Ingredienti per un modello di comunità terapeutica che incontri la sofferenza di un borderline
Comunità terapeutica Il Porto
Metello Corulli
Relazione tenuta alla giornata di studio
Mito & Realtà
“Quali comunità terapeutiche per i pazienti borderline’”
Milano
17 novembre 2007
1. Il titolo
Ho pensato di proporre questo titolo “ Ingredienti per un modello di comunità terapeutica che
incontri la sofferenza di un borderline” per il mio intervento di oggi perchè credo che dobbiamo
riflettere e discutere intorno al problema di un incontro tra un modello ed un certo tipo di
disturbo.
In considerazione del fatto che nella istituzione che dirigo vi è una unità per disturbi da psicosi ed
una unità per disturbi di personalità, potrei dire che da anni mi sto interessando a cercare di capire
quali analogie e quali differenze debbano avere queste due unità per il loro funzionamento e la loro
efficacia.
Inizierò ad affrontare l’ argomento in un modo un po’ scherzoso. Ed in modo scherzoso vorrei
dirvi che abbiamo un problema di ingredienti
Tra gli anni ‘75 ed ‘80 andavo frequentemente a Vienna, naturalmente visitavo la vecchia
abitazione di Sigmund Freud, cenavo all’ Hotel Regina dove hanno risieduto numerosi suoi
pazienti, studiavo l’ architettura della città ed ogni tanto mi credevo la reincarnazione di Francesco
Giuseppe. E mi ero anche fatto crescere i favoriti.
Credo che tutti sappiate che a Vienna viene prodotta una torta, la sacher torte. Ora la sacher torte,
che per un periodo ho anche provato a cucinare, è fatta di pochi ingredienti: cioccolato, uova,
marmellata di albicocche, gelatina di albicocche.... Ed a volte viene una torta squisita, a volte
pressochè immangiabile.
Se posso provare a parlare di questo argomento in modo più serio, io credo che stiamo assistendo
e partecipando ad un piccolo cambiamento di civiltà.
Credo che in un certo senso avvenga un cambio di civiltà ogni volta che nasce una nuova figura
professionale ( pensate, ad esempio, come è cambiata la cultura in Europa quando gli uomini hanno
smesso di costruire da soli le loro abitazioni e si sono affidati agli architetti ), a maggior ragione
quando nascono delle nuove istituzioni sociali, e tramontano vecchie istituzioni come i manicomi,
nascono nuove istituzioni come le comunità terapeutiche.
Pensate come in questi anni partecipiamo ad un cambio importante e significativo della cultura
dei rapporti tra psichiatria e giurisprudenza. Posso provare a citarvi alcuni aspetti degli ultimi
anni.

La sentenza della Corte Costituzionale del luglio 2003 ha dichiarato l’ illegittimità dell’ art.
222 del codice penale ( Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario) nella parte in cui
non consente al giudice di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario
una diversa misura di sicurezza idonea ad assicurare adeguate cure all’ infermo di mente e a
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fare fronte alla sua pericolosità sociale. Dopo questa sentenza si sono aperte nuove vie di
cura ed assistenza per i soggetti che precedentemente avevano come loro unico destino l’
internamento negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
( Altro convegno interessante per Mito & Realtà:
La comunità terapeutica per soggetti autori di reato,
ma dovremmo invitare il direttore della comunità che c’è nella Grendon Prison in
Inghilterra, Mark Morris; ed il direttore della Van Der Hoeven Clinic nei Paesi Bassi che ha
87 posti letto di sicurezza, per il trattamento residenziale facilitato di criminali cui è stato
sentenziato un trattamento psichiatrico coatto in quanto “diminuiti di responsabilità per i
loro crimini” - sono le uniche esperienze che io conosca al mondo. ) ( Brunori L. 1997)

La sentenza della Corte di Cassazione del 2005 ha dichiarato che ai fini del riconoscimento
del vizio totale o parziale di mente, sussiste la possibilità che rientrino nel concetto di
infermità anche i gravi disturbi di personalità, a condizione che il giudice ne accerti la
gravità e l’ intensità – tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e/o di
volere - e vi sia un nesso eziologico con l’ azione criminosa.

Ed infine sono attualmente in corso di discussione progetti o proposte di chiusura degli
Ospedali psichiatrici giudiziari, ove sono attualmente detenuti e curati circa 1200 persone,
nei sei ospedali psichiatrici italiani.
Vi ho citato questi cambiamenti – che esulano in parte dagli argomenti del convegno di oggi solo in parte perchè negli ultimi anni nella nostra comunità abbiamo iniziato ad accogliere dei
disturbi di personalità e di psicosi con disposizioni giudiziarie - per dirvi come partecipiamo ad
un periodo di profondi cambiamenti culturali.
Robert Hinshelwood – che è più serio di me - in un interessante intervento di alcuni anni or sono (
Hinshelwood 1998) non ha usato il termine “ ingredienti” bensì ha voluto sostenere l’ importanza
della consapevolezza che creando nuove istituzioni di salute mentale si diventa, necessariamente
‘ingegneri sociali’. In questo senso non è sufficiente porsi il problema delle dimensioni delle
istituzioni ( i vecchi manicomi erano grandi ed isolati, - ad esempio - le comunità terapeutiche sono
piccole ed sovente inserite nel tessuto cittadino… ) o semplici problemi di tecnica terapeutica. E’
fondamentale interrogarsi come la comunità è organizzata, quali sono i fattori di aiuto che essa offre
e quale manutenzione è opportuno che sia effettuata di continuo perché la comunità non degradi in
forme anti-terapeutiche.
Il problema diventa dunque quello di capire se siamo in grado di progettare e pianificare
istituzioni che siano terapeuticamente buone, e quali principi possano essere alla base di questi
metodi.
Ma assumere il problema dello sviluppo di una comunità terapeutica implica necessariamente porsi
alcuni interrogativi: la domanda e le domande che potremmo porci oggi potrebbero essere così
formulate:
Come costruire una istituzione sociale terapeutica?
Come modulare una istituzione sociale terapeutica a seconda della tipologia di residenti ( disturbi da
psicosi, disturbi di personalità, adolescenti, autori di reato….)?
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2. Storia
Alcune comunità sono statiche, forse Antonello Correale userebbe il termine “organizzazioni”,
vale a dire non sembrano trasformarsi nel corso del tempo. Anni fa, ad un convegno a Napoli con
Luc Ciompi, mi trovai a raccontare un po’ di storia della comunità Il Porto, mentre egli raccontava
la storia di Soteria a Berna, da lui fondata. Entrambe sono nate nello stesso periodo, nel 1983 ma
Soteria non ha mai avuto cambiamenti o trasformazioni. Soteria è una comunità per disturbi da
psicosi, e negli anni l’ unica modifica avvenuta è costituita dal fatto che si sono ridotti a circa un
anno, un anno e mezzo i tempi di residenzialità. E questo non per un cambiamento del modello
terapeutico, ma per via di una riduzione della disponibilità economica da parte degli invianti.
La nostra comunità è stata fondata nella primavera del 1983, ma in un tentativo continuo di
trovare un modello organizzativo e terapeutico più soddisfacente e coerente, si sono susseguiti sotto
lo stesso nome “ Il Porto” almeno cinque modelli organizzativi diversi.
Se volete consultare internet trovate due siti: www.ilporto.org che descrive l’ attuale modello
organizzativo e www.terapiadicomunita.org che è una rivista on line, con numerosi articoli sul tema
delle comunità terapeutiche.
La comunità è nata nel maggio 1983, promossa da Raffaella Bortino ed un gruppo di familiari, con
la collaborazione di professionisti formatisi nella Comunità Areba di New York, all’ epoca diretta
da Daniel Casriel. La comunità accoglieva circa una decina di ospiti ed il primo gruppo di
professionisti che operò all’ interno era caratterizzato da due anime, una più orientata verso terapie
comportamentali, l’ altra rivolgeva la propria attenzione agli aspetti emotivi e psicodinamici. Gli
utenti presentavano prevalentemente problematiche legate alla tossicodipendenza, ma alcuni anche
problematiche psichiatriche. Tutti erano paganti in proprio, perchè la comunità non aveva nessun
riconoscimento dalle Asl e quindi erano di estrazione sociale piuttosto alta.
