a quella dell’abrogato art. 18, che contempla una diversa e più ampia figura di illecito, in cui oggetto di tutela pare essere l’ambiente inteso come bene unitario e distinto dalle sue singole componenti.51 A fronte della duplicità della definizione legale contenuta nel D.Lgs n.152/06, sorge il dubbio sulla sopravvivenza di gran parte dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sviluppatasi nel vigore dell’art. 18 relativamente alla concezione comunitaria di relativo approccio 50Cfr F. Giampietro, La responsabilità per danno all’ambiente nel TUA: un passo avanti e due indietro, in Ambiente e Sviluppo, 2006, 12 51 Cfr b. Caravita, Diritto dell’Ambiente, in Riv. Danno e Responsabilità, 2006, 6, pp693 - 59 - frazionato alla tutela ambientale. Sul predetto quesito la giurisprudenza dominante ha ritenuto che la nozione unitaria di danno ambientale dovesse ritenersi ancora attuale: nonostante, infatti, l’art. 300 definisca ciò che ai sensi della direttiva 35/2004/CE costituisce danno ambientale”, il dato letterale dell’art. 311 comma 2 ha un significato precettivo indiscutibile. Del resto tale soluzione appare come l’unica compatibile con la più volte affermata natura costituzionale del bene ambiente (art. 9, 32 , 41, 42 Cost), così come affermata dalla giurisprudenza della Suprema Corte. (sent. N. 5650/96). Tutto ciò è suffragato da una più recente giurisprudenza, che ha confermato la continuità con l’art. 18 pur nella problematica posta dalle nuove norme, rilevando che, 52 anche a fronte delle citate recenti disposizioni normative (che pure presentano difetti di coordinamento sia tra loro sia con le altre disposizioni dello stesso testo legislativo), si ritiene che debbano ribadirsi le conclusioni alle quali si è pervenuti in materia di risarcimento per equivalente patrimoniale nell’interpretazione dell’art. 18 della legge 349/86 ed evidenziando, in particolare, che integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d 52 Corte Cass. Pen.,sez.III, sentenza 2 maggio 2007, n. 16575 in www.lexambiente.it - 60 - “perdite provvisorie”, previste espressamente come componente del danno risarcibile dalla direttiva 2004/35/CE, e già considerate da tale orientamento giurisprudenziale sotto forma di “modifiche temporanee allo stato dei luoghi. 53 §§§ L’esame di talune fattispecie reali, qualificate dalla giurisprudenza come ipotesi concretizzanti un danno ambientale, non può prescindere dall’ulteriore considerazione 54 delle numerose discrasie contenute nel testo normativo interno. In particolare, va osservato come il legislatore all’art. 311 comma 1 individui chiaramente il titolare delle azioni di risarcimento del danno nello Stato, attribuendo la legittimazione ad agire solo ed esclusivamente al Ministro dell’Ambiente con il patrocinio obbligatorio ed organico dell’Avvocatura dello Stato. Mentre all’art.309, si prevede, tra l’altro, che “le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati, nonche' le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale… possono presentare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, depositandole presso le Prefetture - Uffici territoriali del Governo, 53 Cfr M.Libertini, La nuova disciplina del danno Ambientale e i problemi generali del diritto all’Ambiente, in Rivista critica del diritto privato, 1987, p560 54 L.Prati, opera cit. - 61 - denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l'intervento statale a tutela dell'ambiente…”; ed al successivo art. 310 che “i soggetti di cui all'articolo 309, comma 1, sono legittimati ad agire, secondo i principi generali, per l'annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto nonche' avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell'attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale” . Il combinato disposto dei predetti articoli ha riflessi decisivi anche sulla qualificazione del danno all’ambiente e sulla sua natura giuridica. Mentre, infatti, da un lato si stabilisce il principio generale della titolarità esclusiva in capo allo Stato della pretesa risarcitoria in materia di danno ambientale, assumendosi in tal modo che esso agisca a tutela della collettività nel far valere un diritto superindividuale, dall’altro si ammette che anche tutte “le persone fisiche o giuridiche”, oltre che gli enti espressione della collettività locale, possano essere “colpite da danno ambientale” in senso stretto (e cioè dal danno all’ambiente così come definito dal D.Lgs n. 152/06, come tale diverso dai diritti soggettivi compromessi dal medesimo fatto produttivo del danno ambientale) e, - 62 - quindi, agire “per il risarcimento del danno subito” in conseguenza della compromissione delle risorse naturali. Con ciò si torna a trasporre il danno ambientale sul piano dei diritti soggettivi astrattamente tutelabili individualmente, in contrapposizione alla concezione dell’ambiente quale bene collettivo e superindividuale. Sebbene sia chiaro che, nel nuovo regime, i privati non possano agire contro i diretti responsabili per la tutela dell’ambiente, appare altrettanto evidente che essi potrebbero ricorrere in via giurisdizionale per ottenere il risarcimento del danno all’ambiente patito a causa dell’inerzia del Ministero dell’ambiente, in relazione a qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale. Tale quadro normativo suscita non poche perplessità tanto più se si considera come all’art. 313 comma 7 venga ancora previsto che “resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi” . Sembra pertinente quanto dal legislatore stabilito al comma 7 dell’art. 313 con riferimento al danno ai singoli beni lesi dal fatto produttivo di danno ambientale, come tali distinti da quest’ultimo ed oggetto di tutela in base alle norme ordinarie, anche se risulta indebitamente limitato l’ambito di tali diritti tutelabili in via ordinaria alla - 63 - salute ed alla proprietà. La travagliata elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, che ha condotto all’affermazione della lesione all’ambiente in senso giuridico (considerato questo come insieme che, pur comprendendo vari beni materiali, si distingue da questi), come distinta dalle sue componenti, rischia di essere in gran parte vanificata dalla commistione di concetti diversi operata nell’articolato sopra richiamato, articolato nel quale certamente vi è stato un uso disinvolto di una terminologia che invece è, per sua natura, estremamente delicata. 6. Il “danno ambientale” tra fattispecie e realtà. La figura giuridica del danno ambientale così come delineata dalla giurisprudenza contabile, prima, e poi, dalla sua codificazione ad opera dalla Comunità Europea ed ancora dalla sua introduzione nel nostro ordinamento con la legge 349/86 ovvero con il recente Dlgs n. 152/06 (di applicazione della direttiva 2004/35/C), si arricchisce ulteriormente a seguito degli apporti della giurisprudenza che ne ha curato la concreta applicazione, dando l’effettiva misura dell’ubi consistam del danno ambientale in relazione alle realtà che essa ha di volta in volta affrontato. Difatti, come già accennato, il concetto di ambiente e, dunque, la lesione dello stesso, per la generalità ed astrattezza degli elementi che lo - 64 - compongono (e ciò pur accedendo a quella che è la tesi orami consolidata di ambiente come bene unitario) sfuggendo ad un preciso inquadramento giuridico (con ciò intendendo una definizione inequivoca degli elementi costitutivi), ha sempre reso, anche in tempi più recenti di assoluto indiscusso riconoscimento giuridico di un “bene” ambiente e di un danno allo stesso causabile, difficoltosa la stessa individuazione del danno “causato” ovvero “realizzato”. In altri termini, ciò che appare evidente è la indubbia difficoltà (pur a fronte di un dato normativo) di delimitazione e individuazione concreta di un danno all’ambiente, che, in quanto bene “infinito”, può essere leso in molteplici modi non tutti, però, fonte di responsabilità. Peraltro, sempre in ragione della illimitata identificazione degli elementi che possono costituire lo stesso ambiente, questo si presta ad essere leso sotto svariati e non prevedibili atti, fatti e comportamenti, come può agevolmente rilevarsi dalla panoramica delle fattispecie integranti (le più significative soltanto!) -secondo la giurisprudenza- ipotesi di danno ambientale, con conseguenti ipotesi di responsabilità. 6.1 Riflessi soggettivi del danno ambientale: a) danno morale da disastro ambientale; b) danno morale da ambiente insalubre; c) danno esistenziale da inquinamento ambientale; d) danno ambientale come compromissione della reputazione - 65 - turistica. a) Che l’ambiente, ed il relativo diritto, avessero una connotazione soggettiva di natura individuale, oltre che preminentemente collettiva e superindividuale, non è certamente un’affermazione recente, se si considera che già da un decennio la giurisprudenza55, già richiamata aveva affermato tale rilevanza riconoscendo al danno ambientale una triplice dimensione:personale, sociale e pubblica . L’esplicito riconoscimento di una dimensione personale del danno ambientale, quale lesione di un diritto costituzionalmente garantito proprio di ogni individuo, non poteva non preludere ad un sempre maggiore riconoscimento della rilevanza sul piano individuale dei fenomeni di compromissione e di alterazione dell’ambiente. Sinergica a tale estensione è certamente stata la più recente tendenza ad ampliare il campo del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art.2059 cod.civ., fino al riconoscimento di un vero e proprio “danno esistenziale da danno inquinamento”. In tal senso la giurisprudenza, a distanza di oltre un quarto di secolo dai drammatici fatti di inquinamento di Seveso, che causarono ripercussioni catastrofiche sull’ambiente e sulla popolazione residente nelle zone circostanti lo stabilimento dell’ICMESA, ha riconosciuto la 55 Cfr. Cassazione Penale,sez.III,n.439/1994, in www.naturagiuridica.it - 66 - risarcibilità in via autonoma di un danno morale soggettivo conseguente ad una gravissima compromissione dell’ambiente. 56 In quella circostanza si è chiarito come in caso di compromissione all’ambiente a seguito di disastro colposo (art.449 cp) il danno morale soggettivo lamentato dai soggetti (in quanto abitano o lavorano in quell’ambiente) che provano, in concreto, di aver subito un turbamento psichico di natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamente57 anche in mancanza di una lesione all’integrità psicofisica o di altro evento produttivo di danno patrimoniale, trattandosi di reato plurioffensivo che comporta oltre all’offesa all’ambiente e alla pubblica incolumità anche l’offesa ai singoli pregiudicati nella loro sfera individuale.58 Invero, la risarcibilità del turbamento psichico di natura transitoria 56 Come è noto, il danno non patrimoniale, nel nostro ordinamento, è risarcibile ex art 2059 c.c., essenzialmente in relazione ai fatti costituenti reato in forza dell’art. 185 c.p. Sebbe l’art. 185 c.p. non costituisca l’unica norma che fa riferimento al risarcimento del danno non patrimoniale, rappresenta in pratica di gran lunga la più importante; cfr in tema P. Ziviz, La tutela risarcitoria della persona – Danno morale ed esistenziale Milano, 1999, p. 141 57 Si vedano tra le altre le annotazione di D. Feola, Il caso “Seveso” e la risarcibilità dei danni non patrimoniali alla collettività vittima di un disastro ambientale in Riv.Giur. Amb., 1995, p 327; ed ancora P. Righi e C. M. Verdi, Disastro Ambientale e danno morale collettivo, in Corriere Giuridico, 1994, p.999; Medugno Danno ambientale…non patrimoniale, in Ambiente, 1995, 1, pp88 ess 58 Cfr Corte di Cassazione Civile , sez. unite, sent. n.2515/02, in www.diritti&diritti.it - 67 - conseguente a danno ambientale era stata già in precedenza esclusa dalla giurisprudenza 59 secondo cui la semplice esistenza del reato di disastro colposo non poteva, di per sé, legittimare un’azione risarcitoria del danno morale in capo ai soggetti singolarmente coinvolti dalla compromissione ambientale, in quanto detto danno morale inteso quale turbamento psichico non appariva essere la conseguenza di una distinta lesione alla salute subita dai soggetti medesimi, o comunque, conseguenza di un altro evento dannoso direttamente connesso all’inquinamento.60 Successivamente, si è operato un deciso ribaltamento degli assunti testè menzionati affermandosi con decisone la natura autonoma risarcibile del danno morale conseguente ad un danno ambientale. 61 In definitiva la lesione al bene collettivo dell’ambiente, per la natura dei fatti considerati in concreto, si riverbera in una lesione ai diritti soggettivi di coloro che individualmente usufruiscono di detto bene, anche per ciò che riguarda il turbamento psichico che deriva dal pericolo connesso al vivere ed operare in un ambiente insalubre. 59 Cfr Corte di Cassazione Civile, sez.III, n.4631/97 in Foro Italiano Mass., p.438 e ss e Corriere Giuridico, 1997, p.1172, con nota di G.De Marzo “Danno morale e reati di pericolo: il caso Icmesa” 60 Cfr Corte Costituzionale 14 luglio 1986 n. 184, in Foro Italiano, 1986, I , p. 2053, con nota di G.Ponzanelli, La Corte Costituzionale, il danno patrimoniale ed il danno alla salute. 61 Cfr Corte Costituzionale 27 ottobre 1994, n, 372, in Foro it., I, pp 3297 e ss, con nota di G. Ponzanelli, La Corte Costituzionale ed il danno da morte - 68 - In questo senso si ribadisce l’esistenza di un collegamento inscindibile tra diritto alla salute e diritto all’ambiente (inteso come diritto soggettivo ad un ambiente salubre), collegamento già affermato in risalenti pronunce giurisprudenziale62 . In effetti nella circostanza di che trattasi a fronte di un evento danno (disastro ambientale) già riconosciuto in quanto tale e foriero già di una responsabilità penale e civile, si riconosce un’altra componente di tale danno addirittura disancorata dalla effettiva causazione del fatto, ma riconducibile al solo turbamento psichico che tale fatto ha provocato. 63 E’ indubbia la rilevanza di siffatto orientamento, che, pur sulla scia di quel filone giurisprudenziale che ammette la risarcibilità del danno morale non patrimoniale, tuttavia va oltre giungendo a riconoscere la risarcibilità di un danno derivante sì dal fatto dannoso principale (disastro ambientale) ma, da questo, comunque non direttamente conseguente (binomio causa /evento) e riconducibile a quel danno da turbamento psichico concretizzatosi in molti casi anche dopo anni dal verificarsi dell’evento di danno ambientale. b) Nell’alveo della impostazione data dalla giurisprudenza si è esplicitata un’ulteriore anticipazione della soglia di risarcibilità dei danni 62 cfr Cassazione Civile n.1463/79; n.5172/79), in www diritti&diritti.it 63 Cfr Corte Cassazione Penale, sez. III, 19 novembre 1996, n.9837, in Ambiente, 1997, 12, con nota di A. Bressan - 69 - sofferti dai singoli in connessione con il pregiudizio arrecato all’ambiente, affermandosi l’esistenza di un vero e proprio danno morale da inquinamento non collettivo, bensì proprio dell’individuo autonomamente risarcibile a seguito della lesione di un diritto subiettivo perfetto. In quest’ottica, l’aggressione al bene collettivo ed immateriale dell’ambiente, in cui il fatto illecito stesso si sostanzia, sembra effettivamente fondersi in modo inestricabile con l’aggressione ai diritti soggettivi, anche di contenuto non patrimoniale, di coloro che in tale ambiente vivono ed operano. 64 Sembrerebbe che tutto ciò, abbia, tra l’altro, comportato il riconoscimento del “danno esistenziale” del danno all’ambiente, inteso come bene collettivo ed immateriale, la cui salubrità è al contempo condizione insopprimibile per la piena esplicazione della personalità umana così come tutelata dalla carta costituzionale: un’interpretazione sempre più estesa del “diritto all’ambiente” come elemento insopprimibile della personalità umana, sintomo di una più generalizzata estensione degli 64 Ciò naturalmente senza che venga meno, da un punto di vista concettuale, la distinzione più volte ribadita dalla giurisprudenza tra il danno ai singoli beni di proprietà privata o pubblica, e il danno all’ambiente considerato in senso unitario, quale bene a sé stante, ontologicamente diverso dai singoli beni che ne formano il substrato. (cfr Cassazione civ., sez. III, n.1087/98, in Foro it.,1998,I,p.1142) - 70 - interessi risarcibili in via aquiliana. 65 c) L’ampliamento dei confini della risarcibilità dei pregiudizi sofferti dai singoli in occasione di eventi di inquinamento che hanno compromesso l’ambiente nel quale detti soggetti, portatori di interessi costituzionalmente rilevanti si trovano a vivere ed operare, ha indotto ad ammettere l’autonoma risarcibilità del danno morale inteso in senso allargato. Tuttavia l’ampliamento della perseguibilità sul piano civile delle lesioni arrecate ai diritti soggettivi dei singoli in seguito alla compromissione dell’ambiente è andato oltre, nel senso di ricondurre alla figura del c.d. “danno esistenziale” determinati pregiudizi arrecati alla “qualità della vita” dai fenomeni di inquinamento. Invero, il “danno da inquinamento” come ulteriore conseguenza del danno ambientale veniva già in nuce riconosciuto dalla Cassazione civile, sez. II, n.1463 66 , che riconosceva un “diritto all’ambiente” inteso come posizione soggettiva connessa con il diritto di proprietà o con quello alla salute in quanto beni sui quali la conservazione dell’ambiente stesso incide 65 Si veda in tema P. Ziviv, Alla scoperta del danno esistenziale, in Scritti in onore di Rodolfo Sacco, a cura di P.Cendon, Milano, 1994, p 1302; P.G. Montaneri, Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 1999, p.5; in giurisprudenza Corte Cass. Civ., sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713 con nota di richiami. A. D’Adda, Il cosiddetto danno esistenziale e la prova del pregiudizio, in Foro it., 2001, I, p.188 66 in Foro it, I 1979,p.2909; - 71 - in modo determinante. 67 In proposito, ancora, la giurisprudenza aveva già riconosciuto un vero e proprio “turbamento emotivo” a fronte della sola alterazione alla “normale qualità della vita” causate dalle immissioni illecite effettuate nell’ambiente in cui il soggetto leso estrinseca la sua personalità, nel senso della individuazione di un danno alla “serenità domestica” intesa in senso ampio, e definito “danno esistenziale da inquinamento ambientale”. A tale orientamento si conforma la tendenza che individua il danno esistenziale da inquinamento ambientale nelle modificazioni peggiorative apprezzabili per intensità e qualità verificatesi nella sfera personale del soggetto leso, tra cui vanno fatte rientrare le alterazioni del diritto alla normale qualità della vita e/o alla libera estrinsecazione della personalità, sempre che sussista il nesso di causalità tra comportamento lesivo e danno. La tutela di diritti soggettivi compromessi dal danno ambientale subisce per tale via, un considerevole ampliamento: non viene più, infatti, in rilievo il consolidato risarcimento di un danno alla salute, seppur intesa 67 cfr anche Cass. Civ, sez. un., 6 ottobre 1979, n.5172, in Responsabilità Civ. e Prev., 1979, p. 715, per l’affermazione che la tutela del diritto alla salute si configura come diritto all’ambiente salubre, nonché Tribunale di Napoli 22 febbraio 1983, in Dir. Giur., 1983, 354, per il quale nel nostro ordinamento giuridico il diritto alla salute, oltre che come diritto alla vita ed alla incolumità fisica, si configura come diritto all’ambiente salubre, tutelato in via primaria e incondizionata come diritto soggettivo assoluto. - 72 - in senso ampio, bensì il risarcimento al mero “deterioramento della qualità della vita” -nel caso specifico- provocato dalle immissioni inquinanti che hanno interessato la “sfera esistenziale” del danneggiato. La mancata fruizione di un bene ambientale da parte della collettività a causa dell’inquinamento subito dallo stesso (voce generalmente ritenuta risarcibile come danno al bene pubblico ambiente) ben potrebbe condurre a frazionare e suddividere in ulteriori fattispecie risarcibili come “danni esistenziali” in capo ai singoli membri della collettività che, per tale mancata fruizione, abbiano subito un peggioramento significativo della loro qualità della vita e/o un’alterazione del loro modo di rapportarsi con l’ambiente esterno. Viceversa, il cumulo di una serie di pregiudizi soggettivi subiti alla “qualità della vita” da parte delle persone che vivono ed operano in un ambiente insalubre ben potrebbe rilevare ai fini di valutare l’esistenza di un pregiudizio risarcibile quale danno alla collettività ai sensi della parte VI del D.Lgs n. 152/06. In proposito, non manca l’opinione di chi 68 ritiene che sarebbe effettivamente alto in questi casi il rischio di risarcire, sotto diversi profili, quello che nella sostanza è causato da un unico evento dannoso: alterazione del modo di essere dell’individuo, peggioramento della qualità 68 L.Prati, Testo Unico Ambientale, IPSOA 2008 - 73 - della vita, danno da stress, compromissione della personalità, danno alla vita di relazione, transeunte turbamento psichico. Tutte queste rappresentano diverse sfaccettature del medesimo pregiudizio concreto. Il danno ambientale per la sua stessa natura ontologica sociale e giuridica si presta ad una problematica “delimitazione dei confini” cui solo la giurisprudenza, non potendosi immaginare una formulazione positiva di tutte le problematiche attinenti gli aspetti del danno ambientale, può sopperire “caso per caso” con principi logici prima che giuridici. d) da ultimo in questa “rassegna” di riflessi soggettivi da danno ambientale, tra i nuovi confini del danno ambientale risarcibile, è stata riconosciuta dalla giurisprudenza anche la risarcibilità del danno da “compromissione della reputazione turistica del paese”, rimasto vittima del disastro ambientale. Secondo tale “singolare” (ma condivisibile) prospettazione l’immediata associazione del nome del Comune limitrofo al luogo dell’evento disastroso creava un collegamento istintivo del suo nome alla tragedia storica, determinando così la compromissione della reputazione turistica del paese, e, dunque, ledendo oltre il composito diritto del suddetto Comune alla propria identità personale, anche i suoi diritti al nome e all’immagine, comportando pertanto il diritto del Comune al - 74 - risarcimento del danno morale subito.69 Nella specie si è riconosciuta la sussistenza di un pregiudizio risarcibile sotto la forma del danno morale. L’affermazione di tale tendenza si rifà a quanto già dalla giurisprudenza considerato in occasione della nota pronuncia relativa al disastro del Vayont 70 , nella quale si ribadì la necessità di una lettura costituzionale del sistema della responsabilità civile da illecito, che colleghi i precetti delle norme di garanzia (tra cui l’art.2059 c.c.) ai valori costituzionali, specie quando vengono in gioco posizioni soggettive costituzionalmente protette come il diritto alla salute e all’ambiente salubre.71 In quella circostanza, infatti, si era già riconosciuto che, a fronte di un fatto costituente reato di enorme gravità per il numero delle sue vittime e per le devastazioni ambientali dei centri storici, dovesse ritenersi che, una volta determinato (come fatto/evento) la lesione del diritto costituzionale dell’ente territoriale esponenziale (il Comune) alla sua identità storica, culturale, politica ed economica, costituzionalmente protetta (art 114 Cost.), sussistesse per ciò solo la prova della lesione della posizione soggettiva costituzionalmente protetta così che risulterebbe 69 Cfr Tribunale di Trento sentenza 10 giugno 2002, in Giur.it 2002, 2340 70 Cfr Corte Cassazione Civ., 15 aprile 1998, n. 3807 in Giur.it., 1999,2270 71 Cfr Corte Cassazione Civ, 19 giugno 1996, n. 5650, in Riv. Giur. Amb., 1997, p. 679 e ss, con nota di Borasi. - 75 - legittimato a pieno titolo ad esigere il risarcimento del danno72” Va detto che però l’assunto non sembra così pacifico73, nonostante i precedenti positivi : ancora in tempi recenti la giurisprudenza Cassazione74 ha infatti affermato che non è risarcibile il danno all’immagine derivante da un reato ad un ente pubblico, in quanto tale danno è riferibile soltanto a sofferenze fisiche o psichiche proprie di una persona fisica (in applicazione a tale principio la Cassazione non ha ritenuto risarcibile il danno all’immagine di un Comune costituitosi parte civile in un processo contro il Sindaco). La questione è senz’altro stimolante anche per la singolare (e meritevole) qualificazione del danno come lesione del diritto dell’ente locale alla sua identità storica, culturale. Ma pure in questo caso la plurioffensività dell’evento danno rende sempre ardua la delimitazione 72 Cfr Cassazione penale, sez.IV, 4 settembre 2001, n. 32957, in www.lexambiente.it 73 In dottrina per la tesi che considera “non patrimoniale” il danno “morale” e ne esclude la configurabilità in capo alle persone giuridiche,cfr. Scognamiglio, Il danno morale, in Riv. Dir. Priv., 1983, p.827. Per la risarcibilità anche in favore delle persone giuridiche si esprimono invece De Cupis, Danno. I Teoria generale (dir. Vigente), voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1983, 499; Salvi, Il danno extracontrattuale. Modelli e funzioni, Napoli, 1985,, pp.258 e ss; In queste ipotesi, con l’espressione “danno morale” si fa riferimento al danno conseguente alla perdita di prestigio dell’immagine pubblica dello Stato o dell’ente pubblico coinvolto. Si veda anche terrone, La configurabilità del danno non patrimoniale dell’ente giuridico, in Riv. Pen. Econ., 1992, pp 92 e ss. 74 Tra i vari precedenti che ammettono tale risarcibilità, si veda Corte Cass. , sez. un., 25 ottobre 1999, n.74, secondo cui rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti l’azione di responsabilità per il danno prodotto da amministratori pubblici all’immagine dell’ente, quale bene suscettibile di valutazione patrimoniale. - 76 - delle “zone” risarcibili quale danno conseguente all’evento. Peraltro, la questione diventa di particolare attualità alla luce dell’art.309 del D.L.gs n.152/06, che riserva allo Stato la legittimazione ad agire per la tutela del danno all’ambiente: se ricondotto in tale alveo, il danno alla “reputazione turistica” del paese non potrebbe più essere fatto valere in giudizio dall’ente territoriale come “danno ambientale” in senso proprio. 