La Storia di Roma Antica,dalle origini al Sacro Romano Impero

STORIA DI ROMA ANTICA
Le Origini
Il Lazio prima di roma
Il Lazio originario non era tra le regioni più favorite dell'Italia antica. Esso rimase a lungo una
terra bassa di materia tufacea, di cenere e detriti e scorie vulcaniche, coperta di acquitrini e
paludi alimentate dalle violente inondazioni del Tevere e dei torrenti.
Con questo nome nell'età antica non si indicò sempre lo stesso territorio. L'antico Lazio
(Latium vetus) aveva approssimativamente per confini il Tirreno dalla foce del Tevere ad
Anzio e alle alture di Terracina a Sud, i monti del paese dei Vulci, i monti Cornicolani,
Prenestini e Lepini a Oriente e il Tevere a Nord
Nell'età eneolitica questo territorio fu occupato da quelle tribù di Italici che lo abitavano più
tardi, nei tempi storici, col nome di Latini, i prisci Latini, vigorosa popolazione di pastori e di
agricoltori, meravigliosamente tenace nel mettere a coltura la zona dei colli laziali e quella
pianeggiante acquitrinosa, ricoprendo a poco a poco il paese di villaggi. Più tardi col nome di
Lazio si indicò tutta la regione compresa fra l'Etruria, la Sabina, il Sannio e la Campania.
Così Plinio indica il Lazio originario col nome di Lalium antiquum o vetus, e distingue
nettamente da esso le parti successivamente aggiunte, in particolare il territorio del Liri, col
nome di Latium adiectum.
I Latini, date le condizioni del suolo e la necessità di lavori gravosi che richiedevano unità di
sforzi e cooperazione di molteplici energie, si riuniranno in villaggi per utilizzare le loro forze
collettive e per ragioni di difesa, in quella pianura aperta da ogni parte ad assalti, a rapine, a
saccheggi e di fronte ai montanari che potevano scendere a razziare dai monti vicini della
Sabina o dai monti Simbruini. Da tali condizioni derivarono certamente i forti ordinamenti
militari che si diedero i Latini, sempre pronti a lasciare l'aratro, a interrompere i lavori del
campo per impugnare le armi, come ce li rappresenta la leggenda di Cincinnato.
La comunanza di lingua, di usanze, di civiltà, di pratiche religiose portava i villaggi laziali a
stringere fra loro non tanto leghe politiche quanto federazioni religiose, per cui si riunivano in
alcune feste sui sacrari laziali a compiere i loro sacrifici. A parte la leggenda secondo cui,
morto Enea, il figlio Ascanio avrebbe fondato Albalonga, è certo che tra i Colli Albani si
trovava il centro religioso più rinomato, dove era venerato il dio supremo della stirpe,
Iuppiter latiaris. Sul Monte Cavo, sotto la direzione di Albalonga, in mezzo al recinto sacro,
sull'ara dedicata a Giove (non v'era un santuario innalzato a lui) nella festa annua delle
Feriae latinae si sacrificava un toro bianco e una parte delle carni del sacrificio era distribuita
ai rappresentanti di tutti gli staterelli che partecipavano alla lega sacra. Una lista
conservataci da Plinio, corrispondente a un momento arcaicissimo, ci fa conoscere i nomi di
trentun comunità latine federate, di cui quasi una metà ci restano ignoti; gli altri sono: Albani,
Aesolani, Bolani, Cusuetani, Coriolani, Fidenates, Foreti, Hortenses, Latinienses, Longani,
Munienses, Pedani, Poletaurini, Sicani, Tolirienses, Tutienses, Vitellenses. Altre fonti fanno
ascendere il loro numero a quarantasette, compresa Roma, sicchè possiamo farci una idea
della condizione topografica del Lazio antico. Roma era destinata a succedere ad Albalonga
nella direzione della lega.
La Monarchia
Origini di Roma e la leggenda
La popolazione latina dei Colli Albani crescendo di numero sentì il bisogno di scendere
verso la pianura allargandosi, per necessità di pascoli e di terreno da coltivare, verso il
Tevere che costituiva un confine naturale e, sulle colline che sorgono presso il fiume, si
procurava una fortezza naturale dì difesa, in un punto di eccellente vigilanza dove esso sì
restringe e offre un più facile passaggio attraverso l'Isola Tiberina, e un controllo delle strade
di comunicazione dalla Sabina e dall'Etruria al mare. In questa zona e più vicini al Tevere
sorgono il Capitolino, il Palatino e l'Aventino: il Capitolino, allora sperone avanzato del
Quirinale; il Palatino con le due cime distinte del Germalo e del Palatium, l'Aventino pure con
due alture separate da una sella interposta. Più nell'interno erano il Celio già denominato
Querquetulano perché coperto da boschi di quercia, quindi la Velia e il colle dell'oppio e
quello del Fagutal che prendeva il nome dai boschi di faggio, posti avanzati dell'Esquilino, e
più oltre il Viminale parallelo quasì al Quirinale. Suggestive ci appaiono le notizie, purtroppo
assai scarse, di un antichissimo centro abitato, scoperto sulla vetta del Germalo, la più
settentrionale del colle Palatino, un villaggio dell'età del ferro formato da capanne a base
circolare o ellittica, che si fa risalire al IX secolo a. C., scendendo con gli avanzi più recenti al
VII secolo. Era esso circondato da un riparo di terra, forse rafforzato anche da una palizzata
in legno a sua modesta difesa. In esso gli studiosi riconoscono il villaggio che rappresenta il
primo antichissimo nucleo di Roma. Nella " Roma quadrata " si rispecchia un momento più
tardo in cui il gruppo di villaggi costituirono un oppidum cui si deve il nome di Roma.