L’ attuale assetto organizzativo della Comunità Il Porto è il risultato di un lento lavoro di
ingegneria sociale che dalla fondazione della Comunità ha dunque cercato di adeguarsi ai
numerosi cambiamenti dei fattori interni ed esterni, ma sempre nel tentativo di conservare intatti
alcuni valori o principi filosofici di fondo.
Vi ho accennato a cinque o sei diversi assetti organizzativi, con metodologie diverse della cura,
differente tipologia di professionalità degli operatori e difficoltà umane dei residenti, diversa
estrazione sociale. Oggi come oggi, i residenti sono tutti inviati dalle Asl.
Per raccontarvi brevemente le ultime due tappe, tra il 1987 ed il 2003 eravamo organizzati in una
Unità per pazienti con problemi psichiatrici ed una Unità per doppia diagnosi o co-morbidità.
Questo modello organizzativo aveva una sua efficacia, ma ad una riflessione più attenta ci siamo
resi conto che in entrambe le Unità avevamo circa la metà di pazienti con diagnosi sull’ asse I (
disturbi da psicosi) e l’ altra metà con diagnosi sull’ asse II ( disturbi di personalità); quello che
differenziava le due Unità era che nella prima i pazienti non avevano nella loro storia anamestica
pregresso uso di sostanze, dato che al contrario era presente per tutti i residenti della seconda. In
considerazione del fatto che il dislivello di funzionamento psichico tra i disturbi da psicosi ed i
disturbi di personalità ci appariva come una commistione troppo problematica, tra il 2002 ed il 2004
abbiamo avviato una ampia riflessione, con numerose giornate di discussione e supervisione con
colleghi esterni, per successivamente riorganizzarci, differenziandoci in una Unità per Disturbi da
Psicosi ed una Unità per Disturbi di Personalità. Vi è infine una terza Unità, più piccola, per i
residenti nelle fasi avanzate di residenzialità e che si avviano ad uscire dalla comunità. Attualmente,
in tutte e tre le Unità vi possono essere soggetti che hanno anche fatto uso di sostanze psicotrope,
ma consideriamo questo aspetto secondario rispetto alle problematiche psichiatriche.
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I modelli teorici delle due unità per disturbi da psicosi e disturbi di personalità fanno riferimento
alla cultura delle comunità terapeutiche inglesi, mentre l’ unità di risocializzazione e/o
reinserimento attinge il proprio modello teorico alla cultura delle comunità appartamento francesi,
sviluppata da P.C. Racamier.
La prima unità, denominata “Casa Madre”, ospita residenti con disturbi da psicosi ( venti posti
letto)
La seconda unità, chiamata “ex-Scuderie”, accoglie residenti con disturbi di personalità ( venti posti
letto)
L’unità di fase avanzata si presenta come una struttura indispensabile per i pazienti prossimi
all’uscita dalla Comunità ( sei posti letto). La sua collocazione nel quadro del Porto è in uno spazio
di confine fra la Comunità e un completo reinserimento sociale, e dovrebbe consentire una
maggiore autonomia rispetto alle altre due case. Si prevede, infatti, un modello di condivisione dei
compiti e delle responsabilità, l’assenza di personale ausiliario e l’autogestione di un budget
mensile di spesa di gruppo.
Ogni casa è diretta da un suo proprio gruppo di operatori che, nei diversi ruoli che svolgono, sono
specializzati nel genere di patologia che la casa in questione ospita.
3.
Il modello
Nel modello organizzativo della nostra comunità terapeutica, abbiamo scelto di riprendere alcuni
aspetti della cultura delle comunità terapeutiche inglesi: per riprendere il discorso scherzoso della
sacher torte, potrei dire che vi sono quattro ingredienti che sono fondamentali:
Tutor, Administrator, Psycosocial nursing, Staff support system
Nelle comunità inglesi esiste una doppia leadership, in base alla quale ogni Unità è diretta è
coordinata da un Tutor ed un Administrator: il primo è uno psichiatra che si occupa della
direzione della cura, il secondo è un infermiere che coordina la gestione della quotidianità e della
vita della settimana. Ma occorre anche considerare che in Inghilterra gli infermieri che lavorano in
ambito psichiatrico hanno un lungo periodo di specializzazione in psichiatria.
Anche nella nostra comunità ogni unità ha una doppia leadership: uno psichiatra riveste il ruolo di
Direttore clinico con il compito di lavorare alla direzione della cura del paziente ed uno psicologo,
psicoterapeuta, ha l’ incarico di Responsabile dell’ unità con il compito di coordinare l’ equipe
terapeutica e la quotidianità del gruppo dei residenti.
Secondo questo modello organizzativo, i progetti terapeutici per i pazienti sono, in modo
particolare, compito del Servizio accettazione, soprattutto del Direttore Clinico e degli psichiatri (
anche nel rispetto della giurisprudenza italiana ), dei Responsabili delle Unità, e dei terapeuti della
famiglia.
Il servizio accettazione si occupa della psicodiagnostica, in senso stretto ed in senso lato, della
motivazione del paziente al trattamento, delle possibilità di interazione e collaborazione con
familiari ed invianti. Negli ultimi anni il lavoro svolto con un collega della Fondazione San
Raffaele, Andrea Fossati ha promosso una interessante crescita professionale di questo servizio.
Il servizio di consultazione familiare è stato aperto fin dai primi anni, dalla fondazione della
comunità e mi sento di concordare con Marta Vigorelli quando ricorda Masterson e Rinsley che
già nel 1975 affermavano che “ non ci si può aspettare che la patologia borderline sia
efficacemente curata senza modificare l’ ambiente sociale primario del soggetto borderline, che per
molti, è rappresentato dalla famiglia”, sottolineando l’ importanza dei fenomeni di trasmissione
transgenerazionale e degli stili di attaccamento.
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Il Responsabile dell’ Unità, uno psicologo, psicoterapeuta si occupa della gestione della equipe,
della gestione della quotidianità, della settimana, e di coordinare l’ organizazione dei gruppi
Si muove in un territorio di confine, tra un modello permissivo ed un modello normativo con una
funzione di regolazione della convivenza e delle emozioni.
Il tema della psychosocial nursing rientra tra gli approcci che sono stati ampiamenti sviluppati al
Cassel Hospital ( Barnes, 1968; Griffiths & Leach, 1998; Griffiths & Pringle, 1997; Skogstad,
2001) ed una corretta traduzione nella lingua italiana sarebbe accudimento psico – sociale. Tuttavia
preferisco usare il termine di accudimento pedagogico, psicologico e sociologico per indicare gli
elementi indispensabili alla creazione di un setting che non sia un rifugio alienato dalla realtà
ordinaria, ma un posto dove la realtà interna ed esterna e la loro interazione possano essere
ampiamente esplorate.
In tutte le forme di psicoterapia psicoanalitica vi è il rischio di colludere con i pazienti nei loro
bisogni di creare un rifugio regressivo, un luogo di ritiro degli aspetti problematici sia del mondo
interno che di quello esterno. Ma questo rischio può essere ancora più elevato in un contesto
comunitario, dove l’ alienazione della realtà esterna ed un rifugio regressivo dagli aspetti
problematici della propria esistenza possono costituire un grande desiderio per i residenti. Il ritiro
sociale e la fuga dalla socializzazione sono temi molto presenti in soggetti portatori di un grave
disturbo di personalità, che chiedono di essere ospitati in una comunità.
Ogni unità ha una equipe composta da psicologi ed educatori che si occupano della quotidianità,
ma principalmente della frattura nella continuità e costanza dell’ approccio alla vita quotidiana. Per
gli operatori della comunità non si tratta soltanto di offrire ai residenti un modo di pensare alla loro
vita interiore, attraverso i momenti gruppali, ma anche di promuovere uno sviluppo dei compiti
della vita reale in cui i residenti potranno incontrare ed elaborare i problemi ed i conflitti legati alle
loro patologie di base.