6.2 Ulteriori fattispecie di danno ambientale individuate dalla giurisprudenza: a) danno ambientale come “lesione alla reputazione commerciale e diminuzione dell’attività turistica” e “perdite provvisorie”; b) danno ambientale da occupazione usurpativa Oltre alle fattispecie di cui si è detto in precedenza, attraverso le quali si è potuta percepire l’elaborazione compiuta dalla giurisprudenza di fronte a determinati fenomeni di danno ambientale, talvolta ben oltre il dato positivo, ma, sempre, con oculato riferimento alle concrete e fattuali circostanze identificanti il caso processuale, vanno segnalate ulteriori ipotesi giurisprudenziali in cui si è mostrato di avvertire la rilevanza ed il connotato sociale delle manifestazioni di danno ambientale, ritenendosi di - 77 - poterlo identificare ovvero estendere oltre le situazioni più usuali. a) Interessanti profili emergono da un noto orientamento giurisprudenziale i quali offrono lo spunto per connesse e rilevanti 75 problematiche. Tale orientamento aveva ravvisato un’ipotesi di danno ambientale “conseguente al ripascimento male eseguito e alla discarica abusiva, che hanno comportato un serio e concreto pregiudizio alla qualità della vita della comunità colà stanziata”, nonché un pregiudizio “irreparabile arrecato alla flora ed alla fauna marina per la constatata morte di una serie di pesci e della poseidonia, imputabile quest’ultima a carenza di ossigenazione per sovrapposizione del limo generato da polveri fini che si staccano progressivamente dalla spiaggia. In tale circostanza si qualificava il danno derivante medio tempore dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta come “perdite provvisorie” perché qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non avrebbe mai potuto eliminare quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita, atteso che tale danno si verifica dal momento in cui tale condotta viene tenuta e perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo. 75 Corte di Cassazione del 2 maggio 2007, n. 16575, in www.lexambiente.it - 78 - Peraltro, in tale contesto, si riconosceva una distinta fattispecie di danno al singolo (nella specie il proprietario dell’albergo prospiciente la spiaggia) confermandosi la “lesione alla reputazione commerciale e la diminuzione dell’attività di ricezione turistica dell’albergo” e, quindi, il suo coinvolgimento diretto nella vicenda con profili spiccatamente personali76 In proposito si dà ingresso nel nostro ordinamento alle cd “perdite provvisorie” come perdita di fruibilità del bene medio tempore, ovvero nelle more della sua “riparazione”, in quanto effettivamente concretante un danno tangibile per il mancato utilizzo del bene, peraltro, comunque, difficilmente riconducibile allo stato quo ante; si ribadisce il valore immateriale del bene ambiente sottolineando la particolare rilevanza attribuita al valore d’uso del bene da parte della collettività con il conseguente superamento della funzione compensativa del risarcimento77. Ed ancora si riconosce la possibilità di far valere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 313 comma 7 D.L.gs n.152/06, la lesione alla reputazione commerciale e la diminuzione dell’attività di ricezione turistica di un albergo, affermandosi, altresì che, ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituitasi 76 Per un commento critico alla sentenza cit nella nota precedente. si veda nota: F. Giampietro, Il danno ambientale tra l’art.18 della legge n.349/86 ed il regime ordinario del Codice civile, in Giust. Civ., 1996, p.777 e ss. 77 Cfr P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Maggioli , 1990. - 79 - nel processo penale, non è necessario che il danneggiato dia la prova dell’effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e l’azione dell’autore dell’illecito, essendo sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose. Pertanto, si costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione. E ciò in quanto, la condanna generica al risarcimento dei danni, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell’esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito. E proprio sulla base di tale impostazione si ritenuto erronea l’affermazione relativa al fatto che, ai fini del risarcimento del danno ambientale avanzato dalla parte civile, questa non avesse comprovato il danno subito seppur non patrimoniale. Ai fini dell’argomento di che trattasi, al di là della interessante argomentazione fornita sul punto dell’accertamento del danno ambientale in ordine al risarcimento richiesto dalla parte civile, si evidenza, ancora, - 80 - come dalla lesione dell’ambiente possano derivare innumerevoli ipotesi di danno ambientale stante che, come più volte ribadito, la natura stessa del bene leso non consente di classificare, secondo schemi predeterminati, le stesse ipotesi di danno. Si potrebbe al riguardo obiettare che, invero, quanto prospettato accade in generale nell’ipotesi dell’art.2043 del cod.civ. potendosi ricondurre sotto l’egida di tale norma innumerevoli ipotesi di danno. In proposito si parla, appunto, di clausola “aperta” essendo possibile ricondurre alla disciplina dalla stessa dettata tutte quelle ipotesi in cui un soggetto commetta un fatto illecito secondo le più svariate modalità di azione. Tuttavia, ciò che rileva nel caso del danno ambientale, non è la circostanza che la norma di riferimento, l’art.18 legge n.349/86 prima e l’art.311 D.L.gs n. 152/06 oggi, consenta di ricondurre al loro alveo una svariata ipotesi di comportamenti sanzionabili, (anzi, è vero il contrario, laddove si pensi che la iniuria del fatto deve ricondursi alla violazione di una legge o di un provvedimento) quanto che la lesione in sé dell’ambiente produttiva del danno, seppur debba essere ricondotta al paradigma della norma di riferimento, consente per la stessa natura del bene leso un’infinità di ipotesi di danno che generano una precisa responsabilità. Unico è il fatto che determina il danno ma, da tale danno, in quanto contestualmente può ledere una svariata serie di diritti, si originano - 81 - diverse tipologie di responsabilità. Pertanto, in tale materia, si rivela quanto mai fondamentale il ruolo interpretativo della giurisprudenza che, pur entro i limiti del paradigma normativo, di volta in volta, cerchi di valorizzare ed evidenziare taluni aspetti del vasto fenomeno riconducibile al danno all’ambiente. b) Nel quadro degli orientamenti giurisprudenziali sopra delineato, esplicativo dei modi più svariati e dei diversi ed interessanti profili attraverso i quali si procede alla determinazione ed individuazione di ipotesi di danno ambientale, acquista particolare rilievo l’identificazione di un un’ipotesi di danno ambientale quale conseguenza di un’occupazione usurpativa78. Nella specie si pone la questione delle conseguenze sull’ambiente prodotte dall’irreversibile trasformazione di una porzione di terreno e delle azioni a tutela consentite in questione. In tale ipotesi alla luce dell’applicazione dei principi generali che discendono dall’art 2043 c.c., si ritiene che ben possa richiamarsi la responsabilità aquiliana per il riconoscimento ed il risarcimento di tutti quei danni che al fondo residuo derivino dall’illecito e che sono costituiti dalla riduzione del suo valore attuale in conseguenza appunto del fatto 78 Cfr Cassazione Civile, sez. I, sent. 8 maggio 2009, n. 10588, in www.diritti&diritti.it - 82 - dannoso, da ciò individuandosi nell’ambito di tali danni quello ambientale, vale a dire quel danno lamentato derivante dall’impatto edilizio sull’assetto urbanistico tradizionale secolare dell’isola, anche alla luce dell’armoniosa tipologia di edifici presenti nella zona. Nel danno ambientale, oltre al profilo pubblicistico rappresentato dal vulnus all’ambiente e, che, ha carattere unitario ed immateriale, deve ritenersi compreso anche il pregiudizio patrimoniale arrecato ai singoli beni che compongono lo stato dei luoghi, appartenenti a soggetti pubblici o privati, pregiudizio da inquadrare nella categoria dei c.d. danniconseguenza rispetto ai quali quindi incombe alla parte l’onere sia della corretta deduzione che della prova. Si configura, pertanto, un riconoscimento del danno ambientale, quale conseguenza di un fatto dannoso riconducibile all’occupazione usurpativa, in quanto fatto determinante la riduzione del valore del bene del privato. Ad un unico fatto, l’occupazione usurpativa, ovvero l’irreversibile trasformazione del bene, si connettono una pluralità di lesioni allo stesso bene ambiente sotto diversi profili, in quanto nell’ambito del vulnus causato all’ambiente per la trasformazione dei luoghi (danno al bene unitario ambiente) si ricomprendono anche i danni causati ai singoli beni che compongono lo stato dei luoghi. Appare indubbia, la singolarità dell’indirizzo affermatosi, che dà l’avvio ad una nuova e diversa prospettazione del danno ambientale - 83 - conseguente ad un modus operandi dell’amministrazione, la quale, tuttavia, stabilisce correttamente, onde evitare un ingiustificato ampliamento della sfera di risarcibilità, che il privato prospetti in primo luogo la specifica tipologia di danni che assume essersi verificata sul fondo residuo, non ritenendosi certamente sufficiente un generico riferimento al pesante deturpamento dell’ambiente senza prescindere dalla concreta situazione dei luoghi e dall’uso che se ne faccia. - 84 - CAPITOLO II LA RESPONSABILITA’ DA DANNO AMBIENTALE 1. La disciplina dell’art.18 della L. n.349/1986 Sebbene, l’art. 18 comma 1 della L. 349/1986 non sia più in vigore, in quanto la responsabilità da danno ambientale è oggi disciplinata dal Codice dell’ambiente e, in particolare, dall’art. 311 comma 2 del D.Lgs. n. 152/2006, così come modificato dal D.L. 135/2009 conv. in L.166/2009, si reputa opportuno trarre dalle caratteristiche di tale pur superata normativa gli elementi che rendono comprensibile l’evoluzione della disciplina nell’arco di un ventennio, in relazione ad una materia alquanto delicata, oggetto di particolare attenzione sia da parte della legislazione comunitaria che ne ha ispirato la disciplina, sia da parte dell’opinione pubblica ogni giorno più sensibile alle tematiche ambientali a causa delle dirette ed immediate refluenze delle stesse sulla qualità della vita. L’art. 18 avrebbe rappresentato, secondo parte della dottrina una “snaturalizzazione” dell’art. 2043 c.c., in quanto privo di quell’elasticità che contraddistingue quest’ultima norma - 85 - e la rende capace di comprendere al proprio interno i fatti più disparati. 79 L’art. 18 comma 1 prevedeva che “qualunque fatto doloso o colposo in violazioni di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”. La formulazione della norma o, meglio, l’impostazione della stessa consente di ricavarne la sua caratteristica principale, facilmente individuata dalla dottrina, nella “tipicità”, in quanto la responsabilità sorgeva in capo al soggetto agente nel momento che si poneva in essere un comportamento doloso o colposo che violava una precisa norma giuridica. Non era, pertanto, sufficiente che il comportamento fosse lesivo dell’ambiente violando il generico obbligo del neminem laedere, ma era necessario che il comportamento determinasse altresì la violazione di una precisa norma di legge e di provvedimento adottato in base a legge. Secondo tale previsione la responsabilità per illecito ambientale rimaneva inevitabilmente legata al principio di tipicità e tassatività 80. 79 E’ di questa opinione, U. Natoli, Osservazioni sull’art. 18 legge 349/86, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p 703 80 S. Selvaggi, Il danno ambientale, in Dir. e giurispr., 1994, p. 102. - 86 - L’impostazione data dal legislatore suscitava perplessità in parte della dottrina che parlò di “snaturalizzazione” dell’art. 2043 c.c., essendo così venuta meno quella naturale tendenza a ricoprire tutte quelle fattispecie non disciplinate da apposita norma speciale, caratterizzante la norma codicistica.81 Infatti, mentre l’art. 2043 c.c, in virtù del principio del neminem laedere, era capace di ricomprendere nel proprio ambito la casistica più disparata 82, assicurando così la tutela dell’ambiente anche in presenza di fatti che, pur provocando danno ecologico ed alterazione dell’habitat naturale, erano privi di copertura normativa specifica, l’art. 18, al contrario, sottraeva alla tutela risarcitoria la tipologia sopra delineata, in quanto, secondo il tenore della norma de qua, per essi non si poteva parlare né di lesione, né di comportamento non iure83 . Sulla base di tale considerazione non pochi autori hanno evidenziato l’estrema opinabilità dell’art. 18, considerandolo meno incisivo in termini di tutela delle condotte lesive per l’ambiente. 84. 81 Si vedano in tal senso P.Trimarchi, La responsabilità civile per danni all’ambiente con riferimento alla responsabilità civile, P.Perlingeri, ( a cura di) Napoli, 1991, p.194 82 U. Natoli, Osservazioni sull’art. 18 legge n.349/1986, vedi nota 79. 83 S. Selvaggi, cit., pag. 103 84 L. Bigliazzi Geri, Quale futuro dell’art. 18 legge 8 luglio 1986 n. 349 ?, p. 686; M.Comporti, La responsabilità civile per danno ambientale, in Foro it., 1987, p.270 - 87 - Altri autori 85 , invece, hanno ritenuto la scelta operata con la L.349/1986 come una soluzione quasi obbligata, stante, altrimenti, la sterminata ed indefinita serie di eventi alteratori dell’ambiente che il comportamento umano quotidianamente provoca. Parte della dottrina 86 , infine, ha accolto favorevolmente la scelta legislativa, non essendo praticabile una tutela dell’ambiente basata su un divieto totale ed incondizionato, in quanto il problema si sarebbe dovuto affrontare proprio attraverso l’individuazione dei limiti e delle forme in cui ammettere lo scarico nell’ambiente dei residui delle attività umane di produzione e di consumo, tenuto conto che, se la norma sulla responsabilità per danno ambientale si fosse basata sulla clausola generale della “ingiustizia del danno”, la determinazione di tali forme e limiti si sarebbe rimessa alle valutazioni decentrate dei singoli giudici, creando un sistema del tutto inadeguato in un campo nel quale si richiedono regole generali dettate da una visione complessiva e pianificatrice. Anche la giurisprudenza costituzionale, con la sentenza già più volte richiamata n.641/1987 87 , aveva ritenuto che la disciplina introdotta 85 G. Morbidelli, Il danno ambientale nell’art. 18 L. 349/1986. Considerazioni introduttive, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p.60 86 Cfr P. Trimarchi, La responsabilità civile per danni all’ambiente: prime riflessioni, in Amministrare, 1987, p.194; F. Giampietro, Intervento, in Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, Napoli 1991, p.194 87 Cfr. Corte Cost. 30.12.1987, n.641, in Foro It., 1988, p.649 - 88 - dall’art. 18 comma 1, tenesse esattamente conto della realtà, ponendo rimedio a tutta la gamma delle conseguenze dannose che derivavano dalla violazione effettuata, facendo sì che il giudice potesse poggiare la sua decisione su dati certi ed applicare regole di sicura conoscibilità. 88 Questo approccio, come si avrà modo più avanti di chiarire, appare drasticamente modificato dal codice dell’ambiente, il quale ha introdotto una fattispecie assai più vicina all’art. 2043 c.c., ed, in quanto tale, maggiormente svincolata dall’individuazione di una specifica violazione di norme, ai fini dell’affermazione della responsabilità per danno, tanto da far dubitare che la responsabilità per danno ambientale possa ritenersi ancora connotata dalla tipicità. 2. L’elemento specializzante della fattispecie: la “violazione di legge” Si è molto discusso su cosa dovesse intendersi con l’espressione “legge” inserita nel comma 1 dell’art. 18 ai fini dell’individuazione, sul piano pratico, delle disposizioni la cui violazione faceva insorgere la responsabilità per danno ambientale. Si è giunti alla conclusione, condivisa dai più, che l’art. 18 avrebbe fatto certamente riferimento a quel complesso di norme emanate dallo 88 S. Selvaggi, Il danno ambientale, cit. , p.104 - 89 - Stato o dagli enti territoriali minori, aventi per oggetto, la tutela dell’ambiente, ossia quelle regole di condotta che impongono il rispetto di standard di tolleranza o limiti di emissione, o che subordinano a regimi autorizzatori l’esercizio di attività potenzialmente dannose, ovvero vietano determinati comportamenti considerati gravemente lesivi per l’ambiente e come tali integranti ipotesi di reato89 o di illecito amministrativo. In dottrina, per alcuni autori non sarebbe stato necessario che la norma violata dalla condotta del soggetto agente avesse per oggetto “diretto” la tutela dell’ambiente, essendo sufficiente poter ricavare quest’ultimo dallo scopo della norma in questione. Secondo altri 90 , poiché l’art. 18 non specificava il fatto che le disposizioni debbano essere a “tutela dell’ambiente”, non vi sarebbero stati ostacoli nel concludere per la piena rilevanza di ogni fatto o comportamento contrario al precetto di una qualsiasi norma, potendosi così fare rientrare nel sistema della L.349/1987 qualunque prescrizione riferita ad attività dell’uomo da cui potesse derivare anche un’alterazione dell’ambiente. Invero, a ben vedere, si trattava di un ventaglio di ipotesi prescrittive che comprendeva sia l’art. 2043 c.c., sia gli articoli 2050 e 2051 c.c., sia 89 Cfr C. Tenella Sillani, Responsabilità per danno ambientale, cit. , p.374 90 Cfr P.Cendon e P. Ziviz, L’art.18 della L.349/1986 nel sistema di responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p.533 - 90 - l’insieme delle regole di responsabilità presenti nell’ordinamento, per estendersi quindi all’art.844 c.c. ed ad altri precetti del terzo libro del codice civile. 3.1) Il criterio di imputazione della responsabilità nell’art. 18 L. 349/1986 :orientamenti e soluzioni Prima della legge n. 349/86, la giurisprudenza aveva supplito alla mancanza di una disciplina legale sul danno ambientale attraverso la creazione di un diritto dell’ambiente fondato sulla disciplina codicistica del diritto di proprietà o del divieto di immissioni in alienum: emblematica di questo orientamento è la pronuncia delle sezioni Unite della Cassazione n.1463 del 1979, dove si afferma che l’ambiente può qualificarsi come diritto soggettivo soltanto quando lo stesso sia collegato alla disponibilità esclusiva di un bene la cui conservazione, nella sua attuale potenzialità economica di recare utilità ad un soggetto, sia inscindibile dalla conservazione delle condizioni ambientali. Successivamente, nel corso degli anni 70 è stata la Corte dei Conti a perseguire la tutela dei beni ambientali, attraverso la qualificazione dell’ambiente come bene pubblico. Sul piano sistematico la prospettiva è effettivamente mutata solo con l’intervento del legislatore italiano del 1986. - 91 - Ed invero, con l’art 18 comma 1 L.349/1986 si giunse a delineare inequivocabilmente la condotta del soggetto agente chiamato a rispondere del danno arrecato all’ambiente come quella condotta che si estrinseca in atti commessi attraverso la violazione di precise norme giuridiche. 91 Il primo parametro principale cui riferire l’elemento soggettivo dell’illecito risulta essere quello della colpevolezza, sia sotto il profilo doloso che sotto il profilo colposo. Conseguentemente, il danno all’ambiente, casualmente riconducibile ad un’azione o ad un’omissione non connotata dai predetti requisiti sotto il profilo soggettivo, non generava l’obbligo del risarcimento, se esso non fosse stato accompagnato dalla violazione colpevole di una norma posta a protezione dell’ambiente, violazione il cui onere della prova gravava sul soggetto danneggiato medesimo, fino ad escludere, in pratica, la responsabilità del danneggiante92 . Si riteneva inoltre probabile che il danno ambientale venisse accertato o si manifestasse anche a distanza di molto tempo dall’inizio della condotta lesiva, ciò comportando secondo alcuni un’ulteriore difficoltà per il danneggiato di fornire la prova rigorosa del dolo o della 91 Cfr S. Selvaggi, Il danno ambientale, in Dir.e giurisp., 1994, p.112 92 Cfr G.Villa, Il danno ambientale nel sistema della responsabilità civile, in La nuova responsabilità civile per danno all’ambiente, B.Pozzo (a cura di), Milano, 2002, pp.129 ss. - 92 - colpa in capo al danneggiante rilevanti per l’affermazione di responsabilità93 . Ad opera della giurisprudenza, poi, la disciplina dell’art.18 è stata innestata nel regime ordinario della responsabilità facendosi riferimento agli artt. 2043 e 2050 c.c. per le attività pericolose, con la realizzazione così di una sorta di regime misto mutuante dalla disciplina codicistica la responsabilità oggettiva per la attività pericolose e la solidarietà dei responsabili per l’evento lesivo. Quest’ultima impostazione, pur prendendo atto del rilievo dell’ambiente come bene per sua natura soggetto ad essere più o meno alterato da qualsiasi attività antropica, non può giustificare (diventando difficilmente perseguibile) una tutela indiscriminata e generalizzata, basata sul solo nesso di causalità oggettiva tra azione (o omissione) ed evento dannoso. A tal proposito, ossia in merito alla “commistione” tra norme codicistiche e norme sulla responsabilità ambientale, appare utile il richiamo di un orientamento giurisprudenziale 94 , secondo cui si è affermata la sussistenza del danno ambientale ex artt. 2043 e 2050 c.c., 93 Cfr B. Pozzo, Il criterio di imputazione della responsabilità per danno all’ambiente nelle recenti leggi ecologiche, in Per una riforma della responsabilità civile per danno all’ambiente, P.Trimarchi (a cura di), Milano, 1994, p. 20 94 Cfr Corte Cassazione n.9211/1995, in www.diritto.it - 93 - sostenendosi che il produttore di rifiuti tossici è comunque soggetto al regime di cui agli artt. 2043 e 2050 c.c., e non può esonerarsi da siffatta responsabilità attraverso una fittizia distinzione tra soggetto produttore dei rifiuti e soggetto tenuto allo smaltimento e allo stoccaggio degli stessi. In questo modo con tale dictum si è identificata un’ipotesi di responsabilità oggettiva per danno ambientale non prevista della legge del 1986, incentrata sulla responsabilità (specifica) per dolo o colpa, e si è surrettiziamente reintrodotto il principio della solidarietà tra i coautori dell’illecito, espressamente derogata dall’art. 18, laddove si è sostenuto che tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di produzione e smaltimento dei rifiuti tossici, e, in particolare, il soggetto produttore, sono ugualmente responsabili e solidalmente tenuti ad adottare quelle misure di sicurezza, anche nella fase di smaltimento, affinchè lo sversamento definitivo e lo stoccaggio dei rifiuti prodotti avvenga senza danni a terzi. In realtà, in dottrina si spiegava, ed ancor ora si auspica, tale tipo, eccezionale, di responsabilità (responsabilità oggettiva:quando un soggetto è chiamato a rispondere per danni che ha provocato, a prescindere dall’elemento del dolo o della colpa- ovvero del requisito soggettivo dell’istituto, generale, della responsabilità aquiliana ex art 2043c.c.), con riferimento alla necessità, sempre più diffusa nella società moderna, di legare alle attività produttive, tecnologicamente complesse, i rischi che derivano dall’attività di impresa. Ciò al fine di evitare che la traslazione - 94 - (c.d. “esternalizzazione”) dei costi di sicurezza della produzione stessa ricada a carico di terzi o della collettività. Ipotesi tipiche nell’applicazione di tale istituto - la cui disciplina si caratterizza non solo per la irrilevanza degli stati soggettivi dell’agente, ma anche per la inversione dell’onere della prova che comporta l’addossamento al soggetto, al fine di liberarsi della responsabilità dei danni, della prova del caso fortuito o della forza maggiore - sono individuate nella responsabilità dei padroni e dei committenti (art. 2049 c.c.), nella responsabilità per l’esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c., art. 965 cod.nav.in tema di navigazione aerea, art. 15 l. 62/1980 in tema di attività nucleari e simili), nella responsabilità per cose detenute in custodia (art. 2051 c.c.) o per animali (art. 2052 c.c.) e così via. Soprattutto in tema di danno ambientale, non sono mancate, in dottrina, autorevoli tesi volte a dimostrare che la responsabilità oggettiva sarebbe più efficace nel tutelare il valore dell’ambiente, rispetto al modello tradizionale della responsabilità per colpa. Secondo queste impostazioni, il problema della responsabilità è più economico che giuridico. Infatti, considerato l’attuale livello di sviluppo tecnologico e commerciale, è necessario addossare i rischi per danni in capo a coloro che possiedono i mezzi per farvi fronte e, soprattutto, hanno un potere di controllo sulle fonti produttive di rischi, effettivi o anche solo potenziali, per rendere effettiva la prevenzione e, in caso di accadimenti - 95 - lesivi, la ristorazione delle posizioni soggettive, private o pubbliche, eventualmente incise. Lo stesso art. 2050 c.c. costituirebbe, così, una attuazione del suddetto principio, fatta propria dal legislatore del 1942, così come lo sarebbero, negli ordinamenti anglosassoni, istituti di common law quali il tort of nuisance (che si ha quando l’uso della proprietà privata interferisce irragionevolmente con la proprietà altrui), la disciplina della strict liability (che incombe su chi effettua un non natural use della proprietà, a danno del vicino), la negligence (che è la responsabilità di chi usa la propria res con negligenza o comunque in violazione del dovere di diligenza), istituti che hanno permesso di pervenire all’individuazione di fattispecie di responsabilità più volte utilizzate per sanzionare il danno all’ambiente. Secondo questa impostazione, poiché le scelte di impresa sono solitamente compiute a seguito di valutazioni e previsioni economiche, tra le quali anche il costo della sicurezza, addossare alla impresa il rischio dei danni all’ambiente, sarebbe quindi lo strumento per imporle ogni possibile cautela, potendo essa (e solo essa) prevenire tale rischio, in virtù del controllo sulla produzione. Da ciò deriverebbe anche una natura ambulatoria della responsabilità, in quanto, appunto, connessa con il possesso dei mezzi di produzione e quindi suscettibile di trasferirsi con essi. Il rischio per i danni all’ambiente gravante sull’impresa (salvo il solo - 96 - fatto del caso fortuito o del fatto di terzo, valutati secondo parametri rigorosi) diventerebbe, quindi, un elemento del sistema produttivo, immanente ad esso. Tuttavia, più specificatamente, non può non osservarsi, anche alla luce delle concrete applicazioni giurisprudenziali in materia, come il sistema della responsabilità oggettiva, in tema di danno all’ambiente, abbia trovato, nell’ordinamento, un significato normativo ed un ambito di applicazione completamente diversi da quelli della “mera” responsabilità oggettiva delineata da parte della dottrina. Più radicalmente, il modello di responsabilità che il legislatore ha accolto nella disciplina della tutela ambientale dai rischi di inquinamento non è riconducibile alla responsabilità oggettiva, ma, al contrario, specie in virtù della nuova normativa di cui al dlgs 152/06, è qualificabile come vera e propria responsabilità soggettiva (pienamente di tipo aquiliano). Difatti, anche laddove si riconnetta una responsabilità per danno ambientale ad un soggetto che rivesta una determinata posizione (produttore di rifiuti, titolare di impresa di stoccaggio) non può prescindersi dall’accertamento,almeno,dell’imputabilità consapevole del fatto all’autore dello stesso. - 97 - 3.2) Il criterio di imputazione della responsabilità nell’art. 18 L. 349/1986: ipotesi (presunte) di responsabilità oggettiva. Un compiuto esame della disciplina codicistica- oggi vigente- in materia di responsabilità per danno ambientale non può prescindere dalla valutazione di talune ipotesi di responsabilità previste dalla disciplina antecedente, sulle quali si è creata una giurisprudenza interpretativa, per taluni aspetti, e, secondo gli adattamenti del caso, ancora attuale. L’esame di tali ipotesi rileva, appunto, stante la persistenza di talune decisioni giurisprudenziali rese in materia. In particolare, si riteneva, che caratteristiche proprie della responsabilità oggettiva potessero peraltro ravvisarsi nella disciplina di cui all’art. 17 del dlgs 22/97, in tema di obbligo di ripristino dell’ambiente inquinato. 