Secondo la suggestiva leggenda Romolo ne tracciò il pomerio, il solco sacro primigenio che
circondava il colle, separando la città che ebbe il nome di Urbs dal solco (urvus), segnato
secondo il rito con l'aratro.
Come sia sorto il nome di Roma e che cosa esso significhi non è chiaro. Gli antichi
cercarono di spiegarlo al solito con gli eponimi Romolo (che invece prese e non diede il
nome alla città) o Rome (figlia di Enea o di Evandro), oggi si preferisce l'etimologia che
Roma significhi " città del fiume ".
I Romani, crescendo in potenza e non ricordando queste modeste origini, vollero pur
spiegarsi con miti e leggende molteplici, varie, contradditorie, le origini della loro città. E si
narrò di Enea scampato da Troia, sbarcato a Laurento e accolto benevolmente da Evandro
nella modesta reggia sul Palatino; ma negata a lui come sposa Lavinia alla cui mano
aspirava Tuino, Re dei Rutuli, sorse guerra fra i due pretendenti: Turno fu ucciso, Enea
sposo Lavinia e divenne per alcuni fondatore di Roma, per altri di Lavinio. Una tradizione
romana aveva elaborato la leggenda intorno a Romolo fondatore della città e alla sua
origine divina; v'era il presupposto che Roma fosse legata da un vincolo dl dipendenza da
Albalonga, ma poiché la fondazione di Roma era terminata a circa la metà del secolo VIII a.
e i dati cronologici non collimavano dato il lungo periodo intercorso fra il sorgere dl Roma e
la lontana distruzione di Troia (secolo XII a. C.). Fu attribuita ad Ascanio la fondazione di
Albalonga e si allungò la lista dei re albani, protraendola nel tempo fra Enea e Romolo con
numerosi discendenti fino a Proca, che morì lasciando due figli, Numitore e Amulio. Una
leggenda romana non poteva dimenticare Marte, il dio più venerato in Roma, e col dio
doveva essere messo in rapporto il fondatore della citta. Si narrò dell'usurpazione del trono
da parte di Amulio e della costrizione di Ilia o Rea Silvia di'scendente dalla casa reale di
Albalonga a perpetuo voto di verginità come vestale. Sorpresa da Marte venne meno al suo
voto e ne nacquero Romolo e Remo. La loro leggenda è nota. Salvati miracolosamente e
riposto il loro nonno Numitore sul trono, da lui ricevettero i mezzi per fondare una nuova città
sul
colle Palatino dov'erano stati allevati. Nel compiere il rito della fondazione, che secondo gli
auspici toccò a Romolo, il fratello saltò in segno di spregio il solco terminale della città
tracciato secondo le norme augurali da Romolo, e questi lo uccise; Remo scompare senza
lasciare altra traccia nella tradizione.
Da Livio Le Origini di Roma
Naturalmente anche gli antichi avevano compreso che il racconto era un tessuto di favole e
di miti, ma non lo toccarono perché sentivano una specie di religioso rispetto per quel loro
passato che riviveva, quasi ammonitore, per le nuove generazioni. Noi, in realtà, non
possiamo aderire all'opinione di chi vorrebbe considerare Roma nata all'improvviso come
una città fondata di getto, per un atto di volontà personale, secondo un disegno prestabilito,
nata adulta e quasi perfetta. Roma crebbe a poco a poco per energia della sua gente, in
lotta con i suoi più immediati vicini e per favore di circostanze, da un piccolo villaggio come
gli altri villaggi laziali. Oggi la documentazione linguistica e le attestazioni archeologiche ci
permettono di colmare quel vuoto sconfortante aperto dalla critica. Era naturale che si
raccogliessero e si conservassero con particolare amore le leggende, i miti, le tradizioni, le
memorie più antiche di Roma. Questa ricca letteratura ha anzitutto sicuro valore per noi
perché ci fa conoscere ciò che gli antichi pensarono e credettero sulle remote origini
dell'Urbe; ma soprattutto ne rivendichiamo il valore dove essa conserva il ricordo di molti
eventi che altre discipline, quali l'archeologia, la comparazione, la linguistica ci vengono
confermando.
Gli scrittori greci più antichi consideravano la fondazione di Roma di non molto posteriore
alla caduta di Troia. Gli annalisti romani accettarono date diverse fra il 758 e il 728 a. C.; ma
furono adottate nell'età imperiale come date canoniche quella stabilita da Attico e da
Varrone, il 753 a. C., e quella dell'anno 752 seguita dal redattore dei Fasti Capitolini. Ma se
vi era discordia intorno all'anno, vi fu piena concordia fra gli antichi riguardo al giorno, 21
aprile, giorno festivo, solenne, in cui erano celebrate le Paritta o Palilia, in onore di Pales, la
dea della pastorizia.
Archeologia e tradizione sull'origine di Roma concordano; non era in errore l'antica
tradizione che considerava la città del Palatino come la Roma primitiva. Ancora nell'età
ìmperiale si conservava ricordo sicuro della linea del pomerio che recingeva il colle alla sua
base, separando la città del Palatino dal suo territorio.
Intanto altri villaggi di pastori e di agricoltori vennero sorgendo sulle altre alture dei colli
romani. Per i successivi ampliamenti territoriali di Roma, alcuni ritennero che in una fase del
suo sviluppo urbanistico esistesse una città di Roma che abbracciava le sette borgate del
cosiddetto Settimonzio. Il Settimonzio era una festa che si celebrava in Roma l'11 dicembre
con solenni sacrifici sulle tre cime del Palatino (Palazio, Germalo, Velia), sulle tre alture
dell'Esquilino (Cispio, Oppio, Fagutal), sul Celio, nella Subura. Nel Settimonzio si deve
vedere un ricordo delle antiche stazioni latine esistenti sul suolo romano, che non
costituivano una sola città, ma formavano una lega sacrale analoga ad altre leghe latine,
come la lega Albana; si risale con essa a un'età remota in cui queste piccole borgatelle,
ancora fra loro distinte, si unirono in una federazione religiosa che aveva la sua
manifestazione concreta nei sacrifici sui singoli monti, forse ancora prima del sorgere della
città quadrata del Palatino, quando le sue tre alture partecipavano al rito ciascuna per sè,
individualmente e non in forma collettiva.