Per questi motivi considero fondamentale di questa area di intervento non soltanto gli aspetti
psicologici e sociologici, ma anche quelli pedagogici. La responsabilità assume una grande
rilevanza in questo sviluppo, e la capacità di assumersi delle responsabilità richiede di essere in
grado di tollerare i sensi di colpa, ma anche uno sviluppo dell’ esame di realtà. Il modo in cui ogni
residente trascorre le proprie giornate all’ interno ed all’ esterno della comunità ha una grande
rilevanza sull’ atmosfera generale della comunità e per il benessere o il malessere degli altri
residenti.
La realtà dell’ ambiente comunitario è caratterizzata da una continua, complessa ed articolata
interdipendenza reciproca tra i residenti e gli operatori. E’ pertanto necessario che i componenti
della equipe agiscano con una intesa reciproca poichè se è vero che gli agiti dei residenti possono
essere fonte di grandi malesseri, le contraddizioni tra gli indirizzi degli operatori possono allo stesso
modo alimentare gravi conflitti tra i residenti. Ogni equipe di psicologi ed educatori deve pertanto
sviluppare strategie ed orientamenti che tutti siano in grado di sostenere, che tengano conto delle
dinamiche all’ interno della unità e dei processi di influenza reciproca tra il gruppo dei residenti e
quello degli operatori.
Isaac Menzies in un articolo del 1979 in Therapeutic Communities ha introdotto il termine Staff
support system per indicare alcuni aspetti del lavoro di sostegno agli operatori che si può svolgere
all’ interno di una comunità terapeutica. Personalmente preferisco il termine consultazioni di
sostegno agli operatori a quello ‘supervisione’, che è nato all’ Istituto di Berlino nel 1930 e che
delinea in modo specifico il percorso formativo degli psicoanalisti. Nelle Cliniche psichiatriche il
ricovero di un paziente è frequentemente caratterizzato da una “messa a riposo” del paziente stesso
per numerose ore della giornata e dal mantenimento di una grande distanza tra professionisti e
pazienti, mentre in una comunità terapeutica la frequentazione quotidiana tra operatori e residenti è
elevatissima. Pertanto un appoggio al personale che cerchi di proteggerlo da sentimenti di
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impotenza, di ansia, di colpa e depressione, e lo aiuti a trovare un adeguato svolgimento dei compiti
è indispensabile per il funzionamento di una comunità.
Negli anni abbiamo sviluppato in varie modalità il lavoro di consultazione di sostegno agli
operatori: con Miriam De Bernard, deceduta nel 2000, svolgevamo gruppi di psicodramma
eterocentrato, che successivamente abbiamo ripreso a sviluppare con Donatella Musso. Con Mario
Perini che dirige il Italia Il Nodo group e si ispira al modello Tavistock, abbiamo effettuato quasi
dieci anni di esperienze molto diverse ed articolate tra loro, anche l’ utilizzo di tak – force quando
accade che l’ equipe di una unità avverte un sentimento di difficoltà così elevato da sentirsi quasi
paralizzata, o molto ferita da un evento dolorosissimo come il suicidio di una paziente.
Quando la consultazione di sostegno agli operatori è mal condotta, la vita della comunità è messa in
grande pericolo ed in un tempo passato abbiamo anche sperimentato una esperienza drammatica di
un collega, credo affetto da narcisismo maligno, che invece di ascoltare la sofferenza o le
preoccupazioni degli operatori, si sostituiva agli psichiatri nell’ indirizzare il progetto terapeutico,
insisteva sul fatto che la comunità andava cambiata, seminando una fantasia o un fantasma di
cambiamento – ma senza neanche esplicitare quale.
In quella occasione abbiamo purtroppo sperimentato quanto l’ ansia di potere e di protagonismo di
un conduttore anziché aiutare il personale nel raggiungimento di una concreta soddisfazione
lavorativa, generi confusione negli operatori, disconferma del modello della istituzione,
frammentazione nelle equipe, dinamiche scissionali, discordia nell’ accoglienza dei nuovi pazienti
Personalmente oltre al lavoro di Isaac Menzies Staff support systems: task and anti-task in
adolescent institutions (1979) , trovo interessantissimo il lavoro di Robert Hinshelwood ‘Suffering
insanity’ (2004)
Ho provato a descrivere quattro ingredienti che a me appaiono indispensabili e che caratterizzano
la vita della nostra comunità terapeutica. Non voglio sostenere che questo è l’ unico modello
realizzabile; personalmente avevo molta ammirazione per il modello sviluppato in Stati Uniti presso
il Chestnut Lodge Hospital, ma è uno spiacevole dato di realtà che questa comunità ha chiuso nell’
aprile del 2001 per i costi gestionali troppo elevati. E nutro molta ammirazione per i modelli
sviluppati presso la Menninger Clinic ad Houston o ad Austin Riggs a Stockbridge. Se soltanto
consultate i siti internet di queste istituzioni, troverete un modello di comunità terapeutica in cui è
sviluppato la quotidianità, il trattamento nei gruppi ma anche la psicoterapia psicoanalitica
individuale. Ma questi modelli elevano ulteriormente i costi gestionali. Ed è una spiacevole realtà
che anche in Inghilterra vi è una preoccupazione per la sopravvivenza di alcune comunità
terapeutiche.
Occorre inoltre prendere in considerazione le legislazioni regionali italiane. Non ho una
conoscenza sufficiente di tutti i testi legislativi, ma molti di essi a me appaiono una sorta di
“caricatura della clinica psichiatrica”, con una presenza principalmente di psichiatri ed infermieri,
un basso livello di ore di assistenza settimanali.
Un caro amico e collega al quale ho provato a fare leggere questo scritto mi diceva: non dovresti
soltanto limitarti a elencare gli “ ingredienti”, ma dovresti anche indicare come “si cucinano”, vale a
dire come questi quattro aspetti si articolano all’ interno della vita della comunità. In effetti credo
che sarebbe interessante un ampliamento ed una descrizione più approfondita del setting della
clinica comunitaria che tenga conto almeno di sei aspetti:
 il tipo di leadership ed i processi decisionali
 i valori a cui si ispira la comunità degli operatori
 l' organizzazione sociale ovvero il modello terapeutico
 la distribuzione del potere tra operatori e residenti
 i sistemi di controllo sociale e la tenuta dei confini ( legge interna ed esterna )
 l' impatto emozionale delle vicende dei pazienti sulla organizzazione e sul personale
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Molti di voi lavorano in strutture residenziali e possono provare a riflettere sulla organizzazione
in cui vivono e lavorano a partire da queste aree e dalle modalità in cui l’ istituzione si è interrogata
su di esse.
4.
Il disturbo
Non mi soffermerò molto a parlare del disturbo borderline di personalità perché la letteratura e le
pubblicazioni su questo argomento sono numerosissime. Personalmente trovo molto interessanti i
lavori di Antonello Correale ( Correale 2001, 2006), ma mi piace altrettanto sentirlo parlare nei
convegni, in quanto più di altri autori pone al centro dell’ attenzione l’ importanza della vicinanza al
paziente e del ruolo attivo del terapeuta.
Vorrei solo ricordare un aspetto che ha caratterizzato il passaggio dal DSM III del 1983 al DSM
IV del 1995: il criterio nove del DSM III è diventato il primo del DSM IV.
“Sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono”, e credo che questo significhi che la
comunità scientifica, pur non considerando caratteristiche patognomiche quelle che elenca, abbia
negli anni attribuito sempre più rilevanza alla grande difficoltà che le persone con un disturbo
borderline incontrano nello stabilire delle relazioni significative.
Nell’ inizio delle caratteristiche diagnostiche sul DSM IV compare questo enunciato:
“ Le caratteristiche essenziali del Disturbo Borderline di Personalità sono una modalità pervasiva di
instabilità delle relazioni interpersonali, dell’ autostima e dell’ umore, e una marcata impulsività,
che iniziano nella prima età adulta e sono presenti in una varietà di contesti”.
Ed effettivamente i pazienti che accogliamo in comunità sono sovente caratterizzati da una bassa
motivazione a stare in comunità ed una marcata impulsività.
Vorrei limitarmi a quattro brevi osservazioni che richiederebbero un ampio approfondimento.