95 La disposizione in esame, infatti, poneva l’obbligo del ripristino a carico di colui il quale aveva prodotto l’inquinamento, senza riconoscere alcuna rilevanza allo stato soggettivo, di colpa o di dolo, dell’agente, perché prevedeva espressamente che l’obbligo di ripristino incombesse anche a carico dell’autore dell’inquinamento 95 prodotto La giurisprudenza ha spesso affermato che nell’esercizio di attività pericolose la presunzione di cui all’art. 2050 c.c., non può essere vinta con la prova positiva di aver adottato tutte le cautele imposte da norme di settore , siano esse norme di legge o di regolamento, ma occorre altresì provare il rispetto di quelle ulteriori norme dettate dalla comune prudenza e diligenza. - 98 - accidentalmente ossia per caso fortuito. Solo che, contrariamente a quanto ritenuto da taluni, la natura “oggettiva” della responsabilità non esclude certamente che si debba verificare ed accertare il presupposto causale della stessa, ossia l’avvenuto inquinamento “imputabile” come nesso eziologico all’impresa ed alla sua attività. Era innegabile, infatti, anche sotto la vigenza della normativa richiamata ed ormai, abrogata, che il principale presupposto dell’accertamento della responsabilità dell’inquinamento, fosse, comunque, l’esistenza della concatenazione causale tra produzione ed inquinamento, dunque, l’imputabilità. Sul punto è eloquente la normativa di cui agli artt. 14 e 17 del dlgs 22/97: ai sensi dell’art.14, dlgs 22/97:”1. L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati. 2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee. 3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 51 e 52, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o - 99 - colpa ……omississ”; l’art. 17, dlgs 22/97, comma 2, a sua volta prescriveva che “chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a) (ovvero i limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento”. Nello schema dell’art. 14 e dell’art. 17 del d.lgs. 22/97 (disciplina oggi trasfusa negli artt. 192 e 243 e ss. del dlgs 152/06), pur potendo dubitarsi sul tipo di responsabilità (ossia avente o meno natura di responsabilità oggettiva), sicuramente l’accertamento della responsabilità dell’abbandono dei rifiuti era essenziale perché scriminante il titolo degli obblighi di ripristino dell’autore e dei titolari di diritti reali sull’immobile (questi ultimi corresponsabili in solido con l’inquinatore solo a titolo di colpa o dolo), nonché in quanto imponeva l’adozione delle misure di tutela e salvaguardia ambientale a “chiunque cagiona” il danno medesimo (rappresentato dal superamento o dal rischio di superamento degli standards ambientali). E quindi nessun indice normativo consentiva di addossare ai semplici - 100 - titolari dei diritti reali sull’immobile inquinato gli obblighi di bonifica “a prescindere” dall’accertamento della loro responsabilità. Alla luce della previgente normativa del d.lgs. 22/97 (c.d. “decreto Ronchi”), si reputa pertanto possibile rilevare la prima e principale contraddizione dei fautori della responsabilità oggettiva basato sul solo nesso di causalità. Non bisogna, infatti, confondere il principio della responsabilità oggettiva con l’istituto della sottoposizione del proprietario incolpevole all’obbligo di sopportare i costi della bonifica per effetto dell’onere reale incombente sul suolo inquinato e della garanzia del privilegio speciale: posizioni di soggezione, queste, dipendenti da titoli (e quindi soggetti a discipline, limiti e presupposti) completamente diversi. Più precisamente, mentre il responsabile dell’inquinamento è tenuto a sopportare l’intero costo della bonifica (nel limite in cui essa è imputabile al fatto proprio dell’inquinamento e, viceversa, senza il limite della prevedibilità delle conseguenze dannose rispetto alla propria azione o omissione, trattandosi di responsabilità aquiliana), e ciò anche se non abbia più il possesso, o la proprietà o comunque la disponibilità dei suoli inquinati, l’impresa titolare di un diritto reale sull’immobile e/o detentrice dello stesso, invece,ove non abbia causato essa direttamente l’inquinamento subirà sì il rischio di dover sopportare i costi della bonifica, ma ciò solamente laddove la stessa sia corresponsabile dell’inquinamento - 101 - (ma sicuramente non a titolo di responsabilità oggettiva, chiedendo, infatti, il legislatore l’accertamento del presupposto del requisito soggettivo del dolo o della colpa) oppure per effetto (e nei limiti) dell’onere reale che è costituito ex art. 17 dlgs 22/97 e che garantisce l’amministrazione pubblica del recupero delle somme equivalenti all’aumento di valore che il fondo subisce per effetto delle attività di bonifica. In tali ultime ipotesi, la causa del recupero, pertanto, è quella dell’ingiustificato arricchimento della impresa proprietaria del bene, la quale, avendolo acquistato “inquinato”, si avvantaggerebbe dell’opera di bonifica posta in essere dall’Autorità ricevendone un diretto vantaggio “immeritato”. Una volta corrisposte le somme necessarie a riequilibrare le posizioni giuridiche del bonificante e del proprietario avvantaggiato, quest’ultimo, ove ne ricorrano i presupposti (ad es. prezzo pagato per l’acquisto del suolo pari al valore di questo come se non fosse inquinato; sussistenza ed attivabilità delle garanzie di legge a tutela dell’acquisto e simili), potrà poi rivalersi sul proprio dante causa (con azione civile di natura contrattuale, oppure, a seconda dei casi, aquiliana). Tutto ciò comporta che all’impresa incolpevole saranno accollati i costi del disinquinamento solo dopo che la bonifica sia stata effettuata da parte dello Stato e nei limiti in cui i relativi oneri non siano recuperati o recuperabili a carico del responsabile dell’inquinamento, oltre che nei - 102 - limiti di valore del fondo o in quelli dell’aumento di valore del medesimo, conseguente alla avvenuta bonifica. A tale proposito, è stato recentemente ritenuto dalla giurisprudenza che l’art. 17, d.lg. n. 22 del 1997, impone l’obbligo di adottare le misure, sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento solamente a carico di colui che di tale situazione sia responsabile, per avervi dato causa, con conseguente inconfigurabilità di un obbligo di bonifica o di messa in sicurezza a carico del proprietario incolpevole. 96 Quanto al proprietario incolpevole, inoltre, costui finisce per essere il soggetto gravato dal punto di vista economico, poiché l’Ente pubblico che ha provveduto all’esecuzione dell’intervento può recuperare le spese sostenute nei limiti del valore dell’area bonificata, anche in suo pregiudizio: ne deriva che il proprietario incolpevole ha l’onere di provvedere alla bonifica e alla messa in sicurezza, se intende evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull’area di onere reale e di privilegio 96 Cfr si veda, tra le tante, Tar Veneto, sez. III, 25 maggio 2005 n. 2174, in www.giustizia- amministrativa.com 52 cfr TAR Lombardia, Brescia, 16 marzo 2006, n. 291; cfr. la sentenza del TAR Veneto, ivi richiamata, nr. 2174/2005; cfr. anche T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 12 dicembre 2005, n. 20141; Tar Liguria, I, 12 ottobre 2005, n. 1348; Consiglio di Stato, VI, 05 settembre 2005, n. 4525,in www.giustizia-amministrativa.com - 103 - speciale immobiliare, salva l’azione di regresso nei confronti del responsabile dell’inquinamento.97 Pertanto, va ribadito che, nell’ordinamento statuale interno, in tema di tutela ambientale e nel vigore della disciplina di cui al dlgs 22/97, è il responsabile dell’inquinamento che deve sopportarne i costi di bonifica, mentre il proprietario incolpevole del suolo sarà chiamato solo in via sussidiaria e comunque nei limiti dell’arricchimento per tenere indenne l’Amministrazione dalle operazioni di bonifica. Di tutta evidenza appare la profonda differenza che sussiste tra le due figure soggettive di responsabilità. In tema di onere reale costituito ex art. 17 del dlgs 22/97, è stato infatti affermato che quest’ultimo costituisce la prestazione di dare o di fare a carattere periodico, cui è obbligato il debitore in quanto gode di un determinato bene, e per principio generale ricavato anche ex art. 967 c.c. l’obbligo del debitore è relativo inoltre alle prestazioni sorte anteriormente all’acquisto del diritto sul bene. Quindi l’onere reale, per la sua invasività e specificità, è ammesso solo nei casi previsti dalla legge, come nel caso di cui all’art. 17 d.lg. n. 22 del 1997.98 98 Cfr TAR Liguria, I, 12 ottobre 2005, n. 1348, in www.giustizia-amministrativa.com - 104 - Ricostruendo la disciplina già in vigore nell’applicazione del dlgs 22/97, si deve, pertanto, affermare che, quanto alla responsabilità per l’inquinamento, il proprietario incolpevole (che non ha nessuna prova da offrire posto che spetta all’Amministrazione accertare e dunque provare la responsabilità dell’inquinamento) sarà chiamato a rifondere i costi della bonifica solo in relazione al suo rapporto con il bene, che si traduce in termini di incremento di utilità da comprovarsi (onere della prova a carico dell’Amministrazione: si tratta di una azione che 99 rientra nell’alveo dell’art. 2041 del codice civile e, in conseguenza, la prova dell’arricchimento - sia nell’an che nel quantum - incombe sull’attore) Più precisamente, il recupero dei costi da parte dell’Amministrazione potrà avvenire, come detto prima, solo nei limiti del valore dell’immobile o comunque nei limiti della concreta utilità che il proprietario incolpevole ha percepito (come aumento di valore del fondo bonificato): a tale fine, però, l’onere reale deve risultare dai registri immobiliari (art. 253 dlgs 152/06), se riferito ad interventi già effettuati e precedenti il titolo dell’acquisito immobiliare o della costituzione del 99 cfr. Cass. Civile, I, 28 ottobre 2005, nr. 21096; Corte di Appello Reggio Calabria, 17 luglio 2004; TAR Puglia, Bari, I, 05 novembre 2002, nr. 4833, in www.lexitalia.com - 105 - diritto reale sul bene, e deve essere altresì iscritto in relazione al valore dell’intervento di bonifica i cui costi sono andati a vantaggio del fondo. L’autore dell’inquinamento, invece, non incontra limiti di valore nella sua obbligazione, la quale dovrà necessariamente corrispondere all’intero importo delle operazioni di bonifica per inquinamenti a lui imputabili, in relazione al nesso causale ed anche oltre i limiti della ordinaria prevedibilità dei danni (trattandosi di illecito extracontrattuale). Dunque, a ben vedere, anche sotto la vigenza della precedente normazione in materia, giammai, sarebbe stato possibile, comunque, identificare ipotesi di responsabilità oggettiva pura potendosi qualificare un soggetto “responsabile” solo ove allo stesso fosse almeno imputabile ( sia pure per la semplice concatenazione dei fatti) la realizzazione del fatto dannoso. 4. Il principio “chi inquina paga” : definizione e rinvio. Il principio “chi inquina paga” - enunciato per la prima volta nella OECD Recommendation of the council n.C (72) 128, 26 febbraio 1972 e ripreso al punto 16 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del 5.6.1972 impone che coloro che causano danni all’ambiente devono sostenere i costi per ripararli, ossia rimborsare tali danni. Quindi, nella maggior parte dei - 106 - casi, la politica ambientale non deve essere finanziata da interventi pubblici, ma dagli stessi responsabili dell’inquinamento quando essi siano identificabili. Con la riforma degli atti istitutivi, avvenuta con l’Atto Unico europeo del 1986, e con la creazione del Titolo VII dedicato all’ambiente, il principio “chi inquina paga” compare unitamente a quelli di “precauzione e prevenzione” e di “correzione”. Nella prima formulazione politica del principio (raccomandazione del Consiglio 75/436/Euratom, CECAA, CEE), la Commissione ha stabilito una serie di deroghe. Con il quarto programma d’azione (Risoluzione del Consiglio dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri del 19.10.1987) il principio è divenuto il principale punto riferimento per la costruzione di una responsabilità civile in relazione ai danni causati all’ambiente. Oggi l’art. 3 ter del D.lg. n. 152/06 consacra il suddetto principio sancendo che : 1. La tutela dell'ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonche' al principio «chi inquina paga» che, ai sensi - 107 - dell'articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunita' in materia ambientale. 5. I criteri di imputazione della responsabilità per danno ambientale nella direttiva 2004/35/CE La Direttiva 2004/35/CE ha istituito un normativa quadro per la responsabilità ambientale, per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale basato sul principio chi inquina paga. 100 Si è evidenziato in dottrina che i criteri di imputazione, solo in parte predeterminati, sono stati secondo alcuni autori, maldestramente trasposti nel D.Lgs. n152/2006, denominato anche Codice dell’Ambiente. Detti criteri prevedono un cd. regime di responsabilità “duale” nei presupposti, a seconda del tipo di attività economica esercitata ed 100 Nei “considerando” della direttiva viene precisato, come criterio fondamentale dell’imputazione del danno, che “la prevenzione e la riparazione del danno ambientale dovrebbero essere attuate applicando il principio “chi inquina paga”, quale stabilito nel Tratta e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile. Il principio fondamentale della presente direttiva dovrebbe essere quindi che l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno, sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale” - 108 - interessata dal danno101 . Infatti, viene configurato un sistema di responsabilità oggettiva relativa alle attività pericolose che importano un rischio ambientale, alla cui stregua l’obbligo di risarcire è subordinato alla mera sussistenza di un danno e di un nesso di causalità tra quest’ultimo e l’attività in esame. La responsabilità prescinde, dunque, dalla dimostrazione della colpa come elemento costitutivo autonomo, ma sono, tuttavia, previste delle esimenti o delle ipotesi di esclusione della responsabilità (ecco perché si parla di “responsabilità oggettiva relativa”), come il caso fortuito, la forza maggiore, il consenso del danneggiato, l’ordine dell’autorità pubblica o l’autorizzazione rilasciata conformemente alla normativa comunitaria. Un regime di responsabilità per colpa è previsto per le attività non pericolose, subordinata dunque alla dimostrazione, da parte del danneggiato, che il convenuto abbia agito contra ius “intenzionalmente, per negligenza o insufficiente diligenza”. La distinzione ancora più esplicita tra le diverse tipologie di attività, ai fini dell’imputazione della responsabilità per danno ambientale, viene 101 S. Amedeo, La responsabilità ambientale nel Trattato della Comunità europea, in La nuova responsabilità civile per danno all’ambiente, B. Pozzo (a cura di), Milano, 2002, p.70 - 109 - resa dall’art. 3 della Direttiva 2004/35/CE, 102in cui si precisa che la stessa si applica: a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato III ed a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività; b) al danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle attività professionali non elencate nell’allegato III ed a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività in caso di comportamento doloso o colposo dell’operatore . Alla luce di quanto sopra, per le attività elencate nell’allegato III (a), la direttiva viene in rilievo ogniqualvolta vi sia stato un danno ambientale legato da un nesso di causalità con il comportamento dell’operatore; per le attività non elencate nell’allegato III (b), invece, la direttiva trova applicazione soltanto quando il comportamento dell’operatore sia connotato da dolo o colpa. Ai fini della imputazione del danno, viene sostanzialmente operata una distinzione tra tipologie di operatori, gravando di una responsabilità, certamente più prossima a quella oggettiva (basata sulla sussistenza del nesso di causalità tra azione ed evento), i soggetti esercenti attività che 102 Vedi anche A.Venchiarutti, all’ambiente, Milano, 1987; Il libro bianco sulla responsabilità civile per danni - 110 - comportano un rischio per la salute umana o l’ambiente (incluse nel più volte citato allegato III) e riservando agli altri – ossia quelli che esercitano attività non ritenute intrinsecamente pericolose e non incluse nel suddetto elenco – una responsabilità per dolo o colpa. Non si può non dire che, anche nei casi in cui l’imputazione del danno viene affermata in base alla sola verifica del nesso di causalità tra azione (o omissione) e danno all’ambiente, la direttiva lasci spazio ad ulteriori forme di esonero da responsabilità per gli operatori interessati. Infatti, l’art. 8 comma 3 prevede che non siano a carico dell’operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione adottate conformemente alla Direttiva, se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno: a) è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza (interruzione del nesso) o b) è conseguenza dell’osservanza di un ordine o di un’istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica (esclusione della colpevolezza) . In tali casi gli Stati membri devono adottare le misure appropriate per consentire all’operatore di recuperare i costi eventualmente sostenuti. 6. La responsabilità per danno ambientale nel D.Lgs. 152/2006. - 111 - Nell’esame del D.Lgs.152/2006 (Codice dell’Ambiente) si rileva innanzitutto che in esso sussiste una disciplina analoga a quella prevista dall’art.18 dell’ abrogata L.349/1986, che contempla una diversa e più ampia nozione di danno e, quindi, di ambiente come oggetto di tutela: l’ambiente è ancora una volta inteso come bene unitario e distinto dalle sue singole componenti. Quanto sopra si evince dal testo dell’art.311, che così recita: chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività e comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato. Anche la giurisprudenza103 (sulla scia di due pronunce della Corte Costituzionale, ossia la sentenza 28 gennaio 1987 e la 30 settembre 1987) aveva riconosciuto l’unitarietà e l’autonomia del bene ambiente, in quanto “bene immateriale ma giuridicamente riconosciuto e tutelato nella sua unitarietà”. 103 Cfr. Corte Cass. 25 gennaio 1989, n.440, in Giust.civ., 1989, p. 552, in www.lexitalia.com - 112 - Peraltro l’affermazione dell’unitarietà del bene ambiente collima perfettamente con la sua natura costituzionale, più volte affermata, e sulla quale si è già detto in precedenza. Logica conseguenza della valenza costituzionale del bene ambiente è stata la necessità di apprestare una tutela adeguata ad un bene di tale rango. Nell’ambito di quanto previsto dall’art. 311, per quanto riguarda i presupposti che integrano la fattispecie, vengono in rilievo tutte le regole di condotta che impongono il rispetto di standard di tolleranza o limiti di emissione, o che subordinano a regimi autorizzatori l’esercizio di attività potenzialmente dannose, ovvero vietano determinati comportamenti considerati gravemente lesivi per l’ambiante e come tali integranti ipotesi di reato o di illecito amministrativo. Infatti l’art.311 prevede che la responsabilità insorga a fronte della commissione di un fatto illecito o omettendo attività o comportamenti doverosi con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche. Il danno deve, quindi, porsi in rapporto di causalità con un comportamento contra ius, nel senso che per l’antigiuridicità della condotta non è sufficiente la mera compromissione ambientale, ma è necessaria anche la violazione di una norma che vieti una determinata azione o ne imponga una. - 113 - Per quanto riguarda l’imputazione della responsabilità da danno ambientale, il Codice dell’ambiente ha solo in parte ripreso i criteri contenuti nella direttiva del 2004, mischiandoli con quelli propri già previsti dalla normativa abrogata. La direttiva, infatti, ha distinto tra attività o pratiche che presentano un rischio potenziale o reale per la salute umana o l’ambiente ed attività professionali comportanti un tale rischio, prevedendo quindi un diverso regime di imputazione delle responsabilità per le due tipologie di attività suddette. Il legislatore italiano non ha operato tale distinzione, ma ha ugualmente richiamato nel testo nazionale principi di imputazione delle responsabilità tra loro antitetici. L’art. 305 introduce gli obblighi ripristinatori, disponendo che “quando si è verificato un danno ambientale” l’operatore ha l’obbligo di adottare immediatamente “le necessarie misure di ripristino di cui all’art. 306” e che “se l’operatore non adempie a tali obblighi” o “se non è tenuto a sostenere i costi a norma della parte sesta del presente decreto” il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio ha facoltà di adottare egli stesso tali misure, con diritto di rivalsa – per quanto riguarda le spese sostenute – verso colui che abbia causato o concorso a causare le spese stesse. Per quanto riguarda l’elemento della colpevolezza, non si può non - 114 - rilevare che, mentre con l’art.18 della L.349/1986 il legislatore aveva ancorato la colpa rilevante per la produzione del danno ambientale alla colpa specifica per violazione di legge, giacchè la condotta del soggetto agente doveva estrinsecarsi in atti dolosi o colposi commessi “in violazione di legge o di provvedimento adottati in base a legge che compromettano l’ambiente”, invece nella formulazione dell’art. 311 comma 2 il profilo della responsabilità viene allargato anche alla colpa generica, non ancorata alla sola violazione di una norma o di un provvedimento espressamente posti a protezione dell’ambiente. Il risultato è che l’illecito viene ora modellato chiaramente sull’art. 2043 c.c., determinando la scomparsa della più volte menzionata “tipicità” del danno ambientale così come disciplinato dalla L.349/1986, in contrapposizione alla riconosciuta “atipicità” dell’illecito aquiliano: di tal guisa, anche il danno ambientale diventa illecito “atipico”, realizzabile quindi con qualsiasi condotta dolosa o colposa. Tuttavia, se la responsabilità per colpa è la regola generale, il Codice dell’ambiente ha previsto – recependo pedissequamente la direttiva – anche delle ipotesi di responsabilità che comportano una inversione dell’onere della prova circa l’assenza di una condotta dolosa o colposa. Si tratta, ovviamente, di previsioni che si collocano al di fuori del modello di responsabilità oggettiva, in quanto richiedono sì la presenza di una condotta colposa, ma presunta iuris tantum. - 115 - Sembra proprio di essere in presenza di un’altra commistione tra criteri diversi di imputazione della responsabilità. 7. Le esclusioni espresse di responsabilità nel regime del D.Lgs. 152/2006 e la responsabilità per colpa presunta La cause di esclusione della responsabilità previste dalla direttiva comunitaria del 2004 sono state recepite nel Codice dell’ambiente. In particolare, l’art. 303, in tema di esclusione della responsabilità, prevede che la parte VI del D.Lgs n.152/2006 non riguardi il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno cagionati da atti di conflitto armato, sabotaggi, atti di ostilità, guerra civile, insurrezione, e da fenomeni naturali di carattere eccezionale, inevitabili e incontrollabili. E’ di tutta evidenza che ci si trovi davanti a casi di forza maggiore nei quali viene meno la stessa riferibilità dell’azione all’operatore. Sono presenti, inoltre, altri casi in cui la stessa normativa prevista dalla parte VI del decreto non si applica, come, per esempio, quando il danno o la minaccia imminente dello stesso sono provocati da un incidente per il quale la responsabilità o l’indennizzo rientrino nell’ambito di applicazione di una delle convenzioni internazioni elencate nell’allegato 1 alla parte VI del decreto. L’ipotesi di cui sopra e le altre due di esclusione che ad essa - 116 - seguono fanno riferimento ai casi rientranti nelle previsioni delle normative internazionali espressamente richiamate negli allegati del D.Lgs. 152/2006. Le altre ipotesi riguardano, invece, la irretroattività della disciplina prevista dal decreto: l’ipotesi di decadenza una volta trascorsi 30 anni dal fatto generativo della responsabilità o dall’evento dannoso conseguente; l’impossibilità della pretesa risarcitoria in caso di mancato accertamento del nesso di causalità ed, infine, l’inapplicabilità della normativa alle situazioni di inquinamento per le quali sia possibile riparare interamente il danno attivando le procedure di bonifica previste dalle disposizioni in tema di bonifica. Sempre in tema di esclusione della responsabilità l’art. 308 prevede che l’operatore sostenga i costi delle iniziative statali di prevenzione e di ripristino ambientale adottate secondo le disposizioni di cui alla parte VI Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio può poi richiedere garanzie reali o fidejussioni bancarie a prima richiesta, e con esclusione del beneficio della preventiva escussione, all’operatore che ha causato il danno o l’imminente minaccia, a copertura delle spese sostenute dallo Stato in relazione alle azioni di precauzione, prevenzione, e ripristino adottate. Il comma 3 dello stesso articolo prevede che il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio determina di non recuperare la - 117 - totalità dei costi qualora la spesa necessaria sia maggiore dell’importo recuperabile o qualora l’operatore non possa essere individuato. 