C’è fannullone e fannullone
lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]
Incontro, a luglio, Raffaella in un ascensore della Regione Lazio. Siamo stipati, la ventola interna di
aerazione non funziona, si suda. Lei viene su dal bar, ha dell’acqua e un vassoio con dei caffè, sta
andando a non so quale piano per non so quale incarico – magari sta solo portando un ristoro ai
colleghi: ho sempre avuto difficoltà a capire esattamente i suoi compiti, ma d’altronde questo vale
per buona parte dei «regionali» che conosco. Non la vedevo da tempo – Raffaella scompare
letteralmente dal lavoro per lunghi periodi. È abbronzantissima, i denti le splendono in bocca,
freschissima e fichissima con il suo fisichino ancora asciutto a dispetto degli anta e di due figli.
Nell’esasperante lentezza dell’ascensore davanti al mio sguardo sorpreso e compiaciuto trova modo
di civettare un po’ – è allegra, gesticola, fa l’occhiolino, lo spettacolino è gratuito per tutti – e di
raccontarmi che è stata «costretta» ad andare al mare – la generosa scollatura non lasciava
comunque dubbi –, altrimenti avrebbe perso tutte le ferie maturate. Rimango a bocca aperta e
pallido come un cencio. Ho davanti ancora un mese buono di lavoro e un’incertezza sul futuro
grande come l’ascensore – lei è una «regionale», io non so neppure più che pesce sono. Mi dico che
se nasco un’altra volta e ho l’opportunità di scegliere cosa diventare voglio essere Raffaella.
Incontro poi, ad agosto, in Calabria – anch’io sono andato in ferie, dopotutto – un caro amico che è
diventato presidente di un’importante istituzione locale. Mi racconta che va al lavoro tutti i giorni,
un po’ perché ha bisogno di impratichirsi del nuovo ruolo, un po’ perché vuole dare un ‘segno’ ai
dipendenti, che però non sembrano cogliere molto: sono tutti in vacanza – il dirigente tecnico lo
chiama con scrupolo quasi quotidianamente dalle Baleari per sincerarsi che tutto sia sotto controllo,
i faldoni, le scartoffie, le password, la posta –, tranne uno che ha un pastore tedesco ormai vecchio e
malandato che non sa mai a chi lasciare. Così, si fanno compagnia, il cane e il dipendente, e il mio
amico e il dipendente. Un giorno il dipendente ha portato il cane all’istituto, ma il mio amico l’ha
convinto che il ménage non è cosa, anche se è agosto. Il mio amico ha scoperto che il presidente suo
precedessore – ora passato ad altro prestigioso incarico, con prestigioso emolumento, la politica lo
sistema sempre – aveva l’abitudine di monetizzare le ferie maturate: negli ultimi due anni si è
liquidato ventimila euro a botta. Ventimila euro. A botta. E durante l’anno veniva in sede quando
gli pareva, nessuno stava lì a controllarlo, scompariva letteralmente per intere settimane.
Così, intesso fili: Raffaella e l’ex presidente d’istituto sono due abilissimi manovratori di permessi,
malattie, fogli presenza. Due fannulloni. Nonostante un’inveterata attitudine a non fare
assolutamente un beato cazzo sul lavoro, a sottrarsi con programmata scientificità a qualunque
mansione a cominciare da quella minima del recarsi, sul lavoro, riescono pure a cumulare ferie.
L’invidia mi stravolge i sensi.
Raffaella guadagna sugli ottocento euro al mese, è in part time e credo faccia difficoltà a tirare
avanti – talvolta me n’ha accennato –, con due figli poi, anche se prende gli alimenti dall’ex marito.
Da quando s’è separata sta con certi parenti, dei cugini, dei fratelli, non so, periferia est di Roma.
Immagino si arrangi in qualche modo, un qualche lavoretto in qualche negozio, o un qualche
innamorato che la aiuta. Il part time è una sua scelta, vuole la sua libertà – dice – e, stesse in me, io
la pagherei solo per venire qualche volta in ascensore a tirare su quelle facce da mortorio. Se
cumula ferie, va al mare – il gesto è conseguente a una sua filosofia di vita.
L’ex presidente d’istituto guadagna sui duecentomila euro l’anno, tra una cosa e l’altra. Se cumula
ferie, monetizza – il gesto è conseguente a una sua filosofia di vita.
C’è fannullone e fannullone, quindi: se la «forbice» dei comportamenti sul lavoro e del «rendimento
produttivo» tra alto e basso livello tende a stringersi verso lo zero, quasi fino a sovrapporsi, quella
del compenso economico tende a divaricarsi sempre più. A uguale lavoro, anzi a uguale non-lavoro,
corrispondono stipendi ben diversi. Dicono sia impossibile, o quasi, mandare a casa un lavoratore
nullafacente, e difatti Raffaella sguazza in una complicità generale o tutt’al più c’è un mormorio;
ma provateci voi a mandare a casa un dirigente fannullone: il loro potere di interdizione e di ricatto
è altissimo, la mobilitazione delle associazioni di categoria, delle lobby, dei rapporti informali scatta
immediatamente, e si capisce anche facilmente: un dirigente sta al proprio posto per nomina
politica, i bandi di reclutamento sono una barzelletta, la sua prebenda è il «saldo» di tanti lavoretti
fatti per la propria cordata e a quella deve dare conto e ne è protetto. La «tabella di rendimento» dei
manager, di cui talvolta parla Pietro Ichino come fosse il programma d’allenamento d’un atleta
rigoroso e inflessibile, è una boiata: se la fanno tra loro dirigenti, la «tabella», e ce ne fosse mai uno
che non ha raggiunto la soglia massima di prestazione. In più, spesso si diventa dirigente a fine
carriera, come «premio» d’una vita spesa a servire questo o quel padroncino politico; ma questo
significa che si va in pensione con il massimo dello stipendio e per trent’anni ci tocca mantenere a
livelli altissimi oscuri burocrati incapaci e le loro famiglie.
E allora. Un uomo di un’ora non vale più un altro uomo di un’ora. Soprattutto, un’ora di non-lavoro
non vale più un’altra ora di non-lavoro. Quella che era scienza operaia di resistenza
all’organizzazione capitalistica della produzione e dello sfruttamento, quello che era sapere operaio
sulla produzione, quello che era, insomma, il «rifiuto del lavoro» s’è rovesciato nel suo senso
opposto: totale accettazione della follia del capitalismo, o di quel che l’è adesso il «sistema» –
ingrassarci dentro, è questa la filosofia di vita del manager-dirigente, ricavarci una nicchia per
sopravvivere è la filosofia di vita del lavoratore. La liberazione di tempo sociale, di tempo non
immediatamente produttivo, è talmente alta che c’è una greppia ottima e abbondante. Il capitalismo
– o quel che l’è adesso il «sistema» – non ha bisogno del nostro lavoro. Il fannullonismo è la
malattia senile del capitalismo.
A petto di questo, Raffaella, col suo dilettante e artigianale train de vie mi sembra un fulgido
esempio di attaccamento al lavoro, o quanto meno a un «luogo» del lavoro, i colleghi, le
chiacchiere, la socialità, lo scambio di idee e opinioni – una giornata un po’ meno merdosa.
Se c’è un solo motivo convincente per cui a settembre torno in Regione, è che spero di rivederla in
ascensore. Sono pure convinto di non essere il solo ad aspettare di incontrarla. Prima o poi.
Roma, 29 agosto 2007