Una sull’ ingresso in comunità come residente
Bruno Bettelheim, in uno dei suoi testi ( Bettelheim, 1976, pag. 12) parla di terapia ambientale
alla luce del concetto di sicurezza: “ Il fatto di vivere in un ambiente istituzionale che protegge nei
confronti delle incertezze della vita e in cui contrariamente alle esperienze passate del malato, le
persone importanti ai suoi occhi dimostrano un profondo interesse per il suo benessere fisico ed
emotivo e si sforzano di soddisfare i suoi bisogni psicologici, questo fatto, nel corso di un lento
processo, dovrebbe guarire la sua mente malata”
Ma già Sigmund Freud ne Il disagio della civiltà, propone il concetto di sicurezza nei termini di uno
scambio: all’ origine della civiltà, gli uomini cedono una parte considerevole della libertà personale
in cambio di una certa misura di sicurezza, garantita dalla collettività, anche se questo scambio non
è innocuo, ha vantaggi e svantaggi, il vantaggio di una certa dose di sicurezza in cambio di una
certa limitazione della libertà personale. Dunque è uno scambio che genera anche afflizioni,
sofferenze psicologiche, rabbia ed aggressività.
Personalmente credo che ogni volta che un nuovo ospite o paziente entra come residente in
comunità, noi assistiamo ad uno scambio di tale natura: sicurezza in cambio di limitazione della
libertà personale, che la vita in comune comporta.
Vorrei ancora soffermarmi sul termine che Freud usa per parlare della sicurezza: nell’ essenzialità
della lingua tedesca, la parola Sicherheit unisce tre aspetti che nella lingua inglese sono distinti:
- sicurezza personale dalle aggressioni ( security)
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-
garanzie nelle scelte prive di rischi o comunque con un margine di rischio che si può
prevedere in anticipo ( safety )
certezza dell’ ordine costituito, delle regole della convivenza ( certainty )
Personalmente credo che noi, in quanto operatori della salute mentale e che lavoriamo all’ interno
di una comunità terapeutica, dovremmo soffermarci un po’ di più a riflettere sul concetto di
sicurezza, su quello che intendiamo quando in una condendensazione semantica parliamo di “
setting terapeutico sicuro “, sugli aspetti di vita che chiediamo ad un residente di sacrificare e sugli
aspetti di vita che offriamo ad un ospite in comunità.

Una sul primo periodo di accoglienza.
Molto frequentemente rileviamo come i pazienti che entrano in comunità abbiano una ridotta
capacità di insight e di riflessione. Se valutiamo la problematicità di questi aspetti secondo i criteri
che hanno sviluppato negli ultimi anni Peter Fonagy ed i suoi collaboratori ( Fonagy P. 2005), è
frequente osservare una carenza nella percezione degli stati mentali, nella capacità di percezione e
comprensione degli stati mentali propri ed altrui, con una conseguente scarsa rappresentazione del
sé e della ‘moderazione’ nelle relazioni che deriva dalla capacità di mentalizzazione.
Ma già nel 1987 John Stuart Whiletey, all’ epoca direttore dell’ Henderson Hospital e Marion
Collis somministrarono un questionario nel quale cercavano di rilevare quale era stato per residenti
l’ evento più significativo nel corso di un periodo trascorso in comunità ( Whiteley, Collis 1987). Si
tratta di un lavoro molto complesso ed interessante, che fondamentalmente poneva due domande a
tutti i residenti: che cosa ti è stato maggiormente utile e gradevole nell’ ultima settimana, che cosa ti
è stato particolarmente e gradevole da quando sei in comunità.
La loro ricerca è stata più volte successivamente replicata in varie altre comunità, ed anche presso la
nostra, Il Porto ( Piscopo, 2001, Rossati, Corulli, Piscopo 2004) ed i risultati di tutte le ricerche
convergono nel riconoscere una grande importanza al sentimento di accoglimento ed
accettazione nelle prime fasi del trattamento, mentre la capacità di apprendimento
interpersonale e di comprensione del sé compaiono soltanto nelle fasi più avanzate.
Se questi sono i risultati più evidenti sul piano del percorso terapeutico dei residenti in comunità, vi
sono almeno altri tre aspetti di cui noi dobbiamo cogliere l’ importanza.
In primo luogo, sovente vi è una ampia differenza tra quello che gli operatori considerano
terapeutico e quello che i residenti considerano tale, come positivo per loro stessi; si possono così
evidenziare, in una ottica comparativa, due modi diversi di attribuire importanza e significatività
alla stessa realtà. In secondo luogo, tutte queste ricerche evidenziano l’ importanza dei momenti
informali, fuori dai momenti terapeutici istituzionali, e sul piano teorico – terzo aspetto - aiutano a
concepire l’ importanza dell’ atmosfera e dell’ intimità come un vero e proprio concetto clinico.
Vorrei qui ricordare che il primo autore che ha sottolineato la pregnanza clinica dell’ atmosfera è
stato Michel Balint ( Balint 1968).

Una sul problema degli agiti dei pazienti nella vita in comunità
Un problema molto serio e frequente che si pone nella convivenza in una unità per disturbi di
personalità è quello relativo al passaggio all’ atto delle problematiche emotive. Gli operatori si
trovano frequentemente a dover valutare sul come intervenire con i residenti che hanno
comportamenti autolesivi o eterolesivi, sul distinguere comportamenti che sono caratterizzati da una
impulsività sfrenata da quello che caratterizzano una mise en scene di ricordi e momenti difficili o
traumatici della propria esistenza.
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In altri termini, è necessario un grande impegno lavorativo per valutare le differenze tra gli acting,
azioni che presentano per lo più un carattere impulsivo mal motivato agli occhi stessi del soggetto e
relativamente in rottura con i sistemi di motivazione abituale del soggetto e le mise en scene o
agieren: Freud nei suoi scritti contrapponeva frequentemente questo termine a quello di erinnern,
del ‘ricordarsi’. Ed in effetti i due termini si contrappongono indicando due aspetti molto differenti
di far ritornare il passato nel presente: il soggetto, sotto l’ influenza dei suoi desideri e fantasmi
inconsci, li vive nel presente con un senso di attualità tanto più vivo in quanto ne riconosce l’
origine ed il carattere ripetitivo.

Una sulle complicazioni che nascono con i pazienti che hanno procedimenti penali o
misure di sicurezza in corso
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2003, si sono aperte nuove vie di cura e di
assistenza per i soggetti che precedentemente avevano come loro unico destino l’ internamento
negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ed in tutte le comunità iniziano ad arrivare persone con
disturbi psichiatrici e misure di sicurezza in corso: affidamento in prova, licenza sperimentale da
Ospedale psichiatrico giudiziario, libertà vigilata, arresti domiciliari.....
Ma nel rispetto di questi provvedimento, variano necessariamente le modalità tradizionali di
accettazione e di trattamento. Ho provato ad affrontare queste problematiche in un precedente
lavoro ( Corulli, 2005), ma vorrei limitarmi a ricordare che può pertanto accadere che la pressione
pubblica orienti l’ istituzione verso tre direzioni tra loro relativamente incompatibili: punitiva,
custodialistica e terapeutica.
5. Quattro esemplificazioni di lavoro gruppale e di organizzazione della cura.
In questa ultima parte del mio intervento vorrei soffermarmi in modo particolare sui sistemi di
controllo sociale e su quelle tecniche che gli operatori possono mettere in atto per la tenuta dei
confini con una piccola popolazione di pazienti psichiatrici come quelli sofferenti di un disturbo di
personalità, e che molto frequentemente – come vi dicevo prima - manifestano un discontrollo
dell’ impulsività ed un passaggio all’ atto delle proprie problematiche emotive.
Negli ultimi anni stiamo lavorando a rivedere l’ organizzazione dei gruppi della settimana. Anni fa
avevamo un modello basato fondamentalmente su tre tipi o categorie di gruppi: gruppo accoglienza,
gruppo giovani e gruppo anziani.
Ma ultimamente l’ organizzazione dei gruppi della settimana è diventata più complessa ed articolata
ed è suddivisa in assemblee, gruppi e riunioni.