8. Le novità normative sulla responsabilità per danno ambientale nel D.L. 135/2009 Il decreto legge n.135 del 25 settembre 2009, convertito in L. 20 novembre 2009 n. 166, dal titolo Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, contiene diverse novità in materia ambientale, tra le quali la modifica della disciplina del danno ambientale già contenuta nel D.Lgs 152/2006. In particolare, la modifica apportata al comma 2 dell’art. 311 – riguardante l’azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale – mira ad adeguare la disciplina italiana alle norme europee contenute nella direttiva 2004/35/CE, rendendo più stringente l’applicazione del principio in base al quale, ogni volta in cui è possibile, il responsabile del danno all’ ambiente è tenuto all’effettivo ripristino della situazione preesistente. La modifica apportata al comma 3 dell’art. 311 demanda ad un decreto ministeriale, sempre nel rispetto delle indicazioni comunitarie, la definizione dei “criteri di determinazione del risarcimento per equivalente - 118 - e dell’eccessiva onerosità”. Più significative appaiono le novità introdotte ancora nel comma 3 del citato art. 311 e nel comma 1 lett.f) dell’art.303, delle quali la prima prevede che nel caso di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponda nei limiti della propria responsabilità personale. Una previsione analoga era contenuta nella L.349/1986, ma, obiettivamente, comportava seri problemi di determinazione delle responsabilità nel caso di azioni dannose cumulatesi nel tempo. Il Codice dell’ambiente aveva superato tale impostazione, tanto che nell’art.311 del D.Lgs 152/2006 non era più presente alcuna limitazione delle responsabilità su base individuale e tornava quindi applicabile il principio generale della responsabilità solidale. Come si è fatto cenno sopra, il D.L. 135 del 25 settembre 2009 ha inoltre reintrodotto una regola già prevista nell’art.18 della legge 349/86, vale a dire il principio per cui in materia ambientale la responsabilità non è solidale ma si divide per quote nei limiti della propria responsabilità personale. Si colma, quindi, una lacuna interpretativa di non poco conto, giacchè era francamente difficile comprendere il motivo per cui la responsabilità per risarcimento ambientale, ai sensi della parte sesta, del DLgs n.152/06 avesse carattere solidale ( a differenza della responsabilità - 119 - ambientale ai sensi dell’art.18). Il principio della responsabilità parziaria in materia ambientale risponde d’altro canto alle caratteristiche peculiari del torto ambientale ed al carattere latamente sanzionatorio del danno all’ambiente. Viene anche introdotto il principio della intrasmissibilità agli eredi del torto risarcitorio, salvo che per gli eredi non risulti un effettivo arricchimento. La regola della intrasmissibilità agli eredi è mutuata dalle disposizioni in tema di responsabilità amministrativa (in particolare dall’art.1 della legge n. 20 del 1994): anche su questo caso, la ratio della limitazione è evidentemente da rinvenire nel carattere in qualche modo sanzionatorio che caratterizza l’illecito ambientale, che giustifica la concentrazione dell’obbligazione risarcitoria in capo al diretto responsabile. La seconda novità introdotta dalla citata normativa mira a chiarire che i nuovi criteri di determinazione dell’obbligazione risarcitoria conseguente al danno ambientale si applicano anche per le domande di risarcimento da presentare o da proporre ai sensi dell’abrogato art. 18 della legge 18. luglio 1986 n. 349 o del titolo IX del libro IV del codice civile o ai sensi di altre disposizioni non aventi natura speciale con la sola esclusione delle pronunce passate in giudicato. - 120 - In sostanza si ha una applicazione retroattiva di tutte le nuove regole del giudizio di risarcimento ambientale con l’unico sbarramento del giudicato. In questo modo si conferma, in primo luogo, il cd. “doppio binario”, in base al quale i danni ambientali “storici” restano disciplinati dalla L.349/1986, e, retroattiva – criteri dall’altro però si introducono – con efficacia nuovi e comuni per la determinazione dell’obbligazione risarcitoria. 9. Il principio chi inquina paga: a) gli orientamenti della giurisprudenza; b) ipotesi di responsabilità oggettiva nella giurisprudenza del giudice ordinario e del giudice amministrativo c) principio di precauzione e principio chi inquina paga; d) analisi della legislazione e prassi giurisprudenziale Sulla responsabilità per il danno ambientale, alla luce della disciplina connessa al compimento di un atto che integri il fatto dannoso lesivo del bene ambiente, offre interessanti spunti il modo in cui la giurisprudenza ha concretamente dato applicazione a tale disciplina soprattutto laddove ha cercato di individuare gli elementi e/o presupposti necessari per l’identificazione della fattispecie di responsabilità per danno ambientale ovvero laddove ha proceduto alla identificazione del soggetto responsabile, cioè passibile della disciplina sanzionatoria connessa alla - 121 - violazione delle norme poste a tutela dell’ambiente. Invero, se, in linea di principio e puramente teorica, in una fattispecie normativa il soggetto passibile di sanzione (dunque il soggetto agente) risulta facilmente individuabile dalla descrizione della fattispecie ( chiunque….), nella materia che trattasi non sempre tale soggetto agente è così facilmente individuabile, dato che, spesso, la condotta causativa dell’evento posta in essere dall’ipotetico responsabile del fatto dannoso deve fare i conti con una molteplicità di elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano il bene ambiente quale bene tutelabile nelle sue molteplici componenti e nella sua causazione nel tempo (basti pensare alle c.d ipotesi di contaminazioni storiche laddove il “primo” dei soggetti responsabili possibilmente ha posto in essere la propria condotta causativa del danno molti anni addietro rispetto al verificarsi del fatto evento-dannoso) . In altri termini, se il principio chi inquina paga, da un lato consacra in termini positivi la natura soggettiva della responsabilità ambientale (del resto – tranne sporadiche voci- sempre asseverata), essa pone non pochi problemi nella individuazione concreta del soggetto effettivamente responsabile, tante volte erroneamente individuato in un attore ma non protagonista della fattispecie. - 122 - a) gli orientamenti della giurisprudenza La giurisprudenza pur nelle diverse e non sempre condivisibili interpretazioni del principio chi inquina paga, tuttavia mostra una certa sensibilità nei confronti della piena precettività della regola, precettività invero riconosciuta anche ben prima dell’introduzione dell’art. 3 ter citato. Se è vero, infatti, che taluna giurisprudenza amministrativa 104 segnalava i problemi derivanti dall’assenza, nel principio de quo, di una specificità sufficiente a consentire la immediata applicazione, e altra giurisprudenza 105 affermava che il principio chi inquina paga, stabilito dall’art.130 del Trattato di Maastricht, ha carattere meramente programmatico, necessitando per divenire operativo, del successivo intervento del legislatore (esso non è pertanto direttamente applicabile potendo essere utilizzato in funzione interpretativa ma non già della creazione di una regola specifica per la soluzione del caso non regolato), è altresì innegabile che la gran parte della giurisprudenza era ed è ben consapevole del significato concretamente precettivo del principio. Pertanto, per limitarsi alle prese di posizioni più recenti e più 104 Cfr Consiglio di Stato, sez. IV, n.709, amministrativa.com 105 Cfr TAR, Campania, n.6526, 5 luglio 2007. www.giustizia-amministrativa.com - 123 - 23 febbraio 2004, in www.giustizia- significative, è interessante rilevare come la giurisprudenza recente 106 , sulla base di una lettura orientata al principio chi inquina paga nella disciplina delle bonifiche, abbia negato la soggezione del curatore fallimentare all’ordinanza di bonifica perchè ciò determinerebbe un sovvertimento del principio chi inquina paga scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l’inquinamento, e ciò in quanto è stato precisato che l’ordinanza di cui all’art. 8 del D.M. n. 471/1999 ha quale destinatario il “responsabile” della contaminazione e non il curatore fallimentare. Tale impostazione è stata confermata dal vigente D.Lgs. 152/2006 (che ha abrogato il D.Lgs. 22/1997), ove agli artt. 242, 244 e 245 statuisce che si l'obbligo di bonifica è posto in capo al responsabile dell'inquinamento che le Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare (artt. 242 e 244 D.Lgs. 152/2006), mentre il proprietario non responsabile dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno una mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica (art. 245). Nel caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi volontari, le opere di bonifica saranno realizzate dalle Amministrazioni 106 Cfr Consiglio di Stato, sez. V, n. 3885, 16 giugno 2009, in www.giustiziaamministrativa.com - 124 - competenti (art. 250), salvo, a fronte delle spese da esse sostenute, l'esistenza di un privilegio speciale immobiliare sul fondo, a tutela del credito per la bonifica e la qualificazione degli interventi relativi come onere reale sul fondo stesso, onere destinato peraltro a trasmettersi unitamente alla proprietà del terreno (art. 253). Si è ritenuto così in giurisprudenza107 che il potere del curatore di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti, e che la curatela fallimentare non subentri negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione nell’attività (come nel caso in cui un'impresa dichiarata fallita risulti destinataria di un decreto provinciale di sospensione dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività di smaltimento dei pneumatici e, allo stesso tempo, di un'ordinanza sindacale diretta alla bonifica dei siti inquinati). Da quanto sopra consegue che non può accettarsi che la 107 Cfr Consiglio di Stato, sez. IV, n.4328, 25 marzo 2008, in www.giustiziaamministrativa.com - 125 - legittimazione passiva sia del curatore, poiché ciò, inoltre, determinerebbe un sovvertimento del principio “chi inquina paga” scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l’inquinamento. Il complesso di questa disciplina è rispondente ai dettami del diritto comunitario ed, in particolare, al principio “chi inquina paga” che va come è tradizione nella giurisprudenza comunitaria – interpretato in senso sostanzialistico in modo da non pregiudicarne l’operatività.108 In effetti il principio “chi inquina paga” si risolve nell’imputazione dei costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall’attività di trasformazione industriale dell’ambiente che non supera gli standards legali). Tutto, ciò, va considerato sia in una logica risarcitoria ex post factum, che in una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare – per effetto del calcolo dei rischi di impresa - la loro generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell’ambiente (con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei 108 cfr. Corte di giustizia Ce 15 giugno 2000 in causa Arco, in www.lexambiente.com - 126 - predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente). Negli stessi termini la giurisprudenza amministrativa 109 aveva chiarito, già con riferimento alla misura reintegratoria prevista e disciplinata dall'art. 14 del D.lgs. n. 22/1997 (c.d. “Decreto Ronchi”), che il proprietario dell'area fosse tenuto a provvedere allo smaltimento solo a condizione che ne fosse dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, escludendosi conseguentemente che la norma configurasse un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva (vieppiù, per fatto altrui). In particolare, da tale giurisprudenza fu affermata l'illegittimità degli ordini di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua sola qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'amministrazione procedente che, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione (quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime 109 d'esperienza), dimostrasse l'imputabilità soggettiva della Cfr Consiglio di Stato, sez.V, n. 1612, 19 marzo 2009, in www.giustiziaamministrativa.com - 127 - condotta. I suddetti principi, come detto espressi con riferimento a fattispecie ricadente sotto l’egida della precedente normativa, a fortiori si attagliano anche al disposto dell'art. 192 del D.lgs. n. 152/2006, dal momento che tale articolo, non soltanto riproduce il tenore dell'abrogato art. 14 sopra citato, con riferimento alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa, ma in più integra il precedente precetto precisando che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente "in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo" ”. Pertanto, non può condividersi quella giurisprudenza110 che ritiene che nel caso di mancanza di un responsabile individuato (id quod prelumque accidit), verrebbe del tutto vanificata la previsione tassativa e fondamentale di cui al comma 1 dell’articolo 14 del d.lgs. n.22 del 1997, cioè il divieto di depositi di rifiuti sul fondo. Ciò, infatti, sarebbe esatto se il legislatore avesse strutturato la concorrente responsabilità del proprietario (rispetto a quella del terzo autore dell’abbandono dei rifiuti) in termini meramente oggettivi – ossia 110 Cfr TAR, Puglia, Lecce, sez.I, n.793, 19 marzo 2008, in www.giustiziaamministrativa.com - 128 - in assenza di alcun riferimento all’elemento soggettivo della fattispecie – perché in tal caso, ma solo allora, l’interprete avrebbe potuto esattamente ravvisare l’obbligazione di ripristino a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene quale “obbligazione propter rem”. Siccome, invece, il diritto positivo, come si evince anche dalla semplice lettura delle citate disposizioni, ha stabilito l’esatto contrario – ossia il legislatore ha strutturato la fattispecie in esame in termini indiscutibilmente soggettivi, radicando solo sulla riscontrata presenza di colpevolezza del proprietario la sua concorrente responsabilità – in difetto di accertato concorso, con il terzo autore dell’illecito, di una condotta colpevole del proprietario del fondo, non è dato ricavare alcuna sua responsabilizzazione per la bonifica da effettuare. Con il corollario, di tutta evidenza sebbene implicito, che l’onere economico della bonifica del fondo – comunque ovviamente necessaria – non potrà porsi a carico del proprietario, ma resterà per forza di cose socializzato. Il sistema, in altri termini, non è quello che l’interprete reputi “più funzionale”, ma quello che il legislatore ha positivamente tratteggiato. Non è sostenibile che il comma 1 dell’articolo 14 del D.Lgs. n. 22 del 1997 abbia introdotto una sorta di obbligazione propter rem di diritto pubblico (in quanto funzionale al pubblico interesse e coercibile da parte dell’amministrazione nell’ambito dei suoi poteri di polizia amministrativa), a carico del proprietario o del titolare di un diritto reale sul fondo (ed - 129 - estesa anche ai titolari di un diritto personale di godimento, nel caso in cui il contenuto di questo conferisca al suo titolare i poteri di disposizione necessari per provvedere alla rimozione), per il caso in cui non sia stato accertato il responsabile del deposito abusivo di rifiuti, e cioè qualora non possa trovare applicazione la sanzione amministrativa ripristinatoria di cui al successivo comma 3. Se così fosse, si dovrebbe, in effetti postulare che, essendo connessa alla mera titolarità del diritto sul bene (in tal senso propter rem), allora tale obbligazione di ripristino sorge[rebbe] a carico del titolare, a prescindere dalla sua responsabilità, e ciò costituirebbe l’esatto contrario di quanto il legislatore ha positivamente stabilito inserendo la colpa tra gli elementi costitutivi della fattispecie in parola. Nello stesso senso altra giurisprudenza 111 ha osservato, poi, che l’obbligo di adottare le misure sia urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento, è imposto solo a carico di colui che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa. Tale impostazione, peraltro, è stata confermata e specificata dagli artt.240 e ss. Del D.lg n.152/06 ed è in armonia con il principio chi inquina paga (art. 174, ex art 130/R del Trattato CE), cui si ispira la legislazione comunitaria, sicchè l’amministrazione non può imporre lo 111 Cfr. TAR, Toscana, sez.II, n.665, 17 aprile 2009, in www.lexambiente.it - 130 - svolgimento di attività di recupero e risanamento ambientale a privati in capo ai quali non sia stata accertata alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno di inquinamento contestato, ma che vengono individuati solo in quanto proprietari dei beni . Ancora, secondo altra giurisprudenza 112, il principio chi inquina paga avrebbe addirittura consentito, a fronte di un quadro normativo – quello pre Ronchi- indubbiamente frammentario ed incompleto, di trovare una solida indicazione in ordine alla posizione (di irresponsabilità) del proprietario incolpevole. In tal senso l’opinione maggioritaria mutuava le proprie ragioni giuridiche – in presenza di una normativa non puntualmente diffusa sul profilo della responsabilità- dell’art. 130/R del Trattato dell’Unione Europea introdotto dall’Atto Unico Europeo del 1986 (attualmente l’art 174 dopo i Trattati di Amsterdam e Nizza ): esso sancisce il noto principio chi inquina paga , mentre l’art. 18 della legge 349/86 offriva la conferma della regola per cui la responsabilità per danno ambientale consegue al compimento di fatti colposi o dolosi e non già alla mera qualità di proprietario dell’area. Particolarmente estese sono, poi, le motivazioni articolate di una 112 Cfr TAR , Lombardia, Brescia, sez.I, n. 39, 5 febbraio 2008, in www.lexambiente.it - 131 - recente giurisprudenza amministrativa113, ove anzitutto si dà conto della circostanza per cui, prima della riforma della materia operata per mezzo del D.lg. n.152/06, non mancavano oscillazioni tra pronunce tese a sostenere che tale principio avesse meramente valore programmatico, e fosse insuscettibile di trovare applicazione nell’ambito dell’ordinamento interno statuale, e pronunciamenti di segno opposto, questi ultimi prevalenti soprattutto nella giurisprudenza penale. Subito, dopo, si è riconosciuta la valenza innovativa del Codice dell’Ambiente anche nella versione precedente le modifiche del D.lg n.4/08, chiarendo come l’introduzione del principio chi inquina paga con il predetto D.lg.n-152/06, nell’Ordinamento statuale interno, in recepimento di specifica direttiva (direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale, basato sul principio chi inquina paga, a sua volta fondato sull’art.174 comma 2 del trattato istitutivo delle Comunità Europee) proprio in quanto principio implicasse che esso dovesse trovare applicazione in tutti i procedimenti in corso laddove non si fossero prodotti diritti quesiti o comunque effetti definitivi. E proprio sulla base del suddetto principio e sul corretto valore sostanziale da attribuire al medesimo si consacra in modo inequivoco la 113 Cfr TAR, Sicilia,Catania, n. 1254, 20 luglio 2007, in www.giustizia-amministrativa.com - 132 - scelta del legislatore del 2006 in favore della riconduzione della responsabilità per danni all’ambiente nell’alveo della “tradizionale” responsabilità extracontrattuale soggettiva (c.d. responsabilità aquiliana ex art.2043 c.c.), con il conseguente ripudio di qualsiasi forma di responsabilità oggettiva. Infatti, la norma contenuta nell’art 311, comma 2, del D.Lgn.152/06 è la norma che costituisce e disciplina la situazione giuridica soggettiva di responsabilità e serve, quindi, ad orientare l’interprete nella ricostruzione dell’istituto della responsabilità per danno ambientale, escludendo (come nel caso sopra citato di inquinamento dei siti imputate alle imprese attive sui detti siti) una qualsiasi responsabilità “da posizione” che non può configurarsi surrettiziamente, neppure con riferimento ai “vantaggi” connessi all’esercizio di un’impresa. Il presumibile superamento della la natura di risarcimento in forma specifica degli obblighi di bonifica e l’accentuazione dell’aspetto sanzionatorio degli stessi, non comporta che la disciplina dell’illecito ambientale per non può essere invocata giustificare l’eventuale qualificazione della responsabilità ambientale in termini di responsabilità oggettiva, perché, in materia di sanzioni amministrative, la legge non la prevede a differenza del codice civile, in nessuna forma o tipologia. A norma della legge n.689/81, infatti, anche la disciplina generale delle sanzioni amministrative, esclude qualsiasi forma di responsabilità - 133 - oggettiva e riconduce la responsabilità amministrativa al dolo e alla colpa. Numerose, poi, sono le pronunce giurisprudenziali, in materia di tasse e contribuzioni ambientali, dalle quali si evince la rilevanza diretta (e invalidante) del accettabilmente principio a proporzionali fronte di all’effettivo pretese impositive contributo di non ciascuno all’inquinamento114. b) ipotesi di responsabilità oggettiva nella giurisprudenza del giudice ordinario e del giudice amministrativo Nel quadro degli orientamenti giurisprudenziali sopra delineati, che, comunque, con diverse ed articolate motivazioni pur sempre non prescindono da un accertamento della responsabilità secondo i criteri soggettivi quantomeno colposi, così, riconducendo la “responsabilità ambientale” sotto l’egida della responsabilità aquiliana, assumono particolare significativo rilievo due recenti pronunce, con le quali si profila un’ipotesi di responsabilità oggettiva per danno ambientale. In un primo caso 114 115 si decide in ordine alla richiesta di Cfr Cassazione, sez. unite, 15 giugno 2009 n 13894, che alla luce della pronuncia comunitaria sul caso Standley ha affermato come solo una tariffa (e non una tassa effettivamente proporzionale alla produzione dei rifiuti) appare funzionale “ad una disciplina precisa dell’imputazione dei costi” quale richiesta dal principio comunitario. 115 Cfr Tribunale di Venezia, III sezione civile, n.304 del 4 febbraio 2010 in www.diritto.it - 134 - accertamento della responsabilità per danno ambientale, avanzata ai sensi dell’art. 2051 c.c., nonché dell’art 18 della legge n.349/86 e dell’art. 17 D.lgs n.22/97, nei confronti del proprietario di un’area situata all’interno del S.I.N. di Venezia Porto Marghera, fondata sulla circostanza che lo stesso non sarebbe intervenuto tempestivamente nella bonifica e/o nella messa in sicurezza del terreno, inquinato da altri, consentendo la propagazione delle sostanze contaminanti. In tale circostanza, rinviandosi ad analoghi pronunciamenti 116, si procede all’applicazione dell’art.2051 c.c., in contrasto con la giurisprudenza prevalente (soprattutto amministrativa) che, in virtù del principio di specialità, ritiene inapplicabili le norme civilistiche sulla responsabilità presunta di danno ambientale. In proposito si afferma che, se è pur vero che il 3°comma dell’art 14 del D.lgs n.22/97 (oggi sostituito dall’art.192 comma 3 del D lgs n.152/06) prevede la corresponsabilità solidale del titolare dei diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati i rifiuti, con il conseguente suo provvedere allo smaltimento ed 116 Cfr Cassazione civile- Sezioni Unite, n.4472, 25 febbraio 2009 “in tema di abbandono dei rifiuti sebbene l’art.14 comma 3, d.lg n.22/97preveda la corresponsabilità solidale del proprietario o dei titolari dei diritti personali o reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, solo in quanto la violazione sia agli stessi imputabile a titolo di dolo o di colpa, tale riferimento va inteso per le sottese esigenze di tutela ambientale, in senso lato, comprendendo, quindi, qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto anche di mero fatto tale da consentirgli per ciò stesso imporgli di esercitare una funzione di protezione e custodia” - 135 - al ripristino, è altrettanto vero che le esigenze di tutela ambientale sottese alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli – e per ciò stesso imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente. In siffatte ipotesi il requisito della colpa richiesto da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi. In altri termini, secondo la singolare ricostruzione giurisprudenziale sopra riportata la richiesta di accertamento della responsabilità del proprietario di una delle parti del sito inquinata, ai sensi dell’art. 2051 c.c. (e art. 17 Dlvo n.22/07, abrogato dall’art TU 152/06, applicato ratione tempore e art. 18 L.349/86 e sostituito dall’art.3111 stesso TU), si fonda sulla circostanza che lo stesso non sarebbe intervenuto tempestivamente nella bonifica e/o messa in sicurezza del terreno di sua proprietà, consentendo nel corso degli anni che le sostanze tossiche si propagassero e si riversassero nelle acque faldifere e in laguna. - 136 - La previsione dell’art.2051 c.c., inusuale per le ipotesi di danno ambientale (anche per la sua completa tipicizzazione) ma non del tutto esclusa, secondo la giurisprudenza che si commenta, pone il danneggiato in una condizione di estremo favore, in quanto lo esonera dall’onere della prova della colpa del danneggiante, prevedendo una sostanziale responsabilità oggettiva a carico del medesimo. Ora se è pur vero che secondo la superiore prospettazione, a fronte di una imputazione oggettiva di colpa, è necessaria una rigorosa dimostrazione degli elementi costitutivi della responsabilità con particolare riferimento alla condotta positiva o omissiva tenuta dal danneggiante, del nesso causale tra la condotta e l’evento nonché del danno qualificato nella sua entità, è altrettanto vero che in un sistema come quello delineato dal nuovo codice, improntato alla imputazione soggettiva della colpa, individuare il responsabile nel soggetto che si trovi in un rapporto anche di mero fatto con l’area interessata, tale da consentirgli per ciò stesso di esercitare una funzione di protezione e custodia, appare non del tutto condivisibile. Né sulla scorta del citato pronunciamento è condivisibile il ragionamento rassegnato dalla giurisprudenza amministrativa117, secondo 117 Cfr Consiglio di Giustizia Amministrativa, sez, giurisdizionale, ordinanza n. 321/06 in www.giustizia-amministrativa.com - 137 - il quale, appare irrilevante ai fini della legittimità degli atti impugnati ogni accertamento (ivi compresi quelli in corso in sede penale) volto a verificare il coinvolgimento o meno degli attuali proprietari o concessionari di aree industriali così come ogni accertamento volto a verificare la sussistenza di eventuali responsabilità in capo ad organi della P.A., che abbiano in passato autorizzato l’esercizio di attività inquinanti (il cui esito, a prescindere da eventuali imputazioni ascrivibili alle singole persone fisiche titolari degli organi, si risolverebbe necessariamente in una traslazione sulla collettività dei relativi oneri a carattere ripristinatorio, o di gran parte di essi). In particolare, secondo tale orientamento, il punto di equilibrio fra i diversi interessi di rilevanza costituzionale alla tutela della salute, dell’ambiente e dell’iniziativa economica privata non va infatti ricercato in un meccanismo di graduazione delle obbligazioni di messa in sicurezza e di successiva bonifica a seconda dell’entità degli apporti individuali nella causazione del danno ambientale, ma in un criterio di oggettiva responsabilità imprenditoriale, in base al quale gli operatori economici che producono e traggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in quanto ex se inquinanti, o in quanto utilizzatori di strutture produttive contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sono per ciò stesso - 138 - tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione, in correlazione causale con tutti indistintamente i fenomeni di compromissione collegatisi alla destinazione industriale del sito, gravato come tale da un vero e proprio onere reale a rilevanza pubblica, in quanto finalizzato alla tutela di prevalenti ed indeclinabili interessi dell’intera collettività. La superiore impostazione suscita qualche perplessità, in quanto appare inconferente la tesi secondo la quale il riferimento alle responsabilità presunte di cui agli artt. 2050 e 2051 cod. civ. (relativi alla responsabilità per esercizio di attività pericolose ed alla responsabilità per danni da cose in custodia) permetterebbe (rectius:autorizzerebbe) di ricostruire la responsabilità imprenditoriale per danno ambientale o per bonifica in chiave di responsabilità meramente oggettiva. Difatti, a tacere del fatto che tali disposizioni operano nel campo dei rapporti tra privati, in ogni caso, l’applicazione al campo della responsabilità per danno ambientale delle norme di responsabilità presunta stabilite dal codice civile trova comunque ostacolo nel principio di specialità (che – com’è noto – è il criterio prioritario per individuare la norma applicabile in campo civilistico, anche sul terreno della responsabilità civile118). 