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FACOLTA’ DI ECONOMIA
Dottorato di Ricerca in
“DIRITTO DELL’ECONOMIA, DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE”
 Ciclo XXII 
DANNO ALL’AMBIENTE
E PROFILI DI RESPONSABILITA’
____________________
 IUS/  09
Tesi di Dottorato di:
ESTER DAINA
Il Coordinatore:
Ch.mo Prof. SALVATORE PIRAINO
Il Tutor:
Ch.mo Prof. SALVATORE PIRAINO
Sommario
INTRODUZIONE .......................................................................................... 5
CAPITOLO I IL DANNO AMBIENTALE ..................................................... 8
1. La definizione dell’ambiente nell’elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale. ...................................................................................... 8
1.1. Il concetto di ambiente attraverso l’ evoluzione legislativa ............8
1.2.L’ambiente come bene giuridico. ................................................... 14
1.3. L’apporto ricostruttivo della Corte costituzionale. La pluralità
delle situazioni giuridiche soggettive afferenti al bene ambiente:
l’ambiente come valore costituzionale. ................................................ 17
1.4. L’evoluzione normativa nella UE ................................................ 24
1.5 L’evoluzione normativa internazionale .......................................... 25
1.6 Evoluzione normativa italiana....................................................... 26
2. Il danno ambientale nelle tappe europee ....................................................... 28
3. Il Danno ambientale nell’ordinamento interno: evoluzione giurisprudenziale
e normativa ........................................................................................................ 42
3.1 La “prima comparsa” del concetto di danno ambientale nella
giurisprudenza contabile...................................................................... 44
3.2 L’orientamento della Corte Costituzionale sulla nozione di danno
ambientale ............................................................................................ 45
3.3 L’orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione
sulla nozione di danno ambientale anche alla luce dell’art. 18 della
legge 349/86......................................................................................... 49
4. La nozione di danno ambientale nella direttiva 35/2004/CEE...................... 54
5. La nozione di danno ambientale nel Dlgs n.152/06 : il danno ambientale di
matrice comunitaria e la sua trasposizione nell’ordinamento nazionale. .......... 56
6. Il “danno ambientale” tra fattispecie e realtà. ............................................... 64
-2-
6.1 Riflessi soggettivi del danno ambientale: a) danno morale da
disastro ambientale; b) danno morale da ambiente insalubre; c)
danno esistenziale da inquinamento ambientale; d) danno ambientale
come compromissione della reputazione turistica. ............................. 65
6.2 Ulteriori fattispecie di danno ambientale individuate dalla
giurisprudenza: a) danno ambientale come “lesione alla reputazione
commerciale e diminuzione dell’attività turistica” e “perdite
provvisorie”; b) danno ambientale da occupazione usurpativa ......... 77
CAPITOLO II LA RESPONSABILITA’ DA DANNO AMBIENTALE .......... 85
1. La disciplina dell’art.18 della L. n.349/1986 ................................................ 85
2. L’elemento specializzante della fattispecie: la “violazione di legge” ........... 89
3.1) Il criterio di imputazione della responsabilità nell’art. 18 L.
349/1986 :orientamenti e soluzioni .................................................... 91
3.2) Il criterio di imputazione della responsabilità nell’art. 18 L.
349/1986: ipotesi (presunte) di responsabilità oggettiva. ..................98
4. Il principio “chi inquina paga” : definizione e rinvio. ............................... 106
5. I criteri di imputazione della responsabilità per danno ambientale nella
direttiva 2004/35/CE ....................................................................................... 108
6. La responsabilità per danno ambientale nel D.Lgs. 152/2006. ................... 111
7. Le esclusioni espresse di responsabilità nel regime del D.Lgs. 152/2006 e la
responsabilità per colpa presunta .................................................................... 116
8. Le novità normative sulla responsabilità per danno ambientale nel D.L.
135/2009.......................................................................................................... 118
9. Il principio chi inquina paga: a) gli orientamenti della giurisprudenza; b)
ipotesi di responsabilità oggettiva nella giurisprudenza del giudice ordinario e
del giudice amministrativo c) principio di precauzione e principio chi inquina
paga; d) analisi della legislazione e prassi giurisprudenziale ......................... 121
10. La responsabilità per danno ambientale secondo la pronuncia della Corte di
Giustizia sulla 9 marzo 2010-n.378/10 ........................................................... 155
-3-
CAPITOLO III IL RISARCIMENTO E LA QUANTIFICAZIONE DEL
DANNO AMBIENTALE ................................................................................... 161
1. Il titolo III e le procedure per il risarcimento del danno ambientale:
presupposti ed alternative di azioni ................................................................. 161
2. L’ordinanza di risarcimento. ...................................................................... 163
3. Il risarcimento del danno ambientale in forma specifica o per equivalente.165
3.1 Il risarcimento del danno ambientale alla luce dell’art.5 bis del DL
n. 135/09 ............................................................................................ 168
3.2 L’obbligo di adottare misure di riparazione complementare e
compensativa...................................................................................... 170
3.3 Le ipotesi di risarcimento in forma monetaria. ........................... 176
3.4 Il decreto sui criteri di quantificazione .........................................177
3.5 La disapplicazione dell’art.18 della legge 349/86 ....................... 179
3.6 La quantificazione presuntiva del danno in caso di illecito penale o
amministrativo ................................................................................... 181
3.7. Il risarcimento del danno come fattispecie premiale ............... 182
3.8 Il risarcimento del danno come circostanza attenuante. ............ 185
4.La prova del danno ambientale .................................................................... 186
5. Il risarcimento del danno ambientale nella scienze economiche. ............... 189
6 La valutazione del danno ambientale nella giurisprudenza di merito: i primi
casi concreti di quantificazione del danno. ..................................................... 194
6.1 segue: La valutazione del danno ambientale nella giurisprudenza
di merito:un clamoroso caso di quantificazione del danno. ............ 199
7) Aspetti problematici della tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente .. 205
CONCLUSIONI.................................................................................................. 211
Bibliografia ......................................................................................................... 217
Dottrina ........................................................................................................... 217
Giurisprudenza ................................................................................................ 221
-4-
INTRODUZIONE
L’evoluzione della materia del “danno ambientale” e della
responsabilità con esso connessa stimola il tentativo di tratteggiarne gli
aspetti soprattutto nei suoi risvolti pratici, ovvero, nella sua applicazione
effettiva alle fattispecie sottoposte al vaglio della giurisprudenza, nella
ormai, veste ufficiale di illecito e/o danno ambientale al verificarsi del
quale scaturisce la responsabilità sanzionabile.
La complessità dell’argomento, affrontato e disaminato in tempi
recenti da illustre dottrina e autorevole giurisprudenza, suggerisce di
evidenziare come, ancor oggi, l’apparente semplicità dell’assioma “danno
= responsabilità” si deve scontrare con la identificazione stessa degli
elementi costitutivi
responsabilità,
ed identificativi del danno
e della connessa
in un contesto storico giuridico in cui l’evoluzione
normativa e la pressante spinta sociale non rendono sempre agevole
inquadrare la fattispecie concreta secondo schemi precisi e definiti così
come una trattazione giuridica processuale auspicherebbe.
Difatti, se in linea teorica il concetto di
danno
ovvero di
responsabilità sembrano rispondere ai normali schemi giuridici per cui
la fattispecie astratta si traspone nelle fattispecie concreta, nondimeno la
connaturata astrattezza dello stesso concetto di danno ambientale (per
non parlare delle difficoltà definitorie dello stesso presupposto concetto
-5-
giuridico di ambiente) ha da sempre reso incerto il confine di
delimitazione tangibile della fattispecie concreta.
Ciò premesso, la tematica richiede una trattazione tendente
essenzialmente a privilegiarne l’aspetto pratico sulla base degli
orientamenti
giurisprudenziali
che
hanno
caratterizzato
la
reale
applicazione dei citati istituti.
La trattazione dell’argomento suddiviso in tre parti si articolerà in
tale tipo di approccio metodologico in una tripartizione del presente
lavoro, secondo il seguente schema:
la prima parte riguarderà il concetto di danno ambientale, (previa
breve disamina dello stesso concetto di “ambiente” come oggetto della
lesione), anche tenendo conto dell’evoluzione della giurisprudenza
comunitaria, da cui, del resto, trae origine l’attuale legislazione nazionale,
secondo gli stessi spunti forniti dalla giurisprudenza di legittimità e
merito, nonché dalla Corte Costituzionale;
la seconda parte si svolge attraverso la identificazione della
conseguente responsabilità ambientale sotto numerosi profili inerenti la
sua natura giuridica,
oggettiva e soggettiva, nonché attraverso la
individuazione del soggetto attivo che, autore dell’inquinamento, deve
pagare (con riferimento al principio chi inquina paga che, se appare di
semplice applicabilità pratica, in realtà determina non poche difficoltà di
identificazione);
-6-
la terza parte è volta alla individuazione concreta operata dalla
giurisprudenza in ordine ai criteri (giuridico economici) di valutazione e
quantificazione
del
danno,
nella
patologica
conseguenza
di
un
risarcimento del danno causato solo ove non sia possibile ovviare con le
alternative misure ripristinatorie o riparatorie.
Quest’ultima parte non può non prescindere dalla considerazione
dello stesso regime processuale che deve essere seguito per la tutela del
danno ambientale che, coinvolge, in un’ottica di singolare par condicio, i
diversi organi giurisdizionali ( giudice ordinario, civile, penale, contabile!).
-7-
CAPITOLO I
IL DANNO AMBIENTALE
1. La definizione dell’ambiente nell’elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale.
1.1. Il concetto di ambiente attraverso l’ evoluzione legislativa
La necessità di affrontare la tematica connessa alla non facile
definizione dell’ambiente appare imprescindibile, al fine di potere
identificare, in concreto, l’oggetto della lesione.
Da un punto di vista semantico e non giuridico, si può considerare
l'ambiente come il complesso di risorse naturali ed umane
singolarmente considerate ovvero poste in diretta e/o indiretta
interrelazione ed interazione tra loro.
In ordine al significato da attribuire, sul piano giuridico, al termine
ambiente secondo l'elaborazione sviluppata in Italia negli anni '70 da
un’autorevole dottrina1, non può che muoversi dal rapporto uomoambiente che è un rapporto di mutua aggressione. Nel senso che,
quando l'ambiente viene aggredito (es. mediante un carico di
1
Cfr S.M. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. Trim. Dir.
Pubbl.,1973, 15 ss.
-8-
inquinanti) esso restituisce l'aggressione e il risultato è uno
sbilanciamento del rapporto verso una condizione ancor più pericolosa
per l'uomo stesso.
Un fondamentale contributo dottrinale è stato offerto in ordine
all’individuazione anche nel “paesaggio” di una delle componenti delle
risorse che riguardano direttamente l'uomo, in tal modo anticipandosi
alcune, norme come ad es. la legge Galasso.
In dottrina, negli anni successivi al boom economico, cominciò a
parlare di “ambiente” in tre distinte materie giuridiche:
1.
le bellezze paesaggistiche (l’art. 9 della Costituzione italiana
contiene di fatto l'unico esplicito riferimento all'ambiente riferito al
paesaggio) e le tutele del paesaggio sviluppatesi già a partire dagli
anni '30;
2.
la salute umana: art. 32 della Costituzione prevede principi a
tutela della salute dell'uomo;
3.
il territorio.
Un orientamento dottrinale ha individuato un diritto
soggettivo pubblico all’integrità del territorio, ovvero una forma di
tutela indiretta, della salute nonché di tutela dell’interesse della
-9-
collettività alla fruizione dell’ambiente. 2
Altri indirizzi dottrinali hanno ritenuto inaccettabile, per la
sua indeterminatezza, considerare il termine ambiente come bene
giuridico unitario, opponendosi l’esistenza di tanti e diversi beni
ambientali tutelati, a seconda della diversità degli interessi collettivi,
dall’ordinamento. 3
In ogni caso le singole res che compongono il bene
“ambiente” sono considerate come tra loro strettamente collegate,
ritenendosi, pertanto, “logicamente corretto parlare di essi (i
singoli beni) come di un bene economico unitario:il bene
ambiente”4
La giurisprudenza ha rinvenuto le maggiori difficoltà della
definizione del concetto nell’assenza, al momento della nascita della
Costituzione della Repubblica (1948), di una definizione di
“ambiente”: vuoto normativo, questo, protrattosi nel tempo.
2
Cfr Cocco, Tutela dell’ambiente e danno ambientale. Riflessioni sull’art.18 della legge 8
luglio 1996, in Riv. Giur. Amb. 1986, 485
3
Cfr A.Libertini, La nuova disciplina del danno ambientale e i problemi generali del
diritto all’Ambiente, in Riv. Crit. Dir. Priv, 1987, 556: “… a mio avviso , non è
possibile parlare di “ambiente” come di un bene giuridico unitario. Infatti, rispetto
all’ambiente naturale, sono disparati gli interessi umani presi in considerazione dal
diritto e in corrispondenza sono numerose e differenti le posizioni soggettive
individuali”
4
Cfr P. Maddalena, Il danno all’ambiente tra giudice civile e giudice contabile, in Riv.
Crit. Dir. Priv., 1987,442.
- 10 -
I primi accenni all'ambiente in Italia sono legati ad una
visione estetica e statica del paesaggio come bellezza naturale
percepita dall’esterno: infatti al momento della Costituente erano
già in vigore due norme, per molti versi ancora attuali, la Legge
1089/1939 sui Beni Culturali e la Legge 1497/1939 sulle Bellezze
Naturali.
Dagli anni '70 e '80 si sviluppa una giurisprudenza
consolidata sull'ambiente che viene visto come valore e come
insieme: si definisce5 l'ambiente come bene che deve essere tutelato
in quanto tale, inteso come valore unitario intrinseco (ad esempio
si parla di servizio pubblico di depurazione).
Al tempo stesso nel codice penale l'art. 734 stabilisce che
"Chiunque in qualsiasi modo distrugge o altera bellezze naturali è
punito ...", risultando evidente il superamento della visione estetica
e statica del paesaggio come bellezza naturale percepita dall'esterno,
e procedendosi verso un’accezione più ampia del concetto di
ambiente come avente proprietà emergenti che sono al di sopra
delle sue componenti essenziali ed intrinseche (flora, fauna, geologia,
ecc.) e, che nel suo insieme andrebbe inteso nella sua totalità.
L’ambiente si delinea come un fenomeno unitario che, alla
5
Cfr Cass. S.U. 6 ottobre 1979 n. 5172, in www.diritto.it
- 11 -
stregua di un diritto della personalità, costituisce un diritto
fondamentale dell’uomo.
In proposito significativa è una pronuncia della Corte Costituzionale
6
sull’ambiente come una situazione che non è passibile di una situazione
soggettiva di tipo appropriativo appartenendo alla categoria dei beni liberi,
fruibili dalla collettività e non dai singoli.
Anche se, in relazione all’ambiente salubre”, inteso in una
concezione sanitaria di ambiente giuridicamente apprezzabile e rilevante
(art. 32 Cost.), esso si ritiene collegabili ai diritti della persona e, dunque,
anche all’integrità fisica e psichica e alla salvaguardia della qualità della
vita.
L’ambiente in senso giuridico tende a configurarsi come un insieme che,
pur comprendendo diverse componenti, si distingue ontologicamente da
queste e tende ad identificarsi in una come realtà priva di consistenza
materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente
come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento"7 .
6
Cfr Corte Costituzionale, 17 dicembre 1987, n.641, in GU 13.1.1988, I^ serie spec. n.2, 28
ss ; La stessa Corte Costituzionale con la sentenza del 24 febbraio 1992 n.67, in Riv.
Amb, 1992,363 ha ribadito che: “l’integrità ambientale è un bene unitario che va
salvaguardato nella sua interezza”
7
Cfr Cass. Civ., 9 aprile 1992 , n.4362, in Mass.Giust. Civ, secondo cui “..rispetto ad
illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con specifico riguardo a siffatto valore ed
indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o più delle dette
singole componenti, secondo un concetto di pregiudizio che,sebbene riconducibile a
- 12 -
Da ciò discende l’unitarietà degli effetti giuridici della nozione di
ambiente8 e la sua considerazione come “bene sintesi”, caratterizzato da
una relazione di equilibrio tra uomo, fauna, flora, secondo una definizione
esplicitata dall’art. 1 della legge federale svizzera sulla protezione
dell’ambiente del 7 ottobre 1983.9
L’approdo ad una conclusione unitaria del concetto di ambiente si
coglie, altresì, nella disciplina legislativa in materia di danno ambientale
(art.18 della legge n.349/86 istitutiva del Ministero dell’Ambiente e oggi
dall’art.311 del DLgs n.152/06), che ha permesso di considerare l’ambiente
come bene unitario, composto da beni che sono tra loro in una
determinata relazione ed in continuo processo di evoluzione.
quello di danno patrimoniale, si caratterizza tuttavia, per una più ampia accezione,
dovendosi avere riguardo – per la sua identificazione- non tanto alla mera differenza
tra il saldo attivo del danneggiato prima e dopo l’evento lesivo, a determinare in
concreto una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato
può disporre, svincolata ad una concezione aritmetico-contabile” contra Cons. di
Stato, 11 aprile 1991, n.257, in Riv. Giur. Amb, 1992, 130 secondo cui non è
configurabile l’esistenza di un “bene-ambiente” come autonoma categoria giuridica,
direttamente tutelabile nella sua globalità, bensì una pluralità di beni giuridici distinti
(acqua, aria, flora, fauna, ecc..) convenzionalmente ricompresi nel termine e che sono
oggetto di tutele giuridiche distinte.
8
Cfr, Rodotà, Relazione introduttiva al Convegno sul tema Il danno ambientale tenutosi a
Benevento nei giorni 2-3 ottobre 1987: “si spiega così la sottolineatura di una
concezione unitaria del bene ambientale, comprensiva dell’insieme delle risorse
naturali e culturali, bisognose in qualche misura di un governo comune, espresso da
leggi nazionali”
9
Aderisce a questa definizione Barbiera, Qualificazione del danno ambientale nella
sistematica generale del danno in Il danno ambientale con riferimento alla
responsabilità civile a cura di Perlingeri, Napoli, 1991, 109
- 13 -
Quanto osservato si ritiene che suffraghi l’opinione di chi considera la
tutela rivolta, non già ai beni cui le leggi di settore fanno espressamente
riferimento, bensì al “sovrapposto” bene ambiente, che subisce lesione
significativa ogniqualvolta vi sia aggressione di un bene sottostante.10
1.2.L’ambiente come bene giuridico.
Un modo diverso di individuare la rilevanza dell’ambiente sul piano
giuridico è rinvenibile nella letteratura giuridica, allorchè, da parte di
alcuni, si è tentato di utilizzare in proposito la teoria dei beni giuridici così
come configurata dalla dottrina civilistica.
Dai più, peraltro, si è rilevato che la nozione di “bene” (inteso come
“sintesi tra il particolare interesse tutelato e la situazione soggettiva
predisposta dall’ordinamento giuridico come strumento di tutela destinato
ad un soggetto particolare”11) tecnicamente non potrebbe essere traslata
all’ambiente -inteso sia come tutto unitario, sia come singoli fattori
ambientali distinti- difettando per esso l’interesse soggettivo differenziato
che di quella nozione costituisce “l’utilità tipica”.
In riferimento all’ambiente è di tutta evidenza che questa utilità
non può che avere natura super-individuale, coincidendo con la generale e
10
Cfr Mattini Chiari, in Il danno da lesione ambientale, Rimini, 1990
11
Cfr S. Pugliatti, Beni (Teoria generale) ED,V,1979
- 14 -
comune esigenza di tutela delle risorse ambientali12.
Seguendo
questa
linea
ricostruttiva,
occorre
superare
l’impostazione tradizionale che collega il bene alle norme rivolte alla tutela
di interessi individuali13, con la conseguenza di considerare come beni in
senso giuridico pure quelli “da cui derivano utilità per (l’individuo e) la
collettività”.14
Taluno 15, pur convenendo su questo punto, ha ritenuto -per poter
utilizzare la nozione di bene in riferimento all’ambiente- di dover spostare
l’angolo visuale dal piano degli interessi a quello della “possibile
specificazione dei danni”.
Si è tentato, così, di apprezzare sub specie damni la rilevanza degli
interessi che avrebbero potuto subire nocumento.
In tal senso, ex art. 18 della l. n. 349 del 1986, si evidenzia che sui
beni ambientali gravitano una pluralità di interessi: secondo la logica
propria dell’impostazione soggettivista andrebbe ricercato “l’interesse di
volta in volta tutelato dall’ordinamento”, ma, nel caso dell’ambiente,
ciascun interesse non si dirige al bene “per realizzare utilità diverse le une
12
Cfr F. Di Giovanni, Strumenti privatistici e tutela dell’Ambiente, Padova, 1982
13
Cfr P.Rescigno, Disciplina dei beni e situazioni della persona, in Qud. Fiorentini per
la storia del pensiero giuridico moderno, Padova, 1978
14
Cfr S. Patti, Ambiente e tutela nel diritto civile, in Dizionario di diritto privato, Irti,
1980
15
Cfr L. Francario, Danni Ambientali e tutela civile, Padova, 1990
- 15 -
dalle altre”.
La pluralità degli interessi è espressione della stessa valenza e della
stessa esigenza di tutela: l’esigenza che sia acclarata la responsabilità
dell’autore dannoso che compromette l’ambiente, e sia ottenuta la
riduzione in pristino.
Il carattere omogeneo degli interessi afferenti all’ambiente è il
motivo per cui va attribuita oggettività ai beni ambientali, senza essere
filtrata da alcuna situazione soggettiva16 .
Non meglio precisata resta la configurazione della natura del bene
ambiente: parte della dottrina ha ritenuto di dover riconoscere
all’ambiente la qualificazione di bene pubblico, muovendo dall’assunto
secondo cui esso sarebbe oggetto di una situazione di diritto soggettivo in
capo allo Stato, per cui la titolarità statale troverebbe fondamento
nell’essere destinata al soddisfacimento dei bisogni della collettività17.
Altra parte della dottrina, critica quest’ultima impostazione che, nel
ritenere lo Stato l’ente titolare del bene ambiente, importerebbe il ritorno
ad una logica esclusivamente proprietaria, oltre a non rendere “un buon
servizio alla collettività, che deve pur sempre avere a disposizione
strumenti autonomi che permettano di esercitare un controllo diffuso
16
Cfr opera citata nota 15
17
Cfr E. Spagna Musso, in Riflessioni critiche in tema di tutela civilistica dell’ambiente,
in Rass. Critica Civ., 1991
- 16 -
sull’esercizio dei poteri di gestione statale, e preferisce riconoscere
all’ambiente la natura di bene collettivo”18.
Dalla tesi dell’ambiente come bene pubblico, che precisamente
muove dall’idea secondo cui gli interessi diffusi della collettività, afferenti
all’ambiente, debbano essere assorbiti nell’interesse pubblico alla sua
protezione e, conseguentemente, rendere coincidente la tutela degli
interessi diffusi e la tutela degli interessi pubblici, di modo che la lesione
dei primi fosse intesa di per sè come danno allo Stato persona, da parte di
un filone ricostruttivo composito19, si è tratta la conseguenza che i danni
all’ambiente dovessero essere concepiti come danni pubblici erariali, cioè
danni allo Stato, con attribuzione dell’azione relativa al Procuratore
generale presso il Collegio erariale.
Questo modo di vedere -frutto di una precipua “operazione di
politica del diritto”- è tuttavia rimasto del tutto isolato nella letteratura
giuridica20.
1.3. L’apporto ricostruttivo della Corte costituzionale. La
18
Cfr opera citata nota 15
19
Cfr P.Maddalena, in Responsabilità amministrativa, danno pubblico e tutela
all’ambiente, Rimini, 1985
20
Cfr F. Giampietro, Diritto alla salubrità dell’Ambiente, Inquinamenti e riforma
sanitaria, Bologna 1980
- 17 -
pluralità delle situazioni giuridiche soggettive afferenti al bene
ambiente: l’ambiente come valore costituzionale.
La questione della rilevanza giuridica dell’ambiente e delle connesse
esigenze di tutela ha avuto negli ultimi anni, specialmente per iniziativa
della Corte costituzionale
21
, un chiarimento notevole soprattutto in
termini concettuali.
Di fronte ad un quadro normativo alquanto insicuro per la
mancanza di appigli diretti in Costituzione e, di contro, per la presenza di
una legislazione disorganica, pletorica e prevalentemente di carattere
emergenziale 22 , il giudice delle leggi ha svolto una intensa attività di
interpretazione del dato positivo e di creazione in via “pretoria”
23
di
autentici modelli di riferimento normativo.
In questo modo la Corte costituzionale, partendo dal concetto di
“bene immateriale unitario”, (supra n 1.2) ha definitivamente riconosciuto
la natura di valore costituzionale all’ambiente: in sostanza il giudice delle
leggi, abbandonando l’ottica riduttiva della ricostruzione della rilevanza
dell’ambiente in termini di situazione giuridica soggettiva, ha ancorato la
21
Cfr D. Borgonovo, Corte Costituzionale ed ambiente, RGA, 1990
22
Cfr B. Caravita, I poteri sostitutivi dopo le sentenze della Corte Costituzionale, PD,
1987
23
Cfr. A. Baldassarre, Profili costituzionali- Razionalizzazione della normativa in
materia ambientale a cura dell’Istituto per l’ambiente, Milano, 1994
- 18 -
pluralità degli interessi afferenti al bene ambiente al tessuto dei valori che
contraddistinguono il patto costituzionale.
In questo ambito, il valore ambiente, al pari degli altri valori che
godono dello stesso rango costituzionale (ma infra sub art. 41 Cost.),
rappresenta uno dei canoni alla cui stregua orientare ogni manifestazione
della legalità.
Nella giurisprudenza costituzionale non sempre univoco, peraltro, è
stato il modo di definire gli interessi ambientali24 : in talune pronunce si
parla di “beni rilevanti costituzionalmente” 25 ; raramente la Corte si è
riferita all’ambiente con il termine di “interesse fondamentale”
26
;
nettamente prevalente, infine, è il ricorso al concetto di “valore
costituzionale”
ovvero
di
“valore
costituzionalmente
garantito
e
protetto”27 .
In altre occasioni la Corte Costituzionale ha precisato che l’ambiente,
“in
una
corretta
e
moderna
concezione”,
costituzionale dal contenuto “integrale”
28 ,
costituisce
un
valore
nel senso che in esso sono
24
Cfr M. Cecchetti, Rilevanza costituzionale dell’ambiente e argomentazioni della Corte,
RGA, 1994
25
Cfr C. Cost. ord. n. 183 del 1983, GCOST, 1983, 977.
26
Cfr C. Cost. sent. n. 194 del 1993, GCOST, 1993, 1320.
27
Cfr C. Cost. sent. n. 167 del 1987, GCOST, 1987, 1212.
28
Cfr A. Morrone, La Corte Costituzionale e la cooperazione nella fattispecie dell’intesa,
analisi critica di un modello contraddittorio, RGA, 1996
- 19 -
sommati una pluralità di valori non limitabili solo agli aspetti esteticoculturali, sanitari ed ecologici della tutela, ma ricomprensivi pure di
esigenze e di istanze partecipative, la cui realizzazione implica l’attivazione
di tutti i soggetti pubblici, in virtù del principio della “leale
collaborazione”29, ma pure dei membri della collettività statale, dei quali
non può essere trascurato il positivo contributo per una efficace tutela dei
beni ambientali30.
Alla luce di questa giurisprudenza si desume che il concetto
giuridico di ambiente non può essere inteso solamente come oggetto di un
diritto soggettivo ovvero di un dovere di protezione da parte dello Stato.
In ordine al primo aspetto, la formula “diritto all’ambiente” va
intesa non già nel senso tecnico dell’esistenza di una pretesa soggettiva
riferibile all’ambiente, bensì come formula sintetica per indicare un fascio
di situazioni soggettive diversamente strutturate e diversamente
tutelabili: non esiste dunque un “diritto all’ambiente”, azionabile da un
soggetto individuale o collettivo davanti ad un giudice, ma tante situazioni
soggettive (di volta in volta coincidenti con il diritto alla salute, il diritto
alla salubrità dell’ambiente, il diritto alle informazioni ambientali, il diritto
all’associazionismo ambientale etc.), che si pongono nei confronti
29
Cfr C. Cost. sent. n. 302 del 1994, GCOST, 1994, 2590.
30
Cfr C. Cost. sent. n. 356 del 1994, GCOST, 1994, 874.
- 20 -
dell’ambiente come valore in rapporto di mezzi al fine.
Sotto il secondo profilo, il dovere di protezione dell’ambiente
coinvolge non solo lo Stato apparato, ma pure la sovranità statale sia nelle
sue articolazioni territoriali interne (Regioni, Lander, Comunità autonome,
minori enti locali) che nella sua proiezione sovranazionale (le comunità
internazionali), oltrechè i singoli consociati, singolarmente e nelle
formazioni sociali in cui si esprime la persona umana.
Ancora recentemente, dopo l’entrata in vigore della riforma del
Titolo V della Costituzione, la Corte costituzionale ha confermato la sua
posizione sull’ambiente come valore costituzionale 31 : secondo la Corte,
infatti, non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art.
117 possono, in quanto tali, configurarsi come materie in senso stretto,
poichè, in alcuni casi, si tratta più esattamente di
competenze del
legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie. In questo
senso l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad
escludere che possa identificarsi una materia in senso tecnico, qualificabile
come tutela dell’ambiente, dal momento che non sembra configurabile
come sfera di competenze.
In particolare, dalla giurisprudenza della Corte, antecedente alla
nuova formulazione del Titolo V della Costituzione, è agevole ricavare una
31
Cfr sentt. 407 e 536 del 2002 in www.diritti&diritti.it
- 21 -
configurazione dell’ambiente come valore costituzionalmente protetto, che,
in quanto tale, delinea una sorta di materia trasversale, in ordine alla quale
si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali,
spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze
meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale32
I lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della
Costituzione inducono, d’altra parte, a considerare che l’intento del
legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il potere di
fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, senza
peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di
interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali.
In definitiva, si può quindi ritenere che riguardo alla protezione
dell’ambiente non si sia sostanzialmente inteso eliminare le preesistenze
pluralità di titoli di legittimazioni per interventi regionali diretti a
soddisfare contestualmente, nell’ambito delle proprie competenze,
ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dalla Stato.
Da ultimo la giurisprudenza costituzionale
33
afferma che l’
“ambiente” è materia a sé, non trasversale dello Stato.
32
Cfr da ultimo, sentenze n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998 in
www.diritti&diritti.it
33
Cfr Corte Cost, sentenza n. 225, 22.07.09, Giuffrè 2010
- 22 -
Secondo la Corte, la materia è determinata dal fine e dall’oggetto
precisamente, la materia è determinata dal fine costituzionale della
“conservazione” e poi dal suo sostrato naturale: ha per oggetto specifico il
“bene materiale”, la biosfera comprensiva degli interessi vitali degli
individui, intesi come persone e come cittadini.
Secondo tale impostazione l’ambiente si identifica per mezzo di due
elementi: il fattore normativo e quello materiale.
Il fattore normativo si desume dalla previsione dell’art. 117 lett. s)
cost. ed è il fine: la materia si identifica con il fine di conservazione affidato
allo Stato.
Questo permette di identificare i singoli “oggetti” delle discipline
legislative che diventano attribuibili allo Stato rispetto al fine normativo: il
fine che la disciplina statale deve avere è il fine costituzionale della
“conservazione” del bene.
L’elemento materiale si identifica grazie al suo stesso sostrato
naturale: l’ambiente è un “bene materiale” comprensivo di tutti gli
interessi degli individui.
Si delinea una nozione di ambiente come interesse costituzionale,
pubblico, primario per lo Stato e come interesse individuale all’ambiente,
quest’ultimo come un interesse legittimo a base civica e personale che,
tuttavia, gode di una tutela sostanziale, garantita costituzionalmente.
- 23 -
E proprio da ciò ne deriva un suo preciso riflesso soggettivo:
quell’interesse è garantito a tutti, come persone e come cittadini.
La tutela di questo interesse ha fonte nella Costituzione stessa
derivando dagli artt. 2, 9 e 117 lett. s) della Costituzione e dalla legislazione
speciale.
In breve, la Costituzione e le norme codicistiche proteggono un
interesse ambientale alla conservazione e, soprattutto, permettono che
quell’interesse
sia
personificabile
rispetto
allo
Stato
e
rispetto
all’individuo.34
1.4. L’evoluzione normativa nella UE
Nonostante la molteplicità delle norme sull’argomento, ancora oggi la
descrizione del concetto di ambiente appare parziale e non soddisfacente.
La prima elaborazione del concetto di ambiente in sede europea
risale alla Direttiva sulla Valutazione di Impatto ambientale ( Direttiva
85/337/CE) in cui l'art. 3 circoscrive " … l'ambiente alle risorse
complessive naturali e culturali in un giusto equilibrio dei fattori fisici
(suolo, acqua, aria, clima), del paesaggio e della cultura".
34
Cfr A. Cioffi, L’ambiente come materia dello stato e come interesse pubblico.
Riflessioni sulla tutela costituzionale, note a margine alla sentenza n. 225/09, in Riv.
Giur. Ambientale, 2009, 06, 1970
- 24 -
In un unico atto della UE (allegato VI della Direttiva 98/8/CEE
del 16 febbraio 1998 e relativa all'impiego di sostanze pericolose) viene
proposta la seguente nozione di ambiente: "per ambiente deve intendersi:
acqua, compresi i sedimenti, aria, terra, specie della fauna e flora
selvatiche e relative interrelazione, nonché le relazioni tra tali elementi e
gli organismi viventi".
Tale definizione ancora oggi parziale perché non comprende aspetti
fondamentali, quali l'uso del territorio, l'aggressione al paesaggio, la
violazione al bene storico-artistico, le diverse forme di inquinamento, le
varie aggressioni alla salute dell'uomo.
1.5 L’evoluzione normativa internazionale
Nell’attività definitoria dell’ ambiente offerte dalle Istituzioni
Internazionali sono ancora indietro rispetto all'UE. Il primo documento
con il quale è stata formulata a livello internazionale la nozione di
ambiente è rappresentato dal testo elaborato da un Comitato di esperti
incaricati dalla 15° conferenza dei Ministri di Giustizia del Consiglio
d'Europa ad Oslo (17-19/06/1986), in materia di responsabilità per danni
da attività pericolose. In tale contesto fu elaborata per la prima volta una
definizione giuridica di ambiente come bene
componenti:
- 25 -
costituito dalle seguenti
1.
le risorse naturali biotiche ed abiotiche;
2.
l'interazione tra le citate componenti, il paesaggio e il
patrimonio culturale.
1.6 Evoluzione normativa italiana
Nel nostro ordinamento, la elaborazione del concetto di ambiente si
articola sostanzialmente su tre normative:
1.
Legge 979/1982 “Disposizioni per la difesa del mare”
2.
Legge 394/1991 “Legge quadro sulle aree protette”
3.
Decreto Legislativo 16 gennaio 2008 nr. 4 (di modifica al
D.legs. 152/206 e approfondito nel prossimo paragrafo)
All'art. 25 della legge n.979/82 contenente disposizioni per la difesa
del mare definisce le Riserve marine come le riserve naturali marine
“costituite da ambienti marini, dati dalle acque, dai fondali e dai tratti di
costa prospicienti che presentano un rilevante interesse per le
caratteristiche
naturali,
geomorfologiche,
fisiche,
biochimiche
con
particolare riguardo alla flora e alla fauna marine e costiere e per
l'importanza scientifica, ecologica, culturale, educativa ed economica che
rivestono." Mediante questa definizione la normativa pone le basi per
inquadrare il concetto di ambiente comprensivo di risorsa- cultura,
educazione, economica.
- 26 -
Nella legge quadro sulle aree protette (legge n. 349/86) si enucleano
i principi fondamentali del nostro sistema giuridico ambientale, facendosi
esplicito riferimento a: a) norme costituzionali (art. 9 sulle bellezze
paesaggistiche e art. 32 sulla salute umana), b) riferimenti scientifici
(scienza,
patrimonio
valorizzazione
e
naturale),
conservazione
c)
del
politiche
ambientali
territorio),
d)
(tutela,
riferimenti
giurisprudenziali (in particolare agli interventi della Corte Costituzionale
quando invita ad una leale cooperazione tra Enti (Regione, Provincia, ecc.),
e) carta della natura (adottata da una comitato su proposta del Ministro
dell'ambiente che ha la finalità di evidenziare lo stato dell'ambiente, i punti
migliori e i vulnerabili).