I principali sono:
 Assemblea di comunità
 Assemblea di Unità
 Gruppo psicopedagogico sulla convivenza
 Riunione programmatica e gestione residenzialità
 Gruppo accoglienza
 Gruppo obbiettivi
 Gruppo anziani
 Gruppo di auto – aiuto
 Gruppo crisi
 Gruppo psicologico sui farmaci
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che convivono con
 Gruppo gestione quotidiano
 Atelier di pittura
 Gruppo espressivo
 Gruppo espressivo non verbale
 Atelier attività occupazionali
 Gruppo poesia
Di ogni gruppo sono stabiliti conduttori e co-conduttori, orari, modelli e finalità ufficiali, ma nel
corso dei lavori abbiamo anche compreso con più chiarezza le finalità non ufficiali, i rischi e ci
sembra di aver raggiunto una certa chiarezza sugli strumenti e modalità.
In un certo senso è come se avessimo costruito una gerarchia ove al primo posto consideriamo
gli interventi relativi ai progetti ed alle crisi, al secondo quelli relativi alla convivenza ed al
terzo quelli relativi alla quotidianità.
Provo a parlarvi un poco di alcune di queste attività.
1) Il gruppo obbiettivi
In accordo con quanto sostenuto da Anthony Bateman e Peter Fonagy nel loro ultimo lavoro Il
trattamento basato sullla mentalizzazione ( 2006) vorrei sostenere che esiste una gerarchia di
obiettivi che è importante siano condivisi tra i terapeuti ed i pazienti:
- obiettivi iniziali, specifici per il paziente, dei quali il principale è il coinvolgimento nellla
terapia
- obiettivi a lungo termine, specifici per il paziente, dei quali il principale è l’ identificazione
ed una appropriata espressione delle emozioni
- obiettivi generali a lungo termine, specifici per il programma.
Bateman e Fonagy considerano la mentalizzazione – una termine nuovo per esprimere un concetto
antico, come l’ elemento centrale del trattamento con il paziente borderline: “ quel processo mentale
attraverso cui un individuo interpreta, implicitamente ed esplicitamente, le azioni proprie e degli
altri come aventi un significato sulla base di stati mentali intenzionali come i desideri, i bisogni, i
sentimenti, le credenze e le motivazioni personali”.
Ovviamente mi è impossibile sviluppare ulteriormente in questa sede questo argomento che
parafrasando un bellissimo lavoro di circa dieci anni fa di Joseph Sandler ed Anna Ursula Dreher
(1997) ci costringe ad interrogarci su che cosa vogliono i terapeuti dai loro pazienti.
Dunque l’ individuazione degli obiettivi a breve ed a lungo termine ha inizio con i primi colloqui
del Servizio accettazione e diventa compito specifico del Diretttore clinico, nella esplicazione e lo
sviluppo dei progetti terapeutici.
Il gruppo obbiettivi assume dunque una rilevanza particolare nella vita della unità: si tratta di un
gruppo formato dagli utenti più anziani, che hanno almeno quattro – sei mesi di percorso in
comunità, che hanno aderito al trattamento comunitario, si sono messi in gioco ed hanno cominciato
a sviluppare una maggiore consapevolezza del proprio malessere, accettando di partecipare
attivamente alla cura.
Il gruppo si riunisce settimanalmente, la durata del gruppo è di sessanta minuti, è condotto da uno
psicologo con funzione di facilatore degli argomenti ed un residente, in qualità di segretario
del gruppo.
10
La scelta dei componenti del gruppo passa attraverso la valutazione da parte dell’ equipe del
percorso del paziente, delle capacità introspettive e di problematizzazione delle tematiche inerenti la
vita comunitaria; nonchè la discussione delle candidature dei residenti al gruppo anziani.
L’ oggetto del gruppo è di stimolare il confronto tra i pari, di favorire la verbalizzazione di quanto
viene apprezzato nella vita in comune e quanto è di disturbo per la collettività, di facilitare l’ aiuto
reciproco, trovando delle risorse personali per aiutare gli altri, di promuovere il senso di
partecipazione ad un collettivo.
Le tematiche lungo le quali si snodano gli argomenti sono frequentemente: la gestione del
quotidiano, la malattia ( limiti e risorse), la costruzione del sè, le relazioni familiari, la separazione,
la mentalizzazione e l’ interiorizzazione del percorso....
Può anche accadere che il gruppo sia chiamato ad effettuare delle riunioni straordinarie, al fine di
condividere e valutare situazioni particolarmente critiche di alcuni pazienti o dell’ intero gruppo dei
residenti.
Uno degli scopi del gruppo è aumentare la capacità di responsabilizzzione dei partecipanti; a tale
riguardo i pazienti debbono presentarsi autonomamente al gruppo e qualora non si sentano di
parteciparvi debbono motivare al gruppo tale decisione. Se un residente effettua più di tre assenze (
non motivate) viene sospeso e sarà il resto del gruppo a decidere il rientro. Tali regole sono state
decise dai partecipanti stessi insieme ai conduttori.
Uno degli obbiettivi del gruppo è quello di indurre un clima di fiducia dove ogni partecipante
possa sentirsi libero di parlare di se stesso; si cerca pertanto di stimolare la discussione e la
condivisione tra i partecipanti.
Spesso le problematiche sono condivise, i pazienti portano la loro esperienza di vita,
forniscono suggerimenti gli uni agli altri. Accade che vi siano discussioni, che uno dei membri
spinga l’ altro a problematizzare alcune sue modalità o che attraverso la propria storia ed
esperienza induca il gruppo alla riflessione.
In un gruppo in cui tutti i partecipanti condividevano la dipendenza da sostanze, emergono difficoltà nel rapporto con
l’ esterno della comunità ed il problema di reinserirsi nella vita sociale allargata. Alcuni partecipanti tendono a
banalizzare ed a differenziare tra sostanze meno dannose e più dannose. Ma un partecipante narra la sua vita in
relazione al rapporto con le sostanze in modo dettagliato e puntuale, sottolineando come queste gli abbiano creato
difficoltà nelle relazioni, da un punto di vista fisico ( ha contratto malattia e non ha più le prestazioni fisiche di prima ) e
neuronale.
All’ interno del gruppo si cerca anche di esplorare nuove modalità di vita, nuovi divertimenti,
nuovi interessi, condividendo sempre i timori e le paure, che sono tante. A tale riguardo si cerca di
individuare delle attività da svolgere, autonomamente o in gruppo.
Il gruppo può decidere di andare insieme al cinema, a mangiare una pizza; alcuni membri del
gruppo possono decidere di frequentare autonomamente la biblioteca o la palestra. Sovente il
gruppo o il singolo sono in grado di fare progetti di questo tipo, ma incontrano molte difficoltà nell’
attuare il progetto stesso.
Il gruppo porta il nome di gruppo anziani ed obiettivi, oppure gruppo progetti proprio perchè i
partecipanti, dopo aver portato e condiviso delle loro difficoltà, si fissano un obiettivo per le
settimane successive; obiettivo che verrà verificato e discusso in sede di gruppo. Come tutti i
momenti della vita in comunità, anche questo non è esente da rischi, e quelli più frequenti sono
rappresentati dal pericolo che si inneschino dinamiche accusatorie, tipo capro espiatorio, processi
sadomasochistici tra i residenti, o inutili psicologizzazioni linguistiche.
Alcuni pazienti sono molto contenti di aderire al gruppo anziani ed obiettivi, e questo determina
anche un cambiamento nel loro atteggiamento; altri pazienti ne sono molto intimoriti, tendono a non
parteciparvi, come se vi fosse il timore di una eccessiva responsabilizzazione e la perdità di alcuni
benefici (verrò trattato maggiormente da adulto, dovrò essere più responsabile e non potrò più
usufruire di accudimento, o mi rendo conto che sono alla fine del percorso in comunità e dovrò
11
andarmene....) Accade che per qualcuno dei partecipanti sia in progetto una dimissione con
conseguente passaggio in un altra struttura o ritorno a casa; il gruppo funge anche da contenitore dei
vissuti relativi e da sostegno. Può accadere che un paziente, con progetto di dimissioni e passaggio
in altra struttura, manifesti difficoltà a partecipare a tale gruppo come se questo spazio
concretizzasse i suoi vissuti di separazione, difficili da gestire.