118 cfr. Cass. N. 19975 del 2005 in www.diritto&diritto.it - 139 - A fronte di più disposizioni (apparentemente) concorrenti nella stessa fattispecie (le norme di responsabilità presunta stabilite dal codice civile e le norme sulla responsabilità ambientale previste dalla parte sesta del D. Lgs. N. 152 del 2006), il criterio di specialità porta certamente ad applicare solo ed esclusivamente le disposizioni esaustivamente dettate dalla normativa ambientale, così come oggi chiarite dal D. Lgs. N. 152 del 2006. Sotto il profilo della ratio normativa, si ritiene non del tutto condivisibile la tesi di quella dottrina – già supra richiamata- secondo cui l’adozione di un criterio di “strict liability” (responsabilità rigorosa) in capo alle imprese, connesso a rischi oggettivi di impresa, tutelerebbe meglio il valore della difesa ambientale, rispetto ad un sistema di “due care” (cura doverosa). Infatti, la strict liability ed il correlativo principio, secondo cui sarebbe possibile l’indifferenziato accollo degli oneri della bonifica ambientale a carico delle imprese per effetto della sola loro relazione con i suoli, finirebbe con l’incentivare il danno ambientale, invece di impedirlo o di portare a rimuoverne durevolmente le cause prima ancora che gli effetti, risultato che si ottiene solo promuovendo un corretto rapporto tra la produzione e l’ambiente. La via semplice, “in discesa”, di accollare gli oneri di bonifica alle imprese incolpevoli, ma facilmente individuabili dalla loro attuale - 140 - relazione con il bene, agevolerebbe, di fatto, l’impunità dei soggetti autori dell’inquinamento (specie quel tipo di inquinamento ché deriva da fatti risalenti nel tempo e che quindi ha già consentito una sicura locupletazione dei suoi autori a danno della collettività e del territorio). Questo, perché, ipotizzando che la P.A. recuperi i costi integrali della bonifica a carico del proprietario-detentore incolpevole del suolo, ne deriverebbe che resterebbe a costui la rivalsa sul precedente proprietariopossessore inquinante, rivalsa che dovrebbe essere condotta sul piano della tutela civile, con l’evidente minore possibilità, mezzi e strumenti di tutela derivanti dalla natura dell’azione (che sarebbe riconducibile, in pratica, o ad una azione a tutela della compravendita, oppure, a seconda dei presupposti, ad una azione aquiliana, con relativi termini di proposizione e prescrizione), rispetto a quella che lo Stato invece può (e deve) porre in essere, a norma dell’art. 250, 252 comma 5 e 253 del dlgs 152/06. Pertanto, le Imprese “non attente” alle tematiche ambientali sarebbero incoraggiate nelle loro riprovevoli condotte dalla possibilità di sfuggire alla sanzione dopo aver sfruttato le risorse del suolo ed aver compromesso l’ambiente, semplicemente cedendo il sito e puntando, da un lato, sui “tempi lunghi” dell’Amministrazione e, dall’altro, sul minore rischio che per loro costituisce l’azione civile di rivalsa dei proprietari incolpevoli. - 141 - In una prospettiva ancora più evoluta dell’istituto della responsabilità per danno all’ambiente, una responsabilità per danni all’ambiente puramente oggettiva contrasta gravemente – ledendolo – con il principio-valore della “responsabilità sociale delle imprese”, che oramai si sta consolidando come lettura del combinato disposto degli artt. 2, 3 e 42 della Costituzione, nella maturata coscienza “diffusa” della società e degli operatori economici. In una amministrazione democraticamente orientata, infatti, la coazione è sempre uno strumento da “ultima risorsa”, mentre il coinvolgimento attivo, propositivo e qualificato dei privati nella tutela dell’ambiente è un “valore” prima ancora che uno strumento (di maggiore efficacia), ed esso si ottiene enfatizzando, appunto, la “responsabilità sociale” delle imprese e della produzione (nozione fondata sull’art. 41 comma 2 e 42 della Costituzione), secondo la quale le imprese hanno vantaggio (e devono essere incentivate) nel perseguire contestualmente il profitto economico, la funzione sociale della proprietà e la tutela ambientale, destinando a tale proposito adeguate risorse ed energie poiché ne hanno un ritorno in termini di qualità della produzione e della immagine. L’equilibrio tra il costo ed il beneficio è infatti la precondizione della corretta pianificazione delle scelte aziendali, che incide direttamente sulla valutazione dell’imprenditore di destinare risorse e ricchezze alla - 142 - minimizzazione dei costi ed alla implementazione qualitativa della produzione. Sotto il profilo della organizzazione amministrativa dell’azione dei pubblici poteri, tali finalità sono ampiamente riconosciute e previste dal legislatore che disciplina in proposito svariate forme di intese e/o accordi di programma: si confronti la complessa ed evoluta disciplina di cui al disposto degli artt. 206, 179 e 180 del dlgs 152/06, nonché le previsioni di cui all’art. 181 commi 5 e 7, che consentono di promuovere intese con i soggetti economici interessati “al fine di favorire il riutilizzo, il reimpiego, il riciclaggio e le altre forme di recupero dei rifiuti, nonché l'utilizzo di materie prime secondarie, di combustibili o di prodotti ottenuti dal recupero dei rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata” (art. 181), anche mediante “la promozione di strumenti economici, eco-bilanci, sistemi di certificazione ambientale, analisi del ciclo di vita dei prodotti, azioni di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori, l'uso di sistemi di qualità, nonché lo sviluppo del sistema di marchio ecologico ai fini della corretta valutazione dell'impatto di uno specifico prodotto sull'ambiente durante l'intero ciclo di vita del prodotto medesimo; come pure “la previsione di clausole di gare d'appalto che valorizzino le capacità e le competenze tecniche in materia di prevenzione della produzione di rifiuti” o anche “la promozione di accordi e contratti di programma o protocolli d'intesa anche sperimentali finalizzati, con effetti - 143 - migliorativi, alla prevenzione ed alla riduzione della quantità e della pericolosità dei rifiuti” (art. 180). Sotto l’aspetto della ratio legis, è da ritenersi contraria ai principi della responsabilità imprenditoriale nella tutela ambientale, come emergenti sia dalla Carta Costituzionale che dalla legislazione ambientale, nella più matura lettura che se ne offre alla coscienza sociale, la considerazione (generalizzata in un giudizio preventivo ed acritico) delle imprese e della produzione come “disvalore” da contenere, controllare o limitare, addossando loro indiscriminatamente i costi del disinquinamento in una logica (massimalista e punitiva) di equiparazione tra il possesso di “risorse economiche e ricchezza” ed una (sorta di) “culpa in re ipsa”, ossia intrinseca allo stesso essere impresa produttiva. Per tale ragione non è condivisibile il corollario che deriva dalle argomentazioni poste a base delle due pronunce giurisprudenziali sopra citate, secondo il quale la semplice relazione di una forza economica e produttiva con il sito ove essa è localizzata rende responsabile l’imprenditore di qualsiasi danno ambientale, senza o al di fuori di un rigoroso accertamento di responsabilità. c) principio di precauzione e principio chi inquina paga - 144 - Al principio comunitario chi inquina paga si deve altresì coordinare altro principio comunitario cristallizzato nell’art.174 delle disposizioni del Trattato, a mente del quale “la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto delle diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi di precauzione e dell’azione preventiva, sul principio di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio chi inquina paga” . L’armonizzazione del principio chi inquina paga con il principio di precauzione appare imprescindibile, atteso che, come ha felicemente statuito una recente giurisprudenza amministrativa 119 bisogna dar atto dell’esistenza nell’ordinamento del principio di precauzione, che è di genesi comunitaria al pari di quello di proporzionalità e che ben torna invocabile ogni volta che, pur a fronte di una carente base normativa e dunque di un possibile ritardo da parte del legislatore nel prendere atto del costante progresso della scienza, sia ragionevolmente ipotizzabile l’esistenza di un rischio non tollerabile. In tal senso si è evidenziato come l’art. 174 del Trattato CE abbia indicato al comma 1 la protezione della salute umana fra gli obiettivi della politica comunitaria in materia ambientale, e il principio di precauzione è 119 Cfr, TAR Trento, n.93, 25 marzo 2010 in www.giustizia-amministrativa.com - 145 - stato introdotto al suo comma 2, il quale dispone che “La politica della Comunità in materia ambientale …è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga”. Da ciò la giurisprudenza120 ha desunto come l’'obbligo giuridico di assicurare un “elevato livello di tutela ambientale” con l'adozione delle migliori tecnologie disponibili sia finalizzato ad anticipare la tutela poi da apprestarsi in sede legislativa a decorrere dal momento in cui si profili un danno da riparare, al fine sia della sua prevenzione, ove possibile, sia del suo contenimento in applicazione del richiamato principio di precauzione. Il fatto che siano in questione rischi per la salute umana non significa che non debba essere con serietà ed attendibilità accertata l’esistenza del paventato danno, ogni volta che, seppure a fronte di una persistente incertezza scientifica, sia ragionevolmente possibile dubitare dell'innocuità di una sostanza. Il che in linea di principio permetterebbe di non trascurare gli effetti pregiudizievoli indotti di una sostanza, pur nell’incontroverso difetto di prove scientifiche decisive sulla gravità delle conseguenze nocive. 121 120 Vedi nota n72 121 cfr.: Tribunale I grado CE, 11 settembre 2002, causa T-13/99, Pfizer Animal Health - 146 - (ovvero non inserita nella tabella tra le sostanze nocive) In definitiva, il principio in parola si caratterizza per tre aspetti fondamentali: a) il suo carattere di principio generale; b) l’impossibilità, in sede di bilanciamento fra protezione della salute e libertà economica, di consentire alle imprese di essere esonerate dall’adottare a loro spese le indispensabili misure di cautela; c) la validità del principio di precauzione come criterio interpretativo del sistema giuridico unitariamente considerato. Applicando tale principio a fattispecie di danno ambientale, determinate dalla diffusione di una sostanza inquinante non prevista nelle tabelle allegata al D. lgs. N. 152 del 20006 delle sostanza nocive, non si può escludere che essa non rappresenti ex se un elemento che precluda di affermarne la pericolosità. Ciò chiaramente non determina ex sé la violazione del principio di proporzionalità,122 atteso che il mezzo prescelto dall’Amministrazione per prevenire il potenziale rischio di un pregiudizio e dare comunque corso alla necessaria bonifica, non deve superare la soglia della necessità e dell’idoneità rispetto al fine perseguito, rispetto al quale si deve individuare la misura più mite capace di cogliere il risultato. 122 cfr. Corte Giustizia CE 5.2.2004, n. 24; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 23.1.2003, n. 260, in www.giustizia-amministrativa.com - 147 - Ne consegue che, sul versante della concreta applicazione, l’onere anche economico posto a carico di quanti abbiano inquinato sulla base del principio “polluter pays” trova il proprio necessario temperamento nel citato principio generale di diritto comunitario, che fa vincolante divieto di superare quella che, con linguaggio tratto dalla dottrina tedesca, si denomina “Unzumutbarkeit”, e cioè il pur labile confine oltre il quale il necessario recupero divenga inesigibile, quale ingiusta sanzione per il comportamento osservato. L’aspetto più significativo ed innovativo della giurisprudenza sopra riportata, in parziale contrasto con l’orientamento giurisprudenziale piuttosto consolidato, è proprio quello secondo cui , sulla base del principio comunitario del “polpute pays” sarebbe precluso alle amministrazioni imporre oneri di bonifica a carico di chi non sia risultato il diretto responsabile del fenomeno di inquinamento. In altri termini si è chiarito in modo significativo come, sul versante della concreta applicazione, l’onere economico gravante su coloro che, sulla base del precitato principio, possono considerarsi responsabili di fenomeni di inquinamento- come sostenuto da taluno in dottrina123 - trova il necessario contemperamento nel principio generale di diritto comunitario che vieta di superare il confine oltre il quale il recupero 123 Cfr V. Stefuti, in Diritto all’Ambiente, Documenti 2010 - 148 - diventa in ogni caso inesigibile. d) rassegna della legislazione e prassi giurisprudenziale In che misura la legislazione italiana si conformi al principio può stabilirsi attraverso l’esame della materia delle bonifiche, che ha costituito, nella prassi, la vera via italiana ( ad un risultato materialmente coincidente) del risarcimento ( in forma specifica) del danno ambientale. La nuova e travagliata (già più di sette volte modificata!) disciplina del 2006 ha meglio esplicitato la distinzione tra proprietario (incolpevole) e inquinatore. Solo il secondo è propriamente soggetto all’obbligo di bonifica. Il primo, invece, è chiamato a farsi coattivamente parziale carico dei relativi costi, esclusivamente ove il secondo si dimostri non individuabile o incapiente (art. 242ss, d.lg n.152/06 e, specialmente, art.253, comma 2, “il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell’inquinamento e del pericolo di inquinamento solo a seguito del provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile, ovvero giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità”). Inoltre, anche laddove sia consentito procedere avverso il - 149 - proprietario incolpevole, ciò può avvenire “soltanto nei limiti del valore di mercato determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi” (art.253, comma 4). Quest’ultima previsione, tuttavia, suscita qualche perplessità, perché il principio della necessaria internalizzazione delle esternalità ambientali non può, di per sé, ammettere che il proprietario incolpevole si faccia carico di qualcosa di più dell’accresciuto valore del sito, ossia della differenza tra valore- utilità (per il proprietario) prima e dopo la bonifica (ovviamente non considerando sempre incorporato, in negativo ,nel valore pre bonifica il costo della stessa, almeno nella misura in cui esso rifletta , come di norma, il costo di eliminazione delle esternalità negative ambientali che attengono all’utilità sociale e non a quelle del proprietario). Né essa sembra compatibile con una responsabilità che, pur non illimitata, è però estesa all’intero valore post bonifica, anche se il proprietario ha azione di rivalsa verso l’inquinatore per quanto ha pagato per la bonifica (art.253, comma, 4), azione che è data solo nel caso di bonifica volontaria da parte del proprietario incolpevole. Anche a considerare tutto ciò solo come un difetto di tecnica legislativa, non può ammettersi il rilievo che tale rivalsa, peraltro, relativa o non un diritto indisponibile, potrebbe non essere esercitata. E la scelta del non esercizio, d’altro canto, sarebbe del tutto razionale: le stesse ragioni che portano l’ente pubblico a cercare di - 150 - soddisfarsi sul proprietario, invece, che sull’inquinatore (impossibilità o difficoltà di individuare o far pagare l’inquinatore), difatti, costituirebbero un evidente disincentivo anche all’azione del privato. Sicchè la previsione di tale azione rappresenta sì un correttivo, ma non sufficiente, ad una regola difficilmente compatibile con (ed anzi opposta a ) l’idea della internalizzazione del danno ambientale da parte di chi lo ha causato. Né, d’altro canto, basterebbe a ciò replicare che, essendo l’inquinatore per definizione non individuabile e quindi incapiente, comunque quest’ultimo non potrebbe internalizzare i costi ambientali. Pertanto facendosi pagare chi non è inquinatore non si rinuncerebbe a colpire l’inquinatore, ma semplicemente si prenderebbe atto della relativa impossibilità evitando che i costi ricadano sull’intera collettività. Anzitutto, come si è visto, il principio in questione non mira genericamente ad evitare la collettivizzazione delle esternalità ambientali. Piuttosto l’obiettivo è la loro internalizzazione in capo ad un privato non genericamente inteso, ma individuato in quanto effettivo inquinatore. Da quanto sopra consegue che, o si interpreta la impossibilità di cui parla l’art.253 cit come del tutto assoluta e permanente (l’inquinatore non è obiettivamente individuabile e non può pagare, né è ragionevole che mai si potrà individuare e/o sarà in condizioni di pagare), ovvero, l’attuazione - 151 - coerente del principio chi inquina paga esigerebbe, anche in casi di impossibilità non assoluta e permanente, di puntare comunque a colpire l’inquinatore senza troppi (facili e ingiusti) ripieghi sul proprietario. Pertanto, non possono convincere, tesi come quelle sostenute di recente da una parte della giurisprudenza amministrativa124, secondo cui a fronte di inquinamenti storici (per i quali non è ben chiaro perché varrebbe una sorta di prescrizione del danno ambientale a favore dell’inquinatore) sarebbe del tutto compatibile con il principio chi inquina paga imporre il costo della bonifica al mero proprietario incolpevole, perché se “ il principio comunitario invocato dovesse operare con caratteri di esclusività, dovrebbe dedursi che per tale inquinamento nessuno paga, giusto il lungo periodo intercorso, che renderebbe comunque operante la prescrizione lunga ( tra la fine del contegno illecito e la richiesta di ristoro e di rimessa in prestino sono decorsi 50 anni). Pur nella ipotizzabilità di una prescrizione delle obbligazioni di bonifica, se per la inerzia delle Autorità chi ha inquinato non è stato tempestivamente richiesto di pagare, al suo posto non dovrebbe essere consentito far pagare un terzo soggetto. 124 Cfr, Consiglio di Stato, sez. V, n.3318, 28 maggio 2009, in www.giustiziaamministrativa.com - 152 - Ben più coerente con il principio comunitario appare il fatto che, in una tale circostanza il costo della bonifica sia assunto dagli Enti locali, così sollecitati in futuro a maggiore celerità e cura nell’affrontare le contaminazioni dei siti. Come si è ricordato, infatti, il principio chi inquina paga non mira a trasferire genericamente al privato costi altrimenti ricadenti sulla collettività. L’obiettivo è molto più specifico:quello di trasferire al privato (solo se ed in quanto) inquinatore gli oneri di cui sopra. Colpire un privato non inquinatore significherebbe non solo non soddisfare il principio, ma, più radicalmente, porsi in contrasto con esso, così creandosi una condizione che obiettivamente precluderebbe la responsabilizzazione dell’inquinatore, per di più inducendo le autorità pubbliche alla ricerca della soluzione per esse più comoda, al posto di quella più ambientalmente efficiente oltre che (sia consentito notarlo) equa. Ancor più ragioni di dubbio sono riferibili alla già menzionata disciplina dell’art. 252 bis, secondo cui “gli oneri connessi alla messa in sicurezza ed alla bonifica nonché quelli conseguenti all’accertamento di ulteriori danni ambientali sono a carico del soggetto responsabile delle contaminazioni, qualora si individuato, esistente e solvibile”, ed “Il proprietario del sito contaminato è obbligato in via sussidiaria, previa escussione del soggetto responsabile”. - 153 - Qui, apparentemente, manca addirittura ogni limite quantitativo alla possibile responsabilità (sussidiaria) del proprietario incolpevole, di cui, per di più, è affermata la vera e propria soggezione ad un obbligo. Frutto probabilmente di un difetto di tecnica legislativa, tuttavia, parrebbe indicativo di una scarsa sensibilità nei confronti del principio chi inquina paga la regola per cui solo in caso di inquinatore “individuato” (invece che individuabile), il proprietario incolpevole potrebbe non essere coinvolto nei costi di bonifica. In tale ipotesi, si configurerebbe una incostituzionalità della norma per violazione del principio comunitario chi inquina paga, con il quale peraltro sembra contrasti l’imposizione al proprietario gestore, del dovere di farsi carico, anche economicamente delle c.d. “azioni di prevenzione” (art. 245 comma 2 “il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il concreto e attuale superamento della soglia di concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia e al comune territorialmente competenti ed attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’art.242). Se è comprensibile che il proprietario possa, meglio degli altri, curare quelle misure di contenimento che, subito dopo l’incidente ambientale, possano dirsi necessarie, tuttavia, in un sistema rispettoso del principio comunitario, tali costi dovrebbero ricadere sull’ente pubblico, chiamato, poi, a trasferirli sull’inquinatore e non su un proprietario - 154 - incolpevole, in buona sostanza impossibilitato di trarre da essi particolari vantaggi patrimoniali (e dei quali costi, comunque, solo nei limiti di questi ultimi potrebbe essere chiamato a farsi carico). In conclusione, alla luce di quanto sopra e dall’esame della giurisprudenza emerge come il principio chi inquina paga, ove visto in negativo, possa essere (ed in effetti è) utilizzato per sindacare scelte normative come amministrative, nella prospettiva di garantire chi non ha inquinato da ingiustificate pretese delle pubbliche autorità. 