L'allargamento della città e del territorio avvenne a poco a poco durante l'età regia,
estendendosi verso gli altri colli e anzitutto al Capitolino, alla zona del Foro, quindi al Celio,
all'Esquilino, al Quirinale, lasciando fuori del pomerio ancora l'Aventino. E tuttavia non
conseguì particolare importanza fra le città latìne se non dopo la conquista e la distruzione
di Albalonga, durante il regno di Tullo Ostilio.
I re di Roma
La monarchia a Roma (vedere: La Costituzione reggia) è antica quanto la città; ma la
tradizione ricorda fra i re forse soltanto quelli che avevano avuto fama maggiore e ne fissò il
numero a sette, dei quali ci ha tramandato i nomi e dei quali venne fissata la cronologia:
Romolo (753-716 a. C.), Nuima Pompilio (715-672), Tullo Ostilio (672-640), Anco Marzio
(640-616), Tarquinio Prisco (616-578), Servio Tullio (578-534), Tarquinio Il Superbo
(534-510); nella lista si inserisce come correggente di Romolo anche Tito Tazio.
La storicità della monarchia è confermata dall'esistenza in Roma durante l'età repubblicana
di un sacerdote che portava il nome di rex sacrificulus, di un edificio nel Foro chiamato
Regia, dall'istituto giuridico dell'interregnum, e dalla concorde tradizione sull'esistenza dei re
romani.
L'istituzione monarchica passò per due fasi distinte, seguendo dapprima un'evoluzione
indigena e locale, con sovrani probabilmente elettivi di cui è prova la loro appartenenza a
famiglie diverse, poi subendo l'interpolazione violenta di signori stranieri (etruschi). Fatta
astrazione da Romolo, il mitico fondatore della città, i re della tradizione ebbero tutti
probabile esistenza storica, ma non è detto che essi siano stati i soli; nè che si siano
succeduti nell'ordine loro attribuito secondo lo schema consacrato dalla tradizione; nè che si
debbano accogliere tutte le notizie che la leggenda ci riferisce per ciascuno di essi.
La leggenda spiegava l'aumento della popolazione maschile della nuova città col diritto di
asilo accordato da Romolo in un bosco vicino e narrava che si provvide alle donne con il
ratto delle Sabine, donde la guerra fra i due popoli.
Da Livio "Storia di Roma" I, 9 Il ratto delle Sabine
Conclusa, per intervento delle spose rapite, la pace fra i Romani e i Sabini, fissati
rispettivamente sul Palatino e sul Quirinale e assunto da essi il nome di Quiriti, Romolo e
Tito Tazio re dei Sabini governarono collegialmente. Morto Tito Tazio continuò a regnare da
solo Romolo, cui la leggenda attribuisce gli ordinamenti civili, sociali, militari della città,
come a Numa Pompilio, che ci si presenta come ispirato dalla ninfa Egeria, nella sua lunga
opera di giustizia, di ordine, di pace, si attribuisce la creazione di tutte le istituzioni religiose:
così i Flàmini, le Vestali, i Salii, i Pontefici, così il diritto sacro, le norme degli Auguri, il
riordinamento del calendario di dodici mesi e non più di dieci.
In antitesi con Numa, il sabino re pacifico, sta il re guerriero Tullo Ostilio, sotto il quale
scoppiò la lunga interminabile guerra contro la lega Albana. Il racconto poetico ci dice che la
contesa fu decisa a favore di Roma dalla drammatica tenzone tra i fratelli Orazi e Curiazi,
Romani i primi Albani i secondi. L'Orazio vittorioso inebriato dal trionfo uccise la propria
sorella che, fidanzata a uno dei Curiazi, ne piangeva la morte. Bisogna dunque ammettere
che, a un certo momento, Alba fu distrutta e il suo territorio fu occupato da Roma; gli abitanti,
trasferiti a Roma sul Celio, furono ammessi nella cittadinanza e i migliori nel Senato.
Le leggende relative all'età regia ricordano tra le conquiste romane, oltre Albalonga, la presa
dei pagi di Ameriola, Antemue, Cameria, Cenina, Collazia, Corniculo, Crustumerio, Ficana,
Medullia, Politorio e Tellene, che non sono quasi più menzionati in seguito e di alcuni dei
quali è ignota la posizione. Probabilmente assorbiti da Roma i loro abitanti andarono ad
accrescerne la popolazione.
Queste conquiste sono attribuite ad Anco Marzio, del quale non è da negare la storicità. La
tradizione lo presenta savio in pace e forte in guerra; ed è concorde nell'attribuire a lui la
fondazione della colonia di Ostia, la cui antichità non è dubbia, sebbene alcuni vogliano
riferirla al dittatore Gn. Marzio del IV secolo a. C. Roma si assicurava il possesso delle
bocche del Tevere, stanziandovi cittadini romani.
La tradizione inoltre considera etruschi Tarquinio Prisco e Tarquinio Il Superbo, mentre di
solito il re intermedio è detto romano e certamente per molte ragioni bisogna ammettere che
sia nel vero. Ma la questione della realtà storica di questi sovrani non è di facile soluzione,
perchè per alcuni studiosi Tarquinio Prisco e il Superbo sono effetto dello sdoppiamento di
un'unica leggendaria personalità.