Può essere utile esemplificare quanto detto riportando in breve una seduta del gruppo anziani con all’ ordine del
giorno la discussione e verifica di obiettivi individuali. Alla seduta che risale a circa cinque mesi fa, partecipano, oltre ai
due conduttori, cinque residenti ( quattro maschi ed una femmina). Il gruppo ha inizio con un momento in cui tutti i
partecipanti comunicano il loro stato d’ animo. Ne emerge una atmosfera tendenzialmente disforica, orientata a vissuti
di inadeguatezza e demoralizzazione.
Con la mediazione dei conduttori, i residenti prendono atto dello stato d’ animo del gruppo e si interrogano sulle
motivazioni. Queste sembrano ricondurre al fatto che Federica, una residente del gruppo anziani molto presto lascerà la
comunità per proseguire il proprio percorso terapeutico presso una struttura specializzata nel reinserimento e, inoltre
Mario, anch’ egli un residente anziano, nel giro di poco tempo passerà all’ Unità di fase avanzata, lasciando di fatto il
gruppo.
A questo punto il gruppo passa a considerare gli obiettivi individuali dei partecipanti. Prende la parola Bruno, un
paziente sieropositivo di trentootto anni con una diagnosi borderline in comorbilità con abuso massiccio di sostanze
stupefacenti, il quale riporta con una certa apprensione di non essere riuscito nel proprio obiettivo, che consisteva nel
leggere durante la settimana il quotidiano al quale la comunità è abbonata e fare un breve report di un articolo che lo
aveva maggiormente colpito. Bruno prosegue elencando una serie di sintomi fisici che gli avrebbero impedito di
svolgere il proprio compito, sottolineando peraltro quanto un tempo fosse capace di ben altre prestazioni fisiche ed
intellettuali. Interviene poi Franco, un’ altro paziente trentenne con disturbo borderline di personalità, affermando di
aver trovato anch’ egli molte difficoltà nello svolgere il proprio obiettivo: questo consisteva nel porre attenzione alla
costanza ed alla puntualità rispetto alla borsa lavoro che egli svolge internamente alla comunità. Franco riferisce di non
trovare la propria occupazione stimolante e di non riuscire ad esprimere a chi lo segue nel lavoro il proprio disagio. E’ il
turno di Marco, il quale esprime senza troppo entusiasmo di essere riuscito a recarsi autonomamente in una biblioteca in
cui è impiegato per un progetto di borsa lavoro esterna. Francesca verbalizza come anche lei abbia raggiunto il proprio
compito e ne sia soddisfatta, nonostante si senta triste per l’ imminente partenza dalla comunità. Poi domanda a Marco
se la sua mancanza di entusiasmo non sia dovuta ad una motivazione analoga. Marco conferma annuendo, ma non si
esprime ulteriormente. Per ultimo si esprime Giuseppe, il quale si era posto l’ obiettivo di svegliarsi prima al mattino
per poter fare colazione con gli altri residenti. Giuseppe è riuscito solo qualche volta ad essere più puntuale e sembra
piuttosto scontento di se stesso.
A questa carrellata sugli obiettivi, segue una condivisione di tutto il gruppo dei vissuti di fallimento correlati al mancato
raggiungimento degli obiettivi stessi, nonchè delle resistenze presenti in alcuni membri del gruppo circa l’ immaginarsi
all’ esterno della comunità.
Emerge una riflessione corale sul senso di responsabilità come macroobiettivo del gruppo, che prende spunto dalla
necessità di sostegno vicendevole dei residenti senior, mediante la condivisione dei limiti individuali.
2) Il gruppo crisi
Vi ho accennato prima alla grave limitazione o perdita della funzione riflessiva e di
mentalizzazione, con tendenza ad agire impulsivamente; l’acting, l’agire un’emozione senza
mentalizzarla, altera la condivisione della vita in comune, di per sé peculiare e complessa.
Come salvaguardare quindi il setting comunitario e nel contempo perseguire il compito di
promuovere l’attività riflessiva e mentalizzante, magari con pazienti in doppia diagnosi per i quali
l’agito è particolarmente frequente?
Dalla necessità di trovare una risposta a tale domanda è nata la realizzazione del Gruppo Crisi, con
l’intento di affrontare e tentare di risolvere gli acting impulsivi che possono, con la loro
imprevedibile esplosività, destabilizzare se non addirittura paralizzare il processo terapeutico a
livello comunitario.
La dott.ssa Silvana Lerda, direttore clinico della unità, espone questa descrizione del gruppo crisi:
12
“ Il Gruppo Crisi coinvolge tutti i Residenti della Comunità distribuiti in due gruppi distinti; si
svolge una volta alla settimana in due tranches consecutive, ognuna della durata di tre quarti d’ora o
un ora.
L’apertura avviene mediante un “giro” espositivo di condivisione, durante il quale ogni partecipante
rende noto il proprio livello di malessere. In seguito è il Gruppo stesso a stabilire la crisi da trattare,
orientato in questo, o quando necessario indirizzato, dai Conduttori, il Direttore clinico ed il
Responsabile dell’ Unità.
A condurre il Gruppo sono infatti il Responsabile dell’ Unità e il Direttore Clinico in coconduzione. Entrambi hanno un ruolo attivo nell’orientare gli argomenti (la crisi) da trattare e nel
mantenere il focus, secondo un modello psicodinamico. Obiettivo importante è quello di creare un
clima di dinamica e omogenea partecipazione. Il rischio è che, malgrado tutti i propositi, i residenti
si pongano in una posizione di passività e dipendenza.
In un primo tempo il soggetto protagonista della crisi espone e descrive le ragioni della propria
sofferenza, supportato e aiutato a focalizzarsi sugli aspetti emozionali caratteristici. In una seconda
fase gli altri partecipanti esprimono il loro punto di vista e il vissuto emotivo verso la specifica
problematica considerata. Segue un terzo momento propositivo in cui sia il soggetto che il gruppo
avanzano ipotesi di gestione e di eventuale risoluzione della crisi.
I conduttori possono intervenire in ogni fase, per aiutare il protagonista o il gruppo.
Al Gruppo Crisi partecipano non solo i giovani e gli anziani ma anche i nuovi ingressi, ovvero
soggetti nel primo mese di accoglienza, a patto che le condizioni psicopatologiche lo consentano. I
Residenti vengono divisi in due distinti gruppi, formati dal Direttore Clinico e dal Responsabile
dell’Equipe sulla scorta della conoscenza individuale diretta delle singole realtà cliniche.
La creazione dei gruppi è dettata da esigenze inerenti la diagnosi psichiatrica e il funzionamento
psicodinamico, tenendo inoltre in considerazione l’utilità di uniformare per numero, età e sesso.
Tale valutazione si basa nello specifico
 sull’assessment psicopatologico,
 sul sentimento di realtà (perdita dei confini tra mondo interno ed esterno e della capacità di
differenziare il Sè dal non Sè),
 esame di realtà (presenza o assenza di fenomeni produttivi, livelli di angoscia, controllo di
impulsi),
 funzionamento affettivo-relazionale, meccanismi di difesa (primitivi/scissione/diniego o
secondari/rimozione),
 relazioni oggettuali (più o meno integrate, più o meno buone) e
 disturbi dell’identità (Io più/meno forte o più/meno debole).
Pre-Gruppo e post-Gruppo
Un quarto d’ora prima dell’inizio (pre-Gruppo) i Conduttori fanno il punto della situazione,
riflettendo sulla Crisi attuale e sulle tematiche relative, al fine di poter orientare i Residenti in tal
senso
Al termine (post-Gruppo) viene impiegato un quarto d’ora per riflettere sull’andamento del Gruppo,
sulle dinamiche sia individuali che gruppali e si compila un report settimanale.
13
Finalità


Sviluppare e promuovere la capacità di mentalizzare; stimolare la riflessività in
sostituzione della tendenza ad agire.
Alcuni autori (Fonagy, Correale) sottolineano la perdita nei pazienti borderline della
funzione riflessiva (intreccio continuo tra una parte orientata alla realtà e una parte orientata
sul modo in cui stiamo vivendo la realtà) e della mentalizzazione (capacità di attribuire a un
altro fantasie, pensieri, idee, sentimenti: quindi non solo che cosa fa l’altro, ma perché lo sta
facendo, derivando il suo comportamento da qualche sorgente interiore).