10. La responsabilità per danno ambientale secondo la pronuncia della Corte di Giustizia sulla 9 marzo 2010-n.378/10 Quanto fin qui rassegnato sulla responsabilità ambientale e sulla imputazione e (dunque individuazione) della stessa al soggetto responsabile (colui che inquina) non poteva non concludersi con la recente risoluzione giurisprudenziale resa dalla Corte di Giustizia Europea proprio sulla corretta interpretazione del principio chi inquina paga. In particolare secondo la sentenza della Corte di Giustizia “gli operatori che hanno impianti limitrofi ad una zona inquinata possono essere considerati presunti responsabili dell’inquinamento”. La Corte si è pronunciata dopo essere stata investita dal giudice - 155 - amministrativo chiamato a decidere su alcuni ricorsi presentati da Erg, Eni, Polimeri, Syndial contro alcuni provvedimenti che le obbligavano ad adottare misure per la riparazione del danno ambientale nella zona di Priolo, accollandosene gli oneri finanziari. Nella sentenza la Corte Europea giunge alla conclusione che la “direttiva sulla responsabilità ambientale non osta ad una normativa nazionale che consente all’Autorità competente di presumere l’esistenza di un nesso di causalità tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò, in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata”. Ciò, tuttavia, con la precisazione che l’imputazione di responsabilità debba comunque avvenire conformemente al principio chi inquina paga. Inoltre, precisa il Giudice comunitario, l’obbligo di riparazione di danno incombe agli operatori solo nella misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento. Peraltro, per poter presumere, secondo tali modalità, l’esistenza di un siffatto nesso di causalità, l’autorità competente dovrebbe disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore dell’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività. - 156 - Ancora, sottolinea la Corte Ue che “l’autorità competente non è tenuta a dimostrare l’esistenza di un illecito in capo agli operatori le cui attività siano considerate all’origine del danno ambientale”. In altri termini, le autorità nazionali possono subordinare il diritto degli operatori ad utilizzare i loro terreni alla condizione che essi realizzano i lavori di riparazione ambientali imposti anche, se, una tale misura “deve essere giustificata allo scopo di impedire il peggioramento della situazione ambientale”. In effetti, la Corte ha precisato che una misura di questo tipo deve essere giustificata dallo scopo di impedire il peggioramento della situazione ambientale, ove dette misure sono poste in esecuzione, oppure, in applicazione del principio di precauzione allo scopo di prevenire il verificarsi o il ripetersi di altri danni ambientali nei detti terreni degli operatori, limitrofi all’intero litorale oggetto di dette misure di riparazione. L’invocazione del principio di precauzione, nel subordinare l’uso dei terreni degli operatori interessati alla realizzazione, da parte di quest’ultimi, di misure di riparazione aventi ad oggetto siti limitrofi a tali terreni, apparirebbe necessario al fine di evitare che altre attività industriali, che potrebbero aggravare i danni in questione o intralciare la riparazione dei medesimi, vengano avviate attorno a detti siti il cui risanamento si riveli necessario. Tuttavia, come già rilevato, per poter presumere un siffatto nesso di - 157 - causalità l’Autorità pubblica deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanza inquinanti ritrovate ed i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività. Con la decisione in commento, si è cercato di contemperare i due principi fondamentali comunitari (il principio di precauzione ed il principio chi inquina paga) così da consacrare in linea generale la responsabilità ambientale come responsabilità imputabile, derogando essenzialmente, laddove la rigida applicazione della stessa possa mettere in pericolo la stessa sicurezza dei siti. Ma, ciò, sempre, assicurando che la deroga alla responsabilità soggettiva sia assistita da una serie di misure che, comunque, assicurino una imputabilità delle responsabilità in capo ai soggetti chiamati ad effettuare le misure di riparazione e precauzione. Una breccia, dunque, all’impianto del sistema della responsabilità per danno ambientale si ha solo ove tanto si imponga da ulteriori e pressanti esigenze di tutela connesse al principio di precauzione, connaturato al regime della tutela del bene ambiente, che prescrive un controllo (e una difesa) prudenziale ed anticipata. Con riferimento a quanto sopra è bene segnalare che, inoltre, per quanto riguarda la normativa nazionale, mentre l’imposizione di misure di - 158 - riparazione presuppone comunque sempre l’imputabilità dell’inquinamento all’operatore che sia richiesto di intervenire, ai sensi dell’art. 253 del DLgs n.152/06 il legislatore ha optato per l’adozione di un sistema con cui la limitazione d’uso del sito possa legittimamente essere imposta anche al proprietario incolpevole. Da segnalare inoltre che secondo alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali 125, in relazione ai destinatari dell’obbligo di effettuare la messa in sicurezza dell’area, la legge avrebbe inteso distinguere, con riferimento alle contaminazioni storiche, tra quelle che comportano il rischio immediato dell’ambiente (o rischi di aggravamento), disciplinate dall’art 242, comma 1, DLgs n.152/06, e quelle che non presentano tale rischio, disciplinate dall’art 242, comma 11, DLgs n.152/06. Per le prime il destinatario dell’obbligo è il responsabile dell’inquinamento, mentre per le seconde sarebbe, più genericamente, il soggetto interessato. In realtà però va anche notato come la distinzione sia marginale, poiché il comma 11 richiama a sua volta il comma 4 dell’art.242 ai fini della procedura da adottare per la bonifica del sito, facendo riferimento 125 Cfr, TAR Puglia Lecce, se.I, n.260, 23 gennaio 2009, in www.giustiziaamministrativa.com - 159 - all’obbligo del soggetto responsabile di presentare alla regione i risultati dell’analisi del rischio, nonché all’istruttoria svolta in contraddittorio sempre con il soggetto responsabile. Ciò, pertanto, ai fini dell’avvio della bonifica del sito conseguente alla comunicazione, fa ritenere che essa competa comunque al responsabile dell’inquinamento, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, fermi gli effetti del privilegio speciale e dell’onere reale di cui all’art.253 del DLgs n.152/06. - 160 - CAPITOLO III IL RISARCIMENTO E LA QUANTIFICAZIONE DEL DANNO AMBIENTALE 1. Il titolo III e le procedure per il risarcimento del danno ambientale: presupposti ed alternative di azioni Il titolo III si apre con l’indicazione di due distinte misure : il “risarcimento del danno ambientale in forma specifica e se necessario, per equivalente patrimoniale” . Il Ministero può attivare le relative procedure di ingiunzione dell’art. 312 D.Lgs n. 152/06 e ss. oppure seguire la strada già segnata dall’art. 18 della L. n. 349/86 (peraltro formalmente abrogato), esercitando l’azione civile risarcitoria in sede civile oppure in sede penale. L’art. 315 stabilisce che se il Ministero sceglie la prima strada, non potrà più proporre, né procedere ulteriormente nel giudizio per il risarcimento del danno, salva la possibilità di intervento come persona offesa nel reato. In altri termini, una procedura giurisdizionale già avviata non impedisce il successivo passaggio alla procedura conseguenza, però, che ingiunzionale con la la procedura giurisdizionale a quel punto si - 161 - chiude; viceversa, l’avvio della procedura ingiunzionale impedisce il successivo passaggio alla procedura giurisdizionale. Un eventuale parallelismo può rimanere solo per la partecipazione in qualità di persona offesa nel procedimento penale. 126 I presupposti per dar corso ad ambedue le procedure risarcitorie sono “tradizionali”, ovvero consistenti nel danno all’ambiente, nella forma dell’alterazione, del deterioramento o della distruzione totale o parziale dello stesso, dovuti a fatto illecito commissivo (“realizzando un fatto illecito”) o omissivo (“omettendo attività o comportamenti doverosi”) o colposo (colpa generica o specifica con violazione di legge, di regolamento, provvedimento amministrativo con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norma tecniche”). Tali espressioni riecheggiano l’art. 18 della L.n.349/86, anche se mal si conciliano con la definizione sintetica di danno ambientale del precedente art. 300 D.Lgs n.152/06. In ogni caso, è da escludere che tali espressioni possano de plano porre nel nulla l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale stratificatasi sull’art. 18, con la conseguenza che semmai sarà messa in discussione la seria utilizzabilità della definizione riduttiva dell’art. 300, anche se riferita 126 Cfr F. Giampietro, La responsabilità per danno all’ambiente, Giuffrè, 2006, pag. 162 e ss - 162 - all’intera parte sesta del testo Unico, per regolare fatti ulteriori e diversi dalla previsione della direttiva 2004/35/CE, ovvero fatti diversi dal danno ad acque, terreno, specie ed habitat naturali rientranti nell’ampiezzasconfinatezza del danno ambientale del vecchio art. 18 della legge n.349/86. 2. L’ordinanza di risarcimento. L’art. 313 descrive il procedimento che porta all’ordinanzaingiunzione di risarcimento del danno ambientale, e, posto che l’intera istruttoria scorre nel rispetto delle norme sulla trasparenza del procedimento amministrativo, in essa possono essere coinvolte le autorità di polizia giudiziaria, per l’accertamento dei fatti, l’individuazione dei trasgressori, l’attuazione delle misure a tutela dell’ambiente ed il risarcimento, sotto il coordinamento del Prefetto su delega ministeriale, mentre, per gli aspetti più tecnici dell’accertamento del nesso causale e per la quantificazione del danno, il Ministero può ricorrere alla consulenza tecnica in contraddittorio con gli interessati. Svolte le indagini ed individuati i responsabili, quindi, e sempre che il responsabile non abbia già avviato le procedure di bonifica da contaminazione (parte quarta, titolo V del codice) o le procedure di ripristino del titolo II della stessa parte del codice, il Ministro emette apposita ordinanza immediatamente esecutiva per ingiungere il ripristino - 163 - a titolo di risarcimento entro un determinato termine. Destinatari0 dell’ordinanza è il responsabile del fatto dannoso (ovviamente responsabile per colpa o dolo ai sensi dell’art. 311 comma 2, nonché in solido). Nel caso di inadempimento dell’ordine di ripristino, adempimento parzialmente o totalmente impossibile o eccessivamente oneroso ai sensi dell’art. 2058 del c.c., il Ministro emette una seconda ordinanza, destinata ad ottenere il risarcimento per equivalente pecuniario, ovvero pagamento entro 60 giorni di una somma di denaro pari il al valore economico del danno accertato o residuato. I tempi della procedura sembrano chiari: l’ordinanza con la quale si ingiunge il ripristino, deve intervenire entro 180 gg dalla comunicazione agli interessati dell’avvio dell’istruttoria e, comunque, entro un termine di decadenza di due anni dalla notizia del fatto. Se, peraltro, il responsabile sta eseguendo il ripristino, a sua cura e spese, i termini per l’ordinanza decorrono da quando il Ministero con proprio atto di accertamento, verifica una ingiustificata sospensione dei lavori di ripristino o la loro conclusione insufficiente ed incompleta ai fini della riparazione del danno. E’ da tener presente, peraltro, che se il responsabile risarcisce il danno ambientale (in forma specifica o per equivalente patrimoniale), non - 164 - potrà più subire aggravi di costi derivanti da azioni concorrenti di autorità diverse dal Ministero (regioni, Enti territoriali, ed altri); solo i soggetti che abbiano subito un danno a salute o beni di proprietà causato dallo stesso fatto che ha determinato il danno ambientale potranno agire in giudizio a propria difesa a tutela contro il responsabile che abbia già risarcito il danno ambientale. 3. Il risarcimento del danno ambientale in forma specifica o per equivalente. Le regole che la legge n.349/86 dedicava alla riparazione del danno ambientale, come già rilevato, erano contenute nei commi 6 e 8 dell’art. 18, nei quali rispettivamente si prevedeva che: “il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito del trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali”, e inoltre, “il giudice nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile”. L’art. 18 richiamava, quindi, entrambi i sistemi di risarcimento previsti dal diritto civile: quello in forma specifica e quello per - 165 - equivalente127. Il primo riguarda evidentemente il danno materiale, misurabile in denaro per via dell’aestimatio rei, l’altro riguarda il danno patrimoniale al calcolo del quale si procede con il metodo del quanti interest.128. In proposito la giurisprudenza di merito 129 , ha efficacemente sintetizzato la problematica affermando che la condanna al ripristino dei luoghi a spese del responsabile, nel quadro dell’art. 18, assumeva posizione dominante tra le forme risarcitorie, in virtù di deroga al disposto di cui al 2°comma dell’art.2058 c.c., e costituiva, la misura privilegiata da adottare, sol che fosse possibile, a preferenza della condanna al risarcimento pecuniario, in quanto essa appariva idonea a sopprimere la fonte della sequela dei danni che possono scaturire dalla condotta dell’agente. Il comma 8 costituiva, pertanto, una deroga rispetto alla disciplina fissata dall’art.2058 c.c. sotto un duplice profilo: da un lato privilegiava, a differenza di quanto fissato dal sistema codicistico, il risarcimento in natura rispetto a quello per equivalente, dall’altro, omettendo il comma 2 dell’art.2058 c.c., non subordinava quest’ultimo alla richiesta della parte interessata e all’accertamento sulla non “eccessiva onerosità” 127 Cfr. P. Maddalena, Danno Ambientale, Rimini, 1990,p-196 128 Cfr. C. Salvi, Il danno extracontrattuale, Napoli, 1995, pp. 35 e ss. 129 Cfr. Corte Cassazione Civile, sez..un.,n.440, 25 gennaio 1998 in www.diritto.it - 166 - per il danneggiante. Una volta accertata l’impossibilità (e non l’eccessiva onerosità) di disporre una nuova restitutio in integrum, il giudice in base all’art.18 comma 6 aveva davanti a sé due possibili strade: doveva condannare al risarcimento del danno sulla base del suo preciso ammontare (se quantificabile), ovvero determinare in via equitativa l’ammontare del danno, non calcolabile in termini certi, con la precisazione che il giudice doveva “tenere comunque conto della gravità della colpa, del costo necessario per il ripristino ed il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali” I criteri di determinazione del danno cambiano invece radicalmente nel nuovo regime introdotto dal Dlgs n.152/06. Difatti, il citato Dlgs, recependo in pieno quanto disposto dalla direttiva 2004/35/CE attribuisce al ripristino ambientale, questa volta in maniera esplicita, un ruolo prioritario. Sono però diversi, rispetto alla disciplina precedente, i presupposti in base ai quali l’amministrazione o il giudice possono dar luogo all’applicazione della predetta misura. Il secondo comma dell’art.313 D.lgs n.152/06, prevede, infatti che si dia luogo al risarcimento per equivalente pecuniario, qualora il “ripristino risulti in tutto o in parte impossibile, oppure eccessivamente oneroso ai sensi dell’art.2058 c.c.”. - 167 - Il richiamo all’eccessiva onerosità del ripristino è così delineata nei casi in cui la reintegrazione risulti eccessivamente onerosa per il debitore, onerosità che deve essere valutata di volta in volta in base al caso concreto. L’ambito del risarcimento in forma specifica, seppur prioritario, resta, comunque, assai più ristretto di quello delineato in precedenza dall’art.18 della legge n. 349/86, in quanto restano escluse dal risarcimento in forma specifica tanto le ipotesi di ripristino materialmente e tecnicamente impossibili, quanto quelle in cui lo stesso risulta eccessivamente oneroso per il debitore. L’amministrazione non potrà quindi esigere il ripristino non solo qualora accerti che la condotta illecita abbia provocato effetti irreparabili, ma neanche quando essa (o il giudice) valuti che detto ripristino, pur essendo “tecnicamente” possibile, comporti un costo eccessivo per il responsabile. In entrambe queste ipotesi il danno ambientale può e deve essere risarcito soltanto attraverso il pagamento per equivalente monetario. 3.1 Il risarcimento del danno ambientale alla luce dell’art.5 bis del DL n. 135/09 La disciplina introdotta dal Dlgs n.152/06 è stata, poi, di recente, ulteriormente modificata dall’art. 5 bis del DL n.135/09 inserita - 168 - direttamente dalla legge di conversione, che apporta rilevanti modifiche ai criteri di quantificazione del danno all’ambiente contenuti nella parte sesta del D.Lgs n.152/06. L’articolo in commento scaturisce da un’ennesima procedura di infrazione (n.2007/4679) nei confronti dell’Italia, a mezzo della quale la Commissione Europea ha ravvisato in alcune norme del DLgs n.152/06 profili di incompatibilità rispetto alla disciplina comunitaria introdotta dalla Direttiva n.2004/35/Ce. Le novità introdotte dall’art. 5 bis sono, in sintesi, le seguenti: a) viene modificato l’art.311, comma 2 del D.Lgs n.152/06. In particolare l’obbligo - previsto nel testo previgente- di ripristinare la situazione precedente, ovvero di corrispondere un risarcimento per equivalente patrimoniale viene sostituito da una previsione più analitica, in base alla quale il responsabile del danno dovrà procedere, secondo l’ordine di priorità stabilito dalla norma, all’effettivo ripristino della precedente situazione, ovvero all’adozione di misure di riparazione complementare e compensativa, ovvero al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato; b) viene modificato l’art. 311 comma 3. In particolare si prevede che i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente e dei casi di eccessiva onerosità siano stabiliti con futuro decreto del Ministero dell’Ambiente; - 169 - c) i nuovi criteri dell’obbligazione risarcitoria del danno ambientale stabiliti dall’art.311 commi 2 e 3 si applicano anche alle domande già proposte ovvero da proporre ai sensi dell’art.18 della legge n.349/86, ovvero, “ai sensi del titolo IX del libro IV del codice civile o ai sensi delle altre disposizioni non aventi natura speciale”, fatta esclusione per “le pronunce passate in giudicato”; d) alle vecchie e nuove domande di risarcimento del danno ambientale si applica il divieto imposto dall’art.315 del DLgs n.152/06 (il Ministero dell’Ambiente qualora adotti ordinanza per la quantificazione del danno di cui all’art.313 non può proporre contemporaneamente giudizio per il risarcimento del danno ambientale). 3.2 L’obbligo di adottare misure di riparazione complementare e compensativa. In relazione alla quantificazione del danno ambientale, l’art.311, comma 2, del DLgs n.152/06- così come riformulato dall’art.5 bis del DL 135/09- prevede oggi che il responsabile del danno ambientale sia tenuto: “all’effettivo ripristino a sue spese della precedente situazione e, in mancanza, all’adozione di misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva n. 2004/35/ce, secondo le modalità prescritte dall’allegato II alla medesima direttiva da effettuare entro il - 170 - termine congruo di cui all’art 314 comma 2 del presente decreto. Quando l’effettivo ripristino o l’adozione di misure di riparazione complementare o compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ai sensi dell’art.2058 del c.c. o comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, il danneggiante è obbligato in via sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato, determinato conformemente al comma 3 del presente articolo per finanziare gli interventi di cui all’art.317 comma 5”. Nella versione previgente, l’art.311, comma 2, stabiliva che il responsabile del danno ambientale fosse obbligato “al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”. Il primo quesito che si pone in sede i interpretazione della normativa all’interprete riguarda la reale portata della novità legislativa introdotta dall’art. 5 bis in tema di quantificazione di danno all’ambiente. Invero, la distinzione tra forme di riparazione primaria, complementare e compensativa era già posta dall’allegato 3 alla parte sesta del DLgs n.152/06 (allegato, che a sua volta, riprendeva le analoghe disposizioni dell’allegato II della direttiva 2004/35/ce), ma, tuttavia, tale distinzione non ha visto grande attuazione, né alla stessa è stata attribuita dagli operatori del diritto la dovuta applicazione. L’allegato 3 detta una disciplina a dir poco minuziosa delle varie - 171 - forme di ripristino ambientale ammesse e dei criteri di scelta tra le varie opzioni di ripristino ambientale130 . In effetti nella procedura di infrazione n.2007/4679 la Commissione Europea non ha censurato il legislatore italiano per una inesatta trasposizione degli istituti della riparazione primaria, complementare e compensativa. Ciò che la Commissione ha contestato al legislatore italiano è stato il fatto che le varie disposizioni del DLgs n.152/06 consentono che le misure di riparazione possano essere sostituite da risarcimenti per equivalente pecuniario . Oltre che nel sopra richiamato art.311 comma 2 del DLgs n.152/06, tale impostazione da parte del legislatore italiano si ritrova, tra l’altro, nell’art. 313, paragrafo 2, il quale prevede che “qualora il ripristino risulti 130 In particolare secondo l’allegato 3 si intende: - Per riparazione primaria: “qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse danneggiate alle o verso le condizioni originarie” - Per riparazione complementare: “qualsiasi misura o riparazione intrapresa in relazione a risorse naturali per compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati” - Per riparazione compensativa: “qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo” - 172 - in tutto o in parte impossibile, il Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio, con successiva ordinanza ingiunge il pagamento, entro il termine di 60 gg dalla notifica, di una somma pari al valore economico del danno accertato o residuato, a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario”. La Commissione ha altresì sottolineato che le modalità di calcolo del danno per equivalente patrimoniale di cui all’art.314, comma 3, prevedono la possibilità che il danno sia calcolato proporzionalmente alla somma corrispondente alla sanzione amministrativa, o penale, applicata, ovvero al numero di giorni di pena detentiva erogati. Tale approccio consente, dunque, che il pagamento risulti effettivamente svincolato dall’entità del danno ambientale arrecato, contrariamente al principio “chi inquina paga” esplicitamente richiamato nell’art. 1 della direttiva e all’obiettivo espresso nel secondo “considerando” della direttiva, ovvero che la responsabilità finanziaria per gli operatori la cui attività ha causato un danno ambientale sia tale da indurli ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale. Infine, sempre in base al “richiamo” effettuato, il DLgs n.152/06 consente che le misure di riparazione possano essere sostituite da risarcimento per equivalente patrimoniale anche laddove la sola riparazione primaria non è possibile. Ai sensi di tale articolo, il - 173 - responsabile del danno ambientale è infatti obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale. Manca, dunque, nella normativa italiana l’obbligo, laddove il ripristino della precedente situazione (riparazione primaria) non sia possibile, di individuare adeguate misure di riparazione complementare e compensativa, così come richiesto ai sensi dell’art.7 in combinato disposto con l’allegato II della direttiva. I profili di censura evidenziati nei confronti del legislatore ambientale italiano dalla Commissione Europea sono puntuali. Il pensiero della Commissione può essere sintetizzato in maniera chiara: il legislatore italiano avrebbe tradito la Direttiva n.2004/35/Ce nel momento in cui ha previsto una prevalenza del risarcimento ambientale in forma monetaria, rispetto alle forme di ripristino in forma specifica (sotto forma di riparazione primaria, complementare e compensativa) individuati e disciplinati a livello comunitario. In effetti la semplice lettura delle norme della parte sesta del D.Lgs n.152/06 conferma che gli istituti della riparazione complementare e compensativa – quali forme alternative alla riparazione primariaassumevano un rilievo marginale. Il riferimento esplicito all’allegato 3 della parte sesta del D.Lgs - 174 - n.152/06 compare difatti soltanto nell’art.306 (laddove si afferma che gli operatori individuano possibili misure per il ripristino ambientale che risultino all’allegato 3 e presentano per l’approvazione al Ministero dell’Ambiente) e nell’art.311, comma 3, (secondo cui alla quantificazione del danno il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio provvede in applicazione dei criteri enunciati negli allegati 3 e 4). Mancava però un esplicito collegamento tra gli istituti della riparazione complementare e compensativa, e l’art.311, comma 2, come già sottolineato, si limitava nella sua formulazione precedente a obbligare il responsabile al ripristino ovvero, in mancanza, al risarcimento per equivalente. Ha avuto quindi buon gioco la Commissione nell’affermare, sempre nella procedura di infrazione citata, che “nel determinare le misure di riparazione complementare e compensativa, l’allegato II, punto 1.2.2 della direttiva stabilisce che si debbano prendere in considerazione prioritariamente i metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizioservizio. Ai sensi dell’allegato II, punto 1.2.3 metodi alternativi di valutazione (tra cui la valutazione monetaria) sono consentiti solo laddove non sia possibile utilizzare metodi di equivalenza suddetti. Occorre osservare che benché la direttiva preveda in taluni casi l’utilizzo di tecniche di valutazione monetaria, queste sono da utilizzarsi - 175 - allo scopo di determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa e non allo scopo di sostituire tali misure ( o le misure di riparazione primaria) con risarcimenti pecuniari . In conclusione, anche nella precedente versione dell’art. 311, comma 2, nulla impediva di interpretare il concetto di riparazione in forma specifica con riferimento alla gerarchia esplicita di misure di ripristino (primaria, complementare e compensativa) stabilita a livello comunitario, ma ciò non accadeva nella applicazione pratica così vanificandone lo stesso significato precettivo. La riformulazione della norma rende, ora, esplicita una soluzione ermeneutica che, nella sostanza, appariva già obbligata alla luce di una lettura complessiva della parte sesta del D.Lgs. n.152/06 e della Direttiva 2004/35/Ce. 3.3 Le ipotesi di risarcimento in forma monetaria. La seconda parte del nuovo art. 311, comma 2, afferma il principio per cui il risarcimento in forma monetaria è comunque necessario, qualora il ripristino inteso anche come adozione di misure di riparazione complementare e compensativa risulti omesso, impossibile o eccessivamente oneroso ovvero attuato in modo incompleto o difforme rispetto a quanto prescritto. - 176 - L’obbligo del risarcimento per equivalente nel caso di impossibilità o eccessiva onerosità del ripristino costituiva un principio già affermato dall’art.313, comma 2, del D.L.gs n.152/06. E’ peraltro evidente che si può dubitare, anche dopo le modifiche apportare dall’art.5 bis, della piena conformità della seconda parte del comma 2 dell’art.311 ai principi comunitari. Se difatti è vero che la Direttiva n.2004/35/ce non prevede una forma autonoma di risarcimento per equivalente destinato a soppiantare la riparazione primaria dell’ambiente, anche la previsione dell’ammissibilità per risarcimento per equivalente, nei casi di impossibile o eccessivamente oneroso ripristino in forma specifica, dà adito a dubbi di legittimità. Sorge, infatti, il dubbio se, rispetto all’istituto della riparazione complementare ovvero della riparazione compensativa, sia davvero concepibile una impossibilità concreta di attuazione ovvero un’eccessiva onerosità. 