Tarquinio Prisco fu ucciso da sicari prezzolati dai figli di Anco Marzio che si ritenevano
defraudati dal re etrusco della successione al trono. Questo racconto si presenta come un
tentativo di affermazione di un diritto di successione ereditaria, mentre fino a questo
momento della storia di Roma la tradizione ci parla solo di elezione popolare. La leggenda
narrò che Tanaquilla, l'etrusca vedova del re ucciso, con un inganno fece riconoscere re
Servio Tullio. A questo si attribuiscono quasi tutte le più importanti innovazioni e istituzioni
del secondo periodo regio ed egli fu considerato fondatore di quei principi da cui derivò il
governo repubblicano; infatti gli si attribuì il merito di aver fondato il diritto civile, ius
humanum e di aver curato il censimento dei cittadini, in forza del quale il popolo romano atto
alle armi sarebbe stato diviso in cinque classi a seconda degli averi, profondo rivolgimento
costituzionale che va sotto il nome di ordinamento centuriato; così si faceva risalire a lui la
costruzione delle cosiddette mura serviane.
Queste opere devono riportarsi a età più tarda così come la divisione della città in quattro
regioni: Suburana o Sucusana, Palatina, Esquilioa e Collina abitate da quattro tribù locali,
che sostituivano al vecchio criterio gentilizio un criterio topografico.
Un secondo Tarquinio (detto il Superbo), figlio o nipote del primo, secondo le diverse
versioni, riuscì a ritoglierli il trono. Ma l'esempio di Servio Tullio che aveva abbattuto il primo
Tarquinio fu efficace nell'indicare ai Romani il modo di liberarsi dal secondo fattosi tiranno in
Roma e la via a una nuova organizzazione statale.
La tradizione sui tre ultimi re è ricca di molti altri elementi tra i quali una leggenda etrusca
diversa, istoriata nei dipinti della famosa tomba Francois di Vulci, scoperta nel 1857 e ora
nel Museo Torlonia a Roma. Essa è narrata nei < Tyrrhenica >, ove si cita la sua origine
etrusca, dall'imperatore etruscologo Claudio, e conferma che il primo Tarquinio fu abbattuto
da Mastarna aiutato dai Vulcenti e che Mastarna era identificato col Servio Tullio della
tradizione romana. L'intervento etrusco in Roma si ripete con Tarquinio Il Superbo il quale,
nonostante che gli si attribuissero vittorie e importanti opere pubbliche, fu aborrito dai
contemporanei stanchi della sua tirannide.
La causa occasionale della rivoluzione, secondo la tradizione annalistica, fu l'oltraggio che il
giovane figlio del re, Sesto Tarquinio, recò a un'onesta matrona romana, Lucrezia, moglie
esemplare di Collatino. Tarquinio fu bandito con la sua famiglia; a Roma fu abolita la
monarchia e fondata la Repubblica, il cui governo fu affidato a due Consoli. Era l'anno 509 a.
C.; i primi Consoli furono Giunio Bruto e Tarquinio Collatino.
Tarquinio, scacciato da Roma e rifugiatosi in Etruria, tentò ogni mezzo per ritornarvi; da
ultimo si rivolse a Porsenna, re di Chiusi, il quale però, ammirato degli atti di valore degli eroi
e delle eroine romane (Orazio Coclite, Clelia, Muzio Scevola), si ritirò dall'assedio, lasciando
le vettovaglie del suo accampamento in regalo ai Romani.
Contro questa conclusione della guerra sta la tradizione etrusca, la quale, narrando dei patti
duri imposti da Porsenna ai Romani, implicitamente presupponeva che il re etrusco avesse
conseguito almeno temporaneamente il dominio della città.
Comunque ricca e intricata, la tradizione sugli ultimi tre re di Roma, conferma che vi furono
realmente sovrani di origine etrusca in Roma, ma non una sovranità effettiva dell'Etruria su
Roma, che non divenne mai una città etrusca. È piuttosto da ammettere in conclusione che
alcuni capi etruschi hanno dominato in Roma, e che mediante il prestigio della loro civiltà
progredita hanno molto influito sullo sviluppo politico, civile, culturale di Roma
Interessa in particolare il problema se con la cacciata dell'ultimo re sia realmente finita con
moto rivoluzionario la monarchia in Roma. Dalle sicure sopravvivenze rimaste in epoca
repubblicana, tra le quali particolarmente quella del rex sacrificulus che si ritiene sia l'antico
re capo dello Stato, privato a poco a poco di ogni altro potere e ridotto a semplice sacerdote,
nasce l'ipotesi che la monarchia non sia cessata con atto violento, ma sia stata esautorata a
poco a poco con l'attribuzione dei suoi poteri a nuovi magistrati. Così non si nega che
Tarquinio sia stato scacciato da un atto rivoluzionario; si esclude soltanto che la sua
espulsione possa considerarsi senz'altro come la fine della monarchia.
Le prime guerre esterne, il Foedus Cassianum
Tarquinio il Superbo abbandonato dagli Etruschi, secondo l'annalistica, si sarebbe rifugiato
a Tuscolo presso un parente, Ottavio Mamilio, e sarebbe riuscito a suscitare contro Roma i
Latini che male avevano sopportato l'egemonia romana. Otto città, ossia Tuscolo, Ariccia,
Lanuvio, Laurento, Cora, Tivoli, Pomezia e Ardea, formarono insieme, contro Roma, una
lega di carattere religioso, ma anche di un meglio definito scopo politico-militare, con a capo
un dittatore.
