Anticipazioni - Comunisti fascisteggianti BOMBACCI, IL SOVIET E IL FASCIO Personaggio borderline, atipico e tragico, Nicola Bombacci fu rivoluzionario con Mussolini, fu suo nemico, fondò il Partito Comunista assieme a Gramsci e Bordiga e ne venne espulso. Morì con Mussolini a Dongo, gridando ai partigiani «Viva il Socialismo!» e dopo la guerra fu condannato alla damnatio memoriae. Eppure fu l’uomo del riavvicinamento dell’Italia fascista alla Russia di Lenin, come rivela una recente biografia che «Storia in Rete» anticipa di Guglielmo Salotti A distanza di pochi mesi, la Marcia su Roma e l’avvento al potere di Mussolini avrebbero paradossalmente spianato la strada alla possibilità di un accordo diretto tra il governo fascista e quello sovietico. In questa prospettiva, un ruolo molto importante ebbe a ricoprire proprio Bombacci. Questi era partito, nell’ottobre 1922, poco prima della marcia su Roma, per Mosca, per partecipare, insieme a una folta delegazione comunista e socialista, al IV Congresso dell’Internazionale (9 novembre-15 dicembre 1922). Unitamente agli altri delegati, Bombacci figurava tra i firmatari, in dicembre, di un manifesto di condanna del colpo di mano fascista, in cui si invitava il proletariato italiano a riorganizzare le proprie forze, di cui il Partito comunista unificato (si dava infatti per concluso l’accordo tra PCI e PSI – e infatti il tono dell’appello era più fusionista che propriamente antifascista – poi invece fallito, anche per l’opposizione, da parte socialista, di Nenni e Vella) sarebbe diventato il centro motore, e l’avanguardia «nella lotta contro il fascismo maledetto», e a difendere la causa del comunismo «legalmente, quando sia possibile, illegalmente quando sia necessario!». I firmatari del manifesto furono subito denunciati alla magistratura: si salvarono soltanto Graziadei e Bombacci, i quali, in quanto deputati, non erano perseguibili, anche se qualcuno ha voluto vedere in questo «trattamento di favore» da parte di Mussolini una conferma della simpatia che, al di là delle barriere ideologiche contingenti, lo legava al proprio conterraneo. (…) Ma le strade di Bombacci e Mussolini, apparentemente distanti in quel momento (Bombacci, sempre secondo il citato documento della questura di Roma, si muoveva allora in incognito, per timore di persecuzioni in Italia, ed era in procinto di recarsi in Anatolia, presso Kemal), erano destinate a incontrarsi nuovamente, verso la fine di quello stesso anno, e proprio sulla questione del riconoscimento della Russia sovietica da parte del governo italiano. Confermando la posizione possibilista dimostrata al riguardo dai fascisti ancor prima della marcia su Roma, e chiaramente espressa nei colloqui con Vorovskij, Mussolini aveva del resto affermato, nel suo discorso presidenziale del 16 novembre 1922: «Per quanto riguarda la Russia, l’Italia ritiene che sia giunta l’ora di considerare nella loro attuale realtà i nostri rapporti con quello Stato, prescindendo dalle sue condizioni interne nelle quali come Governo non vogliamo entrare, come non ammettiamo interventi estranei nelle cose nostre; siamo quindi disposti ad esaminare la possibilità di una soluzione definitiva». Giunse al punto, Mussolini, di rischiare un’impasse diplomatica con la Gran Bretagna, quando ordinò ai diplomatici italiani di appoggiare la richiesta russa di partecipare alla Conferenza di Losanna del fine novembre-dicembre, su un piede di parità con le altre potenze. All’atteggiamento del nuovo governo italiano faceva del resto riscontro una analoga volontà espressa da quello sovietico, in un primo tempo per bocca di Vorovskij, poi (4 dicembre) di Krassin. Il riallacciamento di normali e cordiali rapporti tra Italia e Russia stava tanto a cuore a Mosca, che esso non fu turbato nemmeno da una violenta campagna anticomunista, con denuncie e arresti, fatta scattare dal governo di Roma dopo l’appello antifascista dei membri della Terza Internazionale. Anzi, lo stesso Vorovskij volle precisare che il «sincero desiderio di un più stretto ed amichevole riavvicinamento con l’Italia, con la quale la Repubblica russa ha tanti comuni interessi, politici, economici e culturali», non aveva subìto modifica alcuna in seguito al cambiamento di governo in Italia, e che le posizioni assunte dall’Internazionale comunista non riflettevano minimamente quelle del governo sovietico, trattandosi di due organismi del tutto indipendenti l’uno dall’altro; analoghe assicurazioni vennero fornite nel marzo 1923 da Cicerin ad Amadori. In realtà, il riaffermato «distinguo» sostenuto a Mosca tra governo e Internazionale tendeva soprattutto – come rilevò lo stesso Amadori in una lettera