Il Decreto Legislativo 16 gennaio 2008 n. 4 (di modifica al D.lgs.
152/206) non offre una definizione esplicita di ambiente, limitandosi a
circoscriverla nella definizione di impatto ambientale.
All'art. 5, comma 1, lettera c, il decreto definisce l'impatto ambientale
come "l’alterazione qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a
breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa,
positiva e negativa dell’ambiente, inteso come sistema di relazioni fra i
fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici,
architettonici,
culturali,
agricoli
ed
economici,
in
conseguenza
dell’attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle
diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di
- 27 -
eventuali malfunzionamenti".
Sebbene nella norma non vi sia una lettera dedicata alla definizione di
"ambiente",
è evidente, nel passaggio "inteso come”, la implicita
definizione del termine all'interno di una più ampia definizione del
concetto di impatto ambientale.
La preliminare essenziale panoramica normativa sull’evoluzione della
nozione del bene “ambiente”, che permette di individuare il bene e di
caratterizzare l’oggetto della lesione, offre quanto basta ad introdurre il
tema del danno ambientale, del danno che scaturisce dalla lesione del
bene ambiente.
2. Il danno ambientale nelle tappe europee
L’ambiente ha cominciato a porsi come problema di politica
mondiale a partire dagli anni 70. In questo periodo, infatti, sono emerse
fortemente le problematiche legate al degrado ambientale e si è
cominciata a sentire l’esigenza improcrastinabile di adottare misure
idonee e sistemi efficaci di prevenzione e di controllo, nella
consapevolezza che lo sviluppo economico non poteva più essere fine a sé
stesso, incurante delle conseguenze e dell’impatto sull’ambiente e sulla
biodiversità.
La simbolica soglia è stata varcata nel 1972, anno in cui si sono
- 28 -
tenute la Conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma ed il Consiglio delle
Comunità Europee a Parigi: in queste sedi, infatti, si prese atto dei danni
che uno sviluppo industriale ed economico indifferente ai problemi
ecologici provocava all’ambiente, e delle necessità di difendere e
migliorare l’ambiente per le generazioni presenti e future.
Inizialmente, le politiche ambientali sono state attuate mediante
strumenti di diritto pubblico, scelta, questa, dovuta innanzitutto al fatto
che si riteneva che gli strumenti pubblicistici fossero più idonei di quelli
privatistici, in un settore in cui è prevalente l’interesse pubblico alla
prevenzione del danno.
Progressivamente gli strumenti di diritto pubblico sono stati
considerati i soli in grado di offrire un certo livello di protezione al danno
all’ambiente, la quale richiede un’attività di pianificazione mirante a
salvaguardare particolari assetti ecologici ed a coordinare le attività
antropiche maggiormente incidenti sull’assetto del territorio con le
finalità di protezioni di equilibrio ecologico generale.
A partire dall’inizio degli anni 80, è iniziato il trend legislativo di
rivalutazione della responsabilità civile come strumento di prevenzione
del danno derivante da attività potenzialmente pericolose per l’uomo e
per l’ambiente.
In dottrina, si è soliti scandire la politica della Comunità in diverse
“tappe”, ad ognuna delle quali corrisponde un determinato indirizzo di
- 29 -
politica ambientale.
a) Dal trattato CEE al vertice di Stoccolma del 1972
La prima tappa va dal 1958 (anno di entrata in vigore del Trattato di
Roma) al 1972 (che rappresenta la data a partire dalla quale si è cominciata
gradualmente ad avvertire la consapevolezza della necessità di una
politica ambientale comunitaria).
In questo periodo, nonostante l'emanazione di alcune norme, come la
Direttiva 67/584 sulla classificazione, l'imballaggio e l'etichettatura delle
sostanze pericolose, la Direttiva 70/157 sull'inquinamento acustico
e la Direttiva 70/220 sulle emissioni inquinanti provocate dagli
autoveicoli, rivolte, anche se solo parzialmente, alla tutela ambientale,
è mancata la consapevolezza della emergente questione ambientale e
della necessità di intraprendere una seria politica capace di contrastare i
problemi causati dal rapido sviluppo industriale.
Il perseguimento dello sviluppo sostenibile, nella determinazione e
nella realizzazione della politica ambientale, il quale rappresenta, oggi, uno
dei principali settori in cui si articola la politica comunitaria, non
costituiva ancora, allora, un obiettivo imprescindibile per le istituzioni
comunitarie, tanto che nell'originario testo del Trattato Istitutivo della
Comunità Economica Europea del 1957, i concetti di ambiente, di tutela
- 30 -
ambientale e di politica ambientale non erano neppure menzionati.
b) Dal vertice di Parigi (1972) all'Atto Unico Europeo (1987): lo
sviluppo sostenibile
Nel vertice di Parigi dell'ottobre del 1972, che inaugurò la "seconda
fase" della politica europea, il Consiglio prese atto dei danni che uno
sviluppo industriale ed economico indifferente ai problemi ecologici
provocava all'ambiente, e dichiarò che "la crescita economica non è fine a
se stessa, ma dovrebbe tradursi in un miglioramento della vita e del
benessere generale ... e, in conformità con i tratti fondamentali della
cultura europea, attenzione particolare dovrà essere data ai valori
intangibili e alla protezione dell'ambiente".
Vennero enunciate, in questa sede, le linee direttrici della futura
politica ambientale comunitaria, tra queste figuravano due principi che
avrebbero assunto, in futuro, un ruolo sempre più importante: il principio
"chi inquina paga" e quello dell'"azione preventiva" e correzione alla fonte
dei danni, attraverso la c.d. valutazione d'impatto ambientale.
Il principio "chi inquina paga" è stato definito, negli obiettivi e
nei mezzi per attuarlo, nell'allegato ad una importante raccomandazione
del Consiglio adottata congiuntamente dalle tre Comunità (racc.
75/436/Euratom, CECA, CEE del 3 marzo 1975).
- 31 -
Secondo tale principio "le persone fisiche o giuridiche, di diritto
pubblico o privato, responsabili di inquinamento debbono sostenere i
costi delle misure necessarie per evitare questo inquinamento o per
ridurlo ...La protezione dell'ambiente non deve essere assicurata da
politiche basate sulla concessione di aiuti, che addosserebbero alla
collettività l'onere della lotta contro l'inquinamento" Inquinatore è
"colui che degrada direttamente o indirettamente l'ambiente, ovvero
crea le condizioni che portano alla sua degradazione".L'atto contempla
anche casi di "catene di inquinatori" e di "inquinamento
cumulativo".
I mezzi principali di cui si raccomanda l'adozione ai pubblici poteri
al fine di attuare il principio "chi inquina paga" sono le norme ed i
canoni. L'imposizione di questi ultimi ha una funzione di stimolo,
inducendo il responsabile a prendere le misure necessarie per ridurre
l'inquinamento di cui è autore, ed una funzione di ridistribuzione,
facendogli sostenere una parte delle spese per le misure collettive di
disinquinamento. Si precisa, infine, che quanto previsto non pregiudica la
normativa in materia di responsabilità civile e gli eventuali risarcimenti
dovuti in base al diritto nazionale o internazionale.
In questo periodo il Parlamento europeo e il Consiglio dell'Unione
hanno emanato tre programmi d'azione –( 1973/1977; 1977/1981;
1982/1986) - con i quali la Comunità, dopo aver stabilito la centralità
- 32 -
dell'interesse ambientale in relazione a qualunque tipo di programmazione
o decisione, intensificò e riorganizzò la propria politica, affiancando alle
tradizionali iniziative basate sul controllo degli inquinanti e sul
contenimento degli inquinamenti, una politica di prevenzione dei danni
all'ambiente, nell'ottica dello sviluppo sostenibile attraverso l’adozione di
numerose direttive, quali, ad esempio, la direttiva 75/442 sui rifiuti, la
direttiva 76/464 sulle sostanze pericolose nelle acque, la direttiva 80/778
sulle acque destinate al consumo umano e via dicendo.
Nel 1986 i ministri della Giustizia dei 21 paesi del Consiglio
d'Europa approvarono una risoluzione sulla responsabilità civile per il
risarcimento dei danni causati all'ambiente da attività pericolose, nella
quale, preso atto che "il danno all'ambiente non può essere oggetto di
prevenzione in ogni caso, ma deve essere riparato in modo adeguato", si
decise di porre allo studio un regime di responsabilità civile basato, da un
lato, sulla presunzione di colpa o sulla responsabilità oggettiva, (con un
sistema
collettivo
di
riparazione
fondato
sull'assicurazione
o
la
costituzione di un fondo), dall'altro sull'obbligo di rimessione in pristino o
di misure di risanamento.
c) Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Maastricht
La fase che segue è segnata dalla proposta di direttiva comunitaria
sui danni all'ambiente causati da rifiuti, dalla Convenzione di Lugano e dal
- 33 -
Libro Verde sulla responsabilità civile per danno all'ambiente.
Tale momento rappresenta un importante punto di svolta, in quanto
per la prima volta, è stata introdotta una espressa competenza della CEE
in materia ambientale, mediante l'inserimento nel testo del trattato del
titolo VII, dedicato all'ambiente.
Il quarto programma d'azione (1987/1992), oltre a ribadire obiettivi
di tutela già contenuti nei precedenti programmi, lanciò il nuovo concetto
dell'integrazione
della
politica
ambientale
con
le
altre
politiche
comunitarie, nell'intento di diffondere una maggiore convergenza di
interessi e di comportamenti degli Stati membri, dell'opinione pubblica e
di tutti i settori interessati nei confronti dei problemi ambientali.
In questo periodo, in sostanza, emerse l'esigenza di dettare delle
regole uniformi, mediante le quali la comunità potesse affrontare in
maniera
più
efficace
i
problemi
ambientali,
in
considerazione
dell'incapacità delle sole misure pubbliche di tipo preventivo, adottate da
ciascuno Stato, di scongiurare episodi di disastro ambientale, specie se
imprevisti. Inoltre, si cominciarono a prendere in considerazione,
nell'ambito degli strumenti internazionali sul risarcimento del danno da
determinate attività pericolose, profili economici e giuridici di danno
all'ambiente, che non si esauriscono nelle conseguenze pregiudizievoli
cagionate a cose o persone.
Nel settembre 1989, la Commissione presentò al Consiglio dei
- 34 -
Ministri della Comunità economica europea una proposta di direttiva sulla
responsabilità per danni causati da rifiuti:si trattò, in sostanza, di una
proposta incentrata sul chiaro obiettivo della prevenzione della lesione
all’ambiente.
L’assenza, però, di una qualsiasi previsione del risarcimento in
termini monetari, sia nell’ipotesi in cui il ripristino della situazione
ambientale preesistente all’evento lesivo fosse tecnicamente impossibile,
sia in quella in cui, dall’evento di danno sino al momento del ripristino,
fosse trascorso un periodo di tempo non irrilevante, determinò, con la
Convenzione
internazionale
di
in
Lugano
(1993),
evoluzione
la
che
prefigurazione
e
apparve
di
subito
un
trend
come
la
regolamentazione più organica della responsabilità civile per danni alle
cose, alle persone, all’ambiente.
Innanzi tutto venne introdotta, per la prima volta, una definizione
giuridica espressa di ambiente, le cui componenti fondamentali
comprendevano non solo le risorse naturali (biotiche, abiotiche,
paesaggistiche) suscettibili di danno, ma anche le interazioni tra le
medesime , nonché il paesaggio e il patrimonio culturale.
La Convenzione prese, altresì, in considerazione le attività
pericolose, esercitate professionalmente, che ponevano in essere un rischio
significativo per l’uomo, l’ambiente e la proprietà.
Venne riconosciuta la legittimazione ad agire giudizialmente alle
- 35 -
associazioni ambientaliste, che potevano chiedere al giudice, oltre alle
misure di prevenzione o ripristino, anche l'interdizione di un'attività
economica esercitata illegittimamente che costituisse una minaccia grave
di danno all'ambiente.
Infine, venne rimessa alla legislazione nazionale degli Stati sia la
determinazione di un tetto o limite massimo della responsabilità per
tipologia di danno, sia la previsione di un obbligo di assicurazione, o di
garanzia finanziaria, come requisito necessario per ottenere autorizzazioni
all'esercizio delle attività.
Nello stesso anno la Commissione CEE pubblicò un Libro Verde
sulla responsabilità civile per danno all'ambiente nel quale si esaminò
l'utilità della responsabilità civile quale mezzo adatto per imputare la
responsabilità per costi legati al risanamento ambientale.
La Comunità, partendo dalla constatazione della diversità delle varie
legislazioni nazionali, avvertì l'esigenza di procedere nel senso di
uniformare le disposizioni esistenti in materia nei vari Stati membri, al
fine di perseguire l'uniformità di tutela e di comportamenti all'interno
della Comunità.
La Commissione riconobbe la responsabilità civile quale strumento
per imporre standard di comportamento come strumento preventivo nella
disciplina del danno all'ambiente, per la realizzazione del principio "chi
inquina paga", e come mezzo per obbligare coloro che causano
- 36 -
l'inquinamento a sostenere i costi del danno conseguente.
Le tre linee fondamentali sulle quali si radicava la proposta furono
individuate:
a) in un regime generale fondato sulla colpa;
b) in un regime speciale (per le attività a rischio aggravato)
ancorato alla responsabilità oggettiva;
c) in un fondo di indennizzo per danni non imputabili a
soggetti individuati, alimentato con i contributi dei settori
economici interessati e gestito nel rispetto del principio di
sussidiarietà.
Nel complesso, tuttavia, il Libro Verde apparve "datato", rispetto
alle soluzioni codificate dal Consiglio d'Europa sulla responsabilità per
danno all'ambiente da attività pericolose, svolgendo tuttavia un ruolo di
“salvagente” rispetto alle indicazioni assai caute della Commissione.
d) Da Maastricht al trattato di Amsterdam (1993- 1999)
Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht il 1° Novembre
1993, vennero introdotte alcune modifiche al testo del Titolo VII del
Trattato: in particolare, accanto agli obiettivi della salvaguardia, tutela e
miglioramento della qualità dell’ambiente, della protezione e della salute
umana, nonché dell’utilizzo accorto e razionale delle risorse naturali,
- 37 -
venne introdotto l’obiettivo della promozione a livello internazionale di
misure destinate a risolvere problemi ambientali a livello regionale e
mondiale.
Nello stesso periodo, il quinto programma di azione in materia di
ambiente (1993/2000) propose, per la prima volta, accanto alle misure di
intervento tradizionali, basate su una logica di “comando e controllo”,
l’utilizzo di misure di carattere economico, strumenti di mercato (ecolabel
ed ecoaudit), strumenti orizzontali e meccanismi di sostegno finanziario al
fine di correggere in senso ambientale le inefficienze di mercato.
e)Dal Trattato di Amsterdam alla Direttiva 2004/35/CEE
Dal 1999 le ulteriori tappe dell’evoluzione legislativa in materia di
danno ambientale sono state dal Libro Bianco sulla responsabilità per
danni all’ambiente nonché dalla nota proposta di direttiva 2004/35/CEE.
I punti fondamentali del Libro Bianco possono schematizzarsi come
segue:
1) il termine danno ambientale viene impiegato in due accezioni
specifiche come danno alle biodiversità e come danno sotto forma di
contaminazione ai siti;
2) al fine di conferire una maggiore completezza all’intervento
comunitario, il sistema di responsabilità delineato contempla sia il
- 38 -
danno all’ambiente che il danno alle persone e cose;
3) con riguardo alle tipologie di attività che possono comportare
rischi ambientali, la Commissione opta per un approccio circoscritto;
4) i soggetti responsabili sono le persone che esercitano il controllo
sulle attività che hanno occasionato il danno;
5) viene sancito il principio di irretroattività;
6)
responsabilità
oggettiva
per
danno
causato
da
attività
intrinsecamente pericolose, responsabilità per colpa per il danno
alle biodiversità causato da attività non pericolose;
7) al giudice si offre la possibilità di decidere secondo equità in tutti
quei casi in cui l’operatore che ha causato il danno possa provare
che il danno stesso è stato interamente ed esclusivamente causato
da emissioni esplicitamente permesse dalla sua licenza.
Ma l’aspetto sicuramente più importante del Libro Bianco è
costituito
dall’affermazione
dell’importanza
dello
strumento
della
financial responsibility.
La Commissione, infatti, ha affermato che “l’assicurabilità è
importante per consentire il raggiungimento degli obiettivi di un sistema
di responsabilità per danni all’ambiente”, e ha auspicato lo sviluppo di un
mercato assicurativo in grado di garantire la copertura dei rischi dei danni
all’ambiente.
- 39 -
L’ultima tappa di questo lungo iter, che ha condotto, poi,
all’emanazione della direttiva 2004/35/CEE, è rappresentata dalla
proposta della Commissione del gennaio 2002, che tiene conto, oltre che
dei diversi regimi di responsabilità ambientale vigenti nei sistemi nazionali
europei, anche dell’esperienza statunitense.
La proposta, tendeva ad introdurre un regime di prevenzione e
riparazione del danno ambientale. Tendenza, questa, che nella proposta si
è tradotta nella tipizzazione della fattispecie, sia perché l’oggetto investe
solo determinate risorse (biodiversità, acque, suolo e sottosuolo) sia
perché il campo operativo della direttiva è limitato ai danni, provocati
esclusivamente da determinate attività, che producono gravi effetti
negativi sotto il profilo ambientale o della salute umana.
In generale, nelle ipotesi di attività pericolose il criterio di
imputazione della responsabilità per tale danno significativo è di tipo
oggettivo, mentre, ove si tratti di altre attività che cagionino minaccia
immediata o danno alla biodiversità, l’agente è responsabile solo per dolo
o colpa.
In applicazione del principio “chi inquina paga”
la proposta
direttiva richiede che sia l’effettivo responsabile del danno a sopportare i
costi del ripristino.
Nel caso specifico di danno alla biodiversità, non presupponendo la
proposta alcuna limitazione in ordine alle attività economiche da prendere
- 40 -
in considerazione, l’operatore tende ad essere ritenuto responsabile
soltanto in caso di dolo o colpa.
Al fine di garantire in ogni caso un’elevata protezione ambientale, la
Commissione prevede una serie di casi in cui si debba comunque dare
luogo al ripristino, ancorché il responsabile non possa essere identificato,
oppure non abbia una sufficiente copertura finanziaria.
La proposta delinea come figura principale di risarcimento del
danno, la riparazione in forma specifica da conseguire riportando gli
habitat e le specie danneggiate alle condizioni originarie.
Qualora la restituito in integrum non sia più fattibile, spetta
all’autorità competente la valutazione
delle diverse opzioni a sua
disposizione.
Infine, la direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in
materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, segna un
significativo
punto d’arrivo nell’iter normativo , che compendia gli
interventi più innovativi in materia.
§§§
La descrizioni per grandi linee del percorso europeo in materia di
tutela dell’ambiente, di un ambiente che assurge a bene da tutelare non
solo
nel preciso contingente storico ma anche in un’ottica futura,
evidenzia come si siano privilegiati gli strumenti di tutela preventivi e
- 41 -
precauzionali più che quelli repressivi o punitivi.
Ciò permette di delineare la storia del danno ambientale
nell’ordinamento
interno
secondo
le
evoluzioni
normative
e
giurisprudenziali pur sempre e, comunque, condizionata dalla politica
giuridica comunitaria.
§§§
3. Il Danno ambientale nell’ordinamento interno: evoluzione
giurisprudenziale e normativa
La elaborata evoluzione e genesi del concetto di danno ambientale
(prima di giungere alla definizione positiva di cui all’ art. 18 della legge
349/86 e art. 311 del Dlvo n. 152/06) non può che muovere, come detto,
dalla definizione stessa del bene ambiente come sopra già delineata quale
bene da tutelare e la cui lesione, per l’appunto, determina il danno da
risarcire.
Il concetto di ambiente, cui fa riferimento lo stesso legislatore della
legge 349/86, prende spunto, come è naturale, dall’elaborazione dottrinale
preesistente alla stessa. 35
Nella dottrina risalente, infatti, come già rilevato, sono individuabili
35
Cfr L. Prati, Il Danno all’ambiente e la bonifica dei siti inquinati, IPSOA, 2008, p.1 e ss.
- 42 -
almeno due orientamenti a seconda che all’ambiente sia riconosciuto o
meno rilievo giuridico quale bene autonomo, oggetto di specifica e
separata tutela rispetto alle sue singole componenti.
Al primo orientamento si riportano coloro che concepiscono il
concetto di ambiente non in termini unitari, bensì in modo frazionato. Tale
dottrina trova conferma in quella disciplina positiva, che, soprattutto in
origine, aveva affrontato le questioni ambientali in maniera settoriale e
frammentata36
Tale orientamento, sulla base della legislazione del tempo, tende a
distinguere l’ambiente nell’ottica della normativa relativa alla tutela del
paesaggio, della difesa del suolo, dell’aria, dell’acqua,ed infine della tutela
predisposta dalla normativa urbanistica.37
Al secondo orientamento fa riferimento l’ipotizzazione, già prima
dell’entrata in vigore della legge 349/86, di concezione unitaria del bene
ambiente, attraverso l’affermazione dell’ l’ambiente debba pur sempre
essere inteso come un “diritto dell’uomo, attributo fondamentale della
personalità e parallelo dovere di solidarietà sociale”38.
36
Cfr B. Carovita, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2001, p.19
37
Cfr M. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi aspetti giuridici, in Diritto e Ambiente.
Materiali di dottrina e giurisprudenza, G. Alpa e M. Almerighi (a cura di), Padova,
1984,p.37.
38
Cfr A. Postiglione, Ambiente: suo significato giuridico unitario, in Riv. Trim. di dir.
pubb., 1985, p.35
- 43 -
Ad entrambi gli orientamenti comunque si riconnette la prima
elaborazione del concetto di danno all’ambiente, sia esso inteso in senso
unitario, dunque come lesione di un bene unico, sia esso connesso alla
lesione di una delle sue componenti.
3.1 La “prima comparsa” del concetto di danno ambientale
nella giurisprudenza contabile.
Il concetto di danno ambientale, nel quadro dell’effettività del
principio chi inquina paga, compare nel nostro ordinamento giuridico
prima ancora della legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente, ad opera
del giudice contabile.
Infatti, il danno ambientale era stato ricondotto dal giudice
contabile, fin dagli anni 70, alla nozione di danno erariale, con
conseguente competenza esclusiva decisoria della Corte dei Conti, investita
di fattispecie di pregiudizio ambientale prodotte dai dipendenti delle
amministrazioni i cui costi ricadevano sui bilanci pubblici.39
In tale circostanza si poneva in evidenza come il pregiudizio non
fosse a carico di uno o pochi soggetti privati, ma della stessa collettività,
che, prima subiva gli effetti rovinosi, e poi, attraverso i pubblici bilanci
alimentati dal prelievo fiscale, partecipava agli oneri economici del
39
Cfr. Corte dei Conti, II sezione,30.04.85, Riv. Corte dei Conti,1985, p.126.
- 44 -
ripristino. Ciò segnava la prima comparizione nel nostro ordinamento del
concetto di danno ambientale
inteso, come
danno provocato da un
singolo ad un bene di fruizione collettiva ed i cui costi di ripristino gravano
sulla quella stessa collettività che ne risultava lesa.
Tutto ciò caratterizza una fase ancora embrionale dello sviluppo del
concetto di danno ambientale, la cui “essenza” non viene avvertita in
termini concreti (e di tutela “effettiva” anche sotto il profili di danno
sociale) e, soprattutto, non riesce a non collegarsi ad una lesione di una
“cosa pubblica” nell’ambito di un rapporto esclusivamente pubblicistico.
Seppur, già, essa tenta di ricollegare in termini più effettivi la
causazione del danno come lesione del bene ambiente ad un soggetto
specificato, che possa ricondursi al principio chi inquina paga, principio
non ancora a quell’epoca fatto proprio dalla normativa italiana, ma già
enucleato a livello comunitario.
3.2 L’orientamento della Corte Costituzionale sulla nozione di
danno ambientale
Sull’argomento di che trattasi appare fondamentale l’orientamento
della Corte Costituzionale, emerso
a seguito della pronuncia del 28
- 45 -
maggio 1987, e di quella del 30 dicembre dello stesso anno40.
Tale orientamento tende ad affermare una concezione unitaria del
bene ambientale e della sua lesione (e dunque del danno che ad esso può
essere cagionato), inclusiva di tutte le risorse naturali e culturali, e che
comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento
delle condizioni naturali, l’esistenza e la preservazione dei patrimoni
genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso
vivono allo stato naturale ed in definitiva della persona umana in tutte le
sue estrinsecazioni.
Tutto ciò viene rafforzato dalla considerazione dell’ambiente come
bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle
quali può costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di tutela e di
cura, ma tutte nell’insieme riconducibili ad unità, e dell’ambiente come
bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme.
In tema di danno ambientale il fatto che l’ambiente possa essere
fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di
varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non
fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario
che l’ordinamento prende in considerazione.
40
Si fa riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 210/1987 e n. 641/1987,
rispettivamente in Foro it, 1988, I, p. 333 e p. 641.
- 46 -
Il concetto giuridico di ambiente così delineato conduce ad
evidenziare come l’aggressione di esso, attuata mediante la lesione di uno
qualsiasi degli elementi che concorrono alla sua formazione, abbia un
rilievo autonomo rispetto a quella concernente i suoi aggregati, così come
del tutto indipendente appare l’area di incidenza del danno cagionato da
tale lesione, il quale presenta connotazioni proprie e distinte rispetto alla
alterazione provocata dal fatto illecito inerente a ciascuno dei suoi
componenti.
Si tratta, in particolare, di un pregiudizio che, pur riconducendosi al
concetto di danno patrimoniale, postula un’accezione più ampia di questo,
dovendosi avere riguardo, non tanto alla mera differenza tra il saldo attivo
del danneggiato prima/dopo l’evento lesivo, quanto alla sua idoneità a
determinare in concreto, secondo una valutazione sociale tipica, una
diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato può
disporre secondo una prospettiva, per la quale il danno di cui si tratta, pur
presentando indubbiamente la nota della patrimonialità, è svincolato da
una concezione aritmetico contabile.
In altri termini la protezione dell’ambiente non persegue astratte
finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat
naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e,
per essa, ai cittadini secondo i valori largamente sentiti: è imposta
anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui essa assurge
- 47 -
a valore primario ed assoluto41.
In conclusione l’orientamento della Corte Costituzionale, accedendo
alla definizione del bene ambiente nel modo sopra riportato, conferisce al
danno ambientale una rilevanza patrimoniale indiretta, nel senso che la
tendenziale scarsità delle risorse ambientali-naturali implica una
disciplina che eviti gli sprechi e i danni,così determinandosi una
economicità ed un valore di scambio del bene
Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta ad
essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo.
Consentono di misurare l’ambiente in termini economici una serie
di funzioni con i relativi costi, tra cui la gestione del bene in senso
economico, col fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della
collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientale, cosicchè,
questo, l’impatto ambientale possa essere ricondotto in termini monetari.
Il tutto consente di dare all’ambiente e, quindi, al danno ambientale un
valore patrimoniale.
Il superamento della considerazione secondo cui il diritto al
risarcimento del danno sorge a séguito della perdita finanziaria contabile
nel bilancio dell’ente pubblico, cioè della lesione del patrimonio dell’ente,
non incidendosi su un bene appartenente allo Stato, porta a considerare la
41
Cfr. anche Tribunale di Venezia Penale 27 novembre 2002 n. 1286.
- 48 -
legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato e agli enti minori, come
fondata sul fatto che tali soggetti hanno affrontato spese nel riparare il
danno, o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica, nella
loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito
territoriale e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico
del territorio che ad essi fanno capo.
Lo schema di azione adottato, riconducibile al paradigma dell’art.
2043, conduce ad identificare il danno risarcibile come perdita subìta,
indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non
sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato
e degli enti minori.
3.3
L’orientamento
della
giurisprudenza
della
Corte
di
Cassazione sulla nozione di danno ambientale anche alla luce
dell’art. 18 della legge 349/86
Sulla scorta degli insegnamenti della Corte Costituzionale, la
giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto il contenuto stesso
del danno ambientale come coincidente con la nozione non di danno
“patito” bensì di danno “provocato” ed il danno ingiusto da risarcire come
atteggiantesi in modo indifferente rispetto alla produzione di danniconseguenze, essendo sufficiente per la sua configurazione la lesione in sè
di quell’interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale secondo
- 49 -
contenuti e dimensioni fissati da norme e provvedimenti.
In tale contesto si inserisce la legge istitutiva del Ministero
dell’Ambiente n.349/86 che, con l’art. 18, dà attuazione al principio
comunitario (sopra richiamato) chi inquina paga, secondo il quale i costi
dell’inquinamento devono essere sopportati dal responsabile attraverso
l’introduzione, quale forma particolare di tutela, dell’obbligo di risarcire il
danno cagionato all’ambiente a seguito di una qualsiasi attività compiuta
in violazione del dispositivo di legge: “ Qualunque fatto doloso o colposo
in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base
a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno,
alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte,
obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato.”
Con tale norma, si introduce, così, nel nostro ordinamento il
concetto di danno ambientale, finora definito
praetorio,
solamente dallo jus
e si consacra un’ipotesi di condotta che, al verificarsi di
determinati presupposti, può determinare in capo al soggetto agente una
responsabilità per lesione del bene ambiente.
Si configura in tal modo, come si avrà modo di evidenziare più
avanti, una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale connessa a
fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno “ingiusto” all’ambiente, dove
l’ingiustizia si individua nella violazione della disposizione di legge e dove
il soggetto titolare del risarcimento è lo Stato.
- 50 -
La
giurisprudenza
ha
seguito
criteri
ermeneutici
diversi
nell’elaborazione del concetto di danno come introdotto dall’art. 18 citato:
dalla notazione iniziale sulla specialità dell’art. 18 rispetto al previsione
generale dell’art.2043 cod.civ., all’impostazione successiva di un “regime
misto”, che assorbe al suo interno le disposizioni più severe del codice
civile sulla responsabilità oggettiva (per le attività qualificabili come
pericolose)
e
sulla
solidarietà
(tra
responsabili),
in
deroga
ai
corrispondenti profili dell’art. 18, del quale, comunque, sottolinea la
specialità, ma limitatamente al danno-evento (lesione in sé dell’ambiente)
rispetto a quello codicistico del danno-conseguenza, evidenziandone il
“timbro repressivo” rappresentato dalla gravità della colpa, dal profitto
conseguito dal trasgressore e dal costo necessario del ripristino.42
Tale orientamento giurisprudenziale non ha comunque esitato ad
individuare nel dettato costituzionale la fonte stessa della norma sul danno
ambientale, così sostenendo la rilevanza giuridica del bene ambiente in
virtù del dettato costituzionale: la stessa configurabilità del bene ambiente
e la risarcibilità del danno ambientale, pur specificamente regolato dall’art.
18 della legge n. 349/86, troverebbero la fonte genetica direttamente nella
Costituzione, considerata dinamicamente e come diritto vigente e vivente,
42
G. Schiesaro, Gli aspetti sanzionatori della responsabilità per danno ambientale alla
luce della nuova direttiva, in La responsabilità ambientale, a cura di B. Pozzo,
Milano, 2005.
- 51 -
attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (artt. 2, 3, 9, 41 e 42)
che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico,
sociale ed ambientale, e si è
ritenuto, pertanto, che, anche prima della
legge 349/86 la Costituzione e la norma generale dell’art. 2043 cc
“apprestavano all’ambiente una tutela organica43.
Si ribadisce la peculiarità del danno ambientale, pur nello schema
della responsabilità civile, rilevandosi come esso consista nell’alterazione,
deterioramento, distruzione, in tutto o in parte dell’ambiente inteso quale
insieme che, pur comprendendo vari beni appartenenti a soggetti pubblici
o privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà
immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che
costituisce
come
tale
specifico
oggetto
di
tutela
da
parte
dell’ordinamento44.
Per la valutazione del danno ambientale, dunque, non può farsi
ricorso ai parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma
deve tenersi conto della natura di bene immateriale dell’ambiente nonché
della particolare rilevanza del valore d’uso della collettività che usufruisce
e gode di tale bene.
43
Cfr. Cassazione Penale, 19 giugno 1996, n. 5650 relativa alla catastrofe del Vajon 1963,
in www.lexambiente.it
44
Cfr. Cassazione Civile, 9 aprile 1992, n. 4362. www.lexambiente.it
- 52 -
Si è altresì affermato che il danno ambientale presenterebbe una
triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale
dell’ambiente
di ogni uomo); sociale
(quale lesione del
diritto
fondamentale dell’ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la
personalità umana: art 2 Cost); pubblica (quale lesione del diritto-dovere
pubblico delle istituzioni sociali e periferiche con specifiche competenze
ambientali): sicchè il danno ambientale non consisterebbe solo in una
compromissione dell’ambiente, in violazione delle leggi ambientali, ma
anche contestualmente in un’offesa della persona umana nella sua
dimensione individuale e sociale.
In questo contesto persone, gruppi, associazioni e anche gli enti
territoriali non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed
agiscono in forza di una autonoma legittimazione.45
In altri termini, secondo la giurisprudenza, lo stesso art. 18 della l.
349/86 non avrebbe, in sostanza, né definito un nuovo diritto né
individuato un nuovo bene giuridico meritevole di tutela, ma si sarebbe
invece limitato a ripartire la legittimazione attiva tra i vari soggetti
preposti alla protezione dell’ambiente, bene già tutelabile, sulla base del
solo art.2043 cod.civ.
45
Cfr. Cassazione Penale, 19 gennaio 1994, n. 439, inwww.lexambiente.it
- 53 -
4. La nozione di danno ambientale nella direttiva 35/2004/CEE
La elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che ha condotto all’
ideazione del concetto di ambiente come bene unitario ed immateriale,
come
sopra menzionato, deve tuttavia confrontarsi con la nuova
definizione di danno ambientale che è stata introdotta dalla direttiva
35/2004/CEE46 e trasmigrata nella parte VI del D.Lgs n. 152/06.
La definizione di danno ambientale contenuta nella direttiva si
presenta estremamente analitica: se è vero che per lungo tempo si è
lamentata della genericità della definizione nazionale del “danno
ambientale”, è altrettanto vero che anche l’approccio seguito dal legislatore
europeo appare discutibile.
In effetti, una definizione efficace, sotto il profilo giuridico,
dovrebbe richiedere il contemperamento delle esigenze della certezza del
diritto con quelle di un’applicazione sufficientemente “flessibile” della
norma, tale da garantire l’efficacia della stessa in relazione al bene protetto
anche nelle situazioni meno evidenti, ma, egualmente meritevoli di tutela
in base alla ratio seguita dal legislatore.
46
Cfr per un excursus delle tappe più significative che hanno preceduto l’emanazione
della Direttiva 200/35 CE, si rinvia a B. Pozzo, Verso una responsabilità per danni
ambientali in Europa: il nuovo libro Bianco della Commissione delle Comunità
Europee, in Riv. Giur Amb., 2000 pp 623e ss.; recentemente A. Quaranta,
L’evoluzione del danno ambientale nella politica Comunitaria, in Ambiente 2004, 10,
pp. 919 ss
- 54 -
Sotto questo profilo, la legislazione comunitaria continua invece ad
esasperare la tendenza volta a definire pedissequamente anche i concetti di
contenuto più ampio e generale, con il risultato di segmentare ed irrigidire
eccessivamente situazioni giuridiche, che, al contrario, per loro natura,
non possono vivere in un sistema a “compartimenti stagni”, quale quello
che inevitabilmente si produce adottando un tipo di tecnica normativa,
esageratamente appesantita da un numero eccessivo di definizioni e di
rimandi ad altre norme di pari contenuto definitorio.47
La concezione di danno presente nella direttiva, con un azzardo
linguistico,
potrebbe
definirsi
“materialistica”
se
non
addirittura
Infatti, viene soprattutto in rilievo nella direttiva
un danno
“ingegneristica”.
consistente nella “alterazione fisico – chimica” di una determinata risorsa
naturale “misurabile in termini di effetti negativi sullo stato della stessa” .
Pertanto, non viene perciò preso in considerazione qualunque
deterioramento delle risorse in sé o dei suoi usi collettivi, ma una modifica
negativa determinata e misurabile di quei servizi collettivi che l’ambiente
può rendere.
Alla concezione “materialistica” del danno, come effetto negativo
47
F. Giampietro, in Prevenzione e riparazione del danno ambientale: la nuova direttiva
n.2004/35/CEE, in Ambiente, 2004, 10.