Per la guerra contro i Latini dittatore dei Romani fu Aulo Postumio (il primo che rivestì questa
nuova magistratura) e magister equitum Tito Eluzio. Lo scontro, vittorioso per i Romani,
avvenne presso il Lago Regillo ove, secondo la leggenda, sarebbero apparsi alla testa dei
Romani i Dioscuri.
Esso costituisce un grande fatto storico sicuro, riferito all'anno 496 o 493 a. C.; Aulo
Postumio ebbe il cognome di " Regillense ". Contro i Latini vinti, Roma non abusò del
successo, sia a causa degli avvenimenti interni, sia per le ostilità che intanto sorgevano da
parte dei popoli vicini: Etruschi, Volsci, Equi. La superiorità di Roma sui Latini non fu
riconosciuta ma si venne alla conclusione di un trattato che dal nome di Spurio Cassio, un
illustre personaggio che ne fu negoziatore, fu chiamato Foedus Cassianum. L'accordo,
concluso sulla base della perfetta parità di diritti e di doveri fra i due contraenti (foedus
aequum), stabiliva che fra Roma e i Latini doveva durare pace perpetua, con reciproco aiuto
nel caso di aggressioni dall'esterno. Il testo del trattato, inciso su una colonna di bronzo,
esisteva ancora nell'età sillana presso i Rostri, come attestano Cicerone e Livio.
La Repubblica
La conquista di Veio
Durante la trasformazione costituzionale (vedere: La Costituzione repubblicana) la lotta fra
patriziato e plebe (vedere: lotte fra patrizi e plebei e Patrizi e plebei)per l'uguaglianza dei
diritti, Roma si trovò implicata in una serie di guerre con le popolazioni vicine che ebbero
talvolta notevole influenza nel favorire il successo della plebe nella politica interna.
Abbiamo già accennato alla guerra contro la lega latina conclusa con la vittoria romana dal
lago Regillo e il Foedus Cassianum. Nello stesso tempo vi furono ostilità coi Sabini, padroni
di Ercio e di Nomentum (Mentana), pericolosi nemici perché vicinissimi a Roma.
Più gravi e più lunghe furono le guerre di Roma contro gli Equi, i Voisci e i Veienti. I Romani
con l'alleanza latina ottennero l'adesione del popolo degli Ernici, necessaria per fronteggiare
la minaccia degli Equi e dei Volsci i quali, scesi dai loro monti e dalla valle del Liri avevano
occupato Velitrae (Velletri) ed esteso il loro dominio sulle località del littorale che, intorno al
509 a. C., secondo il primo trattato fra Roma e Cartagine, erano romane.
La lotta durò a lungo con alterna fortuna, finchè i Latini alleati con Roma fondarono in luoghi
strategici le fortezze di Cora (Cori), Norba (Norma), Signia (Segni), difese con mura
poligonali. Con questa guerra si collega la leggenda di Cneo Marzio, giovane eroe patrizio
che per il valore dimostrato a Corioli (493 a. C.) ebbe il soprannome di Coriolano, e della
madre Veturia, nobile esaltazione delle virtù delle matrone romane.
Non meno pericolosa fu la lotta contro gli Equi, alleati dei Volsci e predoni rapaci; essi
avevano il loro centro strategico al passo dell'Algido fra Tuscolo e Velletri, dove si erano
accampati nel 458 a. C. dopo aver saccheggiato, violando una tregua, l'agro Tuscolano e
Labicano. La lotta è collegata a un'altra bella leggenda: Cincinnato, nominato dittatore,
lascia l'aratro, libera il console Minucio assediato e, dopo pochi giorni, ritorna al suo
campicello.
Ma l'azione risolutiva contro gli Equi fu compiuta dal dittatore Q. Postumio, il quale scacciò
gli Equi dal l'Algido (431 a. C.). Una successiva azione del dittatore Q. Servilio Prisco
consentì la deduzione di una colonia latina a Labico nell'anno 415 a. C. Una pace ancora
instabile, con i Volsci, è riferita all'anno 396 a. C.
Ma anche a settentrione Roma era da tempo impegnata contro due città, Veio e Fidene. Gli
Etruschi si erano presto impadroniti di Veio; Fidene, pur rimasta di lingua latina, era stata
costretta ad agire d'accordo con Veio e con Faleri; i Romani pretendevano che fosse colonia
di Roma fin dai tempi di Romolo, così che la città fu presa e perduta più volte; nel 438 a. C.
si ribellò di nuovo e fu ripresa e quasi distrutta dal dittatore Emilio Mamerco. Il territorio di
Fidene fu diviso fra le due tribù Claudia e Clustumina.
La lotta decisiva contro Veio, che ricorda la strage dei Fabii, scoppiò più tardi e culminò col
decennale assedio della città. La Presa di Veio fu opera dal dittatore M. Furio Camillo
mediante una galleria con la quale i Romani penetrarono nell'arce (396 a. C.) e fu messa a
ferro e fuoco e spopolata parte con stragi, parte vendendo schiavi gli abitanti; il vasto
territorio di Veio, annesso al dominio romano, fu distribuito a cittadini romani e costituì l'area
di quattro nuove tribù rustiche: Stellatina, Tromentina, Sabatina, Arniense.
La caduta di Veio ebbe importanza particolare per l'accrescimento del territorio romano che
portò lo Stato Romano (kmq 2200) quasi alla pari per estensione con quello della Lega
Latina (kmq 2500) e consolidò definitivamente il primato di Roma sul Lazio.
Ma la caduta di Veio era stata resa possibile anche dall'indebolimento della potenza
etrusca, causato dalla pressione dei Celti (Galli) che attorno al 400 si erano estesi nella
pianura del Po e andavano rafforzandosi in Emilia.