del 12 marzo a Mussolini – a evitare il pericolo che le iniziative di quest’ultima portassero a una rottura con l’Italia, tale poi da ripercuotersi anche nei rapporti con gli altri Stati, e da creare nuovamente intorno alla Russia sovietica una sorta di «cordone sanitario», come nel 1920. Non senza ragione ci siamo soffermati sulla natura dei rapporti diplomatici italo-sovietici di fine 1922-inizi ’23, in quanto essi possono spiegare, insieme ad altri particolari, i reali contorni entro i quali si mosse Nicola Bombacci, nel suo intervento del 30 novembre 1923, alla Camera, sulla conversione in legge dell’accordo preliminare tra Italia e Russia del 26 dicembre 1921. Un discorso, quello di Bombacci, che parve allora «eretico», e che provocò una serie di reazioni, non solo all’interno del Partito comunista, ma di tutta la stampa italiana; ma che proprio alla luce di quei rapporti diplomatici viene ad acquistare una fisionomia diversa, meno «eretica» e individualizzata di quanto potesse allora, o sia potuto in seguito apparire, nulla con ciò togliendo alle sue convinzioni personali. Cosa aveva detto di così poco ortodosso Bombacci? Rivolgendosi a Mussolini (che, oltre a quella di presidente del Consiglio dei ministri, ricopriva ad interim le cariche di ministro dell’Interno e degli Affari Esteri), il deputato comunista, premesso che il suo sarebbe stato un discorso non politico ma prettamente di carattere economico, ammise – fra i commenti compiaciuti dai banchi del governo – che i governi precedenti a quello della marcia su Roma poco o nulla avevano fatto per il ristabilimento delle relazioni commerciali tra Italia e Russia, pur lamentando che fosse trascorso ormai un anno dal discorso conciliante del presidente del Consiglio (16 novembre 1922), e insinuando il sospetto – subito confutato dallo stesso Mussolini e dal ministro delle Colonie Federzoni, chiamato direttamente in causa – che all’interno del Gabinetto qualcuno tramasse per impedire la ripresa dei rapporti fra i due Stati. In effetti, proseguendo nel suo intervento, Bombacci si era attenuto agli aspetti economici della questione, rilevando, in risposta a una delle tante interruzioni di Mussolini, secondo cui bisognava essere in due per fare un trattato commerciale, che egli supponeva esistesse da parte del governo sovietico la massima e immediata disponibilità in tal senso, anche per parare le manovre già in atto da parte di francesi, inglesi e americani per monopolizzare i commerci con la Russia. A quel punto, Bombacci mise non poco in imbarazzo Mussolini e l’intero Parlamento, smentendo l’asserita uniformità all’interno del governo sul tema dei rapporti con la Russia, al punto che si era cercato di tenere nascosto al presidente del Consiglio il testo di un telegramma del rappresentante italiano a Mosca, contenente precise condizioni in proposito avanzate da parte sovietica. In effetti, le indagini subito ordinate in tal senso da Mussolini portarono alla scoperta, al ministero degli Esteri, di un telegramma del ministro Paternò (che il 13 ottobre 1923 aveva sostituito Piacentini alla guida della Missione economica italiana a Mosca), con le ultime condizioni poste da Cicerin, nascosto sotto una pila di documenti e di telegrammi sul tavolo di Contarini, che, a detta dello stesso Paternò, intendeva sabotare le trattative. (…) Fu allora che il deputato comunista infiorettò il proprio discorso, sino a quel momento assolutamente «innocente», con una frase che, se provocò al momento prolungati commenti in aula, ben più numerosi ne avrebbe suscitati in seguito. «La Russia – disse Bombacci – è su un piano rivoluzionario: se avete come dite una mentalità rivoluzionaria non vi debbono essere per voi difficoltà per una definitiva alleanza fra i due Paesi». E concluse rilevando come, all’interno del governo, ci fossero disfattisti che, «per fare dispetto alla rivoluzione soviettista non pensano se arrecano danno all’Italia. In questa discussione al disopra del vostro Governo, si tratta dell’Italia… So che tutta la Camera, tutta, anche i fascisti, oggi sono d’accordo in questa mia tesi nel ritenere cioè che bisogna concludere definitivamente il trattato con la Russia. Io chiedo solo che dalla teoria si scenda alla pratica; io chiedo che il Governo tenga presente le considerazioni che io ho esposte perché nell’attesa non ne venga danno all’Italia. Sì per l’Italia, perché le mie opinioni non mi negano di desiderare il bene dell’Italia. Noi, onorevoli colleghi, vogliamo superare la Nazione non distruggerla, noi la vogliamo più di voi grande, e perciò vogliamo che sia retta da un Governo di operai e contadini…». Da un punto di vista meramente