Il paziente borderline tende con facilità a vedere se stesso e l’altro in termini di
comportamento, con problemi nel riconoscimento della realtà e tendenza a confondere la
realtà vera e propria con quella immaginata.
Il trauma cumulativo (trauma relazionale ripetuto) avrebbe come effetto l’indebolimento
della capacità di elaborare l’esperienza, con una interruzione del flusso della coscienza
riflessiva; l’azione impulsiva è comunque il tentativo di liberarsi da uno stato di disforia e di
recuperare un meccanismo di controllo, magari attraverso la sfida. Il trauma induce a una
ripetizione: in sostanza il tentativo di tornare su esperienze traumatiche non elaborate a
sufficienza, con una rivisitazione di comportamenti inadeguati.
Contenere gli acting, considerati fattore critico per eccellenza e generalmente vissuti
come elementi di ostacolo al procedere dell’azione terapeutica.
La discussione degli agiti in riunione di comunità è generalmente tardiva per il paziente.
Non si impara certo dalle sanzioni, almeno per quanto riguarda il singolo soggetto; forse è
possibile introiettare la relazione oggettuale con un oggetto che pone dei limiti, per cui
l’ideale è che agli agiti vengano date risposte in modo spontaneo dai membri del gruppo, in
altri termini che sia lo stesso gruppo dei residenti a collocare i confini.
In questa ottica la pressione dei Residenti per la collocazione dei confini è un processo
interno al gruppo, di fondamentale importanza per il paziente borderline, se partiamo
dall’assunto che per lui far parte del gruppo è una questione di sopravvivenza.
In generale la promozione della sollecitudine dei Residenti verso sé e gli altri, così come la
partecipazione alla risoluzione di una situazione di crisi è un elemento importante che
sostiene l’autostima e permette di vivere attitudini riparatorie (vissuto inconscio di colpa
suscitato dai fantasmi violenti verso l’imago materna caratteristici dei movimenti verso
l’autonomia), avendo quindi potenziali valenze terapeutiche.

Finalità non dichiarata: preservare il paziente dal ricovero e dal drop out

Rischi: emotività espressa molto alta, oppure, come formazione reattiva, la paralisi del
gruppo
L’impossibilità di attivare il gruppo può comportare il limitarsi a interventi predicatori e moralistici,
con la percezione potenzialmente frustrante che quello che si fa sia in qualche modo dovuto ma
fondamentalmente inutile; si rischia di operare esclusivamente sulla salvaguardia del setting
comunitario dagli attacchi dei pazienti, enfatizzando la funzione pedagogica e normativa, in preda
all’ansia e smarrendo la possibilità di uno spazio di pensiero. Il rischio è che alla fine venga perso il
senso dell’intervento terapeutico, in ultima istanza allontanandosi da quello che il programma
dovrebbe prevedere per il paziente.
I Conduttori condividono la necessità di mantenere un setting rigoroso e costante.
Si sottolinea come non siano chiamate le persone assegnate al gruppo (fatta eccezione per i pazienti
particolarmente in crisi). Si inizia con i presenti, accogliendo le persone che arrivano in tempo
(entro il giro espositivo in cui si parla di “come sto”).
14
Rispetto alle difficoltà incontrate dai Conduttori, i Gruppi Crisi da un lato lasciano la sensazione di
essere inondati da molte emozioni, dall’altro la sensazione che sia difficile sviluppare una
discussione con il gruppo.
Rispetto alla modalità di espressione delle crisi nella Unità, ne emergono due opposte: chi tende ad
agire le emozioni con comportamenti distruttivi e aggressivi (estroversi); chi tende a chiudersi in se
stesso covando l’allontanamento dal progetto terapeutico (introversi).
Nella discussione emerge la necessità di distinguere con chiarezza il concetto di crisi dal concetto di
difficoltà. La crisi è caratterizzata da un momento di “frattura”, un arresto nel percorso terapeutico,
un nodo nello sviluppo della trama esistenziale del paziente; la crisi è fondata nel qui e ora, nel
presente carico di tensioni, conflitti, emozioni da governare. La difficoltà è caratterizzata da un
compito o una relazione percepita come faticosa ma affrontabile o già affrontata. La difficoltà si
inserisce nella trama esistenziale del paziente, è la tessitura quotidiana della vita emotiva e relazione
della persona con uno sguardo al passato e una progettualità nel futuro.
E’ importante avere a mente questa distinzione per caratterizzare l’obiettivo del Gruppo Crisi e
differenziarlo dal Piccolo Gruppo Terapeutico. Quest’ultimo lavora infatti sulle “difficoltà” dei
pazienti, rimandando i momenti di crisi nel setting specifico del Gruppo Crisi”.
3) L’ assemblea di comunità
Non mi dilungherò sul tema dellla Riunione di comunità avendo dedicato espressamente un
capitolo a questo argomento in un mio lavoro di alcuni anni fa ( Corulli 1997) ed essendo piuttosto
facile rintracciare in letteratura una serie numerosa di articoli su questo argomento e sul gruppo
allargato.
Vorrei limitarmi a ricordare come sia molto dibattuta l’ opportunità di un approccio interpretativo
nella conduzione dellla assemblea di comunità e siano decisamente più numerosi gli autori che
prediligono un genere di conduzione orientata verso un compito.
Presso la mia Comunità svolgiamo una assemblea ogni quindici giorni alla quale di norma
partecipano volontariamente circa la metà dei residenti di tutta la comunità e praticamente tutti gli
operatori in turno della giornata. E’ pertanto una riunione di circa quaranta o cinquanta persone che
è condotta “a tre mani”: da me in quanto presidente dellla Comunità, una collega, assistente sociale,
che in comunità assolve l’ incarico di Governante della casa ed un residente anziano a turno.
In effetti si tratta di una riunione molto problematica per quanto concerne la conduzione sia per il
grande numero dei partecipanti che per la partecipazione di residenti con livelli molto differenti di
funzionamento psichico ( dai disturbi di personalità a disturbi da psicosi, da pazienti da poco entrati
in comunità a pazienti molto avanti nel programma ).
Personalmente ho scelto di adottare uno stile di conduzione non interpretativo e lo scopo dichiarato
dellla riunione è di fornire informazioni e di ascoltare il clima generale di tutta la comunità
attraverso una agenda di argomenti che viene effettuata all’ inizio dellla riunione stessa.
In accordo con quanto sostiene Robert Hinshelwood vi sono alcuni rischi più frequenti che occorre
cercare di evitare: le interpretazioni individuali, l’ utilizzo del grande gruppo come palcoscenico per
effettuare una specie di psicoterapia individuale in pubblico, oppure una specie di scrutinio
terapeutico, la ricerca del capro espiatorio o dinamiche di spersonalizzazione. ( Hinshelwood R.
2002).
In questo senso la riunione di comunità diventa più che un gruppo psicodinamico, un forum aperto a
tutti i membri della comunità che vogliano portare problemi o piaceri relativi allla vita in comune ed
ai suoi valori.
Vi è tuttavia un compito non ufficiale che qualsiasi conduttore con una formazione psicodinamica
non tarda ad avvertire: continuamente nellla riunione di comunità aleggia il fantasma della follia, il
timore della pazzia, la paura che i pazienti avvertono di non farcela a progredire nella loro esistenza,
15
o peggio ancora che la comunità nel suo insieme non sia un contenitore adeguato per fronteggiare la
distruttività che si manifesta nella vita in comune.
4)
Le giornate assembleari di lavoro a tema
Da quando mi sono tagliato i favoriti ed ho smesso di andare a Vienna, mi sono iscritto ad un
master in antropologia ed ho ripreso a viaggiare sovente in Africa, come facevo quando ero studente
universitario. Credo che una formazione antropologica mi abbia anche aiutato a pensare alla
comunità come un piccolo villaggio, come una piccola organizzazione sociale. Anche io amo l’
Africa, come Cecilia Pennacini, ma mentre lei frequenta molto la regione dei Grandi Laghi, io giro
di più per l’ Africa sub sahariana.