- 55 -
misurabile
si
accompagna
,
come
logico
corollario,
la
sua
“frammentazione” in ipotesi distinte ed aventi presupposti, parzialmente
diversi, a seconda della componente ambientale interessata: specie ed
habitat protetti, acque e terreno.
Lungi, dunque, dal prevedere una concezione unitaria del danno
all’ambiente, il legislatore europeo si focalizza solo su alcune componenti
dello stesso, più o meno individuate, e per esse rimanda al legislatore
nazionale il compito di apprestare una specifica tutela.
5. La nozione di danno ambientale nel Dlgs n.152/06 : il danno
ambientale di matrice comunitaria e la sua trasposizione
nell’ordinamento nazionale.
Recependo la direttiva 35/2004/CEE sul danno ambientale, il
Codice dell’Ambiente, seppur indirettamente, ha ugualmente inciso sulla
definizione di ambiente come bene giuridico oggetto di protezione.
Per un corretto approccio logico-giuridico, il Codice dell’Ambiente
avrebbe dovuto prevedere una definizione preliminare del bene protetto
(l’ambiente), che si presentasse il più possibile univoca e, quindi,
- 56 -
descrivere il danno giuridicamente rilevante al medesimo bene48.
Il DLgs n.152/06 si presenta, invece, già privo di chiarezza su tali
fondamentali questioni. Ed infatti, ai sensi dell’art. 300 comma 1 del DLgs
n.152/06,
il
danno
ambientale
viene
definito
come
“qualsiasi
deterioramento significativo e misurabile diretto o indiretto, di una
risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”.
Il predetto articolo precisa, poi, al comma 2 che “ai sensi della
direttiva 35/2004/CE” costituisce danno ambientale il “ deterioramento,
in confronto alle condizioni originarie”, provocato agli habitat, alle acque
interne, alle acque costiere e al terreno.
L’art. 300 riprende, quindi, pedissequamente la definizione della
direttiva europea, senza fare alcuno sforzo di adattamento della norma
comunitaria all’ordinamento nazionale.
Da quanto sopra consegue un’impostazione “riduttiva”
49
del c.d.
danno ambientale, che, in particolare, dovrebbe coprire essenzialmente il
48
Cfr Sulle complesse problematiche relative alla molteplicità di definizione di
“ambiente” come oggetto di tutela, si veda F. Giampietro, La nozione di ambiente e di
illecito Ambientale, in Ambiente & Sviluppo, 2006, 5, pp464 ess.
49
Si pensi solo al danno al terreno, rispetto al quale viene in rilievo solo quella
contaminazione che cagioni “un rischio significativo di effetti negativi sulla salute
umana e derivi da un’introduzione diretta o indiretta nel suolo, sul suolo, o nel
sottosuolo di sostanze, preparati, organismi o microrganismi nel suolo”. L’evento di
danno (o di pericolo concreto) è riferito quindi non all’ambiente ed alle risorse
naturali, ma alla tutela della salute umana. Cfr anche F. Giampietro, La direttiva
2004/35/CE sul danno ambientale e l’esperienza italiana, Ambiente, 2004, 9.
- 57 -
danno alle specie ed agli habitat protetti, il danno ecologico chimico e
quantitativo alle acque, e il danno da contaminazione del terreno che
arrechi
pregiudizio
alla
salute
umana,
secondo
la
concezione
“materialistica” di danno presente nella direttiva, emergendo soprattutto,
quindi, un danno consistente nella “alterazione fisico- chimica” di una
determinata risorsa naturale, “misurabile in termini di effetti negativi sullo
stato della stessa”, a cui si accompagna, come logico corollario, la
“frammentazione” del danno in ipotesi distinte, ed aventi presupposti
parzialmente diversi, a seconda della componente ambientale interessata:
specie ed habitat protetti, acque e terreni.
Alla tutela “frazionata di alcune componenti del bene ambiente”
descritte nell’art. 300, commi 1 e 2, segue però la tipizzazione dell’illecito
ambientale contenuta all’art. 311, comma 2, del DLgs n.152/06, in base al
quale: “Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o
comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di
provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o
violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo,
deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, e' obbligato al
ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per
equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”.
Appare evidente la pressoché totale mancanza di coordinamento tra
- 58 -
l’art. 300 e l’art. 311 comma 2. 50 Ed infatti, mentre il primo limita la
definizione di danno ambientale
a quanto contemplato dalla direttiva
europea, indicando in modo puntuale e tassativo ciò che costituisce
oggetto di “deterioramento significativo e misurabile di una risorsa
naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, l’art. 311, comma 2,
riproduce in larga misura la più ampia e onnicomprensiva fattispecie già
contenuta nell’art. 18 dell’abrogata legge n. 349/86, che dà rilievo a
qualsiasi “alterazione, deterioramento o distruzione in tutto o in parte
dell’ambiente”.
La definizione di matrice “comunitaria” di danno all’ambiente
(deterioramento significativo e misurabile di una specifica componente
ambientale) continua quindi a convivere con una fattispecie analoga a
quella dell’abrogato art. 18, che contempla una diversa e più ampia figura
di illecito, in cui oggetto di tutela pare essere l’ambiente inteso come bene
unitario e distinto dalle sue singole componenti.51
A fronte della duplicità della definizione legale contenuta nel D.Lgs
n.152/06,
sorge
il
dubbio
sulla
sopravvivenza
di
gran
parte
dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sviluppatasi nel vigore
dell’art. 18 relativamente alla concezione comunitaria di relativo approccio
50Cfr
F. Giampietro, La responsabilità per danno all’ambiente nel TUA: un passo avanti
e due indietro, in Ambiente e Sviluppo, 2006, 12
51
Cfr b. Caravita, Diritto dell’Ambiente, in Riv. Danno e Responsabilità, 2006, 6, pp693
- 59 -
frazionato alla tutela ambientale.
Sul predetto quesito la giurisprudenza dominante ha ritenuto che la
nozione unitaria di danno ambientale dovesse ritenersi ancora attuale:
nonostante, infatti, l’art. 300 definisca ciò che ai sensi della direttiva
35/2004/CE costituisce danno ambientale”, il dato letterale dell’art. 311
comma 2 ha un significato precettivo indiscutibile.
Del resto tale soluzione appare come l’unica compatibile con la più
volte affermata natura costituzionale del bene ambiente (art. 9, 32 , 41, 42
Cost), così come
affermata dalla giurisprudenza della Suprema Corte.
(sent. N. 5650/96).
Tutto ciò è suffragato da una più recente giurisprudenza, che ha
confermato la continuità con l’art. 18 pur nella problematica posta dalle
nuove norme, rilevando che,
52
anche a fronte delle citate recenti
disposizioni normative (che pure presentano difetti di coordinamento sia
tra loro sia con le altre disposizioni dello stesso testo legislativo), si ritiene
che debbano ribadirsi le conclusioni alle quali si è pervenuti in materia di
risarcimento per equivalente patrimoniale nell’interpretazione dell’art. 18
della legge 349/86 ed evidenziando, in particolare, che integra il danno
ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla
mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d
52
Corte Cass. Pen.,sez.III, sentenza 2 maggio 2007, n. 16575 in www.lexambiente.it
- 60 -
“perdite provvisorie”, previste espressamente come componente del danno
risarcibile dalla
direttiva 2004/35/CE, e già considerate da tale
orientamento giurisprudenziale sotto forma di “modifiche temporanee allo
stato dei luoghi. 53
§§§
L’esame di talune fattispecie reali, qualificate dalla giurisprudenza
come ipotesi concretizzanti un danno ambientale, non può prescindere
dall’ulteriore considerazione 54 delle numerose discrasie contenute nel
testo normativo interno.
In particolare, va osservato come il legislatore all’art. 311 comma 1
individui chiaramente il titolare delle azioni di risarcimento del danno
nello Stato, attribuendo la legittimazione ad agire solo ed esclusivamente
al Ministro dell’Ambiente con il patrocinio obbligatorio ed organico
dell’Avvocatura dello Stato.
Mentre all’art.309, si prevede, tra l’altro, che “le regioni, le province
autonome e gli enti locali, anche associati, nonche' le persone fisiche o
giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale…
possono presentare al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
depositandole presso le Prefetture - Uffici territoriali del Governo,
53
Cfr M.Libertini, La nuova disciplina del danno Ambientale e i problemi generali del
diritto all’Ambiente, in Rivista critica del diritto privato, 1987, p560
54
L.Prati, opera cit.
- 61 -
denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni,
concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente
di
danno
ambientale
e
chiedere
l'intervento
statale
a
tutela
dell'ambiente…”; ed al successivo art. 310 che “i soggetti di cui all'articolo
309, comma 1, sono legittimati ad agire, secondo i principi generali, per
l'annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle
disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto nonche' avverso il
silenzio inadempimento del Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo
nell'attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di
precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale” .
Il combinato disposto dei predetti articoli ha riflessi decisivi anche
sulla qualificazione del danno all’ambiente e sulla sua natura giuridica.
Mentre, infatti, da un lato si stabilisce il principio generale della
titolarità esclusiva in capo allo Stato della pretesa risarcitoria in materia di
danno ambientale, assumendosi in tal modo che esso agisca a tutela della
collettività nel far valere un diritto superindividuale, dall’altro si ammette
che anche tutte “le persone fisiche o giuridiche”, oltre che gli enti
espressione della collettività locale, possano essere “colpite da danno
ambientale” in senso stretto (e cioè dal danno all’ambiente così come
definito dal D.Lgs n. 152/06, come tale diverso dai diritti soggettivi
compromessi dal medesimo fatto produttivo del danno ambientale) e,
- 62 -
quindi, agire “per il risarcimento del danno subito” in conseguenza della
compromissione delle risorse naturali.
Con ciò si torna a trasporre il danno ambientale sul piano dei diritti
soggettivi astrattamente tutelabili individualmente, in contrapposizione
alla concezione dell’ambiente quale bene collettivo e superindividuale.
Sebbene sia chiaro che, nel nuovo regime, i privati non possano
agire contro i diretti responsabili per la tutela dell’ambiente, appare
altrettanto evidente che essi potrebbero ricorrere in via giurisdizionale per
ottenere il risarcimento del danno all’ambiente patito a causa dell’inerzia
del Ministero dell’ambiente, in relazione a
qualsiasi caso di danno
ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale.
Tale quadro normativo suscita non poche perplessità tanto più se si
considera come all’art. 313 comma 7 venga ancora previsto che “resta in
ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di
danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire
in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli
interessi lesi” .
Sembra pertinente quanto dal legislatore stabilito al comma 7
dell’art. 313 con riferimento al danno ai singoli beni lesi dal fatto
produttivo di danno ambientale, come tali distinti da quest’ultimo ed
oggetto di tutela in base alle norme ordinarie, anche se risulta
indebitamente limitato l’ambito di tali diritti tutelabili in via ordinaria alla
- 63 -
salute ed alla proprietà.
La travagliata elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, che ha
condotto all’affermazione della lesione all’ambiente in senso giuridico
(considerato questo come insieme che, pur comprendendo vari beni
materiali, si distingue da questi), come distinta dalle sue componenti,
rischia di essere in gran parte vanificata dalla commistione di concetti
diversi operata nell’articolato sopra richiamato, articolato nel quale
certamente vi è stato un uso disinvolto di una terminologia che invece è,
per sua natura, estremamente delicata.
6. Il “danno ambientale” tra fattispecie e realtà.
La figura giuridica del danno ambientale così come delineata dalla
giurisprudenza contabile, prima, e poi, dalla sua codificazione ad opera
dalla Comunità Europea ed ancora
dalla sua introduzione nel nostro
ordinamento con la legge 349/86 ovvero con il recente Dlgs n. 152/06 (di
applicazione della direttiva 2004/35/C), si arricchisce ulteriormente a
seguito degli apporti della giurisprudenza che ne ha curato la concreta
applicazione, dando l’effettiva misura dell’ubi consistam del danno
ambientale in relazione alle realtà che essa ha di volta in volta affrontato.
Difatti, come già accennato, il concetto di ambiente e, dunque, la
lesione dello stesso, per la generalità ed astrattezza degli elementi che lo
- 64 -
compongono (e ciò pur accedendo a quella che è la tesi orami consolidata
di ambiente come bene unitario) sfuggendo ad un preciso inquadramento
giuridico (con ciò intendendo una definizione inequivoca degli elementi
costitutivi), ha sempre reso, anche in
tempi più recenti di assoluto
indiscusso riconoscimento giuridico di un “bene” ambiente e di un danno
allo stesso causabile, difficoltosa la stessa individuazione
del danno
“causato” ovvero “realizzato”.
In altri termini, ciò che appare evidente è la indubbia difficoltà (pur
a fronte di un dato normativo) di delimitazione e individuazione concreta
di un danno all’ambiente, che, in quanto bene “infinito”, può essere leso in
molteplici modi non tutti, però, fonte di responsabilità.
Peraltro, sempre in ragione della illimitata identificazione degli
elementi che possono costituire lo stesso ambiente, questo si presta ad
essere leso sotto svariati e non prevedibili atti, fatti e comportamenti, come
può agevolmente rilevarsi dalla panoramica delle fattispecie integranti (le
più significative soltanto!) -secondo la giurisprudenza- ipotesi di danno
ambientale, con conseguenti ipotesi di responsabilità.
6.1 Riflessi soggettivi del danno ambientale: a) danno morale
da disastro ambientale; b) danno morale da ambiente
insalubre; c) danno esistenziale da inquinamento ambientale;
d) danno ambientale come compromissione della reputazione
- 65 -
turistica.
a) Che l’ambiente, ed il relativo diritto, avessero una connotazione
soggettiva di natura individuale, oltre che preminentemente collettiva e
superindividuale, non è certamente un’affermazione recente, se si
considera che già da un decennio la giurisprudenza55, già richiamata aveva
affermato tale rilevanza riconoscendo al danno ambientale una triplice
dimensione:personale, sociale e pubblica .
L’esplicito riconoscimento di una dimensione personale del
danno ambientale, quale lesione di un diritto costituzionalmente garantito
proprio di ogni individuo, non poteva non preludere ad un sempre
maggiore riconoscimento della rilevanza sul piano individuale dei
fenomeni di compromissione e di alterazione dell’ambiente.
Sinergica a tale estensione è certamente stata la più recente
tendenza ad ampliare il campo del danno non patrimoniale risarcibile ai
sensi dell’art.2059 cod.civ., fino al riconoscimento di un vero e proprio
“danno esistenziale da danno inquinamento”.
In tal senso la giurisprudenza, a distanza di oltre un quarto di secolo
dai drammatici fatti di inquinamento di Seveso, che causarono
ripercussioni catastrofiche sull’ambiente e sulla popolazione residente
nelle zone circostanti lo stabilimento dell’ICMESA, ha riconosciuto la
55
Cfr. Cassazione Penale,sez.III,n.439/1994, in www.naturagiuridica.it
- 66 -
risarcibilità in via autonoma di un danno morale soggettivo conseguente
ad una gravissima compromissione dell’ambiente. 56
In quella circostanza si è chiarito come in caso di compromissione
all’ambiente a seguito di disastro colposo (art.449 cp) il danno morale
soggettivo lamentato dai soggetti (in quanto abitano o lavorano in
quell’ambiente) che provano, in concreto, di aver subito un turbamento
psichico di natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze
inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della
loro vita, è risarcibile autonomamente57 anche in mancanza di una lesione
all’integrità psicofisica o di altro evento produttivo di danno patrimoniale,
trattandosi
di
reato
plurioffensivo
che
comporta
oltre
all’offesa
all’ambiente e alla pubblica incolumità anche l’offesa ai singoli pregiudicati
nella loro sfera individuale.58
Invero, la risarcibilità del turbamento psichico di natura transitoria
56
Come è noto, il danno non patrimoniale, nel nostro ordinamento, è risarcibile ex art
2059 c.c., essenzialmente in relazione ai fatti costituenti reato in forza dell’art. 185 c.p.
Sebbe l’art. 185 c.p. non costituisca l’unica norma che fa riferimento al risarcimento
del danno non patrimoniale, rappresenta in pratica di gran lunga la più importante;
cfr in tema P. Ziviz, La tutela risarcitoria della persona – Danno morale ed
esistenziale Milano, 1999, p. 141
57
Si vedano tra le altre le annotazione di D. Feola, Il caso “Seveso” e la risarcibilità dei
danni non patrimoniali alla collettività vittima di un disastro ambientale in
Riv.Giur. Amb., 1995, p 327; ed ancora P. Righi e C. M. Verdi, Disastro Ambientale e
danno morale collettivo, in Corriere Giuridico, 1994, p.999; Medugno Danno
ambientale…non patrimoniale, in Ambiente, 1995, 1, pp88 ess
58
Cfr Corte di Cassazione Civile , sez. unite, sent. n.2515/02, in www.diritti&diritti.it
- 67 -
conseguente a danno ambientale era stata già in precedenza esclusa dalla
giurisprudenza 59 secondo cui la semplice esistenza del reato di disastro
colposo non poteva, di per sé, legittimare un’azione risarcitoria del danno
morale in capo ai soggetti singolarmente coinvolti dalla compromissione
ambientale, in quanto detto danno morale inteso quale turbamento
psichico non appariva essere la conseguenza di una distinta lesione alla
salute subita dai soggetti medesimi, o comunque, conseguenza di un altro
evento dannoso direttamente connesso all’inquinamento.60
Successivamente, si è operato un deciso ribaltamento degli assunti
testè menzionati affermandosi con decisone la natura autonoma risarcibile
del danno morale conseguente ad un danno ambientale.
61
In definitiva la lesione al bene collettivo dell’ambiente, per la natura
dei fatti considerati in concreto, si riverbera in una lesione ai diritti
soggettivi di coloro che individualmente usufruiscono di detto bene, anche
per ciò che riguarda il turbamento psichico che deriva dal pericolo
connesso al vivere ed operare in un ambiente insalubre.
59
Cfr Corte di Cassazione Civile, sez.III, n.4631/97 in Foro Italiano Mass., p.438 e ss e
Corriere Giuridico, 1997, p.1172, con nota di G.De Marzo “Danno morale e reati di
pericolo: il caso Icmesa”
60
Cfr Corte Costituzionale 14 luglio 1986 n. 184, in Foro Italiano, 1986, I , p. 2053, con
nota di G.Ponzanelli, La Corte Costituzionale, il danno patrimoniale ed il danno alla
salute.
61
Cfr Corte Costituzionale 27 ottobre 1994, n, 372, in Foro it., I, pp 3297 e ss, con nota di
G. Ponzanelli, La Corte Costituzionale ed il danno da morte
- 68 -
In questo senso si ribadisce l’esistenza di un collegamento
inscindibile tra diritto alla salute e diritto all’ambiente (inteso come diritto
soggettivo ad un ambiente salubre), collegamento già affermato in risalenti
pronunce giurisprudenziale62 .
In effetti nella circostanza di che trattasi a fronte di un evento
danno (disastro ambientale) già riconosciuto in quanto tale e foriero già di
una responsabilità penale e civile, si riconosce un’altra componente di tale
danno addirittura disancorata dalla effettiva causazione del fatto, ma
riconducibile al solo turbamento psichico che tale fatto ha provocato. 63
E’ indubbia la rilevanza di siffatto orientamento, che, pur sulla scia
di quel filone giurisprudenziale che ammette la risarcibilità del danno
morale non patrimoniale, tuttavia va oltre giungendo a riconoscere la
risarcibilità di un danno derivante sì dal fatto dannoso principale (disastro
ambientale) ma, da questo, comunque non direttamente conseguente
(binomio causa /evento) e riconducibile a quel danno da turbamento
psichico concretizzatosi in molti casi anche dopo anni dal verificarsi
dell’evento di danno ambientale.
b) Nell’alveo della impostazione data dalla giurisprudenza
si è
esplicitata un’ulteriore anticipazione della soglia di risarcibilità dei danni
62
cfr Cassazione Civile n.1463/79; n.5172/79), in www diritti&diritti.it
63
Cfr Corte Cassazione Penale, sez. III, 19 novembre 1996, n.9837, in Ambiente, 1997,
12, con nota di A. Bressan
- 69 -
sofferti dai singoli in connessione con il pregiudizio arrecato all’ambiente,
affermandosi l’esistenza di un vero e proprio danno morale da
inquinamento non collettivo, bensì proprio dell’individuo autonomamente
risarcibile a seguito della lesione di un diritto subiettivo perfetto.
In quest’ottica, l’aggressione al bene collettivo ed immateriale
dell’ambiente, in cui il fatto illecito stesso si sostanzia, sembra
effettivamente fondersi in modo inestricabile con l’aggressione ai diritti
soggettivi, anche di contenuto non patrimoniale, di coloro che in tale
ambiente vivono ed operano. 64
Sembrerebbe che tutto ciò, abbia, tra l’altro, comportato il
riconoscimento del “danno esistenziale” del danno all’ambiente, inteso
come bene collettivo ed immateriale, la cui salubrità è al contempo
condizione insopprimibile per la piena esplicazione della personalità
umana così come tutelata dalla carta costituzionale: un’interpretazione
sempre più estesa del “diritto all’ambiente” come elemento insopprimibile
della personalità umana, sintomo di una più generalizzata estensione degli
64
Ciò naturalmente senza che venga meno, da un punto di vista concettuale, la
distinzione più volte ribadita dalla giurisprudenza tra il danno ai singoli beni di
proprietà privata o pubblica, e il danno all’ambiente considerato in senso unitario,
quale bene a sé stante, ontologicamente diverso dai singoli beni che ne formano il
substrato. (cfr Cassazione civ., sez. III, n.1087/98, in Foro it.,1998,I,p.1142)
- 70 -
interessi risarcibili in via aquiliana. 65
c) L’ampliamento dei confini della risarcibilità dei pregiudizi sofferti
dai singoli in occasione di eventi di inquinamento che hanno compromesso
l’ambiente
nel
quale
detti
soggetti,
portatori
di
interessi
costituzionalmente rilevanti si trovano a vivere ed operare, ha indotto ad
ammettere l’autonoma risarcibilità del danno morale inteso in senso
allargato.
Tuttavia l’ampliamento della perseguibilità sul piano civile delle
lesioni arrecate ai
diritti soggettivi
dei
singoli in
seguito
alla
compromissione dell’ambiente è andato oltre, nel senso di ricondurre alla
figura del c.d. “danno esistenziale” determinati pregiudizi arrecati alla
“qualità della vita” dai fenomeni di inquinamento.
Invero, il “danno da inquinamento” come ulteriore conseguenza del
danno ambientale veniva già in nuce riconosciuto dalla Cassazione civile,
sez. II, n.1463 66 , che riconosceva un “diritto all’ambiente” inteso come
posizione soggettiva connessa con il diritto di proprietà o con quello alla
salute in quanto beni sui quali la conservazione dell’ambiente stesso incide
65
Si veda in tema P. Ziviv, Alla scoperta del danno esistenziale, in Scritti in onore di
Rodolfo Sacco, a cura di P.Cendon, Milano, 1994, p 1302; P.G. Montaneri, Alle soglie
di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e responsabilità,
1999, p.5; in giurisprudenza Corte Cass. Civ., sez. I, 7 giugno 2000, n. 7713 con nota di
richiami. A. D’Adda, Il cosiddetto danno esistenziale e la prova del pregiudizio, in
Foro it., 2001, I, p.188
66
in Foro it, I 1979,p.2909;
- 71 -
in modo determinante. 67
In proposito, ancora, la giurisprudenza aveva già riconosciuto un
vero e proprio “turbamento emotivo” a fronte della sola alterazione alla
“normale qualità della vita” causate dalle immissioni illecite effettuate
nell’ambiente in cui il soggetto leso estrinseca la sua personalità, nel senso
della individuazione di un danno alla “serenità domestica” intesa in senso
ampio, e definito “danno esistenziale da inquinamento ambientale”.
A tale orientamento si conforma la tendenza che individua il danno
esistenziale da inquinamento ambientale nelle modificazioni peggiorative
apprezzabili per intensità e qualità verificatesi nella sfera personale del
soggetto leso, tra cui vanno fatte rientrare le alterazioni del diritto alla
normale qualità della vita e/o alla libera estrinsecazione della
personalità, sempre che sussista il nesso di causalità tra comportamento
lesivo e danno.
La tutela di diritti soggettivi compromessi dal danno ambientale
subisce per tale via, un considerevole ampliamento: non viene più, infatti,
in rilievo il consolidato risarcimento di un danno alla salute, seppur intesa
67
cfr anche Cass. Civ, sez. un., 6 ottobre 1979, n.5172, in Responsabilità Civ. e Prev.,
1979, p. 715, per l’affermazione che la tutela del diritto alla salute si configura come
diritto all’ambiente salubre, nonché Tribunale di Napoli 22 febbraio 1983, in Dir.
Giur., 1983, 354, per il quale nel nostro ordinamento giuridico il diritto alla salute,
oltre che come diritto alla vita ed alla incolumità fisica, si configura come diritto
all’ambiente salubre, tutelato in via primaria e incondizionata come diritto soggettivo
assoluto.
- 72 -
in senso ampio,
bensì il risarcimento al mero “deterioramento della
qualità della vita” -nel caso specifico- provocato dalle immissioni
inquinanti che hanno interessato la “sfera esistenziale” del danneggiato.
La mancata fruizione di un bene ambientale da parte della
collettività
a
causa
dell’inquinamento
subito
dallo
stesso
(voce
generalmente ritenuta risarcibile come danno al bene pubblico ambiente)
ben potrebbe condurre a frazionare e suddividere in ulteriori fattispecie
risarcibili come “danni esistenziali” in capo ai singoli membri della
collettività
che,
per
tale
mancata
fruizione,
abbiano
subito
un
peggioramento significativo della loro qualità della vita e/o un’alterazione
del loro modo di rapportarsi con l’ambiente esterno.
Viceversa, il cumulo di una serie di pregiudizi soggettivi subiti alla
“qualità della vita” da parte delle persone che vivono ed operano in un
ambiente insalubre ben potrebbe rilevare ai fini di valutare l’esistenza di
un pregiudizio risarcibile quale danno alla collettività ai sensi della parte
VI del D.Lgs n. 152/06.
In proposito, non manca l’opinione di chi 68 ritiene che sarebbe
effettivamente alto in questi casi il rischio di risarcire, sotto diversi profili,
quello che nella sostanza è causato da un unico evento dannoso:
alterazione del modo di essere dell’individuo, peggioramento della qualità
68
L.Prati, Testo Unico Ambientale, IPSOA 2008
- 73 -
della vita, danno da stress, compromissione della personalità, danno alla
vita di relazione, transeunte turbamento psichico.
Tutte queste rappresentano diverse sfaccettature del medesimo
pregiudizio concreto.
Il danno ambientale per la sua stessa natura ontologica sociale e
giuridica si presta ad una problematica “delimitazione dei confini” cui solo
la giurisprudenza, non potendosi immaginare una formulazione positiva di
tutte le problematiche attinenti gli aspetti del danno ambientale, può
sopperire “caso per caso” con principi logici prima che giuridici.
d) da ultimo in questa “rassegna” di riflessi soggettivi da danno
ambientale, tra i nuovi confini del danno ambientale risarcibile, è stata
riconosciuta dalla giurisprudenza anche la risarcibilità del danno da
“compromissione della reputazione turistica del paese”, rimasto vittima
del disastro ambientale.
Secondo
tale
“singolare”
(ma
condivisibile)
prospettazione
l’immediata associazione del nome del Comune limitrofo al luogo
dell’evento disastroso creava un collegamento istintivo del suo nome alla
tragedia storica, determinando così la compromissione della reputazione
turistica del paese, e, dunque, ledendo oltre il composito diritto del
suddetto Comune alla propria identità personale, anche i suoi diritti al
nome e all’immagine, comportando pertanto il diritto del Comune al
- 74 -
risarcimento del danno morale subito.69 Nella specie si è riconosciuta la
sussistenza di un pregiudizio risarcibile sotto la forma del danno morale.
L’affermazione di tale tendenza si rifà a quanto già dalla
giurisprudenza considerato in occasione della nota pronuncia relativa al
disastro del Vayont 70 , nella quale si ribadì la necessità di una lettura
costituzionale del sistema della responsabilità civile da illecito, che colleghi
i precetti delle norme di garanzia (tra cui l’art.2059 c.c.) ai valori
costituzionali, specie quando vengono in gioco posizioni soggettive
costituzionalmente protette come il diritto alla salute e all’ambiente
salubre.71
In quella circostanza, infatti, si era già riconosciuto che, a fronte di
un fatto costituente reato di enorme gravità per il numero delle sue vittime
e per le devastazioni ambientali dei centri storici, dovesse ritenersi che,
una volta determinato (come fatto/evento) la lesione del diritto
costituzionale dell’ente territoriale esponenziale (il Comune) alla sua
identità storica, culturale, politica ed economica, costituzionalmente
protetta (art 114 Cost.), sussistesse per ciò solo la prova della lesione della
posizione soggettiva costituzionalmente protetta così che risulterebbe
69
Cfr Tribunale di Trento sentenza 10 giugno 2002, in Giur.it 2002, 2340
70
Cfr Corte Cassazione Civ., 15 aprile 1998, n. 3807 in Giur.it., 1999,2270
71
Cfr Corte Cassazione Civ, 19 giugno 1996, n. 5650, in Riv. Giur. Amb., 1997, p. 679 e ss,
con nota di Borasi.
- 75 -
legittimato a pieno titolo ad esigere il risarcimento del danno72”
Va detto che però l’assunto non sembra così pacifico73, nonostante i
precedenti positivi : ancora in tempi recenti la giurisprudenza Cassazione74
ha infatti affermato che non è risarcibile il danno all’immagine derivante
da un reato ad un ente pubblico, in quanto tale danno è riferibile soltanto
a sofferenze fisiche o psichiche proprie di una persona fisica (in
applicazione a tale principio la Cassazione non ha ritenuto risarcibile il
danno all’immagine di un Comune costituitosi parte civile in un processo
contro il Sindaco).
La questione è senz’altro stimolante anche per la singolare (e
meritevole) qualificazione del danno come lesione del diritto dell’ente
locale alla sua identità storica, culturale. Ma pure in questo caso la
plurioffensività dell’evento danno rende sempre ardua la delimitazione
72
Cfr Cassazione penale, sez.IV, 4 settembre 2001, n. 32957, in www.lexambiente.it
73
In dottrina per la tesi che considera “non patrimoniale” il danno “morale” e ne esclude
la configurabilità in capo alle persone giuridiche,cfr. Scognamiglio, Il danno morale,
in Riv. Dir. Priv., 1983, p.827. Per la risarcibilità anche in favore delle persone
giuridiche si esprimono invece De Cupis, Danno. I Teoria generale (dir. Vigente), voce
dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1983, 499; Salvi, Il danno extracontrattuale.
Modelli e funzioni, Napoli, 1985,, pp.258 e ss; In queste ipotesi, con l’espressione
“danno morale” si fa riferimento al danno conseguente alla perdita di prestigio
dell’immagine pubblica dello Stato o dell’ente pubblico coinvolto. Si veda anche
terrone, La configurabilità del danno non patrimoniale dell’ente giuridico, in Riv.
Pen. Econ., 1992, pp 92 e ss.
74
Tra i vari precedenti che ammettono tale risarcibilità, si veda Corte Cass. , sez. un., 25
ottobre 1999, n.74, secondo cui rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti l’azione
di responsabilità per il danno prodotto da amministratori pubblici all’immagine
dell’ente, quale bene suscettibile di valutazione patrimoniale.
- 76 -
delle “zone” risarcibili quale danno conseguente all’evento.
Peraltro, la questione diventa di particolare attualità alla luce
dell’art.309 del D.L.gs n.152/06, che riserva allo Stato la legittimazione ad
agire per la tutela del danno all’ambiente: se ricondotto in tale alveo, il
danno alla “reputazione turistica” del paese non potrebbe più essere fatto
valere in giudizio dall’ente territoriale come “danno ambientale” in senso
proprio.
6.2 Ulteriori fattispecie di danno ambientale individuate dalla
giurisprudenza: a) danno ambientale come “lesione alla
reputazione commerciale e diminuzione dell’attività turistica”
e “perdite provvisorie”; b) danno ambientale da occupazione
usurpativa
Oltre alle fattispecie di cui si è detto in precedenza, attraverso le
quali si è potuta percepire l’elaborazione compiuta dalla giurisprudenza di
fronte a determinati fenomeni di danno ambientale, talvolta ben oltre il
dato positivo, ma, sempre, con oculato riferimento alle concrete e fattuali
circostanze identificanti il caso processuale, vanno segnalate ulteriori
ipotesi giurisprudenziali in cui si è mostrato di avvertire la rilevanza ed il
connotato sociale delle manifestazioni di danno ambientale, ritenendosi di
- 77 -
poterlo identificare ovvero estendere oltre le situazioni più usuali.
a) Interessanti profili emergono da un noto orientamento
giurisprudenziale i quali offrono lo spunto per connesse e rilevanti 75
problematiche.
Tale orientamento aveva ravvisato un’ipotesi di danno ambientale
“conseguente al ripascimento male eseguito e alla discarica abusiva, che
hanno comportato un serio e concreto pregiudizio alla qualità della vita
della comunità colà stanziata”,
nonché un pregiudizio “irreparabile
arrecato alla flora ed alla fauna marina per la constatata morte di una serie
di pesci e della poseidonia, imputabile quest’ultima a carenza di
ossigenazione per sovrapposizione del limo generato da polveri fini che si
staccano progressivamente dalla spiaggia.
In tale circostanza si qualificava il danno derivante medio tempore
dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta come “perdite
provvisorie” perché qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per
quanto tempestivo, non avrebbe mai potuto eliminare quello speciale
profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale
compromessa dalla condotta illecita, atteso che tale danno si verifica dal
momento in cui tale condotta viene tenuta e perdura per tutto il tempo
necessario a ricostituire lo status quo.
75
Corte di Cassazione del 2 maggio 2007, n. 16575, in www.lexambiente.it
- 78 -
Peraltro, in tale contesto, si riconosceva una distinta fattispecie di
danno al singolo (nella specie il proprietario dell’albergo prospiciente la
spiaggia) confermandosi la “lesione alla reputazione commerciale e la
diminuzione dell’attività di ricezione turistica dell’albergo” e, quindi, il suo
coinvolgimento diretto nella vicenda con profili spiccatamente personali76
In proposito si dà ingresso nel nostro ordinamento alle cd “perdite
provvisorie” come perdita di fruibilità del bene medio tempore, ovvero
nelle more della sua “riparazione”, in quanto effettivamente concretante
un danno tangibile per il mancato utilizzo del bene, peraltro, comunque,
difficilmente riconducibile allo stato quo ante; si ribadisce il valore
immateriale del bene ambiente sottolineando la particolare rilevanza
attribuita al valore d’uso del bene da parte della collettività con il
conseguente superamento della funzione compensativa del risarcimento77.
Ed ancora si riconosce la possibilità di far valere, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 313 comma 7 D.L.gs n.152/06, la lesione alla reputazione
commerciale e la diminuzione dell’attività di ricezione turistica di un
albergo, affermandosi, altresì che, ai fini della pronuncia di condanna
generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituitasi
76
Per un commento critico alla sentenza cit nella nota precedente. si veda nota: F.
Giampietro, Il danno ambientale tra l’art.18 della legge n.349/86 ed il regime
ordinario del Codice civile, in Giust. Civ., 1996, p.777 e ss.
77
Cfr P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Maggioli , 1990.
- 79 -
nel processo penale, non è necessario che il danneggiato dia la prova
dell’effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e
l’azione dell’autore dell’illecito, essendo sufficiente l’accertamento di un
fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose.
Pertanto, si costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni
accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il
quale è rimesso al giudice della liquidazione.
E ciò in quanto, la condanna generica al risarcimento dei danni, pur
presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non
esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno
risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità
lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità
tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di
liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell’esistenza stessa
di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito.
E proprio sulla base di tale impostazione si ritenuto erronea
l’affermazione relativa al fatto che, ai fini del risarcimento del danno
ambientale avanzato dalla parte civile, questa non avesse comprovato il
danno subito seppur non patrimoniale.
Ai fini dell’argomento di che trattasi, al di là della interessante
argomentazione fornita sul punto dell’accertamento del danno ambientale
in ordine al risarcimento richiesto dalla parte civile, si evidenza, ancora,
- 80 -
come dalla lesione dell’ambiente possano derivare innumerevoli ipotesi di
danno ambientale stante che, come più volte ribadito, la natura stessa del
bene leso non consente di classificare, secondo schemi predeterminati, le
stesse ipotesi di danno.
Si potrebbe al riguardo obiettare che, invero, quanto prospettato
accade in generale nell’ipotesi dell’art.2043 del cod.civ. potendosi
ricondurre sotto l’egida di tale norma innumerevoli ipotesi di danno.