3.4 Il decreto sui criteri di quantificazione L’art. 5 bis del DL n. 135/0 ha aggiunto all’art.311, comma 3 del D.Lgs n.152/06 il seguente periodo: “con decreto del Ministero dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare, da emanare entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi - 177 - dell’art.17comma 3 della legge n.400/88 sono definiti in conformità all’allegato alla Direttiva 2004/35/Ce, i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente e dell’eccessiva onerosità, avendo riguardo anche la valore monetario stimato dalle risorse naturali e dai servizi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili ed in materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e comunitario” 131. Anche in questo caso, suscitano perplessità determinazione del risarcimento per equivalente i criteri di e dell’eccessiva onerosità, che il decreto del Ministero dell’Ambiente è chiamato a definire. Tali criteri, secondo quanto ora previsto dall’art. 311 comma 3, sono individuati “avendo riguardo anche al valore monetario stimato delle risorse e dei servizi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e comunitario”. Al riguardo appare insolita l’utilizzazione, come principio direttivo, 131 Non si tratta di una novità, già l’art.299, comma 5 del DLgs n.152/06, prevedeva l’adozione di un decreto ministeriale (mai emanato) per stabilire “i criteri per le attività istruttorie volte all’accertamento del danno ambientale e per la riscossione della somma dovuta per equivalente patrimoniale” - 178 - del riferimento alle sentenza passate in giudicato nazionali o comunitarie in tema di danno ambientale per equivalente: questa tipologia di sentenze – in particolar modo quelle nazionali 132 -oltre ad essere estremamente rara, appare assolutamente eterogenea e quindi di difficile aiuto nella definizione di un criterio unitario per la determinazione del quantum del danno ambientale. 3.5 La disapplicazione dell’art.18 della legge 349/86 L’art. 5 bis del DL n. 135/09 ha aggiunto all’art.303, comma 1, lett. f) il seguente periodo “i criteri di determinazione dell’obbligazione risarcitoria stabiliti dall’art.311, commi 2 e 3 , si applicano anche alle domande di risarcimento proposte o da proporre ai sensi dell’art. 18 legge .n.349/86, in luogo delle previsioni dei commi 6,7 e 8 del citato articolo 18, o ai sensi del titolo IX del codice civile o ai sensi delle disposizioni non aventi natura speciale con esclusione delle pronunce passate in giudicato 132 Ancor oggi per le rare sentenze che hanno stabilito in concreto la liquidazione del danno ambientale, si è costretti a far cenno alla decisione della pretura di Rho (in un caso di inquinamento d’acqua, ha utilizzato i criteri di cui all’art.18 l.n.349/86 limitandosi a liquidare 500.000.000); o ancora la sentenza della Corte di appello di Messina del 30 marzo 1898 – “caso Patmos”- in cui in un caso di inquinamento del mare per fuoriuscita di greggio il giudice ha quantificato il danno all’ambiente sulla base del prezzo di mercato delle risorse ittiche danneggiate; infine la clamorosa sentenza del Giudice di Torino (che si avrà modo di commentare nel prosieguo del presente lavoro) che ha condannato la Syndial ad un risarcimento di circa Euro 1.800.000.000., che tuttavia appare evidente che resterà un unicum giuridico, tale da non consentire alcun tipo di confronto di applicazione analogica. - 179 - per le quali trova applicazione la previsione dell’art.315 del presente decreto”. In sostanza, l’art. 5 bis, ha completamente cristallizzato i criteri di determinazione del danno dell’art. 18 della legge n.349/86, che come già sottolineato – hanno dato luogo- nei pochi casi in cui gli stessi hanno trovato applicazione giudiziaria- a non pochi problemi di interpretazione, per la loro intrinseca contraddittorietà e per il carattere latamente punitivo che la norma dell’art. 18 sembrava riconoscere al danno ambientale in quanto tale. Degna di nota è la previsione per cui i nuovi criteri di determinazione si applicano non solo alle domande giudiziali future ma anche a quelle già proposte ed oggetto anche di sentenza purchè non passata in giudicato. La disapplicazione dell’art.18 si applica alle domande giudiziali proposte ai sensi dell’art.18 legge n.349/86, ovvero ai sensi delle norme previste dal codice civile in tema di responsabilità (il riferimento implicito ma chiaro è all’art.2043 c.c. nonché alle norme che stabiliscono presunzioni di responsabilità per l’esercizio di attività pericolose e per il danno da cose di custodia art.2050 e 2052 c.c.). Meno chiaro appare il riferimento alle domande di risarcimento proposte (o da proporre) ai sensi delle altre disposizioni non aventi natura speciale. Le uniche sembrano costituite dall’art.58 del DLgs n.152/99 e dai - 180 - commi 439-443 della legge n.266 del 2005 (peraltro abrogate dal DLgs n.152/06). 3.6 La quantificazione presuntiva del danno in caso di illecito penale o amministrativo L’art.314 del DLgs n.152/06, comma 3, applicabile nei casi in cui l’illecito civile per danno all’ambiente sia contestualmente qualificabile come illecito amministrativo o penale, prevede che ove non sia “motivatamente possibile” l’esatta quantificazione del danno non risarcibile in forma specifica, o di parte di esso, il danno per equivalente patrimoniale si presume, fino a prova contraria, di ammontare non inferiore al triplo della somma corrispondente alla sanzione pecuniaria amministrativa, oppure alla sanzione penale, in concreto applicata. Se sia stata erogata una pena detentiva, al fine della quantificazione del danno, il ragguaglio tra la stessa e la somma da addebitare a titolo di risarcimento del danno ha luogo calcolando quattrocento euro per ciascun giorno di pena detentiva. In caso di sentenza di condanna in sede penale o di emanazione del provvedimento di cui all’art.444 c.p.p., la cancelleria del giudice che ha - 181 - emanato la sentenza o il provvedimento trasmette copia degli stessi al Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio entro cinque giorni dalla loro pubblicazione. Le regioni, le Province autonome e gli altri Enti Territoriali, al fine del risarcimento del danno ambientale, comunicano al Ministero le sanzioni amministrative entro 10 giorni dell’avvenuta irrogazione. E’ stato notato come tale norma manifesti una scelta legislativa che appare collocarsi sul versante opposto a quello della responsabilità per danno da valutare sotto il profilo economico, in quanto si provi che esso rappresenta un “deterioramento significativo e misurabile” della risorsa naturale o di una sua utilità. Si tratterebbe infatti, in concreto, di una “scorciatoia”, che a seconda delle sue future applicazioni, rischia di “eludere” l’approccio comunitario recepito nelle iniziali disposizioni della Parte VI del decreto legislativo 152. 3.7. Il risarcimento del danno come fattispecie premiale Il ripristino ambientale costituisce una fattispecie premiale, diretta ad operare sulle sanzioni penali previste dal D.L.gs n.152/06 incentivando il trasgressore ad adottare le necessarie azioni di bonifica al fine di avvalersi dei benefici di legge previsti. - 182 - L’art.139 del DLgs n.152/99, pone così in correlazione l’obbligo di bonifica e di risarcimento del danno con la possibilità di avvalersi del beneficio della sospensione condizionale della pena per i reati previsti per la violazione delle norme in materia di tutela delle acque all’art.137 del D.Lgs n.152/06, tra i quali riveste particolare importanza pratica il reato di superamento dei valori limiti tabellari. L’art. 139 prevede infatti che “con la sentenza di condanna per i reati previsti nella parte III del presente decreto, o con la sentenza di condanna ex art. 444 cpp, il benefico della sospensione condizionale della pena può essere subordinato al risarcimento del danno e all’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino” La norma dell’art.139 DLgs n. 152 riflette, peraltro, quanto era già previsto dall’art. 51 bis del D.Lgs n.22/97 per la mancata esecuzione degli obblighi di bonifica, il quale prevede, all’ultimo periodo che “con la sentenza di condanna per la contravvenzione di cui al presente comma, o con la decisione emessa ai sensi dell’art.444 cpcp., il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato all’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale”, norma ora trasfusa nella analoga sanzione di cui all’art.257del DLgs n.152/06. Una previsione analoga è contenuta nel comma 3 dell’art.256 del DLgs n.152/06 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata) e al comma 2 - 183 - dell’art.259 (traffico illecito di rifiuti). Va altresì ricordato che già ai sensi dell’art.165 del codice penale la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno e, può essere altresì subordinata, salvo che la legge disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna. Tale previsione potrà essere applicabile per impartire ulteriori prescrizioni dirette all’eliminazioni delle conseguenze dannose o pericolose dell’illecito, eventualmente non rimuovibili tramite la sola bonifica e/o il risarcimento del danno ulteriore quantificabile forfettariamente. Peraltro, a differenza di quanto specificatamente previsto dall’art.13, il giudice non può subordinare la sospensione della pena all’esecuzione di tali obblighi in sede di patteggiamento ex art 444 cpp, in quanto la giurisprudenza 133ha ritenuto illegittima la sentenza emessa a 133 Cfr Corte Cassazione Penale, sez.VI, amministrativa.com - 184 - n.2840, 12.01.99, in www.giustizia- seguito di patteggiamento che subordini il beneficio della sospensione condizionale della pena, su cui le parti hanno concordato, all’adempimento di obblighi civilistici da parte dell’imputato, poiché il giudice in tale rito è stretto nell’alternativa tra il conformare integralmente la decisione agli esatti termini del patto e il respingerlo, procedendo a rito ordinario. 3.8 Il risarcimento del danno come circostanza attenuante. Un ulteriore stimolo all’esecuzione degli obblighi risarcitori conseguenti al danno arrecato con l’inosservanza delle prescrizioni del decreto è stato posto dal legislatore con la circostanza attenuante dell’art.140 D.Lgs n.152/06, applicabile ai reati in violazione di norme sulla tutela delle acque, in base al quale “nei confronti di chi, prima del giudizio penale o dell’ordinanza ingiunzione, ha riparato interamente il danno, le sanzioni penali, amministrative previste dal presente titolo sono diminuite dalla metà a due terzi”. Trattasi di un’attenuante speciale rispetto a quella prevista dall’art.62, comma 6 del codice penale, che prevede l’operatività della stessa qualora prima del giudizio si sia riparato interamente il danno mediante il risarcimento (…) . A differenza dell’attenuante comune ex art. 62 cod.pen., che - 185 - consente una riduzione della pena in misura non eccedente un terzo, l’attenuante speciale del DLgs n.152/06, comporta una più marcata riduzione che può arrivare fino a due terzi della pena. L’attenuante, inoltre, in modo del tutto innovativo, è applicabile anche ai semplici illeciti amministrativi. Va sottolineato come l’attenuante, per poter operare preveda l’obbligo di riparare interamente il danno entro termini tassativi ben precisi, e cioè :1) per il caso di reati, prima del giudizio penale (e cioè al più tardi all’apertura del dibattimento); 2) per il caso di illeciti amministrativi, prima dell’ordinanza ingiunzione con cui l’autorità competente determina la somma dovuta per la violazione e ne ingiunge il pagamento, ai sensi dell’art. 18 della legge n.689/8. Un eventuale intervento successivo a tali momenti, per quanto efficace, non permetterà, al contrario, la possibilità di avvalersi della circostanza attenuante speciale. 4.La prova del danno ambientale Pur nella diversità di prospettiva, tra la responsabilità ex art.2043 c.c e quella ex art 2050 e 2051 c.c, occorre distinguere tra la prova (e la relativa allegazione) del verificarsi del fatto generatore del danno ambientale e della relativa imputazione e le conseguenze che ne derivano. - 186 - Sotto questo profilo, la qualificazione del danno ambientale quale danno-evento e di quelli individuali come danni-conseguenze sembra comportare una certa differenziazione. In diversi casi si è infatti ritenuto che una volta accertata la compromissione dell’ambiente in conseguenza del fatto illecito altrui, la prova del danno patito dalla PA deve ritenersi in re ipsa134 e che, quindi, la prova del danno ambientale può essere anche fornita tramite presunzioni, specialmente quando risulti che i rifiuti pericolosi siano venuti in contatto con il suolo, con l’aria o con eventuali piogge o neve, essendo noto che in tali evenienze essi interagiscono con le componenti ambientali per il solo fatto di essere accomunati in un luogo senza precauzioni 135 , ovvero, in caso di accertata violazione di norme anti inquinamento, penalmente sanzionate, senza che (ai fini della condanna generica in sede di statuizioni civili in sede penale), il titolare del diritto al risarcimento debba fornire la prova dell’an debeatur, bastando che il fatto illecito accertato sia potenzialmente idoneo a produrre danno.136 134 Cfr Cass.Civ, sez.III, 10 ottobre 2008, n. 25010 in www.diritti&diritti 135 Cfr Cass pen, sez.III, n.4261,8 febbraio 1991 in www.diritti&diritti 136 Cfr Cass pen, sez.III, n.6190, 31 marzo 1994 in www.diritti&diritti, in una fattispecie relativa alla violazione dell’art.21 della legge n.310/76, recante norme per la tutela delle acque e dell’inquinamento, consistita nello sversamento , nelle acque del torrente Bormida, di reflui di lavorazioni contenenti valori di PH superiori al consentito. - 187 - Non mancano, peraltro, decisioni che negano autosufficienza all’allegazione del semplice dato obiettivo dell’evento generatore del danno ambientale, e che richiedono che questo sia specificatamente allegato e provato tramite prove documentali, testimoniali senza che le stesse possano essere surrogate da una CTU, la quale non può mai essere ammessa ed espletata per sopperire all’inerzia probatoria della parte e soprattutto non può avere finalità semplicemente esplorative, volte cioè a ricercare, in luogo della parte onerata, gli elementi fattuali da porre a sostegno delle pretese fatte valere nella causa. Né si obietti che il danno ambientale sia rilevabile solo con il ricorso a determinate cognizioni tecniche, sicchè, versando la parte nell’impossibilità di provarlo in altro modo, non possa il giudice, senza contraddirsi, respingere l’istanza di consulenza e nello stesso tempo ritenere non provato ciò che proprio essa avrebbe dovuto dimostrare. 137 Tale impostazione sembra preferibile, anche in considerazione del TU , in quanto, come evidenziato da parte della dottrina, se in linea di principio fatti evidenti di inquinamento ambientale devono far presumere la sussistenza di un danno, occorre però, tenere presente da un lato la definizione dell’art.300, che àncora il danno stesso alla sussistenza di ben 137 Cfr Cass. Civ. sez.III, n.1087, 3 febbraio 2008 in www.diritti&diritti - 188 - precisi presupposti ed effetti, e, dall’altro, alla previsione di obblighi di comunicazione da parte dell’operatore e di intervento e di istruttoria da parte del Ministro, sì che, nel complesso, è da prevedere la riduzioni di spazi per ricostruzioni meramente presuntive, non ancorate alla verifica in concreto. 138 5. Il risarcimento del danno ambientale nella scienze economiche. L’innegabile importanza dell’ambiente in relazione ai meccanismi della produzione ha indotto la scienza economica, almeno negli ultimi decenni, a sforzarsi di definirne il ruolo nell’ambito del mercato. L’economia ambientale è appunto la disciplina che studia i problemi dell’ambiente dal punto di vista dell’analisi economica, allo scopo di individuare gli strumenti di politica ambientale più idonei ad attuare una distribuzione ottimale, tra usi alternativi, delle risorse naturali la cui destinazione non viene regolata attraverso i meccanismi di mercato. Il solo meccanismo del mercato non garantisce una gestione efficiente delle risorse ambientali, poiché il mercato tende ad assegnare alla risorsa un prezzo comunque inferiore al suo valore sociale. 138 Cfr Fimiani, Le nuove norme del danno ambientale, in Ambiente e diritto , n. 9/10 - 189 - Il valore di un danno ambientale è determinato dalla perdita, non compensata, di benessere da parte di una collettività: la misura del danno è, dunque, il parametro dei costi subiti e/o dei benefici perduti.139 Il suggerimento avanzato dalla teoria economica dell’ambiente, per ovviare alla situazione di fallimento del mercato, consiste in interventi correttivi del settore pubblico mirati ad introdurre meccanismi (economici e/o di controllo sociale e politico) che orientino diversamente lo sviluppo: siccome ogni azione umana ha un impatto sull’ambiente, si tratta allora di valutare se tali impatti (che comportano costi ambientali) siano giustificati alla luce dei benefici che si possono ottenere. Ogni regola di politica economica ambientale dovrà allora sforzarsi di calcolare un “giusto prezzo sociale” per l’uso ottimale delle varie risorse dell’ambiente, anche se il calcolo di questo prezzo richiede la considerazione di una serie di indicatori alcuni dei quali difficili da precisare. Difatti, secondo una classica ricostruzione della dottrina economica 139 Per costi e benefici ambientali si intendono rispettivamente la perdita o l’accrescimento del valore dello stock di capitale naturale ovvero l’imposizione di costi o di benefici tramite una modifica della qualità ambientale. I costi ambientali possono essere a carattere diretto o indiretto, legati all’uso di risorse quali il capitale o il lavoro sostenuti per incrementare l’offerta di benefici ambientali o per ridurre i costi ambientali. Tali costi sono misurabili in termini di perdita di valore dell’ambiente o di danni provocati ad altri individui. - 190 - 140, i benefici che la collettività può trarre dalle risorse ambientali derivano non soltanto dal valore d’uso delle risorse stesse, che attengono direttamente alla migliore utilizzazione della risorsa ambientale in un dato momento ( ad es. i pesci di un fiume per un pescatore, i funghi per il raccoglitore..), ma anche da valori non uso (come tali intendendosi quelle utilità che il soggetto attribuisce alla natura di fronte ad un bel panorama..), nonché dai c.d. valori di opzioni, che gli individui attribuiscono a determinati beni ambientali indipendentemente da una loro utilizzazione diretta o indiretta e derivanti dalla consapevolezza di voler mantenere intatto un patrimonio per possibili future utilizzazioni. Invero per gli economisti, il danno ambientale dovrebbe essere concepito come la perdita di benessere subita da alcuni individui per effetto dei mutamenti indotti sull’ambiente da azioni di cui altri soggetti vengono, in vario modo, riconosciuti responsabili. L’idea di fondo è semplice : il benessere dipende dall’ambiente; chi, senza averne diritto, riduce la qualità dell’ambiente infligge ad altri una perdita di benessere che può essere considerata un danno. La concettualizzazione economica del danno ambientale come perdita illegittima di benessere ha un ovvio corollario: la determinazione 140 Cfr D.W. Perce – R.K Turne, Economie delle risorse naturali e dell’Ambiente, Bologna, 1991, - 191 - del valore del danno non può che basarsi sulla stima di questa perdita e dovrebbe configurarsi come risarcimento nei confronti di chi ha subito la perdita. 141 Il metodo economico permette, almeno in linea di principio, di quantificare il danno anche in presenza di mutamenti irreversibili nel mondo fisico: si tratterà della perdita permanente del benessere, che potrà essere anche molto elevata, conseguente a quei mutamenti. Non è, pertanto, necessario far riferimento al criterio del profitto indebitamente lucrato, che presenta sempre dei limiti quantitativi. E questo per la semplice ragione che non vi sono legami sistematici tra i profitti lucrati da chi compie l’azione e il danno di chi la subisce : quel che conta è il danno subito. In breve occorre cercare di ricostituire il livello di benessere al quale i danneggiati hanno implicitamente diritto. La perdita del benessere è il termine essenziale di riferimento per la valutazione economica del danno ambientale. Pertanto, individuato il benessere quale bene leso dal fatto causativo del danno ambientale, gli economisti usano distinguere, per la quantificazione del danno, tra metodi diretti e metodi indiretti. 141 Cfr M. Franzini, I metodi di valutazione economica e il danno ambientale: le ragioni di un difficile rapporto Giuffrè Editore 2006 - 192 - I metodi indiretti,142 detti anche “preferenze rilevate”, cercano di desumere il valore delle risorse ambientali a partire dai comportamenti economici e di mercato effettivamente tenuti dai vari soggetti nello svolgimento di attività variamente connesse ai beni ambientali. 143 Essi si basano sull’idea che quei comportamenti, se adeguatamente esaminati, possano rilevare ai del valore assegnato dagli individui ai beni ambientali. L’aspetto caratteristico dei metodi diretti, invece, consiste nel tentativo di ottenere una dichiarazione diretta del valore attribuito alla risorsa anche da parte di chi non ne fruisce 144. Infatti, la valutazione contingente consiste sostanzialmente in interviste articolate e approfondite, in cui è essenziale trasmettere all’intervistato la migliore informazione disponibile, le quali hanno lo scopo principale di ottenere la “dichiarazione” del valore attribuito alla risorsa o al bene ambientale dai vari soggetti intervistati. Il caso più noto, e oramai storico, di applicazione del metodo è 142 I metodi indiretti più noti sono quelli delle spese di viaggio, dei prezzi edonici e delle spese difensive 143 I metodi indiretti più noti sono quelli delle spese di viaggio, dei prezzi edonici e delle spese difensive. 144 Tra i metodi diretti rientrano, oltre alla valutazione contingente, l’ordinamento contingente e la con joint anaysis . Si noti che questi metodi sono in grado di stimare non soltanto il valore di uso dei beni ambientali ma il valore complessivo, naturalmente a condizione che i soggetti intervistati attribuiscano alla risorsa entrambi i tipi di valore. - 193 - quello che ha riguardato la Exoxon Valdez . Lo stato dell’Alaska chiese in giudizio che venissero calcolati anche i danni connessi ai valori di non uso145, sui quali la ricerca aveva attirato l’attenzione già da tempo. A questo scopo venne realizzato uno studio che individuò la perdita di valore di non uso determinata dal danno per l’individuo mediano e, a partire da questo, per l’intera collettività di riferimento. 6 La valutazione del danno ambientale nella giurisprudenza di merito: i primi casi concreti di quantificazione del danno. Le prime sentenze con le quali i giudici di merito hanno provveduto alla quantificazione dei danni, in base ai criteri di cui alla legge n. 349/86, sono le seguenti. Il primo provvedimento è stato pronunciato dalla Pretura di Rho in data 29 giugno 1989 in relazione ad una fattispecie di inquinamento doloso di un corso d’acqua (il torrente Lura), nel quale alcune società industriali (Petrolcar, Autoservizi industriali e Ecotrans) avevano sversato rifiuti tossici nocivi. 145 La rilevanza dei valori di non uso per la valutazione e anche per la determinazione del danno ambientale è stato oggetto di lunghe discussioni da molto tempo. Oggi vi è un’ampia convergenza sull’idea che essi siano un’importante componente del valore dei beni ambientali e culturali - 194 - In tale caso, appunto, il giudice ha riconosciuto la responsabilità penale degli imputati condannandoli al risarcimento in favore delle parti civili (Ministero dell’Ambiente, Provincia di Milano, Comune e USL di Rho). Nella specie, il Pretore aveva ritenuto di applicare dei criteri stabiliti dall’art.18 comma 6 secondo l’iter logico giuridico che si riporta : - quanto alla gravità della colpa, essa è stata ritenuta in massimo grado “posto che si è aggirata la normativa rigorosa stabilita dal legislatore, si sono vanificati con un solo fatto e senza la minima difficoltà tutti gli sforzi compiuti dalla Autorità Statali e locali per tentare d arginare il fenomeno dell’inquinamento in zone densamente popolate nelle quali le condizioni di vita della popolazione sono già precarie sotto il profilo del diritto primario della salute costituzionalmente tutelato” 146 - il secondo parametro, ossia il costo necessario per il ripristino, è stato valutato in relazione ad un progetto esistente per la bonifica del bacino cui faceva parte il torrente inquinato, 146 La dottrina ha rilevato criticamente come “il Pretore di Rho sembra aver frainteso la gravità della colpa con la gravità del fatto di reato o con le conseguenze dannose prodotte. Infatti la valutazione del giudice si concentra sulla portata del pregiudizio conseguente alla condotta illecita – sotto il profilo alla lesione del primario diritto alla salute – piuttosto che sull’intensità della colpevolezza” (Paone , La valutazione del danno Ambientale in www.diritto.it materia /ambiente - 195 - specificandosi che “per i soli interventi relativi al torrente Lura risulta siano stati stanziati circa 42 miliardi, ciò induce a valutare l’entità del danno risarcibile nella fattispecie de quo in misura proporzionale – seppur ridotta in relazione alla parte di danno arrecato – a tale cifra”147 - infine, il profitto conseguito dal trasgressore è stato considerato particolarmente alto poichè, lo “smaltimento regolare dei rifiuti avrebbe comportato costi molto elevati in considerazione dell’estrema scarsità dell’attuale offerta di mercato relativa allo smaltimento regolare dei rifiuti tossiconocivi e del notevole quantitativo di rifiuti da smaltire”. La decisione del Pretore, però, non prescindeva dalla considerazione che il ricorso ai parametri sopra menzionati non permetteva comunque la determinazione di una somma precisa neanche in un’eventuale successiva causa civile (non potendosi neanche in tale sede usufruire di altri elementi valutativi); pertanto lo stesso Pretore ritenne più opportuno avvalersi dei criteri di cui all’art. 18 della legge n. 349/86. 