ideologico, quest’ultima parte del discorso, ruotante intorno al concetto di nazione piuttosto che a quello di classe, era semmai ancor più «eterodossa» della precedente. Sul tema del conflitto classe-nazione Bombacci tornò molti anni più tardi, nell’aprile del 1936, in un articolo sul primo numero della «Verità». Vi negò l’assioma marxista secondo cui, per il proletariato, la sola, vera Patria sarebbe l’Internazionale di classe, mentre proprio le vicende del conflitto mondiale avevano dimostrato il contrario, contrapponendo il più evoluto proletariato tedesco, che si sentiva legato alla propria nazione e che per essa aveva combattuto, al meno cosciente proletariato russo, mantenuto dallo Stato zarista in condizione di schiavitù, che aveva invece abbandonato il fronte. Per quanto riguardava l’Italia, Bombacci negò che fossero stati i socialisti del tempo a negare la Patria («diritto incontestabile e sacro di ogni uomo e di ogni gruppo di uomini»), facendo ricadere sulla «politica balorda» dello Stato conservatore-liberale la responsabilità di aver «celato» la Patria al proletariato italiano. «E del resto – ribadirà in una lettera del 9 aprile 1942 a Giuseppe Giulietti – tu non sei il solo a conoscere… che il mio socialismo non fu mai anti-nazionale». All’intervento parlamentare di Bombacci seguì, quello stesso giorno, la risposta di Mussolini, che, confermando la linea realistica di politica estera propugnata dai fascisti, ammise l’ormai avvenuta ripresa, pur rallentata da una certa «pedanteria» sovietica, di trattative diplomatiche fra i due governi, riconoscendo le ragioni prettamente economiche che rendevano auspicabile il conseguimento di un accordo; tale sottolineatura doveva intendersi soprattutto ad usum dei settori della destra conservatrice e nazionalista, nettamente contrari a qualsiasi apertura a Mosca. «Il problema – affermò Mussolini tra le significative approvazioni dell’estrema sinistra – deve essere posto in questi termini di schietta e, oserei dire, brutale utilità nazionale: è utile per l’Italia, per l’economia italiana, per l’espansione italiana, per il benessere del popolo italiano, è utile il riconoscimento de jure della Repubblica russa, in quanto questo riconoscimento faciliti le relazioni economiche e quindi l’espansione del popolo italiano? Io rispondo sì. Naturalmente quando si trattano i problemi della politica estera sulla base dell’utilità nazionale, ci vuole il do ut des. Io, Italia, Governo italiano, dando prova di spregiudicatezza politica, riconosco il vostro Governo, vi introduco di nuovo nella circolazione politica e diplomatica delle società occidentali; e voi, russi, datemi un corrispettivo concreto, datemi un buon trattato di commercio, datemi delle concessioni per le materie prime, di cui la nazione italiana ha sommamente difetto. Se la Russia entra in quest’ordine di idee, se la Russia ci concede quello che noi chiediamo, non vi è dubbio che le trattative attualmente in corso arriveranno ad una felice conclusione…». (…) A parte i commenti – scontati o imbarazzati – al discorso di Mussolini, la stampa non mancò di stigmatizzare le affermazioni di Bombacci, in modo particolare il suo accenno alla possibile «convergenza» delle «due rivoluzioni». Il 1° dicembre l’«Avanti!», parlando di «comunismo fascisteggiante», deplorò l’atteggiamento del deputato comunista: «Bombacci avrebbe dovuto risparmiare alcune concessioni fatte alla parte avversa riuscite così poco intonate da suscitare degli applausi ed un complimento dei fascisti; concessioni che non possono riuscire bene accette al nostro proletariato martoriato dalla reazione, il quale sa quale differenza reale esiste fra la rivoluzione russa e quella parodia di rivoluzione fatta dal fascismo. Si tratta di una linea di dignità e coerenza dalla quale non si deve deviare». Il 5 dicembre fu la volta del Partito comunista, il cui Comitato esecutivo diffuse un comunicato dove, pur riconfermandosi il voto favorevole alla ripresa dei rapporti italo-russi espresso in aula dai parlamentari del gruppo, si prendevano le distanze dal discorso di Bombacci. «Il proletariato italiano – si leggeva fra l’altro – approva la ripresa dei rapporti economici con la Russia ed il suo riconoscimento politico; non per le ragioni di ristretto ed egoistico interesse economico, quale è quello che muove la borghesia capitalistica, ma perché in tale fatto vede un rafforzamento ed una possibilità di un maggiore sviluppo della forza del proletariato russo che, contro gli attacchi aperti ed occulti della borghesia internazionale mantiene saldamente il suo posto di avanguardia della rivoluzione mondiale». Il comunicato concludeva con un invito a