I Galli a Roma e la riscossa romana
I Galli Senoni e Boi avevano varcato l'Appennino intorno all'anno 390 a. C. e posto l'assedio
all'etrusca Chiusi e pare che avessero solo di mira di far preda, sperando in un ricco bottino.
Essi spinsero le loro scorrerie anche contro Roma e presso il fiumicello Allia si scontrarono
con l'esercito romano che fu distrutto; parte dei fuggiaschi si ritirò a Veio. I Galli entrarono in
Roma senza trovar resistenza, anzì, secondo la tradizione, sarebbero entrati dalle porte
dimenticate aperte: evidentemente una cinta di difesa resistente non c'era ancora e le mura
cosiddette serviane furono costruite dopo. La leggenda è ricca di episodi (sui Senatori, Le
oche Capitoline e la riscossa di Camillo), che mirarono ad attenuare le gravità della
sconfitta, ma il dies Alliensis (18 luglio) era ricordato come giorno nefasto ancora nei
calendari dell'età imperiale.
Per quanto grave la disfatta dell'Allia, il danno materiale non era irreparabile; i Galli con le
ricche prede e dopo il vano tentativo di occupare il Campidoglio, se ne ritornarono indietro.
Più gravi furono invece le ripercussioni morali e politiche, per la pericolosissima reazione dei
popoli vinti o assogettati, coll'aggravante di un moto separatista nella federazione latina.
Ma Roma, favorita soprattutto dalla ormai raggiunta collaborazione delle classi sociali, dal
valore e dalla resistenza dei soldati romani e dall'abilità e la tenacia dei loro capi, riuscì
ancora a trionfare dei suoi nemici: si aggiunse il fatto che non tutte le città abbandonarono
Roma e che, anzi, parecchie di esse erano disposte territorialmente in modo da formare in
parte una cerchia difensiva per i Romani, e in parte delle barriere che spezzavano la
contiguità territoriale dei nemici e impedivano loro la collaborazione e il coordinamento degli
sforzi contro Roma. Occorse una serie di guerre fino al 358 a. C. per restaurare l'egemonia
romana nel Lazio. Fu rinnovato il Foedus Cassianum e vi fu ammessa qualche città come
Preneste che prima ne era fuori.
Dopo il 358 ripresero le ostilità con Roma anche gli Etruschi, anzitutto Tarquinia e Falerii e
poi anche Caere, che pure era rimasta amica di Roma durante l'incursione dei Galli; ma ogni
tentativo falli e Caere dovette sottomettersi a Roma nella forma nuova di civitas sine
suffragio (353 a. C.) accettando l'autorità di magistrati romani e pagando i tributi. Con
Tarquinia e con Falerii fu conclusa una lunga tregua. Ormai lo Stato Romano superava. i
3000 kmq; le irruzioni dei Galli non ebbero più effetto giacchè contro ogni sorpresa Roma
aveva provveduto alla costruzione delle sue mura di cui restano imponenti avanzi.
Le guerre sannitiche
L'assetto dato al Lazio non era certamente definitivo, ma Roma potè riprendere la sua
espansione verso mezzodì, includendo Formia e Fondi, forse città volsce, nella lega latina,
e costringendo gli Aurunci a entrare nell'amicizia romana. A questo modo i Romani e i Latini
si aprivano la via alla Campania, ma anche a un nuovo contrasto con la forte popolazione
dei Sanniti che già erano scesi in quella regione, e, a contatto con gli Etruschi e coi Greci,
erano civilmente progrediti. Il benessere dei Campani era un'attrattiva per la conquista da
parte dei Sanniti più arretrati, e un conflitto fra questi e la lega di Capua provocò l'intervento
dei Romani chiamati da Capua in propria difesa. Così nel 343 a. C. scoppiò la prima guerra
sannitica che si esaurì in breve periodo di tempo, ma le cui vicende sono assai oscure e
dubbia la vittoria dei Romani. Sulla conclusione della pace (341 a. C.) è probabile che
agissero, per i Sanniti e i Lucani loro consanguinei, il pericolo di un'offensiva dei Greci e per
i Romani quello di una nuova pericolosa insurrezione dei Soci Latini.
La nuova guerra contro la Lega Latina (340-338 a. C.) infatti si presentava difficile per la
identità di lingua e degli ordinamenti militari dei due contendenti, donde le disposizioni
disciplinari severe dei consoli T. Manuo Torquato e P. Decio Mure, ai quali si riferiscono
episodi leggendari. Le truppe della campagna sono segnate nei Fasti Trionfali Roma
nell'anno 340 a. C. trionfò sui Latini, Campani e Sidicini; nel 339 sui Latini; nel 338 su Pedo,
Timur, Anzio, Lavinio e Velletri. La lega Latina fu disciolta e fu tolto alle città latine il
di-commercio fra loro. L ritto di connubio e Stato Romano, enorme mente accresciuto il
territorio, era diventato se non il più vasto certo il più forte d'Italia.
La fondazione della colonia fortificata di Fregelle nell'anno 328 e l'intervento a Napoli furono
causa della seconda guerra sannitica (327-304 a. C.). La lotta fu a lungo incerta, data la
struttura della legione romana non adatta a combattere nella regione montuosa del Sannio.
Due legioni furono sorprese in una gola presso Caudio (Forche Caudine) forse fra Arienzo e
Montesarchio e costrette a passare sotto il giogo (321 a. C.).