Circa una decina di anni fa in Costa d’ Avorio ho fatto un lungo viaggio ed ho visitato numerosi
villaggi. In Costa d’ Avorio vi sono dodici popolazioni degli Akan, e presso una di esse, in un
villaggio degli Ashanti, ho partecipato per due giorni ad un Consiglio degli Anziani. Presso tutte le
popolazioni Akan, nei villaggio vi è un capo villaggio, un Consiglio degli Anziani che
rappresentano gli interessi più importanti delle famiglie del villaggio, ed un Consiglio dei Notabili,
costituito dalle personalità più stimate all’ interno del villaggio stesso.
Così al ritorno da questo viaggio, ho ripensato a come organizzare la leadership della comunità con
un Gruppo Responsabili ( direttori clinici, responsabili dell’ unità, governante, amministratore,
responsabile servizio accettazione…) che si riuniscono settimanalmente e valutano l’ andamento
della comunità nel breve periodo, ed un Consiglio Direttivo, che si riunisce ogni tre mesi e discute i
progetti a lungo termine.
Ma affrontare questo tema, ci costringerebbe a riflettere sui modelli della leadership più opportuni
per una comunità terapeutica.
Il capo villaggio degli Astanti mi aveva anche raccontato che ogni anno effettuava una riunione di
tutti gli abitanti del villaggio, dove si faceva festa e si discutevano i temi più importanti per la vita
del villaggio stesso. Così ne parlai con il mio “ Consiglio degli Anziani” ( Gruppo Responsabili ) e
con Robert Hinshelwood e negli anni abbiamo provato ad organizzare qualche cosa del genere.
Occasionalmente, circa una volta all’ anno la comunità organizza una giornata di lavoro
assembleare, con la partecipazione del maggior numero possibile di residenti ed operatori.
Alcuni mesi prima viene individuato un tema e vengono invitati almeno due conduttori esterni alla
comunità stessa. Negli anni abbiamo dibattuto in modo assembleare temi quali la convivenza, la
sessualità, la sicurezza, le dimensioni della Legge interna, la ritualizzazione, l’ organizzazione
stesssa dellla quotidianità.... invitando psicoanalisti, magistrati, antropologi a condurre queste
giornate di lavoro collettivo.
Provo ad accennarvi a due di queste giornate
 La prima sul tema de “ La sicurezza “ condotta con Robert Hinshelwood e Cecilia
Pennaccini
 La seconda sul tema de “ La affettività e la sessualità “ condotta Anna Ferruta, Marco
Bouchard, un amico magistrato, e con Cecilia Pennaccini
 Probabilmente la prossima giornata, nella primavera del 2008, sarà sul tema della
impulsività e degli agiti
Vi racconto a titolo esemplificativo qualcosa in merito ad una giornata di lavoro organizzata oltre
un anno fa sul tema della sicurezza. In genere il tema viene concordato e discusso con alcuni mesi
di anticipo all’ interno della assemblea di comunità. In questo caso, nel corso dellla primavera del
16
2005, la vita della comunità era stata disturbata da un ripetersi piuttosto consistente di furti, fughe,
comportamenti autolesivi...Di qui l’ idea di organizzare una giornata di lavoro sul tema della
sicurezza e della convivenza, condotta da uno psicoanalista, Robert Hinshelwood ed una
antropologa, Cecilia Pennacini, oltre che da me in qualità di Presidente della comunità.
Una volta individuato il tema, un piccolo gruppo di operatori si è messo al lavoro con un piccolo
gruppo di rappresentanti dei residenti, predisponendo un agile questionario da somministrare.
Profilandosi come una sorta di “domanda che la comunità faceva a se stessa” e rinunciando quindi a
qualsiasi pretesa di oggettività in senso stretto si è optato per un questionario assai sintetico e
composto fondamentalmente di frasi da completare, previlegiando così l’ immediatezza delle
risposte ed il rapporto empatico con l’ operatore.
Le domande erano:
- per me sicurezza in comunità significa...
- in comunità non mi sento affatto sicuro quando....
- un episodio che ricordo in cui non mi sono sentito sicuro in comunità è quando....
- se potessi, la prima cosa che cambierei in comunità al fine di sentirmi più sicuro è....
- a mio parere, il contrario di sicurezza è....
- in comunità mi sento al sicuro quando.....
Chiaramente non è facile riassumere in poche parole una grande quantità di temi ed argomenti
suscitati dalle risposte al questionario, ed emersi nel corso della giornata che si è svolta con una
prima sessione al mattino con tutti gli operatori e circa cinque rappresentanti dei residenti; una
seconda sessione con una assemblea di tutti gli operatori e residenti; una terza sessione pomeridiana
riservata ai soli operatori.
Il mio interesse in questo momento è maggiormente rivolto a cercare di illustrarvi i vantaggi di un
lavoro di questo genere, ove i residenti diventano parte attiva e collaborativa con gli operatori nell’
affrontare i temi della vita e della quotidianità della comunità terapeutica.
Il mio interesse è quello di riflettere con voi sull’ importanza che la comunità non sia soltanto, per
usare una felice espressione di Antonello Correale, “ apparato produttivo di una quotidianità fluida
e continuativa” – il che mi appare naturalmente come un grande risultato; ma diventi occasione per
una riflessione in comune tra operatori e residenti.
Esimendomi dunque dal riportarvi un resoconto puntuale dei risultati del questionario e della
giornata, vi accenno agli aspetti che mi sono apparsi come i più rilevanti da parte degli operatori e
quelli che mi sono apparsi come il più sentiti da parte dei residenti.
Gli operatori hanno più volte sottolineato l’ importanza della sintonia di metodi ed intenti con i
colleghi, insieme con la chiarezza mansionale, gerarchica, procedurale e progettuale. La sicurezza si
concretizza, secondo i discorsi degli operatori in un clima diffuso di collaborazione e condivisione,
nella coesione del gruppo di lavoro, nella coscienza degli obiettivi degli strumenti e dei limiti. A
fronte di quanto esposto, potremmo dire che per gli operatori sentirsi poco sicuri significa
soprattutto sentirsi isolati. L’ accento è posto soprattutto sulla comunicazione puntuale tra colleghi,
nonchè sulla condivisione di informazioni e strategie d’ intervento.
I residenti hanno posto nel corso dell’ assemblea il problema di potersi sentire o essere vissuti come
degli “ infami” dagli altri residenti: il conflitto cioè tra il poter essere di aiuto per un proprio
compagno evidenziando problematiche o comportamenti inadeguati, ma il rischio di potersi vivere
o essere vissuti come delle spie o peggio ancora dei delatori collaborazionisti. Ed il conflitto di
poter essere accusati come “infami” dagli altri residenti, qualora rivelino qualcosa che li ha
preoccupati, ma di essere accusati come “omertosi” da parte degli operatori, qualora non rivelino
quanto li ha preoccupati.
17
Ho cercato brevemente di esemplificarvi questi quattro momenti della organizzazione della
comunità nell’ intento di fare comprendere come il gruppo obbiettivi assolva il compito di segnalare
ai singoli comportamenti non accettati o non accettabili e considerati disturbanti per la collettività,
l’ assemblea di comunità e le giornate a tema abbiano il merito di suscitare discussioni ed argomenti
di interesse generale, che non si esauriscono in se stessi, bensì vengono a lungo ripresi in altri
momenti gruppali e colloqui individuali.
Conclusioni
Per concludere vorrei molto brevemente riprendere il tema precedentemente accennato dello
sviluppo di un modello di terapia ambientale e comunitario che segna un cambio di civiltà.
“ Le comunità terapeutiche non sono programmi di trattamento statici, ma organizzazioni o
elementi di organizzazioni che hanno un continuo processo di adattamento in risposta alle
circostanze interne ed esterne “ ( Jones, 1997 pag. 121 )
Se accogliamo questo concetto a modello di sviluppo di una comunità terapeutica, quanto diventa
distintivo di questo genere di istituzioni non sono più le tecniche specifiche, - un approccio
terapeutico multifattoriale con un equipe multidisciplinare, la psichiatria riabilitativa piuttosto che la
psicoanalisi o la terapia sistemica - ma la consapevolezza dell’esperienza quotidiana come un
opportunità di apprendere qualcosa di sé in relazione agli altri.
Ed in questo senso forte della definizione di comunità terapeutica assume sempre più importanza
il fatto che un equipe abbia pensato e mentalizzato alcune questioni e dinamiche fondamentali per la
direzione della cura.
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