In proposito si parla, appunto, di clausola “aperta” essendo
possibile ricondurre alla disciplina dalla stessa dettata tutte quelle ipotesi
in cui un soggetto commetta un fatto illecito secondo le più svariate
modalità di azione.
Tuttavia, ciò che rileva nel caso del danno ambientale, non è la
circostanza che la norma di riferimento, l’art.18 legge n.349/86 prima e
l’art.311 D.L.gs n. 152/06 oggi, consenta di ricondurre al loro alveo una
svariata ipotesi di comportamenti sanzionabili, (anzi, è vero il contrario,
laddove si pensi che la iniuria del fatto deve ricondursi alla violazione di
una legge o di un provvedimento) quanto che la lesione in sé dell’ambiente
produttiva del danno, seppur debba essere ricondotta al paradigma della
norma di riferimento, consente per la stessa natura del bene leso
un’infinità di ipotesi di danno che generano una precisa responsabilità.
Unico è il fatto che determina il danno ma, da tale danno, in quanto
contestualmente può ledere una svariata serie di diritti, si originano
- 81 -
diverse tipologie di responsabilità.
Pertanto, in tale materia, si rivela quanto mai fondamentale il ruolo
interpretativo della giurisprudenza che, pur entro i limiti del paradigma
normativo, di volta in volta, cerchi di valorizzare ed evidenziare taluni
aspetti del vasto fenomeno riconducibile al danno all’ambiente.
b) Nel quadro degli orientamenti giurisprudenziali sopra delineato,
esplicativo dei modi più svariati e dei diversi ed interessanti profili
attraverso i quali si procede alla determinazione ed individuazione di
ipotesi di danno ambientale, acquista particolare rilievo l’identificazione di
un un’ipotesi di danno ambientale quale conseguenza di un’occupazione
usurpativa78.
Nella specie si pone la questione delle conseguenze sull’ambiente
prodotte dall’irreversibile trasformazione di una porzione di terreno e
delle azioni a tutela consentite in questione.
In tale ipotesi alla luce dell’applicazione dei principi generali che
discendono dall’art 2043 c.c., si ritiene che ben possa richiamarsi la
responsabilità aquiliana per il riconoscimento ed il risarcimento di tutti
quei danni che al fondo residuo derivino dall’illecito e che sono costituiti
dalla riduzione del suo valore attuale in conseguenza appunto del fatto
78
Cfr Cassazione Civile, sez. I, sent. 8 maggio 2009, n. 10588, in www.diritti&diritti.it
- 82 -
dannoso, da ciò individuandosi nell’ambito di tali danni quello ambientale,
vale a dire quel danno lamentato
derivante dall’impatto edilizio
sull’assetto urbanistico tradizionale secolare dell’isola, anche alla luce
dell’armoniosa tipologia di edifici presenti nella zona.
Nel danno ambientale, oltre al profilo pubblicistico rappresentato
dal vulnus all’ambiente e, che, ha carattere unitario ed immateriale, deve
ritenersi compreso anche il pregiudizio patrimoniale arrecato ai singoli
beni che compongono lo stato dei luoghi, appartenenti a soggetti pubblici o
privati, pregiudizio da inquadrare nella categoria dei c.d. danniconseguenza rispetto ai quali quindi incombe alla parte l’onere sia della
corretta deduzione
che
della prova.
Si
configura, pertanto,
un
riconoscimento del danno ambientale, quale conseguenza di un fatto
dannoso riconducibile all’occupazione usurpativa, in quanto fatto
determinante la riduzione del valore del bene del privato.
Ad un unico fatto, l’occupazione usurpativa, ovvero l’irreversibile
trasformazione del bene, si connettono una pluralità di lesioni allo stesso
bene ambiente sotto diversi profili, in quanto nell’ambito del vulnus
causato all’ambiente per la trasformazione dei luoghi (danno al bene
unitario ambiente) si ricomprendono anche i danni causati ai singoli beni
che compongono lo stato dei luoghi.
Appare indubbia, la singolarità dell’indirizzo affermatosi, che dà
l’avvio ad una nuova e diversa prospettazione del danno ambientale
- 83 -
conseguente ad un modus operandi dell’amministrazione, la quale,
tuttavia,
stabilisce
correttamente,
onde
evitare
un
ingiustificato
ampliamento della sfera di risarcibilità, che il privato prospetti in primo
luogo la specifica tipologia di danni che assume essersi verificata sul fondo
residuo, non ritenendosi certamente sufficiente un generico riferimento al
pesante deturpamento dell’ambiente senza prescindere dalla concreta
situazione dei luoghi e dall’uso che se ne faccia.
- 84 -
CAPITOLO II
LA RESPONSABILITA’ DA DANNO AMBIENTALE
1. La disciplina dell’art.18 della L. n.349/1986
Sebbene, l’art. 18 comma 1 della L. 349/1986 non sia più in vigore, in
quanto la responsabilità da danno ambientale è oggi disciplinata dal
Codice dell’ambiente e, in particolare, dall’art. 311 comma 2 del D.Lgs. n.
152/2006, così come modificato dal D.L. 135/2009 conv. in L.166/2009, si
reputa opportuno trarre dalle caratteristiche di tale pur superata
normativa gli elementi che rendono comprensibile l’evoluzione della
disciplina nell’arco di un ventennio, in relazione ad una materia alquanto
delicata, oggetto di particolare attenzione sia da parte della legislazione
comunitaria che ne ha ispirato la disciplina, sia da parte dell’opinione
pubblica ogni giorno più sensibile alle tematiche ambientali a causa delle
dirette ed immediate refluenze delle stesse sulla qualità della vita.
L’art. 18 avrebbe rappresentato, secondo parte della dottrina una
“snaturalizzazione” dell’art. 2043 c.c., in quanto privo di quell’elasticità
che contraddistingue quest’ultima norma
- 85 -
e la rende capace di
comprendere al proprio interno i fatti più disparati. 79
L’art. 18 comma 1 prevedeva che “qualunque fatto doloso o colposo
in violazioni di disposizioni di legge o di provvedimenti
adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso
arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o
in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello
Stato”.
La formulazione della norma o, meglio, l’impostazione della stessa
consente di ricavarne la sua caratteristica principale, facilmente
individuata dalla dottrina, nella “tipicità”, in quanto la responsabilità
sorgeva in capo al soggetto agente nel momento che si poneva in essere un
comportamento doloso o colposo che violava una precisa norma giuridica.
Non era, pertanto, sufficiente che il comportamento fosse lesivo
dell’ambiente violando il generico obbligo del neminem laedere, ma era
necessario che il comportamento determinasse altresì la violazione di una
precisa norma di legge e di provvedimento adottato in base a legge.
Secondo tale previsione la responsabilità per illecito ambientale
rimaneva inevitabilmente legata al principio di tipicità e tassatività 80.
79
E’ di questa opinione, U. Natoli, Osservazioni sull’art. 18 legge 349/86, in Riv. crit.
dir. priv., 1987, p 703
80
S. Selvaggi, Il danno ambientale, in Dir. e giurispr., 1994, p. 102.
- 86 -
L’impostazione data dal legislatore suscitava perplessità in parte
della dottrina che parlò di “snaturalizzazione” dell’art. 2043 c.c., essendo
così venuta meno quella naturale tendenza a ricoprire tutte quelle
fattispecie non disciplinate da apposita norma speciale, caratterizzante la
norma codicistica.81
Infatti, mentre l’art. 2043 c.c, in virtù del principio del neminem
laedere, era capace di ricomprendere nel proprio ambito la casistica più
disparata 82, assicurando così la tutela dell’ambiente anche in presenza di
fatti che, pur provocando danno ecologico ed alterazione dell’habitat
naturale, erano privi di copertura normativa specifica, l’art. 18, al
contrario, sottraeva alla tutela risarcitoria la tipologia sopra delineata, in
quanto, secondo il tenore della norma de qua, per essi non si poteva
parlare né di lesione, né di comportamento non iure83 . Sulla base di tale
considerazione non pochi autori hanno evidenziato l’estrema opinabilità
dell’art. 18, considerandolo meno incisivo in termini di tutela delle
condotte lesive per l’ambiente. 84.
81
Si vedano in tal senso P.Trimarchi, La responsabilità civile per danni all’ambiente con
riferimento alla responsabilità civile, P.Perlingeri, ( a cura di) Napoli, 1991, p.194
82
U. Natoli, Osservazioni sull’art. 18 legge n.349/1986, vedi nota 79.
83
S. Selvaggi, cit., pag. 103
84
L. Bigliazzi Geri, Quale futuro dell’art. 18 legge 8 luglio 1986 n. 349 ?, p. 686;
M.Comporti, La responsabilità civile per danno ambientale, in Foro it., 1987, p.270
- 87 -
Altri autori
85 ,
invece, hanno ritenuto la scelta operata con la
L.349/1986 come una soluzione quasi obbligata, stante, altrimenti, la
sterminata ed indefinita serie di eventi alteratori dell’ambiente che il
comportamento umano quotidianamente provoca.
Parte della dottrina 86 , infine, ha accolto favorevolmente la scelta
legislativa, non essendo praticabile una tutela dell’ambiente basata su un
divieto totale ed incondizionato, in quanto il problema si sarebbe dovuto
affrontare proprio attraverso l’individuazione dei limiti e delle forme in cui
ammettere lo scarico nell’ambiente dei residui delle attività umane di
produzione e di consumo, tenuto conto che, se la norma sulla
responsabilità per danno ambientale si fosse basata sulla clausola generale
della “ingiustizia del danno”, la determinazione di tali forme e limiti si
sarebbe rimessa alle valutazioni decentrate dei singoli giudici, creando un
sistema del tutto inadeguato in un campo nel quale si richiedono regole
generali dettate da una visione complessiva e pianificatrice.
Anche la giurisprudenza costituzionale, con la sentenza già più volte
richiamata n.641/1987
87
, aveva ritenuto che la disciplina introdotta
85
G. Morbidelli, Il danno ambientale nell’art. 18 L. 349/1986. Considerazioni
introduttive, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p.60
86
Cfr P. Trimarchi, La responsabilità civile per danni all’ambiente: prime riflessioni, in
Amministrare, 1987, p.194; F. Giampietro, Intervento, in Il danno ambientale con
riferimento alla responsabilità civile, Napoli 1991, p.194
87
Cfr. Corte Cost. 30.12.1987, n.641, in Foro It., 1988, p.649
- 88 -
dall’art. 18 comma 1, tenesse esattamente conto della realtà, ponendo
rimedio a tutta la gamma delle conseguenze dannose che derivavano dalla
violazione effettuata, facendo sì che il giudice potesse poggiare la sua
decisione su dati certi ed applicare regole di sicura conoscibilità. 88
Questo approccio, come si avrà modo più avanti di chiarire, appare
drasticamente modificato dal codice dell’ambiente, il quale ha introdotto
una fattispecie assai più vicina all’art. 2043 c.c., ed, in quanto tale,
maggiormente svincolata dall’individuazione di una specifica violazione di
norme, ai fini dell’affermazione della responsabilità per danno, tanto da
far dubitare che la responsabilità per danno ambientale possa ritenersi
ancora connotata dalla tipicità.
2. L’elemento specializzante della fattispecie: la “violazione di
legge”
Si è molto discusso su cosa dovesse intendersi con l’espressione
“legge” inserita nel comma 1 dell’art. 18 ai fini dell’individuazione, sul
piano pratico, delle disposizioni la cui violazione faceva insorgere la
responsabilità per danno ambientale.
Si è giunti alla conclusione, condivisa dai più, che l’art. 18 avrebbe
fatto certamente riferimento a quel complesso di norme emanate dallo
88
S. Selvaggi, Il danno ambientale, cit. , p.104
- 89 -
Stato o dagli enti territoriali minori, aventi per oggetto, la tutela
dell’ambiente, ossia quelle regole di condotta che impongono il rispetto di
standard di tolleranza o limiti di emissione, o che subordinano a regimi
autorizzatori l’esercizio di attività potenzialmente dannose, ovvero vietano
determinati comportamenti considerati gravemente lesivi per l’ambiente e
come tali integranti ipotesi di reato89 o di illecito amministrativo.
In dottrina, per alcuni autori non sarebbe stato necessario che la
norma violata dalla condotta del soggetto agente avesse per oggetto
“diretto” la tutela dell’ambiente, essendo sufficiente poter ricavare
quest’ultimo dallo scopo della norma in questione.
Secondo altri 90 , poiché l’art. 18 non specificava il fatto che le
disposizioni debbano essere a “tutela dell’ambiente”, non vi sarebbero stati
ostacoli nel concludere per la piena rilevanza di ogni fatto o
comportamento contrario al precetto di una qualsiasi norma, potendosi
così fare rientrare nel sistema della L.349/1987 qualunque prescrizione
riferita ad attività dell’uomo da cui potesse derivare anche un’alterazione
dell’ambiente.
Invero, a ben vedere, si trattava di un ventaglio di ipotesi prescrittive
che comprendeva sia l’art. 2043 c.c., sia gli articoli 2050 e 2051 c.c., sia
89
Cfr C. Tenella Sillani, Responsabilità per danno ambientale, cit. , p.374
90
Cfr P.Cendon e P. Ziviz, L’art.18 della L.349/1986 nel sistema di responsabilità civile,
in Riv. crit. dir. priv., 1987, p.533
- 90 -
l’insieme delle regole di responsabilità presenti nell’ordinamento, per
estendersi quindi all’art.844 c.c. ed ad altri precetti del terzo libro del
codice civile.
3.1) Il criterio di imputazione della responsabilità nell’art. 18 L.
349/1986 :orientamenti e soluzioni
Prima della legge n. 349/86, la giurisprudenza aveva supplito alla
mancanza di una disciplina legale sul danno ambientale attraverso la
creazione di un diritto dell’ambiente fondato sulla disciplina codicistica del
diritto di proprietà o del divieto di immissioni in alienum: emblematica di
questo orientamento è la pronuncia delle sezioni Unite della Cassazione
n.1463 del 1979, dove si afferma che l’ambiente può qualificarsi come
diritto soggettivo soltanto quando lo stesso sia collegato alla disponibilità
esclusiva di un bene la cui conservazione, nella sua attuale potenzialità
economica
di recare utilità ad un soggetto, sia inscindibile dalla
conservazione delle condizioni ambientali.
Successivamente, nel corso degli anni 70 è stata la Corte dei Conti a
perseguire la tutela dei beni ambientali, attraverso la qualificazione
dell’ambiente come bene pubblico.
Sul piano sistematico la prospettiva è effettivamente mutata solo con
l’intervento del legislatore italiano del 1986.
- 91 -
Ed invero, con l’art 18 comma 1 L.349/1986 si giunse a delineare
inequivocabilmente la condotta del soggetto agente chiamato a rispondere
del danno arrecato all’ambiente come quella condotta che si estrinseca in
atti commessi attraverso la violazione di precise norme giuridiche. 91
Il primo parametro principale cui riferire l’elemento soggettivo
dell’illecito risulta essere quello della colpevolezza, sia sotto il profilo
doloso che sotto il profilo colposo. Conseguentemente, il danno
all’ambiente, casualmente riconducibile ad un’azione o ad un’omissione
non connotata dai predetti requisiti sotto il profilo soggettivo, non
generava l’obbligo del risarcimento, se esso non fosse stato accompagnato
dalla violazione colpevole di una norma posta a protezione dell’ambiente,
violazione il cui onere della prova gravava sul soggetto danneggiato
medesimo,
fino
ad
escludere,
in
pratica,
la
responsabilità
del
danneggiante92 .
Si riteneva inoltre probabile che il danno ambientale venisse
accertato o si manifestasse anche a distanza di molto tempo dall’inizio
della condotta lesiva, ciò comportando secondo alcuni un’ulteriore
difficoltà per il danneggiato di fornire la prova rigorosa del dolo o della
91
Cfr S. Selvaggi, Il danno ambientale, in Dir.e giurisp., 1994, p.112
92
Cfr G.Villa, Il danno ambientale nel sistema della responsabilità civile, in La nuova
responsabilità civile per danno all’ambiente, B.Pozzo (a cura di), Milano, 2002,
pp.129 ss.
- 92 -
colpa
in
capo
al
danneggiante
rilevanti
per
l’affermazione
di
responsabilità93 .
Ad opera della giurisprudenza, poi, la disciplina dell’art.18 è stata
innestata nel regime ordinario della responsabilità facendosi riferimento
agli artt. 2043 e 2050 c.c. per le attività pericolose, con la realizzazione
così di una sorta di regime misto mutuante dalla disciplina codicistica la
responsabilità oggettiva per la attività pericolose e la solidarietà dei
responsabili per l’evento lesivo.
Quest’ultima
impostazione,
pur
prendendo
atto
del
rilievo
dell’ambiente come bene per sua natura soggetto ad essere più o meno
alterato da qualsiasi attività antropica, non può giustificare (diventando
difficilmente perseguibile) una tutela indiscriminata e generalizzata,
basata sul solo nesso di causalità oggettiva tra azione (o omissione) ed
evento dannoso.
A tal proposito, ossia in merito alla “commistione” tra norme
codicistiche e norme sulla responsabilità ambientale, appare utile il
richiamo di un orientamento giurisprudenziale 94 , secondo cui si è
affermata la sussistenza del danno ambientale ex artt. 2043 e 2050 c.c.,
93
Cfr B. Pozzo, Il criterio di imputazione della responsabilità per danno all’ambiente
nelle recenti leggi ecologiche, in Per una riforma della responsabilità civile per danno
all’ambiente, P.Trimarchi (a cura di), Milano, 1994, p. 20
94
Cfr Corte Cassazione n.9211/1995, in www.diritto.it
- 93 -
sostenendosi che il produttore di rifiuti tossici è comunque soggetto al
regime di cui agli artt. 2043 e 2050 c.c., e non può esonerarsi da siffatta
responsabilità attraverso una fittizia distinzione tra soggetto produttore
dei rifiuti e soggetto tenuto allo smaltimento e allo stoccaggio degli stessi.
In questo modo con tale dictum si è identificata
un’ipotesi di
responsabilità oggettiva per danno ambientale non prevista della legge del
1986, incentrata sulla responsabilità (specifica) per dolo o colpa, e si è
surrettiziamente reintrodotto il principio della solidarietà tra i coautori
dell’illecito, espressamente derogata dall’art. 18, laddove si è sostenuto che
tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di produzione e smaltimento dei rifiuti
tossici, e, in particolare, il soggetto produttore, sono ugualmente
responsabili e solidalmente tenuti ad adottare quelle misure di sicurezza,
anche nella fase di smaltimento, affinchè lo sversamento definitivo e lo
stoccaggio dei rifiuti prodotti avvenga senza danni a terzi.
In realtà, in dottrina si spiegava, ed ancor ora si auspica, tale tipo,
eccezionale, di responsabilità (responsabilità oggettiva:quando un soggetto
è chiamato a rispondere per danni che ha provocato, a prescindere
dall’elemento del dolo o della colpa- ovvero del requisito soggettivo
dell’istituto, generale, della responsabilità aquiliana ex art 2043c.c.), con
riferimento alla necessità, sempre più diffusa nella società moderna, di
legare alle attività produttive, tecnologicamente complesse, i rischi che
derivano dall’attività di impresa. Ciò al fine di evitare che la traslazione
- 94 -
(c.d. “esternalizzazione”) dei costi di sicurezza della produzione stessa
ricada a carico di terzi o della collettività.
Ipotesi tipiche nell’applicazione di tale istituto - la cui disciplina si
caratterizza non solo per la irrilevanza degli stati soggettivi dell’agente, ma
anche
per
la
inversione
dell’onere
della
prova
che
comporta
l’addossamento al soggetto, al fine di liberarsi della responsabilità dei
danni, della prova del caso fortuito o della forza maggiore - sono
individuate nella responsabilità dei padroni e dei committenti (art. 2049
c.c.), nella responsabilità per l’esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.,
art. 965 cod.nav.in tema di navigazione aerea, art. 15 l. 62/1980 in tema di
attività nucleari e simili), nella responsabilità per cose detenute in custodia
(art. 2051 c.c.) o per animali (art. 2052 c.c.) e così via.
Soprattutto in tema di danno ambientale, non sono mancate, in
dottrina, autorevoli tesi volte a dimostrare che la responsabilità oggettiva
sarebbe più efficace nel tutelare il valore dell’ambiente, rispetto al modello
tradizionale della responsabilità per colpa.
Secondo queste impostazioni, il problema della responsabilità è più
economico che giuridico. Infatti, considerato l’attuale livello di sviluppo
tecnologico e commerciale, è necessario addossare i rischi per danni in
capo a coloro che possiedono i mezzi per farvi fronte e, soprattutto, hanno
un potere di controllo sulle fonti produttive di rischi, effettivi o anche solo
potenziali, per rendere effettiva la prevenzione e, in caso di accadimenti
- 95 -
lesivi, la ristorazione delle posizioni soggettive, private o pubbliche,
eventualmente incise.
Lo stesso art. 2050 c.c. costituirebbe, così, una attuazione del
suddetto principio, fatta propria dal legislatore del 1942, così come lo
sarebbero, negli ordinamenti anglosassoni, istituti di common law quali il
tort of nuisance (che si ha quando l’uso della proprietà privata interferisce
irragionevolmente con la proprietà altrui), la disciplina della strict liability
(che incombe su chi effettua un non natural use della proprietà, a danno
del vicino), la negligence (che è la responsabilità di chi usa la propria res
con negligenza o comunque in violazione del dovere di diligenza), istituti
che hanno permesso di pervenire
all’individuazione di fattispecie di
responsabilità più volte utilizzate per sanzionare il danno all’ambiente.
Secondo questa impostazione, poiché le scelte di impresa sono
solitamente compiute a seguito di valutazioni e previsioni economiche, tra
le quali anche il costo della sicurezza, addossare alla impresa il rischio dei
danni all’ambiente, sarebbe quindi lo strumento per imporle ogni possibile
cautela, potendo essa (e solo essa) prevenire tale rischio, in virtù del
controllo sulla produzione.
Da ciò deriverebbe anche una natura ambulatoria della responsabilità,
in quanto, appunto, connessa con il possesso dei mezzi di produzione e
quindi suscettibile di trasferirsi con essi.
Il rischio per i danni all’ambiente gravante sull’impresa (salvo il solo
- 96 -
fatto del caso fortuito o del fatto di terzo, valutati secondo parametri
rigorosi) diventerebbe, quindi, un elemento del sistema produttivo,
immanente ad esso.
Tuttavia, più specificatamente, non può non osservarsi, anche alla
luce delle concrete applicazioni giurisprudenziali in materia, come il
sistema della responsabilità oggettiva, in tema di danno all’ambiente,
abbia trovato, nell’ordinamento, un significato normativo ed un ambito di
applicazione completamente diversi da quelli della “mera” responsabilità
oggettiva delineata da parte della dottrina.
Più radicalmente, il modello di responsabilità che il legislatore ha
accolto nella disciplina della tutela ambientale dai rischi di inquinamento
non è riconducibile alla responsabilità oggettiva, ma, al contrario, specie in
virtù della nuova normativa di cui al dlgs 152/06, è qualificabile come vera
e propria responsabilità soggettiva (pienamente di tipo aquiliano).
Difatti, anche laddove si riconnetta una responsabilità per danno
ambientale ad un soggetto che rivesta una determinata posizione
(produttore di rifiuti, titolare di impresa di stoccaggio) non può
prescindersi dall’accertamento,almeno,dell’imputabilità consapevole del
fatto all’autore dello stesso.
- 97 -
3.2) Il criterio di imputazione della responsabilità nell’art. 18 L.
349/1986: ipotesi (presunte) di responsabilità oggettiva.
Un compiuto esame della disciplina codicistica- oggi vigente- in
materia di responsabilità per danno ambientale non può prescindere
dalla valutazione di talune ipotesi di responsabilità previste dalla
disciplina antecedente,
sulle quali si è creata una giurisprudenza
interpretativa, per taluni aspetti, e, secondo gli adattamenti del caso,
ancora attuale.
L’esame di tali ipotesi rileva, appunto, stante la persistenza di talune
decisioni giurisprudenziali rese in materia.
In particolare, si riteneva, che caratteristiche proprie della
responsabilità oggettiva potessero peraltro ravvisarsi nella disciplina di
cui all’art. 17 del dlgs 22/97, in tema di obbligo di ripristino dell’ambiente
inquinato. 95
La disposizione in esame, infatti, poneva l’obbligo del
ripristino a carico di colui il quale aveva prodotto l’inquinamento, senza
riconoscere alcuna rilevanza allo stato soggettivo, di colpa o di dolo,
dell’agente, perché prevedeva espressamente che l’obbligo di ripristino
incombesse anche a carico dell’autore dell’inquinamento
95
prodotto
La giurisprudenza ha spesso affermato che nell’esercizio di attività pericolose la
presunzione di cui all’art. 2050 c.c., non può essere vinta con la prova positiva di aver
adottato tutte le cautele imposte da norme di settore , siano esse norme di legge o di
regolamento, ma occorre altresì provare il rispetto di quelle ulteriori norme dettate
dalla comune prudenza e diligenza.
- 98 -
accidentalmente ossia per caso fortuito.
Solo che, contrariamente a quanto ritenuto da taluni, la natura
“oggettiva” della responsabilità non esclude certamente che si debba
verificare ed accertare il presupposto causale della stessa, ossia l’avvenuto
inquinamento “imputabile” come nesso eziologico all’impresa ed alla sua
attività.
Era innegabile, infatti, anche sotto la vigenza della normativa
richiamata
ed
ormai,
abrogata,
che
il
principale
presupposto
dell’accertamento della responsabilità dell’inquinamento, fosse, comunque,
l’esistenza della concatenazione causale tra produzione ed inquinamento,
dunque, l’imputabilità.
Sul punto è eloquente la normativa di cui agli artt. 14 e 17 del dlgs
22/97:
ai sensi dell’art.14, dlgs 22/97:”1. L'abbandono e il deposito
incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati. 2. È altresì vietata
l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle
acque superficiali e sotterranee. 3. Fatta salva l'applicazione delle
sanzioni di cui agli articoli 51 e 52, chiunque viola i divieti di cui ai commi
1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo
smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con
il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o
- 99 -
colpa ……omississ”;
l’art. 17, dlgs 22/97, comma 2, a sua volta prescriveva che “chiunque
cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di
cui al comma 1, lettera a) (ovvero i limiti di accettabilità della
contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee
in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti), ovvero determini un
pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto
a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti
dai quali deriva il pericolo di inquinamento”.
Nello schema dell’art. 14 e dell’art. 17 del d.lgs. 22/97 (disciplina oggi
trasfusa negli artt. 192 e 243 e ss. del dlgs 152/06), pur potendo dubitarsi
sul tipo di responsabilità (ossia avente o meno natura di responsabilità
oggettiva), sicuramente l’accertamento della responsabilità dell’abbandono
dei rifiuti era essenziale perché scriminante il titolo degli obblighi di
ripristino dell’autore e dei titolari di diritti reali sull’immobile (questi
ultimi corresponsabili in solido con l’inquinatore solo a titolo di colpa o
dolo), nonché in quanto imponeva l’adozione delle misure di tutela e
salvaguardia ambientale a “chiunque cagiona” il danno medesimo
(rappresentato dal superamento o dal rischio di superamento degli
standards ambientali).
E quindi nessun indice normativo consentiva di addossare ai semplici
- 100 -
titolari dei diritti reali sull’immobile inquinato gli obblighi di bonifica “a
prescindere” dall’accertamento della loro responsabilità.
Alla luce della previgente normativa del d.lgs. 22/97 (c.d. “decreto
Ronchi”), si reputa pertanto possibile rilevare la prima e principale
contraddizione dei fautori della responsabilità oggettiva basato sul solo
nesso di causalità.
Non bisogna, infatti, confondere il principio della responsabilità
oggettiva con l’istituto della sottoposizione del proprietario incolpevole
all’obbligo di sopportare i costi della bonifica per effetto dell’onere reale
incombente sul suolo inquinato e della garanzia del privilegio speciale:
posizioni di soggezione, queste, dipendenti da titoli (e quindi soggetti a
discipline, limiti e presupposti) completamente diversi.
Più precisamente, mentre il responsabile dell’inquinamento è tenuto
a sopportare l’intero costo della bonifica (nel limite in cui essa è imputabile
al fatto proprio dell’inquinamento e, viceversa, senza il limite della
prevedibilità delle conseguenze dannose rispetto alla propria azione o
omissione, trattandosi di responsabilità aquiliana), e ciò anche se non
abbia più il possesso, o la proprietà o comunque la disponibilità dei suoli
inquinati, l’impresa titolare di un diritto reale sull’immobile e/o detentrice
dello
stesso,
invece,ove
non
abbia
causato
essa
direttamente
l’inquinamento subirà sì il rischio di dover sopportare i costi della bonifica,
ma ciò solamente laddove la stessa sia corresponsabile dell’inquinamento
- 101 -
(ma sicuramente non a titolo di responsabilità oggettiva, chiedendo, infatti,
il legislatore l’accertamento del presupposto del requisito soggettivo del
dolo o della colpa) oppure per effetto (e nei limiti) dell’onere reale che è
costituito ex art. 17 dlgs 22/97 e che garantisce l’amministrazione pubblica
del recupero delle somme equivalenti all’aumento di valore che il fondo
subisce per effetto delle attività di bonifica.
In tali ultime ipotesi, la causa del recupero, pertanto, è quella
dell’ingiustificato arricchimento della impresa proprietaria del bene, la
quale, avendolo acquistato “inquinato”, si avvantaggerebbe dell’opera di
bonifica posta in essere dall’Autorità ricevendone un diretto vantaggio
“immeritato”.
Una volta corrisposte le somme necessarie a riequilibrare le posizioni
giuridiche del bonificante e del proprietario avvantaggiato, quest’ultimo,
ove ne ricorrano i presupposti (ad es. prezzo pagato per l’acquisto del suolo
pari al valore di questo come se non fosse inquinato; sussistenza ed
attivabilità delle garanzie di legge a tutela dell’acquisto e simili), potrà poi
rivalersi sul proprio dante causa (con azione civile di natura contrattuale,
oppure, a seconda dei casi, aquiliana).
Tutto ciò comporta che all’impresa incolpevole saranno accollati i
costi del disinquinamento solo dopo che la bonifica sia stata effettuata da
parte dello Stato e nei limiti in cui i relativi oneri non siano recuperati o
recuperabili a carico del responsabile dell’inquinamento, oltre che nei
- 102 -
limiti di valore del fondo o in quelli dell’aumento di valore del medesimo,
conseguente alla avvenuta bonifica.
A tale proposito, è stato recentemente ritenuto dalla giurisprudenza
che l’art. 17, d.lg. n. 22 del 1997, impone l’obbligo di adottare le misure, sia
urgenti che definitive, idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento
solamente a carico di colui che di tale situazione sia responsabile, per
avervi dato causa, con conseguente inconfigurabilità di un obbligo di
bonifica o di messa in sicurezza a carico del proprietario incolpevole. 96
Quanto al proprietario incolpevole, inoltre, costui finisce per essere il
soggetto gravato dal punto di vista economico, poiché l’Ente pubblico che
ha provveduto all’esecuzione dell’intervento può recuperare le spese
sostenute nei limiti del valore dell’area bonificata, anche in suo pregiudizio:
ne deriva che il proprietario incolpevole ha l’onere di provvedere alla
bonifica e alla messa in sicurezza, se intende evitare le conseguenze
derivanti dai vincoli che gravano sull’area di onere reale e di privilegio
96
Cfr si veda, tra le tante, Tar Veneto, sez. III, 25 maggio 2005 n. 2174, in www.giustizia-
amministrativa.com
52 cfr TAR Lombardia, Brescia, 16 marzo 2006, n. 291; cfr. la sentenza del TAR Veneto,
ivi richiamata, nr. 2174/2005; cfr. anche T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 12 dicembre
2005, n. 20141; Tar Liguria, I, 12 ottobre 2005, n. 1348; Consiglio di Stato, VI, 05
settembre 2005, n. 4525,in www.giustizia-amministrativa.com
- 103 -
speciale immobiliare, salva l’azione di regresso nei confronti del
responsabile dell’inquinamento.97
Pertanto, va ribadito che, nell’ordinamento statuale interno, in tema
di tutela ambientale e nel vigore della disciplina di cui al dlgs 22/97, è il
responsabile dell’inquinamento che deve sopportarne i costi di bonifica,
mentre il proprietario incolpevole del suolo sarà chiamato solo in via
sussidiaria e comunque nei limiti dell’arricchimento per tenere indenne
l’Amministrazione dalle operazioni di bonifica.
Di tutta evidenza appare la profonda differenza che sussiste tra le due
figure soggettive di responsabilità.
In tema di onere reale costituito ex art. 17 del dlgs 22/97, è stato
infatti affermato che quest’ultimo costituisce la prestazione di dare o di
fare a carattere periodico, cui è obbligato il debitore in quanto gode di un
determinato bene, e per principio generale ricavato anche ex art. 967 c.c.
l’obbligo del debitore è relativo inoltre alle prestazioni sorte anteriormente
all’acquisto del diritto sul bene. Quindi l’onere reale, per la sua invasività e
specificità, è ammesso solo nei casi previsti dalla legge, come nel caso di
cui all’art. 17 d.lg. n. 22 del 1997.98
98
Cfr TAR Liguria, I, 12 ottobre 2005, n. 1348, in www.giustizia-amministrativa.com
- 104 -
Ricostruendo la disciplina già in vigore nell’applicazione del dlgs
22/97, si deve, pertanto, affermare che, quanto alla responsabilità per
l’inquinamento, il proprietario incolpevole (che non ha nessuna prova da
offrire posto che spetta all’Amministrazione accertare e dunque provare la
responsabilità dell’inquinamento) sarà chiamato a rifondere i costi della
bonifica solo in relazione al suo rapporto con il bene, che si traduce in
termini di incremento di utilità da comprovarsi (onere della prova a carico
dell’Amministrazione: si tratta di una azione che 99 rientra nell’alveo
dell’art.
2041
del
codice
civile
e,
in
conseguenza,
la
prova
dell’arricchimento - sia nell’an che nel quantum - incombe sull’attore)
Più
precisamente,
il
recupero
dei
costi
da
parte
dell’Amministrazione potrà avvenire, come detto prima, solo nei limiti del
valore dell’immobile o comunque nei limiti della concreta utilità che il
proprietario incolpevole ha percepito (come aumento di valore del fondo
bonificato): a tale fine, però, l’onere reale deve risultare dai registri
immobiliari (art. 253 dlgs 152/06), se riferito ad interventi già effettuati e
precedenti il titolo dell’acquisito immobiliare o della costituzione del
99
cfr. Cass. Civile, I, 28 ottobre 2005, nr. 21096; Corte di Appello Reggio Calabria, 17
luglio 2004; TAR Puglia, Bari, I, 05 novembre 2002, nr. 4833, in www.lexitalia.com
- 105 -
diritto reale sul bene, e deve essere altresì iscritto in relazione al valore
dell’intervento di bonifica i cui costi sono andati a vantaggio del fondo.
L’autore dell’inquinamento, invece, non incontra limiti di valore
nella sua obbligazione, la quale dovrà necessariamente corrispondere
all’intero importo delle operazioni di bonifica per inquinamenti a lui
imputabili, in relazione al nesso causale ed anche oltre i limiti della
ordinaria prevedibilità dei danni (trattandosi di illecito extracontrattuale).
Dunque, a ben vedere, anche sotto la vigenza della precedente
normazione in materia, giammai, sarebbe stato possibile, comunque,
identificare ipotesi di responsabilità oggettiva pura potendosi qualificare
un soggetto “responsabile” solo ove allo stesso fosse almeno imputabile (
sia pure per la semplice concatenazione dei fatti) la realizzazione del fatto
dannoso.
4. Il principio “chi inquina paga” : definizione e rinvio.
Il principio “chi inquina paga” - enunciato per la prima volta nella
OECD Recommendation of the council n.C (72) 128, 26 febbraio 1972 e
ripreso al punto 16 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del 5.6.1972 impone che coloro che causano danni all’ambiente devono sostenere i costi
per ripararli, ossia rimborsare tali danni. Quindi, nella maggior parte dei
- 106 -
casi, la politica ambientale non deve essere finanziata da interventi
pubblici, ma dagli stessi responsabili dell’inquinamento quando essi siano
identificabili.
Con la riforma degli atti istitutivi, avvenuta con l’Atto Unico europeo
del 1986, e con la creazione del Titolo VII dedicato all’ambiente, il
principio “chi inquina paga” compare unitamente a quelli di “precauzione
e prevenzione” e di “correzione”.
Nella prima formulazione politica del principio (raccomandazione
del Consiglio 75/436/Euratom, CECAA, CEE), la Commissione ha stabilito
una serie di deroghe. Con il quarto programma d’azione (Risoluzione del
Consiglio dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri del
19.10.1987) il principio è divenuto il principale punto riferimento per la
costruzione di una responsabilità civile in relazione ai danni causati
all’ambiente.
Oggi l’art. 3 ter del D.lg. n. 152/06 consacra il suddetto principio
sancendo che :
1. La tutela dell'ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio
culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle
persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata
azione che sia informata ai principi della precauzione, dell'azione
preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni
causati all'ambiente, nonche' al principio «chi inquina paga» che, ai sensi
- 107 -
dell'articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la
politica della comunita' in materia ambientale.
5. I criteri di imputazione della responsabilità per danno
ambientale nella direttiva 2004/35/CE
La Direttiva 2004/35/CE ha istituito un normativa quadro per la
responsabilità ambientale, per la prevenzione e la riparazione del danno
ambientale basato sul principio chi inquina paga. 100
Si è evidenziato in dottrina che i criteri di imputazione, solo in parte
predeterminati, sono stati
secondo alcuni autori, maldestramente
trasposti nel D.Lgs. n152/2006, denominato anche Codice dell’Ambiente.
Detti criteri prevedono un cd. regime di responsabilità “duale” nei
presupposti, a seconda del tipo di attività economica esercitata ed
100
Nei “considerando” della direttiva viene precisato, come criterio fondamentale
dell’imputazione del danno, che “la prevenzione e la riparazione del danno ambientale
dovrebbero essere attuate applicando il principio “chi inquina paga”, quale stabilito
nel Tratta e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile. Il principio
fondamentale della presente direttiva dovrebbe essere quindi che l’operatore la cui
attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno, sarà
considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad
adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno
ambientale”
- 108 -
interessata dal danno101 .
Infatti, viene configurato un sistema di responsabilità oggettiva
relativa alle attività pericolose che importano un rischio ambientale, alla
cui stregua l’obbligo di risarcire è subordinato alla mera sussistenza di un
danno e di un nesso di causalità tra quest’ultimo e l’attività in esame.
La responsabilità prescinde, dunque, dalla dimostrazione della colpa
come elemento costitutivo autonomo, ma sono, tuttavia, previste delle
esimenti o delle ipotesi di esclusione della responsabilità (ecco perché si
parla di “responsabilità oggettiva relativa”), come il caso fortuito, la forza
maggiore, il consenso del danneggiato, l’ordine dell’autorità pubblica o
l’autorizzazione rilasciata conformemente alla normativa comunitaria.
Un regime di responsabilità per colpa è previsto per le attività non
pericolose,
subordinata dunque alla dimostrazione, da parte del
danneggiato, che il convenuto abbia agito contra ius “intenzionalmente,
per negligenza o insufficiente diligenza”.
La distinzione ancora più esplicita tra le diverse tipologie di attività,
ai fini dell’imputazione della responsabilità per danno ambientale, viene
101
S. Amedeo, La responsabilità ambientale nel Trattato della Comunità europea, in La
nuova responsabilità civile per danno all’ambiente, B. Pozzo (a cura di), Milano,
2002, p.70
- 109 -
resa dall’art. 3 della Direttiva 2004/35/CE, 102in cui si precisa che la stessa
si applica:
a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali
elencate nell’allegato III ed a qualsiasi minaccia imminente di tale
danno a seguito di una di dette attività;
b) al danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una
delle attività professionali non elencate nell’allegato III ed a
qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette
attività in caso di comportamento doloso o colposo dell’operatore .
Alla luce di quanto sopra, per le attività elencate nell’allegato III (a),
la direttiva viene in rilievo ogniqualvolta vi sia stato un danno ambientale
legato da un nesso di causalità con il comportamento dell’operatore; per le
attività non elencate nell’allegato III (b), invece, la direttiva trova
applicazione soltanto quando il comportamento dell’operatore sia
connotato da dolo o colpa.
Ai fini della imputazione del danno, viene sostanzialmente operata
una distinzione tra tipologie di operatori, gravando di una responsabilità,
certamente più prossima a quella oggettiva (basata sulla sussistenza del
nesso di causalità tra azione ed evento), i soggetti esercenti attività che
102
Vedi anche A.Venchiarutti,
all’ambiente, Milano, 1987;
Il libro bianco sulla responsabilità civile per danni
- 110 -
comportano un rischio per la salute umana o l’ambiente (incluse nel più
volte citato allegato III) e riservando agli altri – ossia quelli che esercitano
attività non ritenute intrinsecamente pericolose e non incluse nel suddetto
elenco – una responsabilità per dolo o colpa.
Non si può non dire che, anche nei casi in cui l’imputazione del
danno viene affermata in base alla sola verifica del nesso di causalità tra
azione (o omissione) e danno all’ambiente, la direttiva lasci spazio ad
ulteriori forme di esonero da responsabilità per gli operatori interessati.
Infatti, l’art. 8 comma 3 prevede che non siano a carico
dell’operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione adottate
conformemente alla Direttiva, se egli può provare che il danno ambientale
o la minaccia imminente di tale danno:
a) è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l’esistenza di
opportune misure di sicurezza (interruzione del nesso) o
b) è conseguenza dell’osservanza di un ordine o di un’istruzione
obbligatori impartiti da una autorità pubblica (esclusione della
colpevolezza) .
In tali casi gli Stati membri devono adottare le misure appropriate per
consentire all’operatore di recuperare i costi eventualmente sostenuti.
6. La responsabilità per danno ambientale nel D.Lgs. 152/2006.
- 111 -
Nell’esame del D.Lgs.152/2006 (Codice dell’Ambiente) si rileva
innanzitutto che in esso sussiste una disciplina analoga a quella prevista
dall’art.18 dell’ abrogata L.349/1986, che contempla una diversa e più
ampia nozione di danno e, quindi, di ambiente come oggetto di tutela:
l’ambiente è ancora una volta inteso come bene unitario e distinto dalle
sue singole componenti.
Quanto sopra si evince dal testo dell’art.311, che così recita:
chiunque
realizzando
un
fatto
illecito, o
omettendo
attività
e
comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di
provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o
violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo,
deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al
ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per
equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato.
Anche la giurisprudenza103 (sulla scia di due pronunce della Corte
Costituzionale, ossia la sentenza 28 gennaio 1987 e la 30 settembre 1987)
aveva riconosciuto l’unitarietà e l’autonomia del bene ambiente, in quanto
“bene immateriale ma giuridicamente riconosciuto e tutelato nella sua
unitarietà”.
103
Cfr. Corte Cass. 25 gennaio 1989, n.440, in Giust.civ., 1989, p. 552, in
www.lexitalia.com
- 112 -
Peraltro l’affermazione dell’unitarietà del bene ambiente collima
perfettamente con la sua natura costituzionale, più volte affermata, e sulla
quale si è già detto in precedenza. Logica conseguenza della valenza
costituzionale del bene ambiente è stata la necessità di apprestare una
tutela adeguata ad un bene di tale rango.
Nell’ambito di quanto previsto dall’art. 311, per quanto riguarda i
presupposti che integrano la fattispecie, vengono in rilievo tutte le regole
di condotta che impongono il rispetto di standard di tolleranza o limiti di
emissione, o che subordinano a regimi autorizzatori l’esercizio di attività
potenzialmente dannose, ovvero vietano determinati comportamenti
considerati gravemente lesivi per l’ambiante e come tali integranti ipotesi
di reato o di illecito amministrativo.
Infatti l’art.311 prevede che la responsabilità insorga a fronte della
commissione di un fatto illecito o omettendo attività o comportamenti
doverosi con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento
amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di
norme tecniche.
Il danno deve, quindi, porsi in rapporto di causalità con un
comportamento contra ius, nel senso che per l’antigiuridicità della
condotta non è sufficiente la mera compromissione ambientale, ma è
necessaria anche la violazione di una norma che vieti una determinata
azione o ne imponga una.
- 113 -
Per quanto riguarda l’imputazione della responsabilità da danno
ambientale, il Codice dell’ambiente ha solo in parte ripreso i criteri
contenuti nella direttiva del 2004, mischiandoli con quelli propri già
previsti dalla normativa abrogata.
La direttiva, infatti, ha distinto tra attività o pratiche che
presentano un rischio potenziale o reale per la salute umana o l’ambiente
ed attività professionali comportanti un tale rischio, prevedendo quindi
un diverso regime di imputazione delle responsabilità per le due tipologie
di attività suddette.
Il legislatore italiano non ha operato tale distinzione, ma ha
ugualmente richiamato nel testo nazionale principi di imputazione delle
responsabilità tra loro antitetici.
L’art. 305 introduce gli obblighi ripristinatori, disponendo che
“quando si è verificato un danno ambientale” l’operatore ha l’obbligo di
adottare immediatamente “le necessarie misure di ripristino di cui all’art.
306” e che “se l’operatore non adempie a tali obblighi” o “se non è tenuto
a sostenere i costi a norma della parte sesta del presente decreto” il
Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio ha facoltà di adottare
egli stesso tali misure, con diritto di rivalsa – per quanto riguarda le spese
sostenute – verso colui che abbia causato o concorso a causare le spese
stesse.
Per quanto riguarda l’elemento della colpevolezza, non si può non
- 114 -
rilevare che, mentre con l’art.18 della L.349/1986 il legislatore aveva
ancorato la colpa rilevante per la produzione del danno ambientale alla
colpa specifica per violazione di legge, giacchè la condotta del soggetto
agente doveva estrinsecarsi in atti dolosi o colposi commessi “in violazione
di legge o di provvedimento adottati in base a legge che compromettano
l’ambiente”, invece nella formulazione dell’art. 311 comma 2 il profilo
della responsabilità viene allargato anche alla colpa generica, non
ancorata alla sola violazione di una norma o di un provvedimento
espressamente posti a protezione dell’ambiente.
Il risultato è che l’illecito viene ora modellato chiaramente sull’art.
2043 c.c., determinando la scomparsa della più volte menzionata “tipicità”
del danno ambientale così come disciplinato dalla L.349/1986, in
contrapposizione alla riconosciuta “atipicità” dell’illecito aquiliano: di tal
guisa, anche il danno ambientale diventa illecito “atipico”, realizzabile
quindi con qualsiasi condotta dolosa o colposa.
Tuttavia, se la responsabilità per colpa è la regola generale, il Codice
dell’ambiente ha previsto – recependo pedissequamente la direttiva –
anche delle ipotesi di responsabilità che comportano una inversione
dell’onere della prova circa l’assenza di una condotta dolosa o colposa.
Si tratta, ovviamente, di previsioni che si collocano al di fuori del
modello di responsabilità oggettiva, in quanto richiedono sì la presenza di
una condotta colposa, ma presunta iuris tantum.
- 115 -
Sembra proprio di essere in presenza di un’altra commistione tra
criteri diversi di imputazione della responsabilità.
7. Le esclusioni espresse di responsabilità nel regime del D.Lgs.
152/2006 e la responsabilità per colpa presunta
La cause di esclusione della responsabilità previste dalla direttiva
comunitaria del 2004 sono state recepite nel Codice dell’ambiente.
In particolare, l’art. 303, in tema di esclusione della responsabilità,
prevede che la parte VI del D.Lgs n.152/2006 non riguardi il danno
ambientale o la minaccia imminente di tale danno cagionati da atti di
conflitto armato, sabotaggi, atti di ostilità, guerra civile, insurrezione, e
da fenomeni naturali di carattere eccezionale, inevitabili e incontrollabili.
E’ di tutta evidenza che ci si trovi davanti a casi di forza maggiore nei quali
viene meno la stessa riferibilità dell’azione all’operatore.
Sono presenti, inoltre, altri casi in cui la stessa normativa prevista
dalla parte VI del decreto non si applica, come, per esempio, quando il
danno o la minaccia imminente dello stesso sono provocati da un incidente
per il quale la responsabilità o l’indennizzo rientrino nell’ambito di
applicazione di una delle convenzioni internazioni elencate nell’allegato 1
alla parte VI del decreto.
L’ipotesi di cui sopra e le altre due di esclusione che ad essa
- 116 -
seguono fanno riferimento ai casi rientranti nelle previsioni delle
normative internazionali espressamente richiamate negli allegati del
D.Lgs. 152/2006.
Le altre ipotesi riguardano, invece, la irretroattività della disciplina
prevista dal decreto: l’ipotesi di decadenza una volta trascorsi 30 anni dal
fatto generativo della responsabilità o dall’evento dannoso conseguente;
l’impossibilità della pretesa risarcitoria in caso di mancato accertamento
del nesso di causalità ed, infine, l’inapplicabilità della normativa alle
situazioni di inquinamento per le quali sia possibile riparare interamente il
danno attivando le procedure di bonifica previste dalle disposizioni in
tema di bonifica.
Sempre in tema di esclusione della responsabilità l’art. 308 prevede
che l’operatore sostenga i costi delle iniziative statali di prevenzione e di
ripristino ambientale adottate secondo le disposizioni di cui alla parte VI
Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio può poi
richiedere garanzie reali o fidejussioni bancarie a prima richiesta, e con
esclusione del beneficio della preventiva escussione, all’operatore che ha
causato il danno o l’imminente minaccia, a copertura delle spese sostenute
dallo Stato in relazione alle azioni di precauzione, prevenzione, e ripristino
adottate.
Il comma 3 dello stesso articolo prevede che il Ministro
dell’ambiente e della tutela del territorio determina di non recuperare la
- 117 -
totalità dei costi qualora la spesa necessaria sia maggiore dell’importo
recuperabile o qualora l’operatore non possa essere individuato.
8. Le novità normative sulla responsabilità
per danno
ambientale nel D.L. 135/2009
Il decreto legge n.135 del 25 settembre 2009, convertito in L. 20
novembre 2009 n. 166, dal titolo Disposizioni urgenti per l’attuazione di
obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia
delle Comunità europee, contiene diverse novità in materia ambientale, tra
le quali la modifica della disciplina del danno ambientale già contenuta nel
D.Lgs 152/2006.
In particolare, la modifica apportata al comma 2 dell’art. 311 –
riguardante l’azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente
patrimoniale – mira ad adeguare la disciplina italiana alle norme europee
contenute
nella
direttiva
2004/35/CE,
rendendo
più
stringente
l’applicazione del principio in base al quale, ogni volta in cui è possibile, il
responsabile del danno all’ ambiente è tenuto all’effettivo ripristino della
situazione preesistente.
La modifica apportata al comma 3 dell’art. 311 demanda ad un
decreto ministeriale, sempre nel rispetto delle indicazioni comunitarie, la
definizione dei “criteri di determinazione del risarcimento per equivalente
- 118 -
e dell’eccessiva onerosità”.
Più significative appaiono le novità introdotte ancora nel comma 3
del citato art. 311 e nel comma 1 lett.f) dell’art.303, delle quali la prima
prevede che nel caso di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno
risponda nei limiti della propria responsabilità personale.
Una previsione analoga era contenuta nella L.349/1986, ma,
obiettivamente, comportava seri problemi di determinazione delle
responsabilità nel caso di azioni dannose cumulatesi nel tempo.
Il Codice dell’ambiente aveva superato tale impostazione, tanto che
nell’art.311 del D.Lgs 152/2006 non era più presente alcuna limitazione
delle responsabilità su base individuale e tornava quindi applicabile il
principio generale della responsabilità solidale.
Come si è fatto cenno sopra, il D.L. 135 del 25 settembre 2009 ha
inoltre reintrodotto una regola già prevista nell’art.18 della legge 349/86,
vale a dire il principio per cui in materia ambientale la responsabilità non è
solidale ma si divide per quote nei limiti della propria responsabilità
personale.
Si colma, quindi, una lacuna interpretativa di non poco conto,
giacchè era francamente difficile comprendere il motivo per cui la
responsabilità per risarcimento ambientale, ai sensi della parte sesta, del
DLgs n.152/06 avesse carattere solidale ( a differenza della responsabilità
- 119 -
ambientale ai sensi dell’art.18).
Il principio della responsabilità parziaria in materia ambientale
risponde d’altro canto alle caratteristiche peculiari del torto ambientale ed
al carattere latamente sanzionatorio del danno all’ambiente.
Viene anche introdotto il principio della intrasmissibilità agli eredi
del torto risarcitorio, salvo che per gli eredi non risulti un effettivo
arricchimento.
La regola della intrasmissibilità agli eredi
è mutuata dalle
disposizioni in tema di responsabilità amministrativa (in particolare
dall’art.1 della legge n. 20 del 1994): anche su questo caso, la ratio della
limitazione è evidentemente da rinvenire nel carattere in qualche modo
sanzionatorio che caratterizza l’illecito ambientale, che giustifica la
concentrazione
dell’obbligazione
risarcitoria
in
capo
al
diretto
responsabile.
La seconda novità introdotta dalla citata normativa mira a chiarire
che i nuovi criteri di determinazione dell’obbligazione risarcitoria
conseguente al danno ambientale si applicano anche per le domande di
risarcimento da presentare o da proporre ai sensi dell’abrogato art. 18
della legge 18. luglio 1986 n. 349 o del titolo IX del libro IV del codice civile
o ai sensi di altre disposizioni non aventi natura speciale con la sola
esclusione delle pronunce passate in giudicato.
- 120 -
In sostanza si ha una applicazione retroattiva di tutte le nuove
regole del giudizio di risarcimento ambientale con l’unico sbarramento del
giudicato. In questo modo si conferma, in primo luogo, il cd. “doppio
binario”, in base al quale i danni ambientali “storici” restano disciplinati
dalla L.349/1986, e,
retroattiva
–
criteri
dall’altro però si introducono – con efficacia
nuovi
e
comuni
per
la
determinazione
dell’obbligazione risarcitoria.
9. Il principio
chi inquina paga: a) gli orientamenti della
giurisprudenza; b) ipotesi di responsabilità oggettiva nella
giurisprudenza
del
giudice
ordinario
e
del
giudice
amministrativo c) principio di precauzione e principio chi
inquina
paga;
d)
analisi
della
legislazione
e
prassi
giurisprudenziale
Sulla responsabilità per il danno ambientale, alla luce della
disciplina connessa al compimento di un atto che integri il fatto dannoso
lesivo del bene ambiente, offre interessanti spunti il modo in cui la
giurisprudenza ha concretamente dato applicazione a tale disciplina
soprattutto laddove ha cercato di individuare gli elementi e/o presupposti
necessari per l’identificazione della fattispecie di responsabilità per danno
ambientale ovvero laddove ha proceduto alla identificazione del soggetto
responsabile, cioè passibile della disciplina sanzionatoria connessa alla
- 121 -
violazione delle norme poste a tutela dell’ambiente.
Invero, se, in linea di principio e puramente teorica, in una
fattispecie normativa il soggetto passibile di sanzione (dunque il soggetto
agente) risulta facilmente individuabile dalla descrizione della fattispecie (
chiunque….), nella materia che trattasi non sempre tale soggetto agente è
così facilmente individuabile, dato che, spesso, la condotta causativa
dell’evento posta in essere dall’ipotetico responsabile del fatto dannoso
deve fare i conti con una molteplicità di elementi oggettivi e soggettivi che
caratterizzano il bene ambiente quale bene tutelabile nelle sue molteplici
componenti e nella sua causazione nel tempo (basti pensare alle c.d ipotesi
di contaminazioni storiche laddove il “primo” dei soggetti responsabili
possibilmente ha posto in essere la propria condotta causativa del danno
molti anni addietro rispetto al verificarsi del fatto evento-dannoso) .
In altri termini, se il principio chi inquina paga, da un lato consacra
in termini positivi la natura soggettiva della responsabilità ambientale (del
resto – tranne sporadiche voci- sempre asseverata), essa pone non pochi
problemi nella individuazione concreta del soggetto effettivamente
responsabile, tante volte erroneamente individuato in un attore ma non
protagonista della fattispecie.
- 122 -
a) gli orientamenti della giurisprudenza
La giurisprudenza pur nelle diverse e non sempre condivisibili
interpretazioni del principio chi inquina paga, tuttavia mostra una certa
sensibilità nei confronti della piena precettività della regola, precettività
invero riconosciuta anche ben prima dell’introduzione dell’art. 3 ter citato.
Se è vero, infatti, che taluna giurisprudenza amministrativa 104
segnalava i problemi derivanti dall’assenza, nel principio de quo, di una
specificità sufficiente a consentire la immediata applicazione, e altra
giurisprudenza 105 affermava che il principio chi inquina paga, stabilito
dall’art.130
del
Trattato
di
Maastricht,
ha
carattere
meramente
programmatico, necessitando per divenire operativo, del successivo
intervento del legislatore (esso non è pertanto direttamente applicabile
potendo essere utilizzato in funzione interpretativa ma non già della
creazione di una regola specifica per la soluzione del caso non regolato), è
altresì innegabile che la gran parte della giurisprudenza era ed è ben
consapevole del significato concretamente precettivo del principio.
Pertanto, per limitarsi alle prese di posizioni più recenti e più
104
Cfr Consiglio di Stato, sez. IV, n.709,
amministrativa.com
105
Cfr TAR, Campania, n.6526, 5 luglio 2007. www.giustizia-amministrativa.com
- 123 -
23 febbraio 2004, in www.giustizia-
significative, è interessante rilevare come la giurisprudenza recente 106 ,
sulla base di una lettura orientata al principio chi inquina paga nella
disciplina delle bonifiche, abbia negato la soggezione del curatore
fallimentare all’ordinanza di bonifica perchè ciò determinerebbe un
sovvertimento del principio chi inquina paga scaricando i costi sui
creditori che non presentano alcun collegamento con l’inquinamento, e ciò
in quanto è stato precisato che l’ordinanza di cui all’art. 8 del D.M. n.
471/1999 ha quale destinatario il “responsabile” della contaminazione e
non il curatore fallimentare.
Tale impostazione è stata confermata dal vigente D.Lgs. 152/2006
(che ha abrogato il D.Lgs. 22/1997), ove agli artt. 242, 244 e 245
statuisce che
si
l'obbligo di bonifica è posto in capo al responsabile
dell'inquinamento che le Autorità amministrative hanno l'onere di
ricercare ed individuare (artt. 242 e 244 D.Lgs. 152/2006), mentre il
proprietario non responsabile dell'inquinamento o altri soggetti interessati
hanno una mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica (art. 245). Nel
caso di mancata individuazione del responsabile o di assenza di interventi
volontari, le opere di bonifica saranno realizzate dalle Amministrazioni
106
Cfr Consiglio di Stato, sez. V, n. 3885, 16 giugno 2009, in www.giustiziaamministrativa.com
- 124 -
competenti (art. 250), salvo, a fronte delle spese da esse sostenute,
l'esistenza di un privilegio speciale immobiliare sul fondo, a tutela del
credito per la bonifica e la qualificazione degli interventi relativi come onere
reale sul fondo stesso, onere destinato peraltro a trasmettersi unitamente
alla proprietà del terreno (art. 253).
Si è ritenuto così in giurisprudenza107 che il potere del curatore di
disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della
procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non
comporta
necessariamente
il
dovere
di
adottare
particolari
comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili
destinati alla bonifica da fattori inquinanti, e che la curatela fallimentare
non subentri negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità
dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione
nell’attività (come nel caso in cui un'impresa dichiarata fallita risulti
destinataria di un decreto provinciale di sospensione dell'autorizzazione
all'esercizio dell'attività di smaltimento dei pneumatici e, allo stesso tempo,
di un'ordinanza sindacale diretta alla bonifica dei siti inquinati).
Da quanto sopra consegue che non può accettarsi che la
107
Cfr Consiglio di Stato, sez. IV, n.4328, 25 marzo 2008, in www.giustiziaamministrativa.com
- 125 -
legittimazione passiva sia del curatore, poiché ciò, inoltre, determinerebbe
un sovvertimento del principio “chi inquina paga” scaricando i costi sui
creditori che non presentano alcun collegamento con l’inquinamento.
Il complesso di questa disciplina è rispondente ai dettami del diritto
comunitario ed, in particolare, al principio “chi inquina paga” che va come è tradizione nella giurisprudenza comunitaria – interpretato in senso
sostanzialistico in modo da non pregiudicarne l’operatività.108
In effetti il principio “chi inquina paga” si risolve nell’imputazione
dei costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla
contabilità ordinaria dell’impresa) al soggetto che ha causato la
compromissione ecologica illecita (poiché esiste una compromissione
ecologica
lecita
data
dall’attività
di
trasformazione
industriale
dell’ambiente che non supera gli standards legali).
Tutto, ciò, va considerato sia in una logica risarcitoria ex post
factum, che in una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio
esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di
incentivare – per effetto del calcolo dei rischi di impresa - la loro
generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci, e, quindi, nelle
dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell’ambiente (con
conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei
108
cfr. Corte di giustizia Ce 15 giugno 2000 in causa Arco, in www.lexambiente.com
- 126 -
predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta
incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente).
Negli stessi termini la giurisprudenza amministrativa 109 aveva
chiarito, già con riferimento alla misura reintegratoria prevista e
disciplinata dall'art. 14 del D.lgs. n. 22/1997 (c.d. “Decreto Ronchi”), che il
proprietario dell'area fosse tenuto a provvedere allo smaltimento solo a
condizione che ne fosse dimostrata almeno la corresponsabilità con gli
autori dell'illecito abbandono di rifiuti, per aver posto in essere un
comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo,
escludendosi conseguentemente che la norma configurasse
un'ipotesi
legale di responsabilità oggettiva (vieppiù, per fatto altrui).
In particolare, da tale giurisprudenza fu affermata l'illegittimità
degli ordini di smaltimento di rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua sola qualità ed in mancanza
di adeguata dimostrazione da parte dell'amministrazione procedente che,
sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione
(quand'anche fondata su ragionevoli presunzioni o su condivisibili
massime
109
d'esperienza),
dimostrasse
l'imputabilità
soggettiva
della
Cfr Consiglio di Stato, sez.V, n. 1612, 19 marzo 2009, in www.giustiziaamministrativa.com
- 127 -
condotta.
I suddetti principi, come detto espressi con riferimento a fattispecie
ricadente sotto l’egida della precedente normativa, a fortiori si attagliano
anche al disposto dell'art. 192 del D.lgs. n. 152/2006, dal momento che tale
articolo, non soltanto riproduce il tenore dell'abrogato art. 14 sopra citato,
con riferimento alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa, ma in
più integra il precedente precetto precisando che l'ordine di rimozione può
essere adottato esclusivamente "in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al
controllo" ”.
Pertanto, non può condividersi quella giurisprudenza110 che ritiene
che nel caso di mancanza di un responsabile individuato (id quod
prelumque accidit), verrebbe del tutto vanificata la previsione tassativa e
fondamentale di cui al comma 1 dell’articolo 14 del d.lgs. n.22 del 1997,
cioè il divieto di depositi di rifiuti sul fondo.
Ciò, infatti, sarebbe esatto se il legislatore avesse strutturato la
concorrente responsabilità del proprietario (rispetto a quella del terzo
autore dell’abbandono dei rifiuti) in termini meramente oggettivi – ossia
110
Cfr TAR, Puglia, Lecce, sez.I, n.793, 19 marzo 2008, in www.giustiziaamministrativa.com
- 128 -
in assenza di alcun riferimento all’elemento soggettivo della fattispecie –
perché in tal caso, ma solo allora, l’interprete avrebbe potuto esattamente
ravvisare l’obbligazione di ripristino a carico del titolare di un diritto di
godimento sul bene quale “obbligazione propter rem”.
Siccome, invece, il diritto positivo, come si evince anche dalla
semplice lettura delle citate disposizioni, ha stabilito l’esatto contrario –
ossia il legislatore ha strutturato la fattispecie in esame in termini
indiscutibilmente soggettivi, radicando solo sulla riscontrata presenza di
colpevolezza del proprietario la sua concorrente responsabilità – in difetto
di accertato concorso, con il terzo autore dell’illecito, di una condotta
colpevole del proprietario del fondo, non è dato ricavare alcuna sua
responsabilizzazione per la bonifica da effettuare. Con il corollario, di tutta
evidenza sebbene implicito, che l’onere economico della bonifica del fondo
– comunque ovviamente necessaria – non potrà porsi a carico del
proprietario, ma resterà per forza di cose socializzato.
Il sistema, in altri termini, non è quello che l’interprete reputi “più
funzionale”, ma quello che il legislatore ha positivamente tratteggiato.
Non è sostenibile che il comma 1 dell’articolo 14 del D.Lgs. n. 22 del
1997 abbia introdotto una sorta di obbligazione propter rem di diritto
pubblico (in quanto funzionale al pubblico interesse e coercibile da parte
dell’amministrazione nell’ambito dei suoi poteri di polizia amministrativa),
a carico del proprietario o del titolare di un diritto reale sul fondo (ed
- 129 -
estesa anche ai titolari di un diritto personale di godimento, nel caso in cui
il contenuto di questo conferisca al suo titolare i poteri di disposizione
necessari per provvedere alla rimozione), per il caso in cui non sia stato
accertato il responsabile del deposito abusivo di rifiuti, e cioè qualora non
possa trovare applicazione la sanzione amministrativa ripristinatoria di cui
al successivo comma 3.
Se così fosse, si dovrebbe, in effetti postulare che, essendo connessa
alla mera titolarità del diritto sul bene (in tal senso propter rem), allora
tale obbligazione di ripristino sorge[rebbe] a carico del titolare, a
prescindere dalla sua responsabilità, e ciò costituirebbe l’esatto contrario
di quanto il legislatore ha positivamente stabilito inserendo la colpa tra gli
elementi costitutivi della fattispecie in parola.
Nello stesso senso altra giurisprudenza 111 ha osservato, poi, che
l’obbligo di adottare le misure sia urgenti che definitive, idonee a
fronteggiare la situazione di inquinamento, è imposto solo a carico di colui
che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa.
Tale impostazione, peraltro, è stata confermata e specificata dagli
artt.240 e ss. Del D.lg n.152/06 ed è in armonia con il principio chi
inquina paga (art. 174, ex art 130/R del Trattato CE), cui si ispira la
legislazione comunitaria, sicchè l’amministrazione non può imporre lo
111
Cfr. TAR, Toscana, sez.II, n.665, 17 aprile 2009, in www.lexambiente.it
- 130 -
svolgimento di attività di recupero e risanamento ambientale a privati in
capo ai quali non sia stata accertata alcuna responsabilità diretta
sull’origine del fenomeno di inquinamento contestato, ma che vengono
individuati solo in quanto proprietari dei beni .
Ancora, secondo altra giurisprudenza 112, il principio chi inquina
paga avrebbe addirittura consentito, a fronte di un quadro normativo –
quello pre Ronchi- indubbiamente frammentario ed incompleto, di trovare
una solida indicazione in ordine alla posizione (di irresponsabilità) del
proprietario incolpevole.
In tal senso l’opinione maggioritaria mutuava le proprie ragioni
giuridiche – in presenza di una normativa non puntualmente diffusa sul
profilo della responsabilità- dell’art. 130/R del Trattato dell’Unione
Europea introdotto dall’Atto Unico Europeo del 1986 (attualmente l’art
174 dopo i Trattati di Amsterdam e Nizza ): esso sancisce il noto principio
chi inquina paga , mentre l’art. 18 della legge 349/86 offriva la conferma
della regola per cui la responsabilità per danno ambientale consegue al
compimento di fatti colposi o dolosi e non già alla mera qualità di
proprietario dell’area.
Particolarmente estese sono, poi, le motivazioni articolate di una
112
Cfr TAR , Lombardia, Brescia, sez.I, n. 39, 5 febbraio 2008, in www.lexambiente.it
- 131 -
recente giurisprudenza amministrativa113, ove anzitutto si dà conto della
circostanza per cui, prima della riforma della materia operata per mezzo
del D.lg. n.152/06, non mancavano oscillazioni tra pronunce tese a
sostenere che tale principio avesse meramente valore programmatico, e
fosse insuscettibile di trovare applicazione nell’ambito dell’ordinamento
interno statuale, e pronunciamenti di segno opposto, questi ultimi
prevalenti soprattutto nella giurisprudenza penale.
Subito, dopo, si è riconosciuta la valenza innovativa del Codice
dell’Ambiente anche nella versione precedente le modifiche del D.lg
n.4/08, chiarendo come l’introduzione del principio chi inquina paga con
il
predetto
D.lg.n-152/06,
nell’Ordinamento
statuale
interno,
in
recepimento di specifica direttiva (direttiva 2004/35/CE del 21 aprile
2004 sulla responsabilità ambientale, basato sul principio chi inquina
paga, a sua volta fondato sull’art.174 comma 2 del trattato istitutivo delle
Comunità Europee)
proprio in quanto principio implicasse che esso
dovesse trovare applicazione in tutti i procedimenti in corso laddove non si
fossero prodotti diritti quesiti o comunque effetti definitivi.
E proprio sulla base del suddetto principio e sul corretto valore
sostanziale da attribuire al medesimo si consacra in modo inequivoco la
113
Cfr TAR, Sicilia,Catania, n. 1254, 20 luglio 2007, in www.giustizia-amministrativa.com
- 132 -
scelta del legislatore del 2006 in favore della riconduzione della
responsabilità per danni all’ambiente nell’alveo della “tradizionale”
responsabilità extracontrattuale soggettiva (c.d. responsabilità aquiliana ex
art.2043 c.c.), con il conseguente ripudio di qualsiasi forma di
responsabilità oggettiva.
Infatti, la norma contenuta nell’art 311, comma 2, del D.Lgn.152/06
è la norma che costituisce e disciplina la situazione giuridica soggettiva di
responsabilità e serve, quindi, ad orientare l’interprete nella ricostruzione
dell’istituto della responsabilità per danno ambientale, escludendo (come
nel caso sopra citato di inquinamento dei siti imputate alle imprese attive
sui detti siti) una qualsiasi responsabilità “da posizione” che non può
configurarsi surrettiziamente, neppure con riferimento ai “vantaggi”
connessi all’esercizio di un’impresa.
Il presumibile superamento della la natura di risarcimento in forma
specifica degli obblighi di bonifica e l’accentuazione dell’aspetto
sanzionatorio degli stessi, non comporta
che la disciplina dell’illecito
ambientale
per
non
può
essere
invocata
giustificare
l’eventuale
qualificazione della responsabilità ambientale in termini di responsabilità
oggettiva, perché, in materia di sanzioni amministrative, la legge non la
prevede a differenza del codice civile, in nessuna forma o tipologia.
A norma della legge n.689/81, infatti, anche la disciplina generale
delle sanzioni amministrative, esclude qualsiasi forma di responsabilità
- 133 -
oggettiva e riconduce la responsabilità amministrativa al dolo e alla colpa.
Numerose, poi, sono le pronunce giurisprudenziali, in materia di
tasse e contribuzioni ambientali, dalle quali si evince la rilevanza diretta (e
invalidante)
del
accettabilmente
principio
a
proporzionali
fronte
di
all’effettivo
pretese
impositive
contributo
di
non
ciascuno
all’inquinamento114.
b) ipotesi di responsabilità oggettiva nella giurisprudenza del
giudice ordinario e del giudice amministrativo
Nel quadro degli orientamenti giurisprudenziali sopra delineati, che,
comunque, con diverse ed articolate motivazioni pur sempre non
prescindono da un accertamento della responsabilità secondo i criteri
soggettivi quantomeno colposi, così, riconducendo
la “responsabilità
ambientale” sotto l’egida della responsabilità aquiliana, assumono
particolare significativo rilievo due recenti pronunce, con le quali si profila
un’ipotesi di responsabilità oggettiva per danno ambientale.
In un primo caso
114
115
si decide in ordine alla richiesta di
Cfr Cassazione, sez. unite, 15 giugno 2009 n 13894, che alla luce della pronuncia comunitaria
sul caso Standley ha affermato come solo una tariffa (e non una tassa effettivamente proporzionale
alla produzione dei rifiuti) appare funzionale “ad una disciplina precisa dell’imputazione dei costi”
quale richiesta dal principio comunitario.
115
Cfr Tribunale di Venezia, III sezione civile, n.304 del 4 febbraio 2010 in www.diritto.it
- 134 -
accertamento della responsabilità per danno ambientale, avanzata ai sensi
dell’art. 2051 c.c., nonché dell’art 18 della legge n.349/86 e dell’art. 17
D.lgs n.22/97, nei confronti del proprietario di un’area situata all’interno
del S.I.N. di Venezia Porto Marghera, fondata sulla circostanza che lo
stesso non sarebbe intervenuto tempestivamente nella bonifica e/o nella
messa in sicurezza del terreno, inquinato da altri, consentendo la
propagazione delle sostanze contaminanti.
In tale circostanza, rinviandosi ad analoghi pronunciamenti 116, si
procede
all’applicazione
dell’art.2051
c.c.,
in
contrasto
con
la
giurisprudenza prevalente (soprattutto amministrativa) che, in virtù del
principio di specialità, ritiene inapplicabili le norme civilistiche sulla
responsabilità presunta di danno ambientale.
In proposito si afferma che, se è pur vero che il 3°comma dell’art 14
del D.lgs n.22/97 (oggi sostituito dall’art.192 comma 3 del D lgs n.152/06)
prevede la corresponsabilità solidale del titolare dei diritti personali o
reali di godimento sull’area ove sono stati abusivamente abbandonati o
depositati i rifiuti, con il conseguente suo provvedere allo smaltimento ed
116
Cfr Cassazione civile- Sezioni Unite, n.4472, 25 febbraio 2009 “in tema di abbandono
dei rifiuti sebbene l’art.14 comma 3, d.lg n.22/97preveda la corresponsabilità solidale
del proprietario o dei titolari dei diritti personali o reali di godimento sull’area ove
sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, solo in quanto la violazione
sia agli stessi imputabile a titolo di dolo o di colpa, tale riferimento va inteso per le
sottese esigenze di tutela ambientale, in senso lato, comprendendo, quindi, qualunque
soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto anche di mero fatto tale da
consentirgli per ciò stesso imporgli di esercitare una funzione di protezione e custodia”
- 135 -
al ripristino, è altrettanto vero che le esigenze di tutela ambientale sottese
alla norma citata rendono evidente che il riferimento a chi è titolare di
diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo
destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata
in rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli – e per ciò stesso
imporgli- di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad
evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di
rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente.
In siffatte ipotesi il requisito della colpa richiesto da detta norma
ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle
cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficace
custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere in essa
indebitamente depositati rifiuti nocivi.
In altri termini, secondo la singolare ricostruzione giurisprudenziale
sopra riportata la richiesta di accertamento della responsabilità del
proprietario di una delle parti del sito inquinata, ai sensi dell’art. 2051 c.c.
(e art. 17 Dlvo n.22/07, abrogato dall’art TU 152/06, applicato ratione
tempore e art. 18 L.349/86 e sostituito dall’art.3111 stesso TU), si fonda
sulla circostanza che lo stesso non sarebbe intervenuto tempestivamente
nella bonifica e/o messa in sicurezza del terreno di sua proprietà,
consentendo nel corso degli anni che le sostanze tossiche si propagassero e
si riversassero nelle acque faldifere e in laguna.
- 136 -
La previsione dell’art.2051 c.c., inusuale per le ipotesi di danno
ambientale (anche per la sua completa tipicizzazione) ma non del tutto
esclusa, secondo la giurisprudenza che si commenta, pone il danneggiato
in una condizione di estremo favore, in quanto lo esonera dall’onere della
prova della colpa del danneggiante, prevedendo una sostanziale
responsabilità oggettiva a carico del medesimo.
Ora se è pur vero che secondo la superiore prospettazione, a fronte
di una imputazione oggettiva di colpa, è necessaria una rigorosa
dimostrazione
degli
elementi
costitutivi
della
responsabilità
con
particolare riferimento alla condotta positiva o omissiva tenuta dal
danneggiante, del nesso causale tra la condotta e l’evento nonché del
danno qualificato nella sua entità, è altrettanto vero che in un sistema
come quello delineato dal nuovo codice, improntato alla imputazione
soggettiva della colpa, individuare il responsabile nel soggetto che si trovi
in un rapporto anche di mero fatto con l’area interessata, tale da
consentirgli per ciò stesso di esercitare una funzione di protezione e
custodia, appare non del tutto condivisibile.
Né sulla scorta del citato pronunciamento è condivisibile il
ragionamento rassegnato dalla giurisprudenza amministrativa117, secondo
117
Cfr Consiglio di Giustizia Amministrativa, sez, giurisdizionale, ordinanza n. 321/06 in
www.giustizia-amministrativa.com
- 137 -
il quale, appare irrilevante ai fini della legittimità degli atti impugnati ogni
accertamento (ivi compresi quelli in corso in sede penale) volto a verificare
il coinvolgimento o meno degli attuali proprietari o concessionari di aree
industriali così come ogni accertamento volto a verificare la sussistenza di
eventuali responsabilità in capo ad organi della P.A., che abbiano in
passato autorizzato l’esercizio di attività inquinanti (il cui esito, a
prescindere da eventuali imputazioni ascrivibili alle singole persone fisiche
titolari degli organi, si risolverebbe necessariamente in una traslazione
sulla collettività dei relativi oneri a carattere ripristinatorio, o di gran parte
di essi).
In particolare, secondo tale orientamento, il punto di equilibrio fra
i diversi interessi di rilevanza costituzionale alla tutela della salute,
dell’ambiente e dell’iniziativa economica privata non va infatti ricercato in
un meccanismo di graduazione delle obbligazioni di messa in sicurezza e di
successiva bonifica a seconda dell’entità degli apporti individuali nella
causazione del danno ambientale,
ma in un criterio di oggettiva
responsabilità imprenditoriale, in base al quale gli operatori economici che
producono e traggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in
quanto ex se inquinanti, o in quanto utilizzatori di strutture produttive
contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sono per ciò stesso
- 138 -
tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela
dell’ambiente e della salute della popolazione, in correlazione causale con
tutti indistintamente i fenomeni di compromissione collegatisi alla
destinazione industriale del sito, gravato come tale da un vero e proprio
onere reale a rilevanza pubblica, in quanto finalizzato alla tutela di
prevalenti ed indeclinabili interessi dell’intera collettività.
La superiore impostazione suscita qualche perplessità, in quanto
appare inconferente
la tesi secondo la quale il riferimento alle
responsabilità presunte di cui agli artt. 2050 e 2051 cod. civ. (relativi alla
responsabilità per esercizio di attività pericolose ed alla responsabilità per
danni da cose in custodia) permetterebbe (rectius:autorizzerebbe) di
ricostruire la responsabilità imprenditoriale per danno ambientale o per
bonifica in chiave di responsabilità meramente oggettiva.
Difatti, a tacere del fatto che tali disposizioni operano nel campo dei
rapporti tra privati, in ogni caso, l’applicazione al campo della
responsabilità per danno ambientale delle norme di responsabilità
presunta stabilite dal codice civile trova comunque ostacolo nel principio
di specialità (che – com’è noto – è il criterio prioritario per individuare la
norma applicabile in campo civilistico, anche sul terreno della
responsabilità civile118).
118
cfr. Cass. N. 19975 del 2005 in www.diritto&diritto.it
- 139 -
A fronte di più disposizioni (apparentemente) concorrenti nella
stessa fattispecie (le norme di responsabilità presunta stabilite dal codice
civile e le norme sulla responsabilità ambientale previste dalla parte sesta
del D. Lgs. N. 152 del 2006), il criterio di specialità porta certamente ad
applicare solo ed esclusivamente le disposizioni esaustivamente dettate
dalla normativa ambientale, così come oggi chiarite dal D. Lgs. N. 152 del
2006.
Sotto il profilo della ratio normativa, si ritiene non del tutto
condivisibile la tesi di quella dottrina – già supra richiamata- secondo cui
l’adozione di un criterio di “strict liability” (responsabilità rigorosa) in
capo alle imprese, connesso a rischi oggettivi di impresa, tutelerebbe
meglio il valore della difesa ambientale, rispetto ad un sistema di “due
care” (cura doverosa).
Infatti, la strict liability ed il correlativo principio, secondo cui
sarebbe possibile l’indifferenziato accollo degli oneri della bonifica
ambientale a carico delle imprese per effetto della sola loro relazione con i
suoli, finirebbe con l’incentivare il danno ambientale, invece di impedirlo o
di portare a rimuoverne durevolmente le cause prima ancora che gli effetti,
risultato che si ottiene solo promuovendo un corretto rapporto tra la
produzione e l’ambiente.
La via semplice, “in discesa”, di accollare gli oneri di bonifica alle
imprese incolpevoli, ma facilmente individuabili dalla loro attuale
- 140 -
relazione con il bene, agevolerebbe, di fatto, l’impunità dei soggetti autori
dell’inquinamento (specie quel tipo di inquinamento ché deriva da fatti
risalenti nel tempo e che quindi ha già consentito una sicura
locupletazione dei suoi autori a danno della collettività e del territorio).
Questo, perché, ipotizzando che la P.A. recuperi i costi integrali
della bonifica a carico del proprietario-detentore incolpevole del suolo, ne
deriverebbe che resterebbe a costui la rivalsa sul precedente proprietariopossessore inquinante, rivalsa che dovrebbe essere condotta sul piano
della tutela civile, con l’evidente minore possibilità, mezzi e strumenti di
tutela derivanti dalla natura dell’azione (che sarebbe riconducibile, in
pratica, o ad una azione a tutela della compravendita, oppure, a seconda
dei presupposti, ad una azione aquiliana, con relativi termini di
proposizione e prescrizione), rispetto a quella che lo Stato invece può (e
deve) porre in essere, a norma dell’art. 250, 252 comma 5 e 253 del dlgs
152/06.
Pertanto, le Imprese “non attente” alle tematiche ambientali
sarebbero incoraggiate nelle loro riprovevoli condotte dalla possibilità di
sfuggire alla sanzione dopo aver sfruttato le risorse del suolo ed aver
compromesso l’ambiente, semplicemente cedendo il sito e puntando, da
un lato, sui “tempi lunghi” dell’Amministrazione e, dall’altro, sul minore
rischio che per loro costituisce l’azione civile di rivalsa dei proprietari
incolpevoli.
- 141 -
In
una
prospettiva
ancora
più
evoluta
dell’istituto
della
responsabilità per danno all’ambiente, una responsabilità per danni
all’ambiente puramente oggettiva contrasta gravemente – ledendolo – con
il principio-valore della “responsabilità sociale delle imprese”, che oramai
si sta consolidando come lettura del combinato disposto degli artt. 2, 3 e
42 della Costituzione, nella maturata coscienza “diffusa” della società e
degli operatori economici.
In una amministrazione democraticamente orientata, infatti, la
coazione è sempre uno strumento da “ultima risorsa”, mentre il
coinvolgimento attivo, propositivo e qualificato dei privati nella tutela
dell’ambiente è un “valore” prima ancora che uno strumento (di maggiore
efficacia), ed esso si ottiene enfatizzando, appunto, la “responsabilità
sociale” delle imprese e della produzione (nozione fondata sull’art. 41
comma 2 e 42 della Costituzione), secondo la quale le imprese hanno
vantaggio (e devono essere incentivate) nel perseguire contestualmente il
profitto economico, la funzione sociale della proprietà e la tutela
ambientale, destinando a tale proposito adeguate risorse ed energie poiché
ne hanno un ritorno in termini di qualità della produzione e della
immagine.
L’equilibrio tra il costo ed il beneficio è infatti la precondizione della
corretta pianificazione delle scelte aziendali, che incide direttamente sulla
valutazione dell’imprenditore di destinare risorse e ricchezze alla
- 142 -
minimizzazione dei costi ed alla implementazione qualitativa della
produzione.
Sotto il profilo della organizzazione amministrativa dell’azione dei
pubblici poteri, tali finalità sono ampiamente riconosciute e previste dal
legislatore che disciplina in proposito svariate forme di intese e/o accordi
di programma: si confronti la complessa ed evoluta disciplina di cui al
disposto degli artt. 206, 179 e 180 del dlgs 152/06, nonché le previsioni di
cui all’art. 181 commi 5 e 7, che consentono di promuovere intese con i
soggetti economici interessati “al fine di favorire il riutilizzo, il reimpiego,
il riciclaggio e le altre forme di recupero dei rifiuti, nonché l'utilizzo di
materie prime secondarie, di combustibili o di prodotti ottenuti dal
recupero dei rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata” (art. 181),
anche mediante “la promozione di strumenti economici, eco-bilanci,
sistemi di certificazione ambientale, analisi del ciclo di vita dei prodotti,
azioni di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori, l'uso di
sistemi di qualità, nonché lo sviluppo del sistema di marchio ecologico ai
fini della corretta valutazione dell'impatto di uno specifico prodotto
sull'ambiente durante l'intero ciclo di vita del prodotto medesimo; come
pure “la previsione di clausole di gare d'appalto che valorizzino le
capacità e le competenze tecniche in materia di prevenzione della
produzione di rifiuti” o anche “la promozione di accordi e contratti di
programma o protocolli d'intesa anche sperimentali finalizzati, con effetti
- 143 -
migliorativi, alla prevenzione ed alla riduzione della quantità e della
pericolosità dei rifiuti” (art. 180).
Sotto l’aspetto della ratio legis, è da ritenersi contraria ai principi
della responsabilità imprenditoriale nella tutela ambientale, come
emergenti sia dalla Carta Costituzionale che dalla legislazione ambientale,
nella più matura lettura che se ne offre alla coscienza sociale, la
considerazione (generalizzata in un giudizio preventivo ed acritico) delle
imprese e della produzione come “disvalore” da contenere, controllare o
limitare, addossando loro indiscriminatamente i costi del disinquinamento
in una logica (massimalista e punitiva) di equiparazione tra il possesso di
“risorse economiche e ricchezza” ed una (sorta di) “culpa in re ipsa”, ossia
intrinseca allo stesso essere impresa produttiva.
Per tale ragione non è condivisibile il corollario che deriva dalle
argomentazioni poste a base delle due pronunce giurisprudenziali sopra
citate, secondo il quale la semplice relazione di una forza economica e
produttiva con il sito ove essa è localizzata rende responsabile
l’imprenditore di qualsiasi danno ambientale, senza o al di fuori di un
rigoroso accertamento di responsabilità.
c) principio di precauzione e principio chi inquina paga
- 144 -
Al principio comunitario chi inquina paga si deve altresì coordinare
altro principio comunitario cristallizzato nell’art.174 delle disposizioni del
Trattato, a mente del quale “la politica della Comunità in materia
ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto delle
diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è
fondata sui principi di precauzione e dell’azione preventiva, sul principio
di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente,
nonché sul principio chi inquina paga” .
L’armonizzazione del principio chi inquina paga con il principio di
precauzione appare imprescindibile,
atteso che, come ha felicemente
statuito una recente giurisprudenza amministrativa 119 bisogna dar atto
dell’esistenza nell’ordinamento del principio di precauzione, che è di
genesi comunitaria al pari di quello di proporzionalità e che ben torna
invocabile ogni volta che, pur a fronte di una carente base normativa e
dunque di un possibile ritardo da parte del legislatore nel prendere atto del
costante progresso della scienza, sia ragionevolmente ipotizzabile
l’esistenza di un rischio non tollerabile.
In tal senso si è evidenziato come l’art. 174 del Trattato CE abbia
indicato al comma 1 la protezione della salute umana fra gli obiettivi della
politica comunitaria in materia ambientale, e il principio di precauzione è
119
Cfr, TAR Trento, n.93, 25 marzo 2010 in www.giustizia-amministrativa.com
- 145 -
stato introdotto al suo comma 2, il quale dispone che “La politica della
Comunità in materia ambientale …è fondata sui principi della precauzione
e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria
alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio «chi
inquina paga”.
Da ciò la giurisprudenza120 ha desunto come l’'obbligo giuridico di
assicurare un “elevato livello di tutela ambientale” con l'adozione delle
migliori tecnologie disponibili sia finalizzato ad anticipare la tutela poi da
apprestarsi in sede legislativa a decorrere dal momento in cui si profili un
danno da riparare, al fine sia della sua prevenzione, ove possibile, sia del
suo contenimento in applicazione del richiamato principio di precauzione.
Il fatto che siano in questione rischi per la salute umana non
significa che non debba essere con serietà ed attendibilità accertata
l’esistenza del paventato danno, ogni volta che, seppure a fronte di una
persistente incertezza scientifica, sia ragionevolmente possibile dubitare
dell'innocuità di una sostanza.
Il che in linea di principio permetterebbe di non trascurare gli effetti
pregiudizievoli indotti di una sostanza, pur nell’incontroverso difetto di
prove scientifiche decisive sulla gravità delle conseguenze nocive. 121
120
Vedi nota n72
121
cfr.: Tribunale I grado CE, 11 settembre 2002, causa T-13/99, Pfizer Animal Health
- 146 -
(ovvero non inserita nella tabella tra le sostanze nocive)
In definitiva, il principio in parola si caratterizza per tre aspetti
fondamentali: a) il suo carattere di principio generale; b) l’impossibilità, in
sede di bilanciamento fra protezione della salute e libertà economica, di
consentire alle imprese di essere esonerate dall’adottare a loro spese le
indispensabili misure di cautela; c) la validità del principio di precauzione
come
criterio
interpretativo
del
sistema
giuridico
unitariamente
considerato.
Applicando tale principio a fattispecie di danno ambientale,
determinate dalla diffusione di una sostanza inquinante non prevista nelle
tabelle allegata al D. lgs. N. 152 del 20006 delle sostanza nocive, non si
può escludere che essa non rappresenti ex se un elemento che precluda di
affermarne la pericolosità.
Ciò chiaramente non determina ex sé la violazione del principio di
proporzionalità,122 atteso che il mezzo prescelto dall’Amministrazione per
prevenire il potenziale rischio di un pregiudizio e dare comunque corso
alla necessaria bonifica, non deve superare la soglia della necessità e
dell’idoneità rispetto al fine perseguito, rispetto al quale si deve
individuare la misura più mite capace di cogliere il risultato.
122
cfr. Corte Giustizia CE 5.2.2004, n. 24; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 23.1.2003, n. 260,
in www.giustizia-amministrativa.com
- 147 -
Ne consegue che, sul versante della concreta applicazione, l’onere
anche economico posto a carico di quanti abbiano inquinato sulla base del
principio “polluter pays” trova il proprio necessario temperamento nel
citato principio generale di diritto comunitario, che fa vincolante divieto di
superare quella che, con linguaggio tratto dalla dottrina tedesca, si
denomina “Unzumutbarkeit”, e cioè il pur labile confine oltre il quale il
necessario recupero divenga inesigibile, quale ingiusta sanzione per il
comportamento osservato.
L’aspetto più significativo ed innovativo della giurisprudenza sopra
riportata, in parziale contrasto con l’orientamento
giurisprudenziale
piuttosto consolidato, è proprio quello secondo cui , sulla base del
principio
comunitario
del
“polpute
pays”
sarebbe
precluso
alle
amministrazioni imporre oneri di bonifica a carico di chi non sia risultato
il diretto responsabile del fenomeno di inquinamento.
In altri termini si è chiarito in modo significativo come, sul versante
della concreta applicazione, l’onere economico gravante su coloro che,
sulla base del precitato principio, possono considerarsi responsabili di
fenomeni di inquinamento- come sostenuto da taluno in dottrina123 - trova
il necessario
contemperamento nel principio generale di diritto
comunitario che vieta di superare il confine oltre il quale il recupero
123
Cfr V. Stefuti, in Diritto all’Ambiente, Documenti 2010
- 148 -
diventa in ogni caso inesigibile.
d) rassegna della legislazione e prassi giurisprudenziale
In che misura la legislazione italiana si conformi al principio può
stabilirsi attraverso l’esame della materia delle bonifiche,
che ha
costituito, nella prassi, la vera via italiana ( ad un risultato materialmente
coincidente) del risarcimento ( in forma specifica) del danno ambientale.
La nuova e travagliata (già più di sette volte modificata!) disciplina
del 2006 ha meglio esplicitato la distinzione tra proprietario (incolpevole)
e inquinatore. Solo il secondo è propriamente soggetto all’obbligo di
bonifica. Il primo, invece, è chiamato a farsi coattivamente parziale carico
dei relativi costi, esclusivamente ove il secondo si dimostri non
individuabile o incapiente (art. 242ss, d.lg n.152/06 e, specialmente,
art.253, comma 2, “il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere
esercitati
nei
confronti
del
proprietario
del
sito
incolpevole
dell’inquinamento e del pericolo di inquinamento solo a seguito del
provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra
l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile,
ovvero giustifichi l’impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti
del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità”).
Inoltre, anche laddove sia consentito procedere avverso il
- 149 -
proprietario incolpevole, ciò può avvenire “soltanto nei limiti del valore di
mercato determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi”
(art.253, comma 4).
Quest’ultima previsione, tuttavia, suscita qualche perplessità,
perché il principio della necessaria internalizzazione delle esternalità
ambientali non può, di per sé, ammettere che il proprietario incolpevole si
faccia carico di qualcosa di più dell’accresciuto valore del sito, ossia della
differenza tra valore- utilità (per il proprietario) prima e dopo la bonifica
(ovviamente non considerando sempre incorporato, in negativo ,nel valore
pre bonifica il costo della stessa, almeno nella misura in cui esso rifletta ,
come di norma, il costo di eliminazione delle esternalità negative
ambientali che attengono all’utilità sociale e non a quelle del proprietario).
Né essa sembra compatibile con una responsabilità che, pur non
illimitata, è però estesa all’intero valore post bonifica, anche se il
proprietario ha azione di rivalsa verso l’inquinatore per quanto ha pagato
per la bonifica (art.253, comma, 4), azione che è data solo nel caso di
bonifica volontaria da parte del proprietario incolpevole.
Anche a considerare tutto ciò solo come un difetto di tecnica
legislativa, non può ammettersi il rilievo che tale rivalsa, peraltro, relativa
o non un diritto indisponibile, potrebbe non essere esercitata.
E la scelta del non esercizio, d’altro canto, sarebbe del tutto
razionale: le stesse ragioni che portano l’ente pubblico a cercare di
- 150 -
soddisfarsi sul proprietario, invece, che sull’inquinatore (impossibilità o
difficoltà di individuare o far pagare l’inquinatore), difatti, costituirebbero
un evidente disincentivo anche all’azione del privato. Sicchè la previsione
di tale azione rappresenta sì un correttivo, ma non sufficiente, ad una
regola difficilmente compatibile con (ed anzi opposta a ) l’idea della
internalizzazione del danno ambientale da parte di chi lo ha causato.
Né, d’altro canto, basterebbe a ciò replicare che, essendo
l’inquinatore per definizione non individuabile e quindi incapiente,
comunque quest’ultimo non potrebbe internalizzare i costi ambientali.
Pertanto facendosi pagare chi non è inquinatore non si
rinuncerebbe a colpire l’inquinatore, ma semplicemente si prenderebbe
atto della relativa impossibilità evitando che i costi ricadano sull’intera
collettività.
Anzitutto, come si è visto, il principio in questione non mira
genericamente ad evitare la collettivizzazione delle esternalità ambientali.
Piuttosto l’obiettivo è la loro internalizzazione in capo ad un privato
non genericamente inteso, ma individuato in quanto effettivo inquinatore.
Da quanto sopra consegue che, o si interpreta la impossibilità di cui
parla l’art.253 cit come del tutto assoluta e permanente (l’inquinatore non
è obiettivamente individuabile e non può pagare, né è ragionevole che mai
si potrà individuare e/o sarà in condizioni di pagare), ovvero, l’attuazione
- 151 -
coerente del principio chi inquina paga esigerebbe, anche in casi di
impossibilità non assoluta e permanente, di puntare comunque a colpire
l’inquinatore senza troppi (facili e ingiusti) ripieghi sul proprietario.
Pertanto, non possono convincere, tesi come quelle sostenute di
recente da una parte della giurisprudenza amministrativa124, secondo cui a
fronte di inquinamenti storici (per i quali non è ben chiaro perché
varrebbe una sorta di prescrizione del danno ambientale a favore
dell’inquinatore) sarebbe del tutto compatibile con il principio chi inquina
paga imporre il costo della bonifica al mero proprietario incolpevole,
perché se “ il principio comunitario invocato
dovesse operare con
caratteri di esclusività, dovrebbe dedursi che per tale inquinamento
nessuno paga, giusto il lungo periodo intercorso, che renderebbe
comunque operante la prescrizione lunga ( tra la fine del contegno illecito
e la richiesta di ristoro e di rimessa in prestino sono decorsi 50 anni).
Pur nella ipotizzabilità di una prescrizione delle obbligazioni di
bonifica, se per la inerzia delle Autorità chi ha inquinato non è stato
tempestivamente richiesto di pagare, al suo posto non dovrebbe essere
consentito far pagare un terzo soggetto.
124
Cfr, Consiglio di Stato, sez. V, n.3318, 28 maggio 2009, in www.giustiziaamministrativa.com
- 152 -
Ben più coerente con il principio comunitario appare il fatto che, in
una tale circostanza il costo della bonifica sia assunto dagli Enti locali, così
sollecitati in futuro a maggiore celerità e cura nell’affrontare le
contaminazioni dei siti.
Come si è ricordato, infatti, il principio chi inquina paga non mira
a trasferire genericamente al privato costi altrimenti ricadenti sulla
collettività.
L’obiettivo è molto più specifico:quello di trasferire al privato (solo
se ed in quanto) inquinatore gli oneri di cui sopra. Colpire un privato non
inquinatore significherebbe non solo non soddisfare il principio, ma, più
radicalmente, porsi in contrasto con esso, così creandosi una condizione
che obiettivamente precluderebbe la responsabilizzazione dell’inquinatore,
per di più inducendo le autorità pubbliche alla ricerca della soluzione per
esse più comoda, al posto di quella più ambientalmente efficiente oltre che
(sia consentito notarlo) equa.
Ancor più ragioni di dubbio sono riferibili alla già menzionata
disciplina dell’art. 252 bis, secondo cui “gli oneri connessi alla messa in
sicurezza ed alla bonifica nonché quelli conseguenti all’accertamento di
ulteriori danni ambientali sono a carico del soggetto responsabile delle
contaminazioni, qualora si individuato, esistente e solvibile”, ed
“Il
proprietario del sito contaminato è obbligato in via sussidiaria, previa
escussione del soggetto responsabile”.
- 153 -
Qui, apparentemente, manca addirittura ogni limite quantitativo
alla possibile responsabilità (sussidiaria) del proprietario incolpevole, di
cui, per di più, è affermata la vera e propria soggezione ad un obbligo.
Frutto probabilmente di un difetto di tecnica legislativa, tuttavia,
parrebbe indicativo di una scarsa sensibilità nei confronti del principio chi
inquina paga la regola per cui solo in caso di inquinatore “individuato”
(invece che individuabile), il proprietario incolpevole potrebbe non essere
coinvolto nei costi di bonifica.
In tale ipotesi, si configurerebbe una incostituzionalità della norma
per violazione del principio comunitario chi inquina paga, con il quale
peraltro sembra contrasti l’imposizione al proprietario gestore, del dovere
di farsi carico, anche economicamente delle c.d. “azioni di prevenzione”
(art. 245 comma 2 “il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il
superamento o il concreto e attuale superamento della soglia di
concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione
alla regione, alla provincia e al comune territorialmente competenti ed
attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’art.242).
Se è comprensibile che il proprietario possa, meglio degli altri,
curare quelle misure di contenimento che, subito dopo l’incidente
ambientale, possano dirsi necessarie, tuttavia, in un sistema rispettoso del
principio comunitario, tali costi dovrebbero ricadere sull’ente pubblico,
chiamato, poi, a trasferirli sull’inquinatore e non su un proprietario
- 154 -
incolpevole, in buona sostanza impossibilitato di trarre da essi particolari
vantaggi patrimoniali (e dei quali costi, comunque, solo nei limiti di questi
ultimi potrebbe essere chiamato a farsi carico).
In conclusione, alla luce di quanto sopra e dall’esame della
giurisprudenza emerge come il principio chi inquina paga, ove visto in
negativo,
possa essere (ed in effetti è) utilizzato per sindacare scelte
normative come amministrative, nella prospettiva di garantire chi non ha
inquinato da ingiustificate pretese delle pubbliche autorità.
10. La responsabilità per danno ambientale secondo la
pronuncia della Corte di Giustizia sulla 9 marzo 2010-n.378/10
Quanto fin qui rassegnato sulla responsabilità ambientale e sulla
imputazione e (dunque
individuazione) della stessa al soggetto
responsabile (colui che inquina) non poteva non concludersi con la recente
risoluzione giurisprudenziale resa dalla Corte di Giustizia Europea proprio
sulla corretta interpretazione del principio chi inquina paga.
In particolare secondo la sentenza della Corte di Giustizia “gli
operatori che hanno impianti limitrofi ad una zona inquinata possono
essere considerati presunti responsabili dell’inquinamento”.
La Corte si è pronunciata dopo essere stata investita dal giudice
- 155 -
amministrativo chiamato a decidere su alcuni ricorsi presentati da Erg,
Eni, Polimeri, Syndial contro alcuni provvedimenti che le obbligavano ad
adottare misure per la riparazione del danno ambientale nella zona di
Priolo, accollandosene gli oneri finanziari.
Nella sentenza la Corte Europea giunge alla conclusione che la
“direttiva sulla responsabilità ambientale non osta ad una normativa
nazionale che consente all’Autorità competente di presumere l’esistenza di
un nesso di causalità tra determinati operatori e un inquinamento
accertato, e ciò, in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona
inquinata”.
Ciò, tuttavia, con la precisazione che l’imputazione di responsabilità
debba comunque avvenire conformemente al principio chi inquina paga.
Inoltre, precisa il Giudice comunitario, l’obbligo di riparazione di
danno incombe agli operatori solo nella misura corrispondente al loro
contributo al verificarsi dell’inquinamento.
Peraltro, per poter presumere, secondo tali modalità, l’esistenza di
un siffatto nesso di causalità, l’autorità competente dovrebbe disporre di
indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la
vicinanza dell’impianto dell’operatore dell’inquinamento accertato e la
corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti
impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.
- 156 -
Ancora, sottolinea la Corte Ue che “l’autorità competente non è
tenuta a dimostrare l’esistenza di un illecito in capo agli operatori le cui
attività siano considerate all’origine del danno ambientale”.
In altri termini, le autorità nazionali possono subordinare il diritto
degli operatori ad utilizzare i loro terreni alla condizione che essi
realizzano i lavori di riparazione ambientali imposti anche, se, una tale
misura “deve essere giustificata allo scopo di impedire il peggioramento
della situazione ambientale”.
In effetti, la Corte ha precisato che una misura di questo tipo deve
essere giustificata dallo scopo di impedire il peggioramento della
situazione ambientale, ove dette misure sono poste in esecuzione, oppure,
in applicazione del principio di precauzione allo scopo di prevenire il
verificarsi o il ripetersi di altri danni ambientali nei detti terreni degli
operatori, limitrofi all’intero litorale oggetto di dette misure di riparazione.
L’invocazione del principio di precauzione, nel subordinare l’uso dei
terreni degli operatori interessati alla realizzazione, da parte di
quest’ultimi, di misure di riparazione aventi ad oggetto siti limitrofi a tali
terreni, apparirebbe necessario al fine di evitare che altre attività
industriali, che potrebbero aggravare i danni in questione o intralciare la
riparazione dei medesimi, vengano avviate attorno a detti siti il cui
risanamento si riveli necessario.
Tuttavia, come già rilevato, per poter presumere un siffatto nesso di
- 157 -
causalità l’Autorità pubblica deve disporre di indizi plausibili in grado di
dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto
dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le
sostanza inquinanti ritrovate ed i componenti impiegati da detto operatore
nell’esercizio della sua attività.
Con la decisione in commento, si è cercato di contemperare i due
principi fondamentali comunitari (il principio di precauzione ed il
principio chi inquina paga) così da consacrare in linea generale
la
responsabilità ambientale come responsabilità imputabile, derogando
essenzialmente, laddove la rigida applicazione della stessa possa mettere
in pericolo la stessa sicurezza dei siti.
Ma, ciò, sempre,
assicurando che la deroga alla responsabilità
soggettiva sia assistita da una serie di misure che, comunque, assicurino
una imputabilità delle responsabilità in capo ai soggetti chiamati ad
effettuare le misure di riparazione e precauzione.
Una breccia, dunque, all’impianto del sistema della responsabilità
per danno ambientale si ha solo ove tanto si imponga da ulteriori e
pressanti esigenze di tutela connesse al principio di precauzione,
connaturato al regime della tutela del bene ambiente, che prescrive un
controllo (e una difesa) prudenziale ed anticipata.
Con riferimento a quanto sopra è bene segnalare che, inoltre, per
quanto riguarda la normativa nazionale, mentre l’imposizione di misure di
- 158 -
riparazione
presuppone
comunque
sempre
l’imputabilità
dell’inquinamento all’operatore che sia richiesto di intervenire, ai sensi
dell’art. 253 del DLgs n.152/06 il legislatore ha optato per l’adozione di un
sistema con cui la limitazione d’uso del sito possa legittimamente essere
imposta anche al proprietario incolpevole.
Da segnalare inoltre che secondo alcuni recenti orientamenti
giurisprudenziali 125, in relazione ai destinatari dell’obbligo di effettuare la
messa in sicurezza dell’area, la legge avrebbe inteso distinguere, con
riferimento alle contaminazioni storiche, tra quelle che comportano il
rischio immediato dell’ambiente (o rischi di aggravamento), disciplinate
dall’art 242, comma 1, DLgs n.152/06, e quelle che non presentano tale
rischio, disciplinate dall’art 242, comma 11, DLgs n.152/06.
Per le prime il destinatario dell’obbligo è il responsabile
dell’inquinamento, mentre per le seconde sarebbe, più genericamente, il
soggetto interessato.
In realtà però va anche notato come la distinzione sia marginale,
poiché il comma 11 richiama a sua volta il comma 4 dell’art.242 ai fini della
procedura da adottare per la bonifica del sito, facendo riferimento
125 Cfr, TAR Puglia Lecce, se.I, n.260, 23 gennaio 2009, in www.giustiziaamministrativa.com
- 159 -
all’obbligo del soggetto responsabile di presentare alla regione i risultati
dell’analisi del rischio, nonché all’istruttoria svolta in contraddittorio
sempre con il soggetto responsabile.
Ciò, pertanto, ai fini dell’avvio della bonifica del sito conseguente
alla comunicazione, fa ritenere che essa competa comunque al
responsabile dell’inquinamento, come costantemente affermato dalla
giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, fermi gli effetti del privilegio
speciale e dell’onere reale di cui all’art.253 del DLgs n.152/06.
- 160 -
CAPITOLO III
IL RISARCIMENTO E LA QUANTIFICAZIONE DEL DANNO
AMBIENTALE
1. Il titolo III e le procedure per il risarcimento del danno
ambientale: presupposti ed alternative di azioni
Il titolo III si apre con l’indicazione di due distinte misure : il
“risarcimento del danno ambientale in forma specifica e se necessario,
per equivalente patrimoniale” .
Il Ministero può attivare le relative procedure di ingiunzione
dell’art. 312 D.Lgs n. 152/06 e ss. oppure seguire la strada già segnata
dall’art. 18 della L. n. 349/86 (peraltro formalmente abrogato),
esercitando l’azione civile risarcitoria in sede civile oppure in sede penale.
L’art. 315 stabilisce che se il Ministero sceglie la prima strada, non
potrà più proporre, né procedere ulteriormente nel giudizio per il
risarcimento del danno, salva la possibilità di intervento come persona
offesa nel reato.
In altri termini, una procedura giurisdizionale già avviata non
impedisce il successivo passaggio alla procedura
conseguenza, però, che
ingiunzionale con la
la procedura giurisdizionale a quel punto si
- 161 -
chiude; viceversa, l’avvio della procedura ingiunzionale impedisce il
successivo passaggio alla procedura giurisdizionale.
Un eventuale
parallelismo può rimanere solo per la partecipazione in qualità di persona
offesa nel procedimento penale. 126
I presupposti per dar corso ad ambedue le procedure risarcitorie
sono “tradizionali”, ovvero consistenti nel danno all’ambiente, nella forma
dell’alterazione, del deterioramento o della distruzione totale o parziale
dello stesso, dovuti a fatto illecito commissivo (“realizzando un fatto
illecito”) o omissivo (“omettendo attività o comportamenti doverosi”) o
colposo (colpa generica o specifica con violazione di legge, di
regolamento, provvedimento amministrativo con negligenza, imperizia,
imprudenza o violazione di norma tecniche”).
Tali espressioni riecheggiano l’art. 18 della L.n.349/86, anche se
mal si conciliano con la definizione sintetica di danno ambientale del
precedente art. 300 D.Lgs n.152/06.
In ogni caso, è da escludere che tali espressioni possano de plano
porre nel nulla l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale stratificatasi
sull’art. 18, con la conseguenza che semmai sarà messa in discussione la
seria utilizzabilità della definizione riduttiva dell’art. 300, anche se riferita
126
Cfr F. Giampietro, La responsabilità per danno all’ambiente, Giuffrè, 2006, pag. 162 e
ss
- 162 -
all’intera parte sesta del testo Unico, per regolare fatti ulteriori e diversi
dalla previsione della direttiva 2004/35/CE, ovvero fatti diversi dal danno
ad acque, terreno, specie ed habitat naturali rientranti nell’ampiezzasconfinatezza del danno ambientale del vecchio art. 18 della legge
n.349/86.
2. L’ordinanza di risarcimento.
L’art. 313 descrive il procedimento che porta all’ordinanzaingiunzione di risarcimento del danno ambientale, e, posto che l’intera
istruttoria scorre nel rispetto delle norme sulla trasparenza del
procedimento amministrativo, in essa possono essere coinvolte le autorità
di polizia giudiziaria, per l’accertamento dei fatti, l’individuazione dei
trasgressori, l’attuazione delle misure a tutela dell’ambiente ed il
risarcimento, sotto il coordinamento del Prefetto su delega ministeriale,
mentre, per gli aspetti più tecnici dell’accertamento del nesso causale e
per la quantificazione del danno, il Ministero può ricorrere alla consulenza
tecnica in contraddittorio con gli interessati.
Svolte le indagini ed individuati i responsabili, quindi, e sempre che
il responsabile non abbia già avviato le procedure di bonifica da
contaminazione (parte quarta, titolo V del codice) o le procedure di
ripristino del titolo II della stessa parte del codice, il Ministro emette
apposita ordinanza immediatamente esecutiva per ingiungere il ripristino
- 163 -
a titolo di risarcimento entro un determinato termine.
Destinatari0 dell’ordinanza è il responsabile del fatto dannoso
(ovviamente responsabile per colpa o dolo ai sensi dell’art. 311 comma 2,
nonché in solido).
Nel caso di inadempimento dell’ordine di ripristino, adempimento
parzialmente o totalmente impossibile o eccessivamente oneroso ai sensi
dell’art. 2058 del c.c., il Ministro emette una seconda ordinanza, destinata
ad ottenere il risarcimento per equivalente pecuniario, ovvero
pagamento entro 60 giorni di una somma di denaro pari
il
al valore
economico del danno accertato o residuato.
I tempi della procedura sembrano chiari: l’ordinanza con la quale si
ingiunge il ripristino, deve intervenire entro 180 gg dalla comunicazione
agli interessati dell’avvio dell’istruttoria e, comunque, entro un termine di
decadenza di due anni dalla notizia del fatto.
Se, peraltro, il responsabile sta eseguendo il ripristino, a sua cura e
spese, i termini per l’ordinanza decorrono da quando il Ministero con
proprio atto di accertamento, verifica una ingiustificata sospensione dei
lavori di ripristino o la loro conclusione insufficiente ed incompleta ai fini
della riparazione del danno.
E’ da tener presente, peraltro, che se il responsabile risarcisce il
danno ambientale (in forma specifica o per equivalente patrimoniale), non
- 164 -
potrà più subire aggravi di costi derivanti da azioni concorrenti di autorità
diverse dal Ministero (regioni, Enti territoriali, ed altri); solo i soggetti che
abbiano subito un danno a salute o beni di proprietà causato dallo stesso
fatto che ha determinato il danno ambientale potranno agire in giudizio a
propria difesa a tutela contro il responsabile che abbia già risarcito il
danno ambientale.
3. Il risarcimento del danno ambientale in forma specifica o
per equivalente.
Le regole che la legge n.349/86 dedicava alla riparazione del danno
ambientale, come già rilevato, erano contenute nei commi 6 e 8 dell’art.
18, nei quali rispettivamente si prevedeva che: “il giudice, ove non sia
possibile una precisa quantificazione del danno, in via equitativa, tenendo
comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario
per il ripristino e del profitto conseguito del trasgressore in conseguenza
del suo comportamento lesivo dei beni ambientali”, e inoltre, “il giudice
nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato
dei luoghi a spese del responsabile”.
L’art. 18 richiamava, quindi, entrambi i sistemi di risarcimento
previsti dal diritto civile: quello in forma specifica e quello per
- 165 -
equivalente127.
Il primo riguarda evidentemente il danno materiale, misurabile in
denaro per via dell’aestimatio rei, l’altro riguarda il danno patrimoniale al
calcolo del quale si procede con il metodo del quanti interest.128.
In proposito la giurisprudenza di merito 129 , ha efficacemente
sintetizzato la problematica affermando che la condanna al ripristino dei
luoghi a spese del responsabile, nel quadro dell’art. 18, assumeva posizione
dominante tra le forme risarcitorie, in virtù di deroga al disposto di cui al
2°comma dell’art.2058 c.c., e costituiva, la misura privilegiata da adottare,
sol che fosse possibile, a preferenza della condanna al risarcimento
pecuniario, in quanto essa appariva idonea a sopprimere la fonte della
sequela dei danni che possono scaturire dalla condotta dell’agente.
Il comma 8 costituiva, pertanto, una deroga rispetto alla disciplina
fissata dall’art.2058 c.c. sotto un duplice profilo: da un lato privilegiava, a
differenza di quanto fissato dal sistema codicistico, il risarcimento in
natura rispetto a quello per equivalente, dall’altro, omettendo il comma 2
dell’art.2058 c.c., non subordinava quest’ultimo alla richiesta della parte
interessata e all’accertamento sulla non “eccessiva onerosità”
127
Cfr. P. Maddalena, Danno Ambientale, Rimini, 1990,p-196
128
Cfr. C. Salvi, Il danno extracontrattuale, Napoli, 1995, pp. 35 e ss.
129
Cfr. Corte Cassazione Civile, sez..un.,n.440, 25 gennaio 1998 in www.diritto.it
- 166 -
per il
danneggiante.
Una volta accertata l’impossibilità (e non l’eccessiva onerosità) di
disporre una nuova restitutio in integrum, il giudice in base all’art.18
comma 6 aveva davanti a sé due possibili strade: doveva condannare al
risarcimento del danno sulla base del suo preciso ammontare (se
quantificabile), ovvero determinare in via equitativa l’ammontare del
danno, non calcolabile in termini certi, con la precisazione che il giudice
doveva “tenere comunque conto della gravità della colpa, del costo
necessario per il ripristino ed il profitto conseguito dal trasgressore in
conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali”
I criteri di determinazione del danno cambiano invece radicalmente
nel nuovo regime introdotto dal Dlgs n.152/06.
Difatti, il citato Dlgs, recependo in pieno quanto disposto dalla
direttiva 2004/35/CE attribuisce al ripristino ambientale, questa volta in
maniera esplicita, un ruolo prioritario.
Sono però diversi, rispetto alla disciplina precedente, i presupposti
in base ai quali l’amministrazione o il giudice possono dar luogo
all’applicazione della predetta misura. Il secondo comma dell’art.313 D.lgs
n.152/06, prevede, infatti che si dia luogo al risarcimento per equivalente
pecuniario, qualora il “ripristino risulti in tutto o in parte impossibile,
oppure eccessivamente oneroso ai sensi dell’art.2058 c.c.”.
- 167 -
Il richiamo all’eccessiva onerosità del ripristino è così delineata nei
casi in cui la reintegrazione risulti eccessivamente onerosa per il debitore,
onerosità che deve essere valutata di volta in volta in base al caso concreto.
L’ambito del risarcimento in forma specifica, seppur prioritario,
resta, comunque, assai più ristretto di quello delineato in precedenza
dall’art.18 della legge n. 349/86, in quanto restano escluse dal
risarcimento in forma specifica tanto le ipotesi di ripristino materialmente
e tecnicamente impossibili, quanto quelle in cui lo stesso risulta
eccessivamente oneroso per il debitore.
L’amministrazione non potrà quindi esigere il ripristino non solo
qualora accerti che la condotta illecita abbia provocato effetti irreparabili,
ma neanche quando essa (o il giudice) valuti che detto ripristino, pur
essendo “tecnicamente” possibile, comporti un costo eccessivo per il
responsabile.
In entrambe queste ipotesi il danno ambientale può e deve essere
risarcito soltanto attraverso il pagamento per equivalente monetario.
3.1 Il risarcimento del danno ambientale alla luce dell’art.5 bis
del DL n. 135/09
La disciplina introdotta dal Dlgs n.152/06 è stata, poi, di recente,
ulteriormente modificata dall’art. 5 bis del DL n.135/09 inserita
- 168 -
direttamente dalla legge di conversione, che apporta rilevanti modifiche ai
criteri di quantificazione del danno all’ambiente contenuti nella parte sesta
del D.Lgs n.152/06.
L’articolo in commento scaturisce da un’ennesima procedura di
infrazione (n.2007/4679) nei confronti dell’Italia, a mezzo della quale la
Commissione Europea ha ravvisato in alcune norme del DLgs n.152/06
profili di incompatibilità rispetto alla disciplina comunitaria introdotta
dalla Direttiva n.2004/35/Ce.
Le novità introdotte dall’art. 5 bis sono, in sintesi, le seguenti:
a) viene modificato l’art.311, comma 2 del D.Lgs n.152/06. In
particolare l’obbligo - previsto nel testo previgente- di ripristinare la
situazione precedente, ovvero di corrispondere un risarcimento per
equivalente patrimoniale viene sostituito da una previsione più analitica,
in base alla quale il responsabile del danno dovrà procedere, secondo
l’ordine di priorità stabilito dalla norma, all’effettivo ripristino della
precedente situazione, ovvero all’adozione di misure di riparazione
complementare e compensativa, ovvero al risarcimento per equivalente
patrimoniale nei confronti dello Stato;
b) viene modificato l’art. 311 comma 3. In particolare si prevede che
i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente e dei casi di
eccessiva onerosità siano stabiliti con futuro decreto del Ministero
dell’Ambiente;
- 169 -
c) i nuovi criteri dell’obbligazione risarcitoria del danno ambientale
stabiliti dall’art.311 commi 2 e 3 si applicano anche alle domande già
proposte ovvero da proporre ai sensi dell’art.18 della legge n.349/86,
ovvero, “ai sensi del titolo IX del libro IV del codice civile o ai sensi delle
altre disposizioni non aventi natura speciale”, fatta esclusione per “le
pronunce passate in giudicato”;
d) alle vecchie e nuove domande di risarcimento del danno
ambientale si applica il divieto imposto dall’art.315 del DLgs n.152/06 (il
Ministero dell’Ambiente qualora adotti ordinanza per la quantificazione
del danno di cui all’art.313 non può proporre contemporaneamente
giudizio per il risarcimento del danno ambientale).
3.2 L’obbligo di adottare misure di riparazione complementare
e compensativa.
In relazione alla quantificazione del danno ambientale, l’art.311,
comma 2, del DLgs n.152/06- così come riformulato dall’art.5 bis del DL
135/09- prevede oggi che il responsabile del danno ambientale sia tenuto:
“all’effettivo ripristino a sue spese della precedente situazione e, in
mancanza, all’adozione di misure di riparazione complementare e
compensativa di cui alla direttiva n. 2004/35/ce, secondo le modalità
prescritte dall’allegato II alla medesima direttiva da effettuare entro il
- 170 -
termine congruo di cui all’art 314 comma 2 del presente decreto. Quando
l’effettivo ripristino o l’adozione di misure di riparazione complementare o
compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o
eccessivamente onerosi ai sensi dell’art.2058 del c.c. o comunque attuati in
modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, il danneggiante è
obbligato in via sostitutiva al risarcimento per equivalente patrimoniale
nei confronti dello Stato, determinato conformemente al comma 3 del
presente articolo per finanziare gli interventi di cui all’art.317 comma 5”.
Nella versione previgente, l’art.311, comma 2, stabiliva che il
responsabile del danno ambientale fosse obbligato “al ripristino della
precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente
patrimoniale nei confronti dello Stato”.
Il primo quesito che si pone in sede i interpretazione della
normativa all’interprete riguarda la reale portata della novità legislativa
introdotta dall’art. 5 bis in tema di quantificazione di danno all’ambiente.
Invero,
la distinzione tra forme di riparazione primaria,
complementare e compensativa era già posta dall’allegato 3 alla parte sesta
del DLgs n.152/06 (allegato, che a sua volta, riprendeva le analoghe
disposizioni dell’allegato II della direttiva 2004/35/ce), ma, tuttavia, tale
distinzione non ha visto grande attuazione, né alla stessa è stata attribuita
dagli operatori del diritto la dovuta applicazione.
L’allegato 3 detta una disciplina a dir poco minuziosa delle varie
- 171 -
forme di ripristino ambientale ammesse e dei criteri di scelta tra le varie
opzioni di ripristino ambientale130 .
In
effetti
nella
procedura
di
infrazione
n.2007/4679
la
Commissione Europea non ha censurato il legislatore italiano per una
inesatta
trasposizione
degli
istituti
della
riparazione
primaria,
complementare e compensativa.
Ciò che la Commissione ha contestato al legislatore italiano è stato il
fatto che le varie disposizioni del DLgs n.152/06 consentono che le misure
di riparazione possano essere sostituite da risarcimenti per equivalente
pecuniario .
Oltre che nel sopra richiamato art.311 comma 2 del DLgs n.152/06,
tale impostazione da parte del legislatore italiano si ritrova, tra l’altro,
nell’art. 313, paragrafo 2, il quale prevede che “qualora il ripristino risulti
130
In particolare secondo l’allegato 3 si intende:
-
Per riparazione primaria:
“qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse danneggiate alle o verso le
condizioni originarie”
-
Per riparazione complementare:
“qualsiasi misura o riparazione intrapresa in relazione a risorse naturali per compensare
il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati”
-
Per riparazione compensativa:
“qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi
naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non
abbia prodotto un effetto completo”
- 172 -
in tutto o in parte impossibile, il Ministro dell’Ambiente e della tutela del
territorio, con successiva ordinanza ingiunge il pagamento, entro il
termine di 60 gg dalla notifica, di una somma pari al valore economico
del danno accertato o residuato, a titolo di risarcimento per equivalente
pecuniario”.
La Commissione ha altresì sottolineato che le modalità di calcolo
del danno per equivalente patrimoniale di cui all’art.314, comma 3,
prevedono la possibilità che il danno sia calcolato proporzionalmente alla
somma corrispondente alla sanzione amministrativa, o penale, applicata,
ovvero al numero di giorni di pena detentiva erogati.
Tale approccio consente, dunque, che il pagamento risulti
effettivamente svincolato dall’entità del danno ambientale arrecato,
contrariamente al principio “chi inquina paga” esplicitamente richiamato
nell’art.
1
della
direttiva
e
all’obiettivo
espresso
nel
secondo
“considerando” della direttiva, ovvero che la responsabilità finanziaria per
gli operatori la cui attività ha causato un danno ambientale sia tale da
indurli ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo
i rischi di danno ambientale.
Infine, sempre in base al “richiamo” effettuato, il DLgs n.152/06
consente che le misure di riparazione possano essere sostituite da
risarcimento per equivalente patrimoniale anche laddove la sola
riparazione primaria non è possibile. Ai sensi di tale articolo, il
- 173 -
responsabile del danno ambientale è infatti obbligato al ripristino della
precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente
patrimoniale.
Manca, dunque, nella normativa italiana l’obbligo, laddove il
ripristino della precedente situazione (riparazione primaria) non sia
possibile, di individuare adeguate misure di riparazione complementare e
compensativa, così come richiesto ai sensi dell’art.7 in combinato disposto
con l’allegato II della direttiva.
I profili di censura evidenziati nei confronti del legislatore
ambientale italiano dalla Commissione Europea sono puntuali.
Il pensiero della Commissione può essere sintetizzato in maniera
chiara: il legislatore italiano avrebbe tradito la Direttiva n.2004/35/Ce nel
momento in cui ha previsto una prevalenza del risarcimento ambientale in
forma monetaria, rispetto alle forme di ripristino in forma specifica (sotto
forma
di
riparazione
primaria,
complementare
e
compensativa)
individuati e disciplinati a livello comunitario.
In effetti la semplice lettura delle norme della parte sesta del D.Lgs
n.152/06 conferma che gli istituti della riparazione complementare e
compensativa – quali forme alternative alla riparazione primariaassumevano un rilievo marginale.
Il riferimento esplicito all’allegato 3 della parte sesta del D.Lgs
- 174 -
n.152/06 compare difatti soltanto nell’art.306 (laddove si afferma che gli
operatori individuano possibili misure per il ripristino ambientale che
risultino all’allegato 3 e presentano per l’approvazione al Ministero
dell’Ambiente) e nell’art.311, comma 3, (secondo cui alla quantificazione
del danno il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio provvede
in applicazione dei criteri enunciati negli allegati 3 e 4).
Mancava però un esplicito collegamento tra gli istituti della
riparazione complementare e compensativa, e l’art.311, comma 2, come già
sottolineato, si limitava nella sua formulazione precedente a obbligare il
responsabile al ripristino ovvero, in mancanza, al risarcimento per
equivalente.
Ha avuto quindi buon gioco la Commissione nell’affermare, sempre
nella procedura di infrazione citata, che “nel determinare le misure di
riparazione complementare e compensativa, l’allegato II, punto 1.2.2 della
direttiva
stabilisce
che
si
debbano
prendere
in
considerazione
prioritariamente i metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizioservizio.
Ai sensi dell’allegato II, punto 1.2.3 metodi alternativi di
valutazione (tra cui la valutazione monetaria) sono consentiti solo laddove
non sia possibile utilizzare metodi di equivalenza suddetti.
Occorre osservare che benché la direttiva preveda in taluni casi
l’utilizzo di tecniche di valutazione monetaria, queste sono da utilizzarsi
- 175 -
allo scopo di determinare la portata delle misure di riparazione
complementare e compensativa e non allo scopo di sostituire tali misure (
o le misure di riparazione primaria) con risarcimenti pecuniari .
In conclusione, anche nella precedente versione dell’art. 311,
comma 2, nulla impediva di interpretare il concetto di riparazione in forma
specifica con riferimento alla gerarchia esplicita di misure di ripristino
(primaria, complementare e compensativa) stabilita a livello comunitario,
ma ciò non accadeva nella applicazione pratica così vanificandone lo stesso
significato precettivo.
La riformulazione della norma rende, ora, esplicita una soluzione
ermeneutica che, nella sostanza, appariva già obbligata alla luce di una
lettura complessiva della parte sesta del D.Lgs. n.152/06 e della Direttiva
2004/35/Ce.
3.3 Le ipotesi di risarcimento in forma monetaria.
La seconda parte del nuovo art. 311, comma 2, afferma il principio
per cui il risarcimento in forma monetaria è comunque necessario, qualora
il ripristino inteso anche come adozione di misure di riparazione
complementare
e
compensativa
risulti
omesso,
impossibile
o
eccessivamente oneroso ovvero attuato in modo incompleto o difforme
rispetto a quanto prescritto.
- 176 -
L’obbligo del risarcimento per equivalente nel caso di impossibilità
o eccessiva onerosità del ripristino costituiva un principio già affermato
dall’art.313, comma 2, del D.L.gs n.152/06.
E’ peraltro evidente che si può dubitare, anche dopo le modifiche
apportare dall’art.5 bis, della piena conformità della seconda parte del
comma 2 dell’art.311 ai principi comunitari.
Se difatti è vero che la Direttiva n.2004/35/ce non prevede una
forma autonoma di risarcimento per equivalente destinato a soppiantare la
riparazione primaria dell’ambiente, anche la previsione dell’ammissibilità
per risarcimento per equivalente, nei casi di impossibile o eccessivamente
oneroso ripristino in forma specifica, dà adito a dubbi di legittimità.
Sorge, infatti, il dubbio se, rispetto all’istituto della riparazione
complementare ovvero della riparazione compensativa, sia davvero
concepibile una impossibilità concreta di attuazione ovvero un’eccessiva
onerosità.
3.4 Il decreto sui criteri di quantificazione
L’art. 5 bis del DL n. 135/0 ha aggiunto all’art.311, comma 3 del
D.Lgs n.152/06 il seguente periodo: “con decreto del Ministero
dell’Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare, da emanare entro 60
giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi
- 177 -
dell’art.17comma 3 della legge n.400/88 sono definiti in conformità
all’allegato alla Direttiva 2004/35/Ce, i criteri di determinazione del
risarcimento per equivalente e dell’eccessiva onerosità, avendo riguardo
anche la valore monetario stimato dalle risorse naturali e dai servizi
perduti e ai parametri utilizzati in casi simili ed in materie analoghe per la
liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in
sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e
comunitario” 131.
Anche
in
questo
caso,
suscitano
perplessità
determinazione del risarcimento per equivalente
i
criteri
di
e dell’eccessiva
onerosità, che il decreto del Ministero dell’Ambiente è chiamato a definire.
Tali criteri, secondo quanto ora previsto dall’art. 311 comma 3, sono
individuati “avendo riguardo anche al valore monetario stimato delle
risorse e dei servizi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili o materie
analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno
ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito
nazionale e comunitario”.
Al riguardo appare insolita l’utilizzazione, come principio direttivo,
131
Non si tratta di una novità, già l’art.299, comma 5 del DLgs n.152/06, prevedeva
l’adozione di un decreto ministeriale (mai emanato) per stabilire “i criteri per le
attività istruttorie volte all’accertamento del danno ambientale e per la riscossione
della somma dovuta per equivalente patrimoniale”
- 178 -
del riferimento alle sentenza passate in giudicato nazionali o comunitarie
in tema di danno ambientale per equivalente: questa tipologia di sentenze
– in particolar modo quelle nazionali 132 -oltre ad essere estremamente
rara, appare assolutamente eterogenea e quindi di difficile aiuto nella
definizione di un criterio unitario per la determinazione del quantum del
danno ambientale.
3.5 La disapplicazione dell’art.18 della legge 349/86
L’art. 5 bis del DL n. 135/09 ha aggiunto all’art.303, comma 1, lett.
f) il seguente periodo “i criteri di determinazione dell’obbligazione
risarcitoria stabiliti dall’art.311, commi 2 e 3 , si applicano anche alle
domande di risarcimento proposte o da proporre ai sensi dell’art. 18 legge
.n.349/86, in luogo delle previsioni dei commi 6,7 e 8 del citato articolo 18,
o ai sensi del titolo IX del codice civile o ai sensi delle disposizioni non
aventi natura speciale con esclusione delle pronunce passate in giudicato
132
Ancor oggi per le rare sentenze che hanno stabilito in concreto la liquidazione del
danno ambientale, si è costretti a far cenno alla decisione della pretura di Rho (in un
caso di inquinamento d’acqua, ha utilizzato i criteri di cui all’art.18 l.n.349/86
limitandosi a liquidare 500.000.000); o ancora la sentenza della Corte di appello di
Messina del 30 marzo 1898 – “caso Patmos”- in cui in un caso di inquinamento del
mare per fuoriuscita di greggio il giudice ha quantificato il danno all’ambiente sulla
base del prezzo di mercato delle risorse ittiche danneggiate; infine la clamorosa
sentenza del Giudice di Torino (che si avrà modo di commentare nel prosieguo del
presente lavoro) che ha condannato la Syndial ad un risarcimento di circa Euro
1.800.000.000., che tuttavia appare evidente che resterà un unicum giuridico, tale da
non consentire alcun tipo di confronto di applicazione analogica.
- 179 -
per le quali trova applicazione la previsione dell’art.315 del presente
decreto”.
In sostanza, l’art. 5 bis, ha completamente cristallizzato i criteri di
determinazione del danno dell’art. 18 della legge n.349/86, che come già
sottolineato – hanno dato luogo- nei pochi casi in cui gli stessi hanno
trovato applicazione giudiziaria- a non pochi problemi di interpretazione,
per la loro intrinseca contraddittorietà e per il carattere latamente punitivo
che la norma dell’art. 18 sembrava riconoscere al danno ambientale in
quanto tale.
Degna di nota è la previsione per cui i nuovi criteri di
determinazione si applicano non solo alle domande giudiziali future ma
anche a quelle già proposte ed oggetto anche di sentenza purchè non
passata in giudicato.
La disapplicazione dell’art.18 si applica alle domande giudiziali
proposte ai sensi dell’art.18 legge n.349/86, ovvero ai sensi delle norme
previste dal codice civile in tema di responsabilità (il riferimento implicito
ma chiaro è all’art.2043 c.c. nonché alle norme che stabiliscono
presunzioni di responsabilità per l’esercizio di attività pericolose e per il
danno da cose di custodia art.2050 e 2052 c.c.).
Meno chiaro appare il riferimento alle domande di risarcimento
proposte (o da proporre) ai sensi delle altre disposizioni non aventi natura
speciale. Le uniche sembrano costituite dall’art.58 del DLgs n.152/99 e dai
- 180 -
commi 439-443 della legge n.266 del 2005 (peraltro abrogate dal DLgs
n.152/06).
3.6 La quantificazione presuntiva del danno in caso di illecito
penale o amministrativo
L’art.314 del DLgs n.152/06, comma 3, applicabile nei casi in cui
l’illecito civile per danno all’ambiente sia contestualmente qualificabile
come illecito amministrativo o penale, prevede che ove non sia
“motivatamente possibile” l’esatta quantificazione del danno non
risarcibile in forma specifica, o di parte di esso, il danno per equivalente
patrimoniale si presume, fino a prova contraria, di ammontare non
inferiore al triplo della somma corrispondente alla sanzione pecuniaria
amministrativa, oppure alla sanzione penale, in concreto applicata.
Se sia stata erogata una pena detentiva, al fine della quantificazione
del danno, il ragguaglio tra la stessa e la somma da addebitare a titolo di
risarcimento del danno ha luogo calcolando quattrocento euro per ciascun
giorno di pena detentiva.
In caso di sentenza di condanna in sede penale o di emanazione del
provvedimento di cui all’art.444 c.p.p., la cancelleria del giudice che ha
- 181 -
emanato la sentenza o il provvedimento trasmette copia degli stessi al
Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio entro cinque giorni
dalla loro pubblicazione.
Le regioni, le Province autonome e gli altri Enti Territoriali, al fine
del risarcimento del danno ambientale, comunicano al Ministero le
sanzioni amministrative entro 10 giorni dell’avvenuta irrogazione.
E’ stato notato come tale norma manifesti una scelta legislativa che
appare collocarsi sul versante opposto a quello della responsabilità per
danno da valutare sotto il profilo economico, in quanto si provi che esso
rappresenta un “deterioramento significativo e misurabile” della risorsa
naturale o di una sua utilità.
Si tratterebbe infatti, in concreto, di una “scorciatoia”, che a
seconda delle sue future applicazioni, rischia di “eludere” l’approccio
comunitario recepito nelle iniziali disposizioni della Parte VI del decreto
legislativo 152.
3.7. Il risarcimento del danno come fattispecie premiale
Il ripristino ambientale costituisce una fattispecie premiale, diretta
ad operare sulle sanzioni penali previste dal D.L.gs n.152/06 incentivando
il trasgressore ad adottare le necessarie azioni di bonifica al fine di
avvalersi dei benefici di legge previsti.
- 182 -
L’art.139 del DLgs n.152/99, pone così in correlazione l’obbligo di
bonifica e di risarcimento del danno con la possibilità di avvalersi del
beneficio della sospensione condizionale della pena per i reati previsti per
la violazione delle norme in materia di tutela delle acque all’art.137 del
D.Lgs n.152/06, tra i quali riveste particolare importanza pratica il reato di
superamento dei valori limiti tabellari.
L’art. 139 prevede infatti che “con la sentenza di condanna per i
reati previsti nella parte III del presente decreto, o con la sentenza di
condanna ex art. 444 cpp, il benefico della sospensione condizionale della
pena può essere subordinato al risarcimento del danno e all’esecuzione
degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino”
La norma dell’art.139 DLgs n. 152 riflette, peraltro, quanto era già
previsto dall’art. 51 bis del D.Lgs n.22/97 per la mancata esecuzione degli
obblighi di bonifica, il quale prevede, all’ultimo periodo che
“con la
sentenza di condanna per la contravvenzione di cui al presente comma, o
con la decisione emessa ai sensi dell’art.444 cpcp., il beneficio della
sospensione condizionale della pena può essere subordinato all’esecuzione
degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale”,
norma ora trasfusa nella analoga sanzione di cui all’art.257del DLgs
n.152/06.
Una previsione analoga è contenuta nel comma 3 dell’art.256 del
DLgs n.152/06 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata) e al comma 2
- 183 -
dell’art.259 (traffico illecito di rifiuti).
Va altresì ricordato che già ai sensi dell’art.165 del codice penale la
sospensione
condizionale
della
pena
può
essere
subordinata
all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni, al pagamento della somma
liquidata a titolo di risarcimento del danno o provvisoriamente assegnata
sull’ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di
riparazione del danno e, può essere altresì subordinata, salvo che la legge
disponga altrimenti, all’eliminazione delle conseguenze dannose o
pericolose del reato, secondo le modalità indicate dal giudice nella
sentenza di condanna.
Tale previsione potrà essere applicabile per impartire ulteriori
prescrizioni
dirette
all’eliminazioni
delle
conseguenze
dannose
o
pericolose dell’illecito, eventualmente non rimuovibili tramite la sola
bonifica
e/o
il
risarcimento
del
danno
ulteriore
quantificabile
forfettariamente.
Peraltro,
a
differenza
di
quanto
specificatamente
previsto
dall’art.13, il giudice non può subordinare la sospensione della pena
all’esecuzione di tali obblighi in sede di patteggiamento ex art 444 cpp, in
quanto la giurisprudenza 133ha ritenuto illegittima la sentenza emessa a
133
Cfr
Corte
Cassazione
Penale,
sez.VI,
amministrativa.com
- 184 -
n.2840,
12.01.99,
in
www.giustizia-
seguito di patteggiamento che subordini il beneficio della sospensione
condizionale della pena, su cui le parti hanno concordato, all’adempimento
di obblighi civilistici da parte dell’imputato, poiché il giudice in tale rito è
stretto nell’alternativa tra il conformare integralmente la decisione agli
esatti termini del patto e il respingerlo, procedendo a rito ordinario.
3.8 Il risarcimento del danno come circostanza attenuante.
Un ulteriore stimolo all’esecuzione degli obblighi risarcitori
conseguenti al danno arrecato con l’inosservanza delle prescrizioni del
decreto è stato posto dal legislatore con la circostanza attenuante
dell’art.140 D.Lgs n.152/06, applicabile ai reati in violazione di norme
sulla tutela delle acque, in base al quale “nei confronti di chi, prima del
giudizio penale o dell’ordinanza ingiunzione, ha riparato interamente il
danno, le sanzioni penali, amministrative previste dal presente titolo sono
diminuite dalla metà a due terzi”.
Trattasi di un’attenuante speciale rispetto a quella prevista
dall’art.62, comma 6 del codice penale, che prevede l’operatività della
stessa qualora prima del giudizio si sia riparato interamente il danno
mediante il risarcimento (…) .
A differenza dell’attenuante comune ex art. 62 cod.pen., che
- 185 -
consente una riduzione della pena in misura non eccedente un terzo,
l’attenuante speciale del DLgs n.152/06, comporta una più marcata
riduzione che può arrivare fino a due terzi della pena.
L’attenuante, inoltre, in modo del tutto innovativo, è applicabile
anche ai semplici illeciti amministrativi.
Va sottolineato come l’attenuante, per poter operare preveda
l’obbligo di riparare interamente il danno entro termini tassativi ben
precisi, e cioè :1) per il caso di reati, prima del giudizio penale (e cioè al più
tardi all’apertura del dibattimento); 2) per il caso di illeciti amministrativi,
prima dell’ordinanza ingiunzione con cui l’autorità competente determina
la somma dovuta per la violazione e ne ingiunge il pagamento, ai sensi
dell’art. 18 della legge n.689/8.
Un eventuale intervento successivo a tali momenti, per quanto
efficace, non permetterà, al contrario, la possibilità di avvalersi della
circostanza attenuante speciale.
4.La prova del danno ambientale
Pur nella diversità di prospettiva, tra la responsabilità ex art.2043
c.c e quella ex art 2050 e 2051 c.c, occorre distinguere tra la prova (e la
relativa allegazione) del verificarsi del fatto generatore del danno
ambientale e della relativa imputazione e le conseguenze che ne derivano.
- 186 -
Sotto questo profilo, la qualificazione del danno ambientale quale
danno-evento e di quelli individuali come danni-conseguenze sembra
comportare una certa differenziazione.
In diversi casi si è infatti ritenuto che una volta accertata la
compromissione dell’ambiente in conseguenza del fatto illecito altrui, la
prova del danno patito dalla PA deve ritenersi in re ipsa134 e che, quindi,
la prova del danno ambientale può essere anche fornita tramite
presunzioni, specialmente quando risulti che i rifiuti pericolosi siano
venuti in contatto con il suolo, con l’aria o con eventuali piogge o neve,
essendo noto che in tali evenienze essi interagiscono con le componenti
ambientali per il solo fatto di essere accomunati in un luogo senza
precauzioni
135 ,
ovvero, in caso di accertata violazione di norme anti
inquinamento, penalmente sanzionate, senza che (ai fini della condanna
generica in sede di statuizioni civili in sede penale), il titolare del diritto al
risarcimento debba fornire la prova dell’an debeatur, bastando che il fatto
illecito accertato sia potenzialmente idoneo a produrre danno.136
134
Cfr Cass.Civ, sez.III, 10 ottobre 2008, n. 25010 in www.diritti&diritti
135
Cfr Cass pen, sez.III, n.4261,8 febbraio 1991 in www.diritti&diritti
136
Cfr Cass pen, sez.III, n.6190, 31 marzo 1994 in www.diritti&diritti, in una fattispecie
relativa alla violazione dell’art.21 della legge n.310/76, recante norme per la tutela
delle acque e dell’inquinamento, consistita nello sversamento , nelle acque del torrente
Bormida, di reflui di lavorazioni contenenti valori di PH superiori al consentito.
- 187 -
Non mancano, peraltro, decisioni che negano autosufficienza
all’allegazione del semplice dato obiettivo dell’evento generatore del danno
ambientale, e che richiedono che questo sia specificatamente allegato e
provato tramite prove documentali, testimoniali senza che le stesse
possano essere surrogate da una CTU, la quale non può mai essere
ammessa ed espletata per sopperire all’inerzia probatoria della parte e
soprattutto non può avere finalità semplicemente esplorative, volte cioè a
ricercare, in luogo della parte onerata, gli elementi fattuali da porre a
sostegno delle pretese fatte valere nella causa.
Né si obietti che il danno ambientale sia rilevabile solo con il ricorso
a
determinate
cognizioni
tecniche,
sicchè,
versando
la
parte
nell’impossibilità di provarlo in altro modo, non possa il giudice, senza
contraddirsi, respingere l’istanza di consulenza e nello stesso tempo
ritenere non provato ciò che proprio essa avrebbe dovuto dimostrare. 137
Tale impostazione sembra preferibile, anche in considerazione del
TU , in quanto, come evidenziato da parte della dottrina, se in linea di
principio fatti evidenti di inquinamento ambientale devono far presumere
la sussistenza di un danno, occorre però, tenere presente da un lato la
definizione dell’art.300, che àncora il danno stesso alla sussistenza di ben
137
Cfr Cass. Civ. sez.III, n.1087, 3 febbraio 2008 in www.diritti&diritti
- 188 -
precisi presupposti ed effetti, e, dall’altro, alla previsione di obblighi di
comunicazione da parte dell’operatore e di intervento e di istruttoria da
parte del Ministro, sì che, nel complesso, è da prevedere la riduzioni di
spazi per ricostruzioni meramente presuntive, non ancorate alla verifica in
concreto. 138
5.
Il
risarcimento
del
danno
ambientale
nella
scienze
economiche.
L’innegabile importanza dell’ambiente in relazione ai meccanismi
della produzione ha indotto la scienza economica, almeno negli ultimi
decenni, a sforzarsi di definirne il ruolo nell’ambito del mercato.
L’economia ambientale è appunto la disciplina che studia i
problemi dell’ambiente dal punto di vista dell’analisi economica, allo scopo
di individuare gli strumenti di politica ambientale più idonei ad attuare
una distribuzione ottimale, tra usi alternativi, delle risorse naturali la cui
destinazione non viene regolata attraverso i meccanismi di mercato.
Il solo meccanismo del mercato non garantisce una gestione
efficiente delle risorse ambientali, poiché il mercato tende ad assegnare
alla risorsa un prezzo comunque inferiore al suo valore sociale.
138
Cfr Fimiani, Le nuove norme del danno ambientale, in Ambiente e diritto , n. 9/10
- 189 -
Il valore di un danno ambientale è determinato dalla perdita, non
compensata, di benessere da parte di una collettività: la misura del danno
è, dunque, il parametro dei costi subiti e/o dei benefici perduti.139
Il suggerimento avanzato dalla teoria economica dell’ambiente, per
ovviare alla situazione di fallimento del mercato, consiste in interventi
correttivi del settore pubblico mirati ad introdurre meccanismi (economici
e/o di controllo sociale e politico) che orientino diversamente lo sviluppo:
siccome ogni azione umana ha un impatto sull’ambiente, si tratta allora di
valutare se tali impatti (che comportano costi ambientali) siano giustificati
alla luce dei benefici che si possono ottenere.
Ogni regola di politica economica ambientale dovrà allora sforzarsi
di calcolare un “giusto prezzo sociale” per l’uso ottimale delle varie risorse
dell’ambiente, anche se
il calcolo di questo prezzo richiede la
considerazione di una serie di indicatori
alcuni dei quali difficili da
precisare.
Difatti, secondo una classica ricostruzione della dottrina economica
139
Per costi e benefici ambientali si intendono rispettivamente la perdita o
l’accrescimento del valore dello stock di capitale naturale ovvero l’imposizione di costi
o di benefici tramite una modifica della qualità ambientale. I costi ambientali possono
essere a carattere diretto o indiretto, legati all’uso di risorse quali il capitale o il lavoro
sostenuti per incrementare l’offerta di benefici ambientali o per ridurre i costi
ambientali. Tali costi sono misurabili in termini di perdita di valore dell’ambiente o di
danni provocati ad altri individui.
- 190 -
140,
i benefici che la collettività può trarre dalle risorse ambientali derivano
non soltanto dal valore d’uso delle risorse stesse, che attengono
direttamente alla migliore utilizzazione della risorsa ambientale in un dato
momento ( ad es. i pesci di un fiume per un pescatore, i funghi per il
raccoglitore..), ma anche da valori non uso (come tali intendendosi quelle
utilità che il soggetto attribuisce alla natura di fronte ad un bel
panorama..), nonché dai c.d. valori di opzioni,
che gli individui
attribuiscono a determinati beni ambientali indipendentemente da una
loro utilizzazione diretta o indiretta e derivanti dalla consapevolezza di
voler mantenere intatto un patrimonio per possibili future utilizzazioni.
Invero per gli economisti, il danno ambientale dovrebbe essere
concepito come la perdita di benessere subita da alcuni individui per
effetto dei mutamenti indotti sull’ambiente da azioni di cui altri soggetti
vengono, in vario modo, riconosciuti responsabili.
L’idea di fondo è semplice : il benessere dipende dall’ambiente; chi,
senza averne diritto, riduce la qualità dell’ambiente infligge ad altri una
perdita di benessere che può essere considerata un danno.
La concettualizzazione economica del danno ambientale come
perdita illegittima di benessere ha un ovvio corollario: la determinazione
140
Cfr D.W. Perce – R.K Turne, Economie delle risorse naturali e dell’Ambiente, Bologna,
1991,
- 191 -
del valore del danno non può che basarsi sulla stima di questa perdita e
dovrebbe configurarsi come risarcimento nei confronti di chi ha subito la
perdita. 141
Il metodo economico permette, almeno in linea di principio, di
quantificare il danno anche in presenza di mutamenti irreversibili nel
mondo fisico: si tratterà della perdita permanente del benessere, che potrà
essere anche molto elevata, conseguente a quei mutamenti.
Non è, pertanto, necessario far riferimento al criterio del profitto
indebitamente lucrato, che presenta sempre dei limiti quantitativi.
E questo per la semplice ragione che non vi sono legami sistematici
tra i profitti lucrati da chi compie l’azione e il danno di chi la subisce : quel
che conta è il danno subito.
In breve occorre cercare di ricostituire il livello di benessere al
quale i danneggiati hanno implicitamente diritto.
La perdita del benessere è il termine essenziale di riferimento per la
valutazione economica del danno ambientale. Pertanto, individuato il
benessere quale bene leso dal fatto causativo del danno ambientale, gli
economisti usano distinguere, per la quantificazione del danno, tra metodi
diretti e metodi indiretti.
141
Cfr M. Franzini, I metodi di valutazione economica e il danno ambientale: le ragioni
di un difficile rapporto Giuffrè Editore 2006
- 192 -
I metodi indiretti,142 detti anche “preferenze rilevate”, cercano di
desumere il valore delle risorse ambientali a partire dai comportamenti
economici e di mercato effettivamente tenuti dai vari soggetti nello
svolgimento di attività variamente connesse ai beni ambientali. 143 Essi si
basano sull’idea che quei comportamenti, se adeguatamente esaminati,
possano rilevare ai del valore assegnato dagli individui ai beni ambientali.
L’aspetto caratteristico dei metodi diretti, invece,
consiste nel
tentativo di ottenere una dichiarazione diretta del valore attribuito alla
risorsa anche da parte di chi non ne fruisce 144.
Infatti, la valutazione contingente consiste sostanzialmente in
interviste articolate e approfondite, in cui è essenziale trasmettere
all’intervistato la migliore informazione disponibile, le quali hanno lo
scopo principale di ottenere la “dichiarazione” del valore attribuito alla
risorsa o al bene ambientale dai vari soggetti intervistati.
Il caso più noto, e oramai storico, di applicazione del metodo è
142
I metodi indiretti più noti sono quelli delle spese di viaggio, dei prezzi edonici e delle
spese difensive
143
I metodi indiretti più noti sono quelli delle spese di viaggio, dei prezzi edonici e delle
spese difensive.
144
Tra i metodi diretti rientrano, oltre alla valutazione contingente, l’ordinamento
contingente e la con joint anaysis . Si noti che questi metodi sono in grado di stimare
non soltanto il valore di uso dei beni ambientali ma il valore complessivo,
naturalmente a condizione che i soggetti intervistati attribuiscano alla risorsa
entrambi i tipi di valore.
- 193 -
quello che ha riguardato la Exoxon Valdez .
Lo stato dell’Alaska chiese in giudizio che venissero calcolati anche
i danni connessi ai valori di non uso145, sui quali la ricerca aveva attirato
l’attenzione già da tempo. A questo scopo venne realizzato uno studio che
individuò la perdita di valore di non uso determinata dal
danno per
l’individuo mediano e, a partire da questo, per l’intera collettività di
riferimento.
6 La valutazione del danno ambientale nella giurisprudenza di
merito: i primi casi concreti di quantificazione del danno.
Le prime sentenze con le quali i giudici di merito hanno provveduto
alla quantificazione dei danni, in base ai criteri di cui alla legge n. 349/86,
sono le seguenti.
Il primo provvedimento è stato pronunciato dalla Pretura di Rho in
data 29 giugno 1989 in relazione ad una fattispecie di inquinamento
doloso di un corso d’acqua (il torrente Lura), nel quale alcune società
industriali (Petrolcar, Autoservizi industriali e Ecotrans) avevano sversato
rifiuti tossici nocivi.
145
La rilevanza dei valori di non uso per la valutazione e anche per la determinazione del
danno ambientale è stato oggetto di lunghe discussioni da molto tempo. Oggi vi è
un’ampia convergenza sull’idea che essi siano un’importante componente del valore
dei beni ambientali e culturali
- 194 -
In tale caso, appunto, il giudice ha riconosciuto la responsabilità
penale degli imputati condannandoli al risarcimento in favore delle parti
civili (Ministero dell’Ambiente, Provincia di Milano, Comune e USL di
Rho).
Nella specie, il Pretore aveva ritenuto di applicare dei criteri stabiliti
dall’art.18 comma 6 secondo l’iter logico giuridico che si riporta :
-
quanto alla gravità della colpa, essa è stata ritenuta in massimo
grado “posto che si è aggirata la normativa rigorosa stabilita dal
legislatore, si sono vanificati con un solo fatto e senza la minima
difficoltà tutti gli sforzi compiuti dalla Autorità Statali e locali per
tentare d arginare il fenomeno dell’inquinamento in zone
densamente popolate nelle quali le condizioni di vita della
popolazione sono già precarie sotto il profilo del diritto primario
della salute costituzionalmente tutelato” 146
-
il secondo parametro, ossia il costo necessario per il ripristino, è
stato valutato in relazione ad un progetto esistente per la
bonifica del bacino cui faceva parte il torrente inquinato,
146
La dottrina ha rilevato criticamente come “il Pretore di Rho sembra aver frainteso la
gravità della colpa con la gravità del fatto di reato o con le conseguenze dannose
prodotte. Infatti la valutazione del giudice si concentra sulla portata del pregiudizio
conseguente alla condotta illecita – sotto il profilo alla lesione del primario diritto alla
salute – piuttosto che sull’intensità della colpevolezza” (Paone , La valutazione del
danno Ambientale in www.diritto.it materia /ambiente
- 195 -
specificandosi che “per i soli interventi relativi al torrente Lura
risulta siano stati stanziati circa 42 miliardi, ciò induce a valutare
l’entità del danno risarcibile nella fattispecie de quo in misura
proporzionale – seppur ridotta in relazione alla parte di danno
arrecato – a tale cifra”147
-
infine, il profitto conseguito dal trasgressore
è stato
considerato particolarmente alto poichè, lo “smaltimento
regolare dei rifiuti avrebbe comportato costi molto elevati in
considerazione dell’estrema scarsità dell’attuale offerta di
mercato relativa allo smaltimento regolare dei rifiuti tossiconocivi e del notevole quantitativo di rifiuti da smaltire”.
La decisione del Pretore, però, non prescindeva dalla considerazione
che il ricorso ai parametri sopra menzionati non permetteva comunque la
determinazione di una somma precisa neanche in un’eventuale successiva
causa civile (non potendosi neanche in tale sede usufruire di altri elementi
valutativi); pertanto lo stesso Pretore ritenne più opportuno avvalersi dei
criteri di cui all’art. 18 della legge n. 349/86.
147
Nel motivare sul punto il Pretore di Rho ha assunto, pertanto, a fondamento della
propria valutazione l’esistenza di un progetto di bonifica risalente ad almeno sette
mesi prima dall’accertato scarico ei rifiuti nel torrente Lura : viceversa il ripristino il
cui costo deve essere considerato ai fini della quantificazione del danno è quello che si
rende necessario a seguito del fatto lesivo. Il progetto dunque sarebbe dovuto essere
successivo al verificarsi del danno: ciò al fine di considerare la situazione ambientale
così come risultava essere a seguito dello scarico illecito e su quella base calcolare il
costo necessario per il ripristino. (Paone , op.cit.)
- 196 -
La sentenza in questione ha suscitato non pochi commenti in ordine
alla difficoltà di comprendere i passaggi logici effettuati dal giudice per
addivenire alla liquidazione della somma liquidata: in particolare,
sfuggono le voci di danno che, nel ragionamento del giudice, sono state
valutate per la quantificazione del risarcimento, né si comprende il quid
assunto dal pretore per misurare il lucro cessante e il danno emergente in
materia ambientale ex art 1223 cod.civ.
La seconda sentenza che ha visto un giudice quantificare un danno
dell’ambiente sulla scorta dei criteri stabiliti dall’art. 18 della legge
n.349/86 è del 2002.
Con tale
sentenza gli imputati ed il responsabile civile furono
condannati solidalmente tra loro al risarcimento in favore della parti civili.
Il giudice ha quantificato il danno risarcibile sulla base di un
accertamento dell’alterazione dell’ambiente in seguito alla fuoriuscita
accidentale dallo stabilimento industriale di rilevanti quantità di
ammoniaca.
Anche in tale fattispecie il risarcimento è stato valutato in via
equitativa.
Difatti,
è
stato
premesso
che
non
risultava
possibile
la
quantificazione del danno, atteso che l’evento dannoso aveva assunto
connotazioni tali da non permettere il ripristino e dunque, da rendere
- 197 -
impossibile la quantificare il danno secondo un prezzo certo di mercato
del valore d’uso del bene danneggiato.
Talchè il costo necessario per il ripristino è stato calcolato dal
tribunale
sul valore di un’attività di ripristino ambientale mirata a
depurare almeno l’acqua dall’abbattimento dell’ammoniaca presso un
impianto pubblico di depurazione.
Il giudice ha tuttavia valutato la suddetta attività solo a parziale
computo del danno, poiché l’intervento di depurazione, connotandosi
come intervento di emergenza, non può considerarsi risolutivo di ogni
problema risultando certo che non consente l’abbattimento dell’intera
quantità dell’ammoniaca nell’atmosfera.
Le due sentenze sopra citate sollecitano almeno due considerazioni.
Malgrado la specifica tutela offerta dalla legge n.349/86, i giudici
hanno fatto un uso assai limitato della disciplina citata: la circostanza pare
giustificarsi dalla particolare natura dell’ambiente, vale a dire di un bene
che non si presta di per sé ad essere misurato in termini meramente
monetari essendo inappropriabile, non commerciabile, e, quindi, come tale
privo di un valore economico. 148
148
Non aiutano in proposito nemmeno le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di
legittimità in ordine alla commisurazione del risarcimento al valore d’uso
dell’ambiente (“in quanto il bene ambiente è fuori commercio e come tale
- 198 -
Ambedue le sentenze richiamate procedono alla valutazione del
danno ambientale in via equitativa: pur nella specificità delle due
situazioni sottostanti alle pronunce dei giudici, la circostanza è
emblematica delle oggettive difficoltà che si frappongono all’utilizzazione
degli altri canoni previsti dall’art.18.
Nondimeno, malgrado queste difficoltà, alla disciplina della legge
del 1986 va comunque il merito di aver riconosciuto rilevanza autonoma al
bene ambiente e di aver introdotto nel nostro ordinamento la specifica
disciplina risarcitoria del danno ambientale, colmando così, al momento
dell’adozione, un’evidente lacuna legislativa in una materia che ha assunto
una sempre maggiore attualità.
6.1
segue: La valutazione del danno ambientale nella
giurisprudenza di merito:un clamoroso caso di quantificazione
del danno.
La disamina fin qui condotta, in ordine a fattispecie concrete di
responsabilità per danno ambientale (in specie sotto il profilo della
quantificazione del danno), impone il richiamo di un caso singolare che
ancor oggi è sottoposto al vaglio del giudice d’appello.
insuscettibile di una valutazione venale secondo i prezzi di mercato dovendo essere
considerato nel suo valore d’uso” : Cass. Civ. n.9211/95)
- 199 -
Si fa riferimento al noto caso in cui il giudice di merito ha
condannato la Syndial, società del gruppo ENI, a risarcire quasi 2 miliardi
di Euro in favore del Ministero dell’Ambiente per inquinamento da Ddt del
lago Maggiore causato dal sito ex EniChem di Pieve Vergonte tra il 1990 e
1996.
In tale circostanza il Ministero, convenendo la società citata, chiese
la condanna della stessa per il danno ambientale cagionato, per la bonifica
e il ripristino dello stesso sito a proprie spese, per il risarcimento per il
mancato godimento dell’area medio tempore interessata dalla bonifica, per
lo sviamento di funzione, per il danno provocato alle attività economiche
svolte nelle aree contaminate, per il danno subito in termini di alterazione
della biodiversità e degli equilibri ecologici, nonché dei danni sanitari sulla
popolazione esposta.
Il pronunciamento citato rileva non soltanto per l’ammontare del
risarcimento richiesto (oltre 2 miliardi di Euro, somma, peraltro di gran
lunga superiore a quella richiesta dallo stesso Ministero dell’Ambiente),
ma per lo stesso percorso logico seguito dal giudicante di fronte ad una
fattispecie notevolmente complessa, afferente ad una vicenda risalente alla
fine dell’800 con l’inizio dell’attività, monitorata alla fine del 900 per
effetto della contaminazione rilevata, e conclusasi solo nel 2008 con la
condanna citata in danno di una società controllata del gruppo EniChem,
che, peraltro, dalla data del rilevamento delle prime contaminazioni
- 200 -
aveva,in virtù di un accordo con il Ministero dell’Ambiente, realizzato
poderose opere di bonifica.
La questione, peraltro, stimola l’attenzione perché involge anche le
cd contaminazioni storiche, i cui effetti, però, sono stati accollati alla
società subentrata sulla base dei criteri di cui all’art 18 della legge 349/86.
Alla base della condanna inflitta si ritiene che il danno risarcibile ex
art. 18 della legge 349/86 sia costituito dal “peggioramento” dell’ambiente,
cioè dalla sua “alterazione” e “modifica in pejus” che ha subito l’ambiente a
causa dell’immissione nel lago di una quantità di Ddt superiore a quella
ammissibile secondo gli accertamenti effettuati dal CTU.
Si è così ritenuto danno risarcibile (sia ai sensi dell’art. 18 della
legge 349/86 che 311 del Dlgs n.152/06) l’alterazione dell’ambiente nelle
sue componenti, tale da non poter assolvere alla sua funzione propria
(dunque nel caso in esame diminuzione di qualità ambientale desumibile
dalla presenza di ddt nei pesci del lago).
Si è riscontrato il nesso causale in quanto condotte alternative,
ovvero se l’azienda avesse operato in conformità alla normativa sugli
scarichi, avrebbero impedito l’inquinamento (ossia, nel caso di specie,
senza diluire il Ddt mettendo in sicurezza l’impianto ivi comprese le
fognature).
Si è individuato l’elemento soggettivo, ai fini della valutazione della
- 201 -
grado della colpa ex art. 18 della legge 349/86, nella consapevolezza
dell’impresa responsabile della pericolosità del proprio prodotto, nonché
nel ruolo dell’impresa nel sistema imprenditoriale nazionale e, quindi,
nella circostanza che una società controllata dal Ministero avrebbe dovuto
agire anche nell’interesse pubblico.
Si è quantificato il danno ex art. 18 della legge 349/86 con
riferimento ai costi di ripristino, ai costi per depurare le acque superficiali
e le acque di falda, ai costi di drenaggio; ed in via equitativa tutti i danni
all’ambiente circostante, ai terreni, alla fauna, alla flora ogniqualvolta si
siano verificate alterazioni significative di cui tuttavia non se ne possano
quantificare i costi di ripristino per l’impossibilità di eliminarne gli effetti.
Con tale percorso argomentativo si è stabilita la condanna in danno
della Syndial che certamente sorprende per l’ammontare, soprattutto ove
si consideri che il danno ambientale evidenziato non ha determinato un
disastro ambientale e che altri casi, che hanno rappresentato veri e propri
disastri del XX secolo, non hanno mai comportato una tale condanna. 149
Si è obiettato che si è condannato l’operatore a prescindere dalle
149
Cfr Si pensi al caso del Vajont: la diga che crollo determinò un’onda anomala che
cagionò la morte di 1910 persone, la distruzione di 700 abitazioni e la scomparsa di 5
frazioni; in tal caso la condanna ammontò a cira 51,000 Euro. O ancora al caso
Montedison – Porto Marghera che cagionò l’adulterazione e l’avvelenamento delle
acque del porto Marghera e della laguna veneziana; in tal caso la condanna non superò
i 12.000 di euro.
- 202 -
opere di bonifica eventualmente in atto,
si è omesso un attento
accertamento sia del nesso causale e delle specifiche violazioni di legge così
contravvenendo al principio chi inquina paga, si è rilevata una certa
arbitrarietà nella quantificazione del danno che non tiene conto della
salvaguardia della vitalità economica dell’impresa. 150
Tuttavia, e a prescindere degli esiti ancora incerti della vicenda (ad
oggi in fase d’appello, peraltro sospesa in quanto è in corso una tentativo
di definizione stragiudiziale), la stessa evidenzia in tutti i suoi aspetti la
problematicità della materia in esame che, coinvolgendo interessi
particolarmente sensibili per loro stessa natura, ne rende difficoltosa e
ardua la tutela.
In definita, le difficoltà connesse alla quantificazione del danno
ambientale
risultano
legate
all’indeterminatezza
della
stessa
quantificazione economica di un danno arrecato ad un bene che non è
suscettibile di una valutazione economica certa secondo le normali regole
di mercato.
Il danno ambientale viene inteso come un peggioramento del flusso
di benessere proveniente da un bene a fruizione collettiva che, pertanto,
deve
150
tendere
all’individuazione
dell’equivalente
monetario
della
Cfr Al Taborelli, atti del convegno Bonifica e danno ambientale dei Sin, Roma 2 luglio
2009.
- 203 -
contrazione di benessere sofferta dai fruitori ( in senso lato, presenti e
futuri) del bene danneggiato.
Rimangono tuttavia notevoli i problemi in sede applicativa, dovuti
al fatto che, da un lato, l’ambiente è un concetto fortemente unitario,
dall’altro, risulta costituito da svariate componenti che spesso producono
utilità multiple.
Quindi la valutazione del danno deve prendere in considerazione –
come dette- diverse componenti molte delle quali sfuggono al mercato,
ovvero non hanno un prezzo.
Non marginale è la considerazione, poi, del danno ambientale come
danneggiamento della risorsa ambientale in sé, indipendentemente
dall’uso che singoli componenti della collettività fanno della risorsa
danneggiata.
L’intero processo valutativo deve, dunque, prendere le mosse dalla
constatazione che gli effetti pubblici di un illecito che danneggia una
risorsa ambientale sono di natura molteplice e complessa.
Con riferimento al nuovo codice, da un lato si coglie la portata
generale della nuova normativa sulla prevenzione e sul ripristino –
risarcimento del danno ambientale, dall’altro, risulta evidente un
approccio da parte del legislatore un po’ disorganico e frammentario.
Se la norma ambientale deve perseguire un obiettivo primario di
- 204 -
equità, per cui, a parità di danno, debba essere riconosciuto alla collettività
un eguale risarcimento (non dimenticando il valore dell’ambiente in sé più
volte ribadito), allora la genericità dell’indicazione del valore economico
contenuta nel Testo Unico, e ancora di più il ricorso a parametri
automatici proporzionali alla sanzione amministrativa, non sembrano
poter cogliere nel segno dell’equità la riparazione del danno stesso.
7) Aspetti problematici della tutela risarcitoria contro i danni
all’ambiente
Il Codice dell’Ambiente ha attribuito la giurisdizione in materia
risarcitoria contro i danni all’ambiente al giudice ordinario, al giudice
civile e penale, al giudice amministrativo e alla Corte dei Conti.
La conseguenza è che, a seconda del giudice investito della
controversia, si avrà una responsabilità connotata da diverse valutazioni
degli elementi essenziali indicati nella
fattispecie illecita prevista dal
codice dell’ambiente.
Alla luce della disciplina positiva, si è stabilito che il ministro
dell’Ambiente e della Tutela del territorio ha questa alternativa:
- 205 -
a) a seguito di apposita istruttoria che abbia accertato un fatto
causativo di danno ambientale e della mancata attivazione da parte del
responsabile delle procedure di ripristino, può adottare ordinanza
immediatamente esecutiva con cui ingiungere ai responsabili del fatto il
ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica entro un
termine fissato; se il responsabile non provveda o non sia possibile il
ripristino o risulti eccessivamente oneroso, il ministro con successiva
ordinanza ingiunge il pagamento di una somma pari al valore economico
del danno accertato a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario;
l’interessato, entro il termine perentorio di 60 giorni dalla comunicazione
dell’ordinanza, può ricorrere la Tribunale Amministrativo Regionale, in
sede di giurisdizione esclusiva(art 313);
b) può agire “anche esercitando l’azione civile in sede penale per il
risarcimento del danno ambientale in forma specifica, e, se necessario, per
equivalente patrimoniale” (art.311).
Pertanto, se il Ministro adotta, in via amministrativa le ordinanze
previste dall’art. 313, il giudice che applica le regole in materia ambientale
è quello amministrativo, in via esclusiva, facendo venir meno la
giurisdizione del giudice ordinario, anche se si controverte in materia di
diritti soggettivi che sono sottoposti, comunque, al termine decadenziale di
60 giorni.
Il Ministro può, invece, agire per il risarcimento del danno innanzi
- 206 -
al giudice ordinario, anche costituendosi parte civile nel giudizio penale, e
le regole di responsabilità in materia ambientale saranno interpretate dal
giudice ordinario.
Nell’uno e nell’altro caso, però, viene meno la giurisdizione del
giudice amministrativo in via esclusiva e del giudice ordinario, civile e
penale, quando il danno è provocato da soggetti sottoposti alla
giurisdizione della Corte dei Conti, perchè “il Ministro dell’Ambiente e
della tutela del territorio , anziché ingiungere il pagamento del
risarcimento per equivalente, invia un rapporto all’Ufficio della Procura
regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti
competente per territorio” (art.313) . In questo caso arbitro della
responsabilità diventa la Corte dei Conti.
In tal modo l’accertamento del danno, che è il punto centrale della
fattispecie, muta sostanzialmente la sua cognizione a seconda del giudice
che esercita la giurisdizione.
Se la controversia viene conosciuta dal giudice ordinario, civile o
penale, l’accertamento viene compiuto direttamente dal magistrato
innanzi al quale si forma la prova e trovano ingresso anche i dati
documentali.
Lo
stesso
discorso
non
vale
per
il
giudice
contabile
o
amministrativo, anche quando quest’ultimo eserciti la giurisdizione
esclusiva, perché i più ampi mezzi di prova di cui dispone a seguito della
- 207 -
legge 205/00, normalmente non vengono utilizzati.
I giudici amministrativi conoscono del fatto attraverso gli atti e i
provvedimenti della pubblica amministrazione e, quindi, a seguito della
attività istruttoria condotta da altri, anche se si tratta di agenti
dell’apparato amministrativo.
Analoga considerazione deve farsi per i giudizi innanzi alla Corte dei
Conti: per l’elemento psicologico la norma richiede la colpa lieve;mentre
innanzi alla Corte dei Conti occorre accertare, quantomeno, la colpa grave.
A ciò bisogna aggiungere che, oltre alla legittimazione attiva del Ministro
dell’Ambiente, il codice considera altre possibilità di azioni attribuite ad
altri soggetti.
Le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati,
nonché le persone fisiche o giuridiche, che “sono o potrebbero essere
colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimante la
partecipazione
al procedimento relativo all’adozione di misure di
prevenzione o di ripristino” (art. 309) “sono legittimati ad agire secondo i
principi generali per l’annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati
in violazione delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto
nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell’Ambiente per
il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da
parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione
o di contenimento del danno ambientale” (art 310).
- 208 -
La norma, oltre a prevedere un ricorso amministrativo in
opposizione e quello straordinario al Presidente della repubblica, prevede
la possibilità di adire il giudice amministrativo “in sede di giurisdizione
esclusiva” (art.310) .
Infine, in base al 5° comma dell’art. 18 della legge n.349/86, non
abrogato (art.318), le “associazioni individuate in base all’art. 13 della
presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e
ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti
illegittimi”. Non è prevista, invece, la possibilità di intervenire per gli Enti
locali.
Da questo rapido excursus sulle disposizioni processuali del Codice
dell’Ambiente in ordine al giudice che ha giurisdizione in materia, si può
rilevare che: a)
in materia di responsabilità per danno ambientale le
controversie saranno sottoposte: al giudice ordinario, (civile e penale); al
giudice amministrativo, (Tar
e Consiglio di Stato), Corte dei Conti,
(sezioni locali e centrali); b) una stessa vicenda può essere portata alla
cognizione del giudice amministrativo o del giudice ordinario a seconda
della scelta del Ministro dell’Ambiente, che quando saranno trascorsi due
anni dalla notizia del fatto produttivo del danno ambientale agirà innanzi
al giudice ordinario ove dovrebbe valere il termine di prescrizione
quinquennale, se si inquadra l’illecito nella responsabilità aquiliana; c) la
scelta del Ministro comporta la cognizione ad uno o ad un altro ordine
- 209 -
giurisdizionale con la conseguenza che il giudice non è quello “per legge
precostituito” (art. 25 Costituzione), con forti dubbi di costituzionalità; d)
la Corte dei Conti non può essere scelta dal ministro, in quando il danno è
provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti,
comporta necessariamente che quest’ultima ne debba essere investita e il
Ministro non potrà attivare le procedure di cui all’art. 113 del codice; e) gli
altri soggetti pubblici o privati non sono legittimati ad agire contro i
responsabili del danno ma solo contro i provvedimenti o il silenzio del
Ministro e, in questa ipotesi, la giurisdizione appartiene in via esclusiva al
TAR o al Consiglio di Stato; f) rimangono ferme le altre tutele previste per
le situazioni giuridiche soggettive secondo le regole generali previste
dall’ordinamento . 151
Da quanto esposto pare evidente che il legislatore delegato abbia
considerato poco il nostro sistema quando ha disciplinato la tutela
risarcitoria contro i danni all’ambiente innestando una congerie di
meccanismi processuali non sempre coordinati tra loro, così indebolendo,
piuttosto che valorizzare la tutela ambientale.
151
E. Follieri, Aspetti problematici della tutela risarcitoria, in Ambiente e territorio, n.
9/09
- 210 -
CONCLUSIONI
Il lavoro fin qui svolto
impone certamente talune riflessioni
conclusive seppur nei limiti e nei contenuti che il tema trattato permette.
Difatti,
proprio dalla ricerca compiuta, emerge come nessuna
conclusione o determinazione finale sia compatibile con l’argomento
trattato.
L’esposizione condotta ha difatti rilevato come la materia del danno
ambientale ponga notevoli incertezze già al livello definitorio per, poi,
tradursi nella stessa difficoltà di definizione della disciplina che lo
riguarda.
Ciò del resto è stato evidenziato dalla stessa impostazione del lavoro
condotto che ha privilegiato l’aspetto pratico più che quello teorico, così
cercando di valorizzare gli elementi propri e salienti di una disciplina forse
ancora (per molto) in itinere ed in costante evoluzione.
Non è un caso, infatti, che il testo unico in materia ambientale di
recente formulazione abbia già subito, a pochi anni della propria nascita,
più di una trentina di modifiche o c.d “aggiustamenti” molto
probabilmente connessi non tanto ad una difettosa originaria tecnica
redazionale del legislatore quanto ad una costante evoluzione della materia
di sua natura magmatica e difficilmente contenibili entro schemi prefissati
e rigidi.
- 211 -
Del resto, se ciò vale in genere per qualsiasi materia, che
necessariamente richiede adeguamenti connessi allo sviluppo socio
culturale del contesto in cui la stessa materia si colloca, vieppiù tale
considerazione si attaglia ad una materia come l’ambiente che sin dal suo
difficile emergere nel modo giuridico positivo risulta sensibile più che mai
all’evoluzione socio –culturale e alla cura attenta e sollecita che ad essa
rivolge la normativa comunitaria.
La disciplina connessa al danno ambientale, non può non risentire,
dunque, delle stesse difficoltà che da sempre si sono manifestate nel
delimitare i concetti prima di ambiente e poi di danno all’ambiente con
annessa la responsabilità.
E proprio in tale direzione è stato impostato il presente contributo il
quale, appunto, ha evidenziato come già la stessa definizione di ambiente
abbia alimentato un costante focolaio di discussioni e dibattiti tutti
finalizzati ad identificare con certezza i limiti e la natura di tale bene per
poi individuare il fatto lesivo dello stesso fonte di responsabilità civile,
penale ed amministrativa.
E ciò in quanto la materia in questione, più di ogni altra, involge in
maniera
totalitaria
la
vita
stessa
dell’individuo
che
si
trova
contestualmente ad essere agente autore del danno e soggetto passivo del
danno in un contesto socio ambientale in cui lo stesso danno (generato da
uno stesso fatto lesivo) riesce contemporaneamente a pregiudicare uno o
- 212 -
più soggetti ( il singolo e la collettività tutta) e uno o più interessi (privato
e pubblico), tutti, meritevoli di una tutela costituzionalmente garantita.
Risulta così evidente come, in un contesto di tal genere ove si
intrecciano in maniera inestricabile interessi pubblici e privati, talvolta
addirittura coincidenti, la disciplina ad essa riferita non possa essere di
agevole definizione soprattutto se il continuo e naturale sviluppo sociale
costituisce il suo substrato naturale, e l’aggressione all’ambiente proviene
dallo stesso individuo e dalla stessa collettività che, poi, ne denuncino e ne
subiscono il danno.
L’incessante trasformazione della realtà sociale, lo stesso sviluppo
economico, incidono in modo sensibile sulla stessa configurazione ora del
bene da tutelare (ambiente) ora della configurabilità dello stesso danno,
che, a prescindere dalle teorie elaborate di volta in volta dalla dottrina o
dalla giurisprudenza (teorie moniste, plurime, bene unitario, materia
trasversale….)
confluiscono ad un unico risultato: la difficoltà della
materia ad essere compressa entro fattispecie definite.
L’ambiente e, dunque, il danno che ad esso possono essere
provocati sono strettamente connessi e presupposti alla realtà sociale
circostante che in un rapporto di mutuo scambio ne appresta i mezzi di
tutela per porre riparo a quei danni dalla stessa provocati.
E tale circolarità che, peraltro, in ragione della naturale evoluzione
socio culturale non può risultare immutabile, determina proprio quelle
- 213 -
difficoltà definitorie e pratiche che sfuggono a qualsiasi inquadramento
fisso auspicato dal legislatore.
Tali riflessioni emergono appunto dal presente contributo, che nel
modesto tentativo di trattare il peculiare aspetto del danno ambientale, ha
preso atto delle numerose problematicità connesse alla materia trattata
anche e soprattutto nei risvolti pratici della normativa che la riguarda.
Come emerso anche dalla ricerca giurisprudenziale che ha
supportato il presente lavoro, le difficoltà delle autorità giurisdizionali non
sono connesse tanto ad una non chiara tecnica legislativa quanto alla
costante e diuturna necessità di adottare il testo normativo alla fattispecie
particolare che nello
spatium temporis di pochi anni (se non mesi)
presenta già delle peculiarità differenti rispetto a quelle originariamente
predeterminate.
La fattispecie normativa, per sua natura astratta, più che mai nella
materia che ci occupa, si presta ad essere plasmata di volta in volta al caso
concreto in costante mutamento.
Nei capitoli precedenti, premessi taluni aspetti dottrinari e
legislativi più o meno costanti, si è cercato di dare atto di quanto fin qui
rassegnato attraverso i casi giurisprudenziali che più che in qualsiasi altro
campo danno un supporto imprescindibile alla stessa definizione e
delimitazione dell’argomento, seppur nella consapevolezza che trattasi di
una decisione che riguarda il “caso concreto” e che difficilmente, se non in
- 214 -
linea di massima, risulterà veicolabile su casi similari.
Sono tanti e tali gli aspetti individuali e sociali che la fattispecie
“danno ambientale” coinvolge che, probabilmente, qualsiasi sforzo
legislativo non risulterebbe mai idoneo a ricomprendere e disciplinare la
molteplicità degli elementi e delle condizioni ipotizzabili.
Più
che
mai
in
tale
contesto
il
ricorso
al
precedente
giurisprudenziale (se non nel limite dell’insegnamento di massima)
potrebbe risultare inadeguato alla soluzione del caso concreto stante la
peculiarità di ogni caso concreto difficilmente sovrapponile con altri.
Probabilmente la stessa previsione del Testo Unico in materia di
giurisdizione, laddove coinvolge e interessa tutte le tipologie di
giurisdizioni previste nel nostro tessuto costituzionale, se da un lato
adombra sospetti di incostituzionalità con riferimento alla prefigurazione
del principio costituzionale del “giudice naturale”, dall’altro possibilmente
è stata dettata dall’incapacità a priori del legislatore di “settorializzare” gli
interessi e i diritti coinvolti dalla fattispecie del danno ambientale.
Certamente sarebbe auspicabile una diversa impostazione di tale
aspetto optando per quelle forme di giurisdizioni esclusive o speciali che,
possibilmente, in un’ottica di trattazione unitaria ed esclusiva della
materia potrebbero risultare più efficienti.
Ad ogni buon conto, lungi dalla pretesa di suggerire ipotesi
- 215 -
risolutive, non v’è dubbio che la disamina fin qui condotta evidenzia la
natura assolutamente sfuggente della materia trattata per la capacità di
invadere e interessare numerosi campi della realtà sociale involgendo
interessi pubblici, individuali, costituzionalmente rilevanti e soprattutto
risultando immanentemente connessa allo sviluppo socio economico in
grado di influire sulla stessa configurazione della fattispecie da prevedere
ai fini della tutela della stessa.
Più che mai, si può concludere, in tale materia la naturale necessità
del diritto ad adeguarsi al diritto vivente deve costituire la base e
l’aspirazione
del
legislatore
nella
fase
programmatica
e
della
giurisprudenza nella fase di applicazione pratica dovendo così la legge
necessariamente integrarsi ed adeguarsi anche al diritto creato nelle sedi
giurisdizionali.
- 216 -
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