I Romani però modificarono la rigida struttura della legione e la nuova ripresa è segnata
dalla tradizione e dai Fasti con l'opera del console L. Papirio Cursore vincitore dei Sanniti a
Luceria. Gli Etruschi, risvegliatisi, vennero nuovamente battuti nel 310 dall'audace marcia
del console Quinto Fabio Rulliano oltre la Selva Ciminia e costretti alla pace (309 a. C.). La
rivolta degli Ernici, inattesa dopo quasi due secoli di costante fedeltà, fu presto domata. I
Sanniti, perduta la loro capitale Boviano, dovettero piegarsi alla pace, mantenendo la loro
autonomia, rinunciando a pochi territori tra cui Fregelle, e abbandonando ogni pretesa nella
Campania, nell'Apulia e presso i popoli vicini, come i Marsi, i Peligni, i Frentani, ecc. con i
quali Roma strinse accordi che le riconoscevano la supremazìa.
Le guerre però non erano finite. Nella terza guerra sannitica contro Roma (298-290 a. C.) i
Sanniti riuscirono a formare una potente coalizione con i Galli, gli Etruschi, gli Umbrì, i
Sabini e a congiungere il proprio esercito con le forze degli alleati. Ma Roma nell'anno 295,
a Sentino nel territorio degli Umbri (Civita di Sassoferrato), inflisse una decisiva disfatta ai
Sanniti e ai Galli, che assicurò il duraturo predominio romano su tutta l'Italia centrale. I Galli,
gli Umbri e gli Etruschi fecero pace; i Sanniti e i Sabini furono ancora sconfitti ad Aquilonia
nel 293, e dovettero sottomettersi. Furono fondate nel 283 a. C. le colonie di Sena Gallica
(Senigallia) sull'Adriatico e, nell'Apulia, di Venosa lo Stato romano abbracciò allora circa
20.000 kmq. e 60.000 il territorio degli alleati, gli abitanti, complessivamente, ammontavano
a tre milioni.
Taranto e Pirro
Fino al tempo delle guerre sannitiche i Romani non si erano occupati politicamente delle
colonie greche d'Italia, le quali avevano avuto rapporti ostili solo con gli indigeni Apuli,
Lucani, Sanniti, ecc. In loro difesa contro gli Italici, i Greci avevano più volte chiesto aiuti agli
Stati della madrepatria, ma nulla di durevole avevano potuto concludere. La lunga lotta di
Roma contro i Sanniti potè quindi essere considerata dalle città della Magna Grecia come
un loro vantaggio quasi che i Romani fossero loro alleati, tanto che sulle monete di Locri si
può vedere, non senza sorpresa, la più antica immagine di Roma. Inoltre, Turii, rivale di
Taranto, Locri e Regio, per resistere ai Lucani, verso l'anno 282 a. C. chiesero e ottennero
aiuto e guarnigioni a Roma. Taranto però, la più potente, preoccupata dall'avanzarsi dei
Romanì, aveva cercato fin dal 303 a. C. di garantirsi dai loro interventi concludendo con essi
un trattato col quale i Romani si impegnavano a non avanzare con le loro navi da guerra nel
mare Ionio oltre il capo di Hera Lacìnia (ora Capo Colonna). Ma poco dopo, i Tarantini
affondavano alcune navi romane che non avevano rispettato la clausola, e questo fu motivo
di guerra.
Intanto si erano assicurati l'aiuto di Pirro, re dell'Epiro, valente condottiero del mondo
ellenistico, che sbarcato in Italia nel 280 a. C. sconfisse il console Publio Valerio Levino
presso Eraclea con l'uso degli elefanti, allora ignoti ai Romani e l'anno dopo presso Ascoli
Satriano. Fallì però il tentativo di marciare su Roma, nè gli riuscì di trattare la pace con Gaio
Fabrizio Luscino mandato dal Senato per trattare il riscatto dei prigionieri, sia per
l'opposizone del Senato stesso, sia per l'offerta di alleanza fatta a Roma da Cartagine. Si
rivolse allora verso la Sicilia ma, dopo i primi successi, le discordie dei Greci lo indussero a
ritornare in Italia e a perseguire la guerra contro i Romani che, in una battaglia presso
Malevento (che più tardi fu chiamata Benevento), comandati da Manlio Curio Dentato (275
a. C.) lo sconfissero. Taranto si arrese nel 272 e dovette entrare nella Federazione italica la
quale, con l'aggregazione di Reggio nel 270, raggiunse l'estremo limite meridionale della
Penisola.
Estensione di Roma prima delle guerre con Cartagine
Così il dominio romano abbracciava ormai tutta l'Italia peninsulare, estendendosi dal mare
lonio fino a una linea approssimativa tra Pisa e Rimini. Nell'anno 264 a. C. lo Stato romano
aveva raggiunto un'area di circa 25.000 kmq e il territorio degli alleati si era esteso ad altri
100.000 circa, dei quali 12.000 appartenevano alle città e alle colonie latine. I calcoli della
popolazione sono certamente più difficili; si ritiene che lo Stato romano avesse un milione
circa di abitanti. Nel censimento del 265-264 a. C. la cifra dei maschi adulti risultava di circa
300.000. Per quanto concerne gli alleati si sa che nel 225 a. C. misero a disposizione di
Roma circa 340.000 fanti e 30.000 cavalieri. Queste cifre lasciano dedurre che l'esercito di
cui Roma disponeva all'inizio della prima guerra punica si aggirava su almeno mezzo
milione di uomini. Roma era diventata una potenza militare di primo ordine, di cui dovevano
tener conto le maggiori potenze contemporanee, Macedonia, Siria, Egitto, Cartagine.
Il sistema del dominio romano era già allora assai complesso: non esisteva, e non esistette
a lungo, una struttura uniforme del dominio, ma questo era fondato su tre tipi fondamentali di
rapporti; città con piena cittadinanza (colonie), municipi, città alleate (soci). In realtà però le
sfumature dell'applicazione di questi concetti giuridici erano assai numerose. I municipi,
potevano godere di maggiori o minori diritti, e così le città alleate, le cui autonomie
amministrative e politiche variavano molto da caso a caso. Un elemento però stringeva
saldamente questo complesso organico, derivato dalla federazione romano-italica ma ormai
centrato in Roma: il dovere militare, che per tutti i centri del dominio romano era regolato o
dalla legge stessa di Roma (per le colonie e per i municipi) o dai singoli trattati di alleanza
con le città socie, tenute, in diversa misura e modo, a fornire le truppe ausiliarie; in
particolare, le città costiere, a fornire navi e ciurme.