Bombacci – non più autorizzato a rappresentare il partito alla Camera e a parlare in suo nome – a rassegnare le dimissioni da deputato. (…) Antonio Gramsci, nel difendere le misure adottate dal Partito comunista nei confronti dello spettacolo indecoroso provocato dalla debolezza e dall’incapacità di Bombacci, ne criticò il «linguaggio banalmente cortese e degno di un politicante di piccolo calibro», rilevando peraltro come sin dagli inizi della partecipazione alla vita parlamentare dei fascisti, egli avesse tenuto nei loro confronti un contegno improntato «a una deplorevole cordialità», abbassandosi «fino all’adulazione della rivoluzione fascista e della mania di grandezza di Mussolini con luoghi comuni di una banalità sconsolante… invece di portare nella discussione la voce fiera e dignitosa del proletariato internazionale, vittorioso in Russia dove tiene saldamente il potere nelle sue mani…». (…) Lo stesso Tasca intervenne il 12 dicembre a una riunione del gruppo parlamentare comunista, in cui si erano levate voci totalmente o parzialmente favorevoli a Bombacci e al suo discorso parlamentare, o almeno contrarie a una sua troppo sbrigativa condanna da parte del Comitato esecutivo, anche per la negativa impressione destata sulle masse dai troppo drastici provvedimenti assunti nei suoi confronti. «Bombacci ha parlato per la Russia, per Lenin; perché il Partito vuole cacciarlo via?», si erano domandati alcuni operai avvicinati da Remondino. Alcuni membri del gruppo parlamentare avevano espresso pubblicamente la propria solidarietà politica a Bombacci, chiedendo al Comitato esecutivo dell’IC di concedergli la possibilità di difendersi. (…) Tasca aveva giustificato la condotta del Comitato esecutivo, affermando fra l’altro: «Bombacci non aveva il mandato né il potere di far accettare da Mussolini il riconoscimento dei Soviety. Soltanto la sua stupida vanità lo ha spinto a credere, a lasciar credere, e forse a credere egli stesso di avere un simile compito… Bombacci non ha resistito alla tentazione di apparire come un “ambasciatore”, la “longa manus” di Jordansky o addirittura dei Capi dello Stato Russo…». (…) Resta da vedere quanto, al di là, ripetiamo, delle convinzioni di Bombacci, il suo discorso «eretico» (meglio sarebbe però dire la sua frase «eretica») derivasse veramente e totalmente da una sua personale iniziativa, o non risentisse invece di qualche interessato «suggerimento». Lo stesso Bombacci – come notò Angelo Tasca nel suo intervento alla riunione del gruppo parlamentare del 12 dicembre – aveva cercato di parare i colpi, sia appellandosi all’esecutivo della Terza Internazionale e rifiutando di dimettersi da deputato, sia ammettendo che l’ambasciatore russo a Roma (più verosimilmente, l’incaricato d’affari sovietico Jordanskij), cui aveva preventivamente sottoposto lo schema del discorso, lo aveva incoraggiato a pronunciarlo, per rendere un servizio alla Russia. Un’ipotesi del genere era stata in effetti avanzata, sin dal 4 dicembre, dall’«Avanti!» che, commentando l’intervista rilasciatagli dallo stesso Bombacci per riaffermare le tesi del suo discorso, scrisse in proposito: «Quest’intervista mette in rilievo che quando si subiscono ciecamente certe forme di disciplina internazionale, eccessivamente centralizzate e muoventisi su un binario uniforme, si hanno le mani legate e non si può fare ciò che invece ha potuto fare Lazzari durante la stessa discussione: difendere il diritto della Russia di entrare nella vita internazionale senza dimenticare la luce che si sprigiona dal faro della rivoluzione proletaria vittoriosa». Nel corso dell’intervista, Bombacci aveva negato di aver fatto concessioni eccessive al fascismo e al governo: «A meno che tu non consideri una concessione l’avere impostato il mio discorso su un terreno che è fuori della politica interna del Governo presente… Nel mio discorso… volevo dimostrare non la colpa del Governo di Mussolini per la sua politica liberticida, perché per me quella non era la sede, ma volevo dire alla Camera quali vantaggi concreti può avere l’Italia se sarà la prima a riconoscere de jure la Repubblica sovietista». Quanto poi alla frase «incriminata», secondo Bombacci essa era «chiarissima. Non so perché nessuno l’abbia compresa. È vero o no che i fascisti affermano di continuo di aver fatto una rivoluzione? Ebbene io – con evidente intenzione ironica – esclamai che un Governo rivoluzionario non doveva avere scrupolo di prendere accordi con un Governo sorto da una rivoluzione… Da ciò a dire che la rivoluzione russa e quella fascista sieno una cosa sola, è per lo meno un’aberrazione». Guglielmo Salotti (per gentile concessione dell’editore Mursia)