147 Nel motivare sul punto il Pretore di Rho ha assunto, pertanto, a fondamento della propria valutazione l’esistenza di un progetto di bonifica risalente ad almeno sette mesi prima dall’accertato scarico ei rifiuti nel torrente Lura : viceversa il ripristino il cui costo deve essere considerato ai fini della quantificazione del danno è quello che si rende necessario a seguito del fatto lesivo. Il progetto dunque sarebbe dovuto essere successivo al verificarsi del danno: ciò al fine di considerare la situazione ambientale così come risultava essere a seguito dello scarico illecito e su quella base calcolare il costo necessario per il ripristino. (Paone , op.cit.) - 196 - La sentenza in questione ha suscitato non pochi commenti in ordine alla difficoltà di comprendere i passaggi logici effettuati dal giudice per addivenire alla liquidazione della somma liquidata: in particolare, sfuggono le voci di danno che, nel ragionamento del giudice, sono state valutate per la quantificazione del risarcimento, né si comprende il quid assunto dal pretore per misurare il lucro cessante e il danno emergente in materia ambientale ex art 1223 cod.civ. La seconda sentenza che ha visto un giudice quantificare un danno dell’ambiente sulla scorta dei criteri stabiliti dall’art. 18 della legge n.349/86 è del 2002. Con tale sentenza gli imputati ed il responsabile civile furono condannati solidalmente tra loro al risarcimento in favore della parti civili. Il giudice ha quantificato il danno risarcibile sulla base di un accertamento dell’alterazione dell’ambiente in seguito alla fuoriuscita accidentale dallo stabilimento industriale di rilevanti quantità di ammoniaca. Anche in tale fattispecie il risarcimento è stato valutato in via equitativa. Difatti, è stato premesso che non risultava possibile la quantificazione del danno, atteso che l’evento dannoso aveva assunto connotazioni tali da non permettere il ripristino e dunque, da rendere - 197 - impossibile la quantificare il danno secondo un prezzo certo di mercato del valore d’uso del bene danneggiato. Talchè il costo necessario per il ripristino è stato calcolato dal tribunale sul valore di un’attività di ripristino ambientale mirata a depurare almeno l’acqua dall’abbattimento dell’ammoniaca presso un impianto pubblico di depurazione. Il giudice ha tuttavia valutato la suddetta attività solo a parziale computo del danno, poiché l’intervento di depurazione, connotandosi come intervento di emergenza, non può considerarsi risolutivo di ogni problema risultando certo che non consente l’abbattimento dell’intera quantità dell’ammoniaca nell’atmosfera. Le due sentenze sopra citate sollecitano almeno due considerazioni. Malgrado la specifica tutela offerta dalla legge n.349/86, i giudici hanno fatto un uso assai limitato della disciplina citata: la circostanza pare giustificarsi dalla particolare natura dell’ambiente, vale a dire di un bene che non si presta di per sé ad essere misurato in termini meramente monetari essendo inappropriabile, non commerciabile, e, quindi, come tale privo di un valore economico. 148 148 Non aiutano in proposito nemmeno le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla commisurazione del risarcimento al valore d’uso dell’ambiente (“in quanto il bene ambiente è fuori commercio e come tale - 198 - Ambedue le sentenze richiamate procedono alla valutazione del danno ambientale in via equitativa: pur nella specificità delle due situazioni sottostanti alle pronunce dei giudici, la circostanza è emblematica delle oggettive difficoltà che si frappongono all’utilizzazione degli altri canoni previsti dall’art.18. Nondimeno, malgrado queste difficoltà, alla disciplina della legge del 1986 va comunque il merito di aver riconosciuto rilevanza autonoma al bene ambiente e di aver introdotto nel nostro ordinamento la specifica disciplina risarcitoria del danno ambientale, colmando così, al momento dell’adozione, un’evidente lacuna legislativa in una materia che ha assunto una sempre maggiore attualità. 6.1 segue: La valutazione del danno ambientale nella giurisprudenza di merito:un clamoroso caso di quantificazione del danno. La disamina fin qui condotta, in ordine a fattispecie concrete di responsabilità per danno ambientale (in specie sotto il profilo della quantificazione del danno), impone il richiamo di un caso singolare che ancor oggi è sottoposto al vaglio del giudice d’appello. insuscettibile di una valutazione venale secondo i prezzi di mercato dovendo essere considerato nel suo valore d’uso” : Cass. Civ. n.9211/95) - 199 - Si fa riferimento al noto caso in cui il giudice di merito ha condannato la Syndial, società del gruppo ENI, a risarcire quasi 2 miliardi di Euro in favore del Ministero dell’Ambiente per inquinamento da Ddt del lago Maggiore causato dal sito ex EniChem di Pieve Vergonte tra il 1990 e 1996. In tale circostanza il Ministero, convenendo la società citata, chiese la condanna della stessa per il danno ambientale cagionato, per la bonifica e il ripristino dello stesso sito a proprie spese, per il risarcimento per il mancato godimento dell’area medio tempore interessata dalla bonifica, per lo sviamento di funzione, per il danno provocato alle attività economiche svolte nelle aree contaminate, per il danno subito in termini di alterazione della biodiversità e degli equilibri ecologici, nonché dei danni sanitari sulla popolazione esposta. Il pronunciamento citato rileva non soltanto per l’ammontare del risarcimento richiesto (oltre 2 miliardi di Euro, somma, peraltro di gran lunga superiore a quella richiesta dallo stesso Ministero dell’Ambiente), ma per lo stesso percorso logico seguito dal giudicante di fronte ad una fattispecie notevolmente complessa, afferente ad una vicenda risalente alla fine dell’800 con l’inizio dell’attività, monitorata alla fine del 900 per effetto della contaminazione rilevata, e conclusasi solo nel 2008 con la condanna citata in danno di una società controllata del gruppo EniChem, che, peraltro, dalla data del rilevamento delle prime contaminazioni - 200 - aveva,in virtù di un accordo con il Ministero dell’Ambiente, realizzato poderose opere di bonifica. La questione, peraltro, stimola l’attenzione perché involge anche le cd contaminazioni storiche, i cui effetti, però, sono stati accollati alla società subentrata sulla base dei criteri di cui all’art 18 della legge 349/86. Alla base della condanna inflitta si ritiene che il danno risarcibile ex art. 18 della legge 349/86 sia costituito dal “peggioramento” dell’ambiente, cioè dalla sua “alterazione” e “modifica in pejus” che ha subito l’ambiente a causa dell’immissione nel lago di una quantità di Ddt superiore a quella ammissibile secondo gli accertamenti effettuati dal CTU. Si è così ritenuto danno risarcibile (sia ai sensi dell’art. 18 della legge 349/86 che 311 del Dlgs n.152/06) l’alterazione dell’ambiente nelle sue componenti, tale da non poter assolvere alla sua funzione propria (dunque nel caso in esame diminuzione di qualità ambientale desumibile dalla presenza di ddt nei pesci del lago). Si è riscontrato il nesso causale in quanto condotte alternative, ovvero se l’azienda avesse operato in conformità alla normativa sugli scarichi, avrebbero impedito l’inquinamento (ossia, nel caso di specie, senza diluire il Ddt mettendo in sicurezza l’impianto ivi comprese le fognature). Si è individuato l’elemento soggettivo, ai fini della valutazione della - 201 - grado della colpa ex art. 18 della legge 349/86, nella consapevolezza dell’impresa responsabile della pericolosità del proprio prodotto, nonché nel ruolo dell’impresa nel sistema imprenditoriale nazionale e, quindi, nella circostanza che una società controllata dal Ministero avrebbe dovuto agire anche nell’interesse pubblico. Si è quantificato il danno ex art. 18 della legge 349/86 con riferimento ai costi di ripristino, ai costi per depurare le acque superficiali e le acque di falda, ai costi di drenaggio; ed in via equitativa tutti i danni all’ambiente circostante, ai terreni, alla fauna, alla flora ogniqualvolta si siano verificate alterazioni significative di cui tuttavia non se ne possano quantificare i costi di ripristino per l’impossibilità di eliminarne gli effetti. Con tale percorso argomentativo si è stabilita la condanna in danno della Syndial che certamente sorprende per l’ammontare, soprattutto ove si consideri che il danno ambientale evidenziato non ha determinato un disastro ambientale e che altri casi, che hanno rappresentato veri e propri disastri del XX secolo, non hanno mai comportato una tale condanna. 149 Si è obiettato che si è condannato l’operatore a prescindere dalle 149 Cfr Si pensi al caso del Vajont: la diga che crollo determinò un’onda anomala che cagionò la morte di 1910 persone, la distruzione di 700 abitazioni e la scomparsa di 5 frazioni; in tal caso la condanna ammontò a cira 51,000 Euro. O ancora al caso Montedison – Porto Marghera che cagionò l’adulterazione e l’avvelenamento delle acque del porto Marghera e della laguna veneziana; in tal caso la condanna non superò i 12.000 di euro. - 202 - opere di bonifica eventualmente in atto, si è omesso un attento accertamento sia del nesso causale e delle specifiche violazioni di legge così contravvenendo al principio chi inquina paga, si è rilevata una certa arbitrarietà nella quantificazione del danno che non tiene conto della salvaguardia della vitalità economica dell’impresa. 150 Tuttavia, e a prescindere degli esiti ancora incerti della vicenda (ad oggi in fase d’appello, peraltro sospesa in quanto è in corso una tentativo di definizione stragiudiziale), la stessa evidenzia in tutti i suoi aspetti la problematicità della materia in esame che, coinvolgendo interessi particolarmente sensibili per loro stessa natura, ne rende difficoltosa e ardua la tutela. In definita, le difficoltà connesse alla quantificazione del danno ambientale risultano legate all’indeterminatezza della stessa quantificazione economica di un danno arrecato ad un bene che non è suscettibile di una valutazione economica certa secondo le normali regole di mercato. Il danno ambientale viene inteso come un peggioramento del flusso di benessere proveniente da un bene a fruizione collettiva che, pertanto, deve 150 tendere all’individuazione dell’equivalente monetario della Cfr Al Taborelli, atti del convegno Bonifica e danno ambientale dei Sin, Roma 2 luglio 2009. - 203 - contrazione di benessere sofferta dai fruitori ( in senso lato, presenti e futuri) del bene danneggiato. Rimangono tuttavia notevoli i problemi in sede applicativa, dovuti al fatto che, da un lato, l’ambiente è un concetto fortemente unitario, dall’altro, risulta costituito da svariate componenti che spesso producono utilità multiple. Quindi la valutazione del danno deve prendere in considerazione – come dette- diverse componenti molte delle quali sfuggono al mercato, ovvero non hanno un prezzo. Non marginale è la considerazione, poi, del danno ambientale come danneggiamento della risorsa ambientale in sé, indipendentemente dall’uso che singoli componenti della collettività fanno della risorsa danneggiata. L’intero processo valutativo deve, dunque, prendere le mosse dalla constatazione che gli effetti pubblici di un illecito che danneggia una risorsa ambientale sono di natura molteplice e complessa. Con riferimento al nuovo codice, da un lato si coglie la portata generale della nuova normativa sulla prevenzione e sul ripristino – risarcimento del danno ambientale, dall’altro, risulta evidente un approccio da parte del legislatore un po’ disorganico e frammentario. Se la norma ambientale deve perseguire un obiettivo primario di - 204 - equità, per cui, a parità di danno, debba essere riconosciuto alla collettività un eguale risarcimento (non dimenticando il valore dell’ambiente in sé più volte ribadito), allora la genericità dell’indicazione del valore economico contenuta nel Testo Unico, e ancora di più il ricorso a parametri automatici proporzionali alla sanzione amministrativa, non sembrano poter cogliere nel segno dell’equità la riparazione del danno stesso. 7) Aspetti problematici della tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente Il Codice dell’Ambiente ha attribuito la giurisdizione in materia risarcitoria contro i danni all’ambiente al giudice ordinario, al giudice civile e penale, al giudice amministrativo e alla Corte dei Conti. La conseguenza è che, a seconda del giudice investito della controversia, si avrà una responsabilità connotata da diverse valutazioni degli elementi essenziali indicati nella fattispecie illecita prevista dal codice dell’ambiente. Alla luce della disciplina positiva, si è stabilito che il ministro dell’Ambiente e della Tutela del territorio ha questa alternativa: - 205 - a) a seguito di apposita istruttoria che abbia accertato un fatto causativo di danno ambientale e della mancata attivazione da parte del responsabile delle procedure di ripristino, può adottare ordinanza immediatamente esecutiva con cui ingiungere ai responsabili del fatto il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica entro un termine fissato; se il responsabile non provveda o non sia possibile il ripristino o risulti eccessivamente oneroso, il ministro con successiva ordinanza ingiunge il pagamento di una somma pari al valore economico del danno accertato a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario; l’interessato, entro il termine perentorio di 60 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza, può ricorrere la Tribunale Amministrativo Regionale, in sede di giurisdizione esclusiva(art 313); b) può agire “anche esercitando l’azione civile in sede penale per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica, e, se necessario, per equivalente patrimoniale” (art.311). Pertanto, se il Ministro adotta, in via amministrativa le ordinanze previste dall’art. 313, il giudice che applica le regole in materia ambientale è quello amministrativo, in via esclusiva, facendo venir meno la giurisdizione del giudice ordinario, anche se si controverte in materia di diritti soggettivi che sono sottoposti, comunque, al termine decadenziale di 60 giorni. Il Ministro può, invece, agire per il risarcimento del danno innanzi - 206 - al giudice ordinario, anche costituendosi parte civile nel giudizio penale, e le regole di responsabilità in materia ambientale saranno interpretate dal giudice ordinario. Nell’uno e nell’altro caso, però, viene meno la giurisdizione del giudice amministrativo in via esclusiva e del giudice ordinario, civile e penale, quando il danno è provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti, perchè “il Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio , anziché ingiungere il pagamento del risarcimento per equivalente, invia un rapporto all’Ufficio della Procura regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti competente per territorio” (art.313) . In questo caso arbitro della responsabilità diventa la Corte dei Conti. In tal modo l’accertamento del danno, che è il punto centrale della fattispecie, muta sostanzialmente la sua cognizione a seconda del giudice che esercita la giurisdizione. Se la controversia viene conosciuta dal giudice ordinario, civile o penale, l’accertamento viene compiuto direttamente dal magistrato innanzi al quale si forma la prova e trovano ingresso anche i dati documentali. Lo stesso discorso non vale per il giudice contabile o amministrativo, anche quando quest’ultimo eserciti la giurisdizione esclusiva, perché i più ampi mezzi di prova di cui dispone a seguito della - 207 - legge 205/00, normalmente non vengono utilizzati. I giudici amministrativi conoscono del fatto attraverso gli atti e i provvedimenti della pubblica amministrazione e, quindi, a seguito della attività istruttoria condotta da altri, anche se si tratta di agenti dell’apparato amministrativo. Analoga considerazione deve farsi per i giudizi innanzi alla Corte dei Conti: per l’elemento psicologico la norma richiede la colpa lieve;mentre innanzi alla Corte dei Conti occorre accertare, quantomeno, la colpa grave. A ciò bisogna aggiungere che, oltre alla legittimazione attiva del Ministro dell’Ambiente, il codice considera altre possibilità di azioni attribuite ad altri soggetti. Le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche o giuridiche, che “sono o potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento relativo all’adozione di misure di prevenzione o di ripristino” (art. 309) “sono legittimati ad agire secondo i principi generali per l’annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell’Ambiente per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale” (art 310). - 208 - La norma, oltre a prevedere un ricorso amministrativo in opposizione e quello straordinario al Presidente della repubblica, prevede la possibilità di adire il giudice amministrativo “in sede di giurisdizione esclusiva” (art.310) . Infine, in base al 5° comma dell’art. 18 della legge n.349/86, non abrogato (art.318), le “associazioni individuate in base all’art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”. Non è prevista, invece, la possibilità di intervenire per gli Enti locali. Da questo rapido excursus sulle disposizioni processuali del Codice dell’Ambiente in ordine al giudice che ha giurisdizione in materia, si può rilevare che: a) in materia di responsabilità per danno ambientale le controversie saranno sottoposte: al giudice ordinario, (civile e penale); al giudice amministrativo, (Tar e Consiglio di Stato), Corte dei Conti, (sezioni locali e centrali); b) una stessa vicenda può essere portata alla cognizione del giudice amministrativo o del giudice ordinario a seconda della scelta del Ministro dell’Ambiente, che quando saranno trascorsi due anni dalla notizia del fatto produttivo del danno ambientale agirà innanzi al giudice ordinario ove dovrebbe valere il termine di prescrizione quinquennale, se si inquadra l’illecito nella responsabilità aquiliana; c) la scelta del Ministro comporta la cognizione ad uno o ad un altro ordine - 209 - giurisdizionale con la conseguenza che il giudice non è quello “per legge precostituito” (art. 25 Costituzione), con forti dubbi di costituzionalità; d) la Corte dei Conti non può essere scelta dal ministro, in quando il danno è provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti, comporta necessariamente che quest’ultima ne debba essere investita e il Ministro non potrà attivare le procedure di cui all’art. 113 del codice; e) gli altri soggetti pubblici o privati non sono legittimati ad agire contro i responsabili del danno ma solo contro i provvedimenti o il silenzio del Ministro e, in questa ipotesi, la giurisdizione appartiene in via esclusiva al TAR o al Consiglio di Stato; f) rimangono ferme le altre tutele previste per le situazioni giuridiche soggettive secondo le regole generali previste dall’ordinamento . 151 Da quanto esposto pare evidente che il legislatore delegato abbia considerato poco il nostro sistema quando ha disciplinato la tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente innestando una congerie di meccanismi processuali non sempre coordinati tra loro, così indebolendo, piuttosto che valorizzare la tutela ambientale. 151 E. Follieri, Aspetti problematici della tutela risarcitoria, in Ambiente e territorio, n. 9/09 - 210 - CONCLUSIONI Il lavoro fin qui svolto impone certamente talune riflessioni conclusive seppur nei limiti e nei contenuti che il tema trattato permette. Difatti, proprio dalla ricerca compiuta, emerge come nessuna conclusione o determinazione finale sia compatibile con l’argomento trattato. L’esposizione condotta ha difatti rilevato come la materia del danno ambientale ponga notevoli incertezze già al livello definitorio per, poi, tradursi nella stessa difficoltà di definizione della disciplina che lo riguarda. Ciò del resto è stato evidenziato dalla stessa impostazione del lavoro condotto che ha privilegiato l’aspetto pratico più che quello teorico, così cercando di valorizzare gli elementi propri e salienti di una disciplina forse ancora (per molto) in itinere ed in costante evoluzione. Non è un caso, infatti, che il testo unico in materia ambientale di recente formulazione abbia già subito, a pochi anni della propria nascita, più di una trentina di modifiche o c.d “aggiustamenti” molto probabilmente connessi non tanto ad una difettosa originaria tecnica redazionale del legislatore quanto ad una costante evoluzione della materia di sua natura magmatica e difficilmente contenibili entro schemi prefissati e rigidi. - 211 - Del resto, se ciò vale in genere per qualsiasi materia, che necessariamente richiede adeguamenti connessi allo sviluppo socio culturale del contesto in cui la stessa materia si colloca, vieppiù tale considerazione si attaglia ad una materia come l’ambiente che sin dal suo difficile emergere nel modo giuridico positivo risulta sensibile più che mai all’evoluzione socio –culturale e alla cura attenta e sollecita che ad essa rivolge la normativa comunitaria. La disciplina connessa al danno ambientale, non può non risentire, dunque, delle stesse difficoltà che da sempre si sono manifestate nel delimitare i concetti prima di ambiente e poi di danno all’ambiente con annessa la responsabilità. E proprio in tale direzione è stato impostato il presente contributo il quale, appunto, ha evidenziato come già la stessa definizione di ambiente abbia alimentato un costante focolaio di discussioni e dibattiti tutti finalizzati ad identificare con certezza i limiti e la natura di tale bene per poi individuare il fatto lesivo dello stesso fonte di responsabilità civile, penale ed amministrativa. E ciò in quanto la materia in questione, più di ogni altra, involge in maniera totalitaria la vita stessa dell’individuo che si trova contestualmente ad essere agente autore del danno e soggetto passivo del danno in un contesto socio ambientale in cui lo stesso danno (generato da uno stesso fatto lesivo) riesce contemporaneamente a pregiudicare uno o - 212 - più soggetti ( il singolo e la collettività tutta) e uno o più interessi (privato e pubblico), tutti, meritevoli di una tutela costituzionalmente garantita. Risulta così evidente come, in un contesto di tal genere ove si intrecciano in maniera inestricabile interessi pubblici e privati, talvolta addirittura coincidenti, la disciplina ad essa riferita non possa essere di agevole definizione soprattutto se il continuo e naturale sviluppo sociale costituisce il suo substrato naturale, e l’aggressione all’ambiente proviene dallo stesso individuo e dalla stessa collettività che, poi, ne denuncino e ne subiscono il danno. L’incessante trasformazione della realtà sociale, lo stesso sviluppo economico, incidono in modo sensibile sulla stessa configurazione ora del bene da tutelare (ambiente) ora della configurabilità dello stesso danno, che, a prescindere dalle teorie elaborate di volta in volta dalla dottrina o dalla giurisprudenza (teorie moniste, plurime, bene unitario, materia trasversale….) confluiscono ad un unico risultato: la difficoltà della materia ad essere compressa entro fattispecie definite. L’ambiente e, dunque, il danno che ad esso possono essere provocati sono strettamente connessi e presupposti alla realtà sociale circostante che in un rapporto di mutuo scambio ne appresta i mezzi di tutela per porre riparo a quei danni dalla stessa provocati. E tale circolarità che, peraltro, in ragione della naturale evoluzione socio culturale non può risultare immutabile, determina proprio quelle - 213 - difficoltà definitorie e pratiche che sfuggono a qualsiasi inquadramento fisso auspicato dal legislatore. Tali riflessioni emergono appunto dal presente contributo, che nel modesto tentativo di trattare il peculiare aspetto del danno ambientale, ha preso atto delle numerose problematicità connesse alla materia trattata anche e soprattutto nei risvolti pratici della normativa che la riguarda. Come emerso anche dalla ricerca giurisprudenziale che ha supportato il presente lavoro, le difficoltà delle autorità giurisdizionali non sono connesse tanto ad una non chiara tecnica legislativa quanto alla costante e diuturna necessità di adottare il testo normativo alla fattispecie particolare che nello spatium temporis di pochi anni (se non mesi) presenta già delle peculiarità differenti rispetto a quelle originariamente predeterminate. La fattispecie normativa, per sua natura astratta, più che mai nella materia che ci occupa, si presta ad essere plasmata di volta in volta al caso concreto in costante mutamento. Nei capitoli precedenti, premessi taluni aspetti dottrinari e legislativi più o meno costanti, si è cercato di dare atto di quanto fin qui rassegnato attraverso i casi giurisprudenziali che più che in qualsiasi altro campo danno un supporto imprescindibile alla stessa definizione e delimitazione dell’argomento, seppur nella consapevolezza che trattasi di una decisione che riguarda il “caso concreto” e che difficilmente, se non in - 214 - linea di massima, risulterà veicolabile su casi similari. Sono tanti e tali gli aspetti individuali e sociali che la fattispecie “danno ambientale” coinvolge che, probabilmente, qualsiasi sforzo legislativo non risulterebbe mai idoneo a ricomprendere e disciplinare la molteplicità degli elementi e delle condizioni ipotizzabili. Più che mai in tale contesto il ricorso al precedente giurisprudenziale (se non nel limite dell’insegnamento di massima) potrebbe risultare inadeguato alla soluzione del caso concreto stante la peculiarità di ogni caso concreto difficilmente sovrapponile con altri. Probabilmente la stessa previsione del Testo Unico in materia di giurisdizione, laddove coinvolge e interessa tutte le tipologie di giurisdizioni previste nel nostro tessuto costituzionale, se da un lato adombra sospetti di incostituzionalità con riferimento alla prefigurazione del principio costituzionale del “giudice naturale”, dall’altro possibilmente è stata dettata dall’incapacità a priori del legislatore di “settorializzare” gli interessi e i diritti coinvolti dalla fattispecie del danno ambientale. Certamente sarebbe auspicabile una diversa impostazione di tale aspetto optando per quelle forme di giurisdizioni esclusive o speciali che, possibilmente, in un’ottica di trattazione unitaria ed esclusiva della materia potrebbero risultare più efficienti. Ad ogni buon conto, lungi dalla pretesa di suggerire ipotesi - 215 - risolutive, non v’è dubbio che la disamina fin qui condotta evidenzia la natura assolutamente sfuggente della materia trattata per la capacità di invadere e interessare numerosi campi della realtà sociale involgendo interessi pubblici, individuali, costituzionalmente rilevanti e soprattutto risultando immanentemente connessa allo sviluppo socio economico in grado di influire sulla stessa configurazione della fattispecie da prevedere ai fini della tutela della stessa. Più che mai, si può concludere, in tale materia la naturale necessità del diritto ad adeguarsi al diritto vivente deve costituire la base e l’aspirazione del legislatore nella fase programmatica e della giurisprudenza nella fase di applicazione pratica dovendo così la legge necessariamente integrarsi ed adeguarsi anche al diritto creato nelle sedi giurisdizionali. - 216 - Bibliografia Dottrina -Al Taborelli, Atti del convegno Bonifica e danno ambientale dei Sin, Roma 2 luglio 2009. - Amedeo S., La responsabilità ambientale nel Trattato della Comunità europea, in La nuova responsabilità civile per danno all’ambiente, B. 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