Il processo di latinizzazione dell'Italia proseguì senza mai arrestarsi; la superiorità militare e
politica di Roma era rafforzata e giustificata dalla efficacia del suo sistema giuridico che si
andava spontaneamente affermando, recando pace e miglioramenti delle condizioni civili.
La prima guerra Punica
Roma e Cartagine
Compiuta l'unità della Penisola, ragioni di difesa e di sviluppo richiamarono Roma alla nuova
missione mediterranea. L'Italia romana, ricca di giovani energie, era ora spinta verso il mare
per cercarvi la sicurezza e il fondamento della sua potenza; ma si trovò di fronte Cartagine.
I Cartaginesi, dediti quasi esclusivamente ai commerci e all'espansione coloniale,
possedevano una potenza navale di prim'ordine, forte e sperimentata, ma un esercito di
terra formato da elementi mercenari. Roma era invece una forte e sperimentata potenza
militare, fondata essenzialmente sull'agricoltura e sulla proprietà terriera dei suoi cittadini,
pronti a difendere la patria non solo col cervello e col braccio ma anche col cuore. Essa
dimostrò infatti quanto facile le riuscisse di costituire anche una forte potenza navale.
Questa differenza della struttura dello Stato e delle forze economiche, sociali e morali dei
due grandi antagonisti, ci fa intendere le profonde ragioni sul trionfo finale di Roma.
Fino alla conquista romana della Magna Grecia le relazioni fra Roma e Cartagine erano
rimaste amichevoli. Alla fine della monarchia etrusca a Roma, un primo trattato di amicizia
riferito da Polibio al 509 a. C. costituisce il più antico documento sulle relazioni internazionali
di Roma. Nel 306 fu convenuto il reciproco riconoscimento dell'Italia come sfera di azione
esclusiva di Roma, e della Sicilia come sfera d'azione esclusiva di Cartagine;
successivamente di fronte a Pirro si stipulò una nuova alleanza militare (278).
Dopo la sconfitta di Imera (circa 480 a. C.), la riscossa cartaginese in Sicilia si iniziò solo a
seguito della catastrofe ateniese a Siracusa (418) e fu favorita dalla lotta fra i Sicelioti e gli
Elimi. Con due spedizioni del 409 e del 406 Cartagine si era impadronita dei due terzi
dell'isola e minacciava di nuovo Siracusa. Ma Dionisio, siracusano, nel 892 restrinse il
dominio dei Cartaginesi alle città fenice ed elime dell'angolo occidentale della Sicilia. Altre
sconfitte a opera dei Siracusani, i Cartaginesi subirono da Timoleonte (339), finché la
gelosia di Agrigento non portò alla sconfitta del siracusano Agatocle (Ecnomo, 3l0).
A questo momento storico si deve l'accordo del 306 a. C. fra Roma e Cartagine, dal quale si
desume che Roma non si disinteressava delle condizioni della Sicilia, dove gli insuccessi
più recenti di Agatocle e più tardi di Pirro avrebbero lasciato l'isola alla mercè di Cartagine.
In Sicilia infatti, nel duello contro i Cartaginesi per il dominio del Mediterraneo occidentale, ai
Greci indeboliti dalla lunga lotta, stava per sostituirsi Roma.
Inizio della Guerra
La causa occasionale della guerra fu offerta dai Mamertini. Questi erano soldati mercenari
italici e prendevano il nome da Mamers, nome osco di Marte. Licenziati dal governo
siracusano, invece di ritornare alla loro patria si impadronirono di Messina (289 a. C.) e,
sconfitti più tardi da Ierone, signore di Siracusa (265), invocarono l'aiuto dei Cartaginesi, che
mandarono un presidio. Furono però presto scontenti del protettorato cartaginese, e
chiesero aiuto ai Romani, che mandarono forze a Messina, sotto il comando di Appio
Claudio Caudice.
I Cartaginesi concentrarono tutte le loro forze presso Messina e strinsero alleanza con
Ierone; ma i due eserciti collegati furono sconfitti e i Romani riuscirono a staccare Ierone da
Cartagine e a occupare Agrigento.
I Romani, che in realtà conoscevano da tempo l'arte navale, poterono anche provvedere alla
rapida costruzione della flotta perché signori dell'Etruria e delle città greche dell'Italia
Meridionale, da cui potevano ottenere navi, marinai e rematori.
Una prima flotta, al comando del console Gaio Duilio, presso il promontorio di Mibe
(Milazzo) riportò una grande vittoria navale sulla flotta cartaginese, stimata quasi invincibile
(260 a. C.). La vittoria fu in gran parte dovuta al sistema di ponti a uncini (corvi) per
l'abbordaggio, che permetteva di trasformare la battaglia navale in tanti piccoli
combattimenti di fanti a corpo a corpo, in cui i Romani erano assai superiori al nemico.
Nell'anno 256, una nuova poderosa flotta sotto il comando dei consoli M. Attilio Regolo e L.
Manlio Vulsone, sbaragliata la flotta cartaginese al Capo Ecnomo presso Licata, sbarcò
l'esercito in Africa presso Clupea (Ermeo, attuale capo Bon).
Ma Attilio Regolo, rimasto in Africa, fu sconfitto e fatto prigioniero (255 a. C.).
I consoli Marco Emilio e Servio