LA REPUBBLICA 4 gennaio 2005
L ' euro forte e l 'Europa debole
attraverso un processo graduale non cambia
la sostanza delle cose. Ora questa tulela,
forte di incontestabili successi; - il mercalo
unico, la creazione dell’euro, l’allargamentotende a diventare arrogante , e a scaricare la
colpa di ogni difficoltà sulle popolazioni
(riforme strutturali) e sui govemi nazionali
(consolidamento del bilancio). In altri temini, i
cittadini sarebbero riluttanti ad accettare le
riforme per troppo attaccamento ai rispettivi
sistemi di protezione sociale, e i governi
esiterebbero a imporle - e quindi a ridurre la
spesa pubblica - per timore di non essere
rieletti. Questo il ragionamento che i
responsabili dell'interesse generale europeo
ribadiscono ad ogni pié sospinto, in tutti i loro
discorsi e pubblicazioni: "L'Unione economica
e monetaria e ampiamente riuscita a stabilire
la stabilità macroeconomica in Europa. La
Banca centrale europea ha fornito il proprio
contributo
a
questo
successo,
salvaguardando la stabilità dei prezzi nella
zona dell' euro. Le riforme strutturali (dei
sistemi di sicurezza sociale e delle indennità
di disoccupazione), destinate ad accrescere
la flessibilità dei mercati, sono la chiave per
raggiungere un tasso di crescita sostenibile
più elevato (...) Se il consolidamento dei
bilanci viene percepitodal settore privato
come un segnale credibile di calo della spesa
pubblica negli anni a venire, le famiglie, (...)
anticipando il futuro abbassamento delle
imposte, accresceranno i loro consumi". In
breve,le autorità europee avrebbero sempre
visto
giusto,
mentrequelle
nazionali
sarebbero invariabilmente in errore. Sarà
anche vero, ma la questione merita almeno
d'esser discussa. E proprio qui sta il
problema; non esiste unospazio pubblico ove
organizzare un ampio dibattito sulla politica
della tutela, per sottoporla al giudizio degli
elettori. Certo, il Parlamenlo europeo fa
quello che può. Ma i suoi poteri in questo
campo sona estremamenre limitati, e la
rielezione dei suoi deputati e scarsamente
correlata (per usare un eufemismo) alla loro
capacità
di
incidere
sulla
politica
macroeconomica europea.
Jean Paul FITOUSSI
LA CONSTATAZlONE è triste, ma merita
d'esser fatta: dopo la caduta del muro di
Berlino, l'andamento economico della zona
euro e stato tra i più mediocri del mondo:
inferiore, come tutti sanno, a quello degli Usa
e del Regno Unito, ma anche - e questo non
lo si sapeva - a malapena alla pari con i
risultati nipponici. II Giappone eraconsiderato
come II malato dell'Ocse, per un motivo ben
noto: un madornale errore di politica
monetaria, che ha fatto piombare il paese
nella deflazione. Non si pensava però che
l'area dell' euro fosse colpita dalla stessa
astenia, sulle cui cause mancano risposte
chiare; o quanto meno, non c'e consenso in
questa materia. Dal 1990 al 2004 sono
trascorsi 15 anni: un periodo troppo lungo per
invocare il caso, le circostanze o la mala
sorte. In quindici anni, il peso relativo della
zona euro e arretrato rispettivamente del 15 e
del 9% in rapporto agli Stati Uniti e al Regno
Unito, e non e aumentato al confronto con il
Giappone! In una situazione del genere, e
quanto mai irritante l'autocompiacimento dei
responsabili europei, l'arroganza con cui
sostengono la fondatezza delle proprie azioni
e pretendono di istruire i governi sul da farsi.
Fortunatamente l'Europa è tuttora ricca, e
potrebbe ancora sopportare qualche altro
errore di politica economica. Non troppi però,
perché ormai la povertà crescente, i salari
pressoché stagnanti, il formidabie aumento
delle persone e famiglie costrette a ricorrere
alle organizzazioni caritative per la propria
sussistenza la dicono lunga sullo stato delle
nostre società, più di tanti discorsi
tranquillizzanti. In Europa il dibattito politico
rimane confinato all' ambito nazionale; e
quando Ie cose vanno male, la responsabilità
ricade sui governi dei singoli Stati europei. I
quali ultimi tentano a volte di europeizzare i
problemi, ma non sono comunque chiamati a
risponderne ai loro elettori. La democrazia in
Europa continua a funzionare a livello
nazionale, mentre numerosi poteri e
strumenti sono stati trasferiti su scala
europea. I governi nazionali sono oramai
sotto tutela della Ue il che comporta, nel
bene e nel male, una parte importante di
responsabilità europea. Il fatto che vi si siano
assoggettati per loro libera scelta
e
Dunque la politica del "governo economico"
dell'Europa e data per buona, ma di fatto non
e mai stata oggettod'un dibattito democratico
- se non indirettamente, attraverso le elezioni
nazionali. Ora, se è vero che i responsabili
europei hanno bisognodi una legittimazione,
oggi essi dispongono d'un solo modo per
1
acquisirla: quello di fondare la loro azione
sulla "scienza", cioe sulla dottrina. E la
dottrina europea più condivisa e meglio
difesa dalla Commissione è appunto quella
che Jan Paul Trichet ha esposto con grande
chiarezza nella citazione sopra riportata. Su
questo tema non esiste alcuna divergenza tra
le autorità europee –cioé tra la Banca
centrale e la Commissione.
dei problemi dell'economia nazionale,
quest'argomentazione
potrebbe
essere
semplicemente un modo per simulare dietro
un discorso retorico il desiderio di ritagliarsi
una parte maggiore della torta. Quando i
ricchi raccomandano come unico rimedio alla
disoccupazione la riduzione delle loro
imposte e i tagli ai benefici sociali dei
lavoratori, qualunque economista dovrebbe
alzare le sopracciglia”.
Negli ambienti accademici, al contrario,
ciascunadelleproposizioni che costituiscono
la suddetta dottrina è oggetto di vivaci
controversie. Il fatto è che in questo campo la
nostra ignoranza è tuttotora abissale. Come
parlare di stabilità macroeconomica quando
sul lungo periodo (15 anni) la crescita media
della zona euro (1,8%) è durevolmente
inferiore al suo potenziale, che secondo la
stessa Banca centrale europea si aggira tra il
2,25 e il 2,50%? Il tasso potenziale di crescita
e valutato in base alle strutture esistenti. Ciò
significa che le cause del mediocre
andamento economicodella zona euro vanno
ricercate altrove: a esempio, in una politica
macroeconomica
sbagliata.
La
questionedelle riforme strutturali, che si
prefiggono di incrementare la crescita
potenziale, è anche più complessa, e
nasconde almeno due insidie: in primo luogo,
talune riforme possono avere effetti positivi in
un paese e sfavorevoli in un altro; e gli studi
empirici sull’argomento sono ancora ai primi
passi. A esempio,se qui una maggiore
flessibilità può favorire la stabilità, è possibile
che altrove abbia l'effetto opposto: in altri
termini, cio che è giusto su un versante dei
Pirenei potrebbe essere errato sull'altro.
I
responsabill
europei,
che
come
sinceramente credo sono incontestabilmente
al
servizio
delI'interesse
generale,
dovrebbero pensarci due volte prima di
raccomandare una politica del genere. Ecco
perché è essenziale che queste questioni
vengano dibattute in una sede democratica
(ancora da inventare) su scala europea. A tal
fine occorrerebbe almeno rafforzare i poteri
del Parlarnento europeo, tanto da metterlo in
condizioni di incidere sug1i orientamenti della
politica economica condotta dalle istituzioni
dell'Ue. Se così non fosse, i governi nazionali
sarebbero permanentemente costretti ad
agire nel quadro d'un piano d'aggiustamento
strutturale, la cui validità non ha mai potuto
essere sottoposta a un dibattito serio.
L'indipendenza presuppone la responsabilità,
e la responsabilità la sanzione della
democrazia. Un'innovazione del genere
farebbe della zona euro il modello di
cooperazione rafforzata del quale I'Europa ha
tanto bisogno per disegnare il proprio
avvenire.
(Traduzionedi Elisabetta Horvat)
Tutto dipende dal contesto delle istituzioni
dalla loro coerenza. E poichè in molti casi si
tratta di norme o di convenzioni sociali
implicite, in questo campo la nostra
ignoranza e sterminata. Seconda insidia: le
riforme strutturali possono avere effetti
violentemente
redistributivi.
Anche
presupponendo le mig1iori intenzioni del
mondo da parte di chi le preconizza puo
accadere che servano gli interessi di una
frazione molto ristretta della società, o magari
di un gruppo di pressione. Come sottolinea
Richard Freeman in un articolo dal titolo
eloquente: War of the models (La guerra dei
modelli):
"Quando
determinati
gruppi
sostengono la necessità delle riforme di cui
saranno beneficiari in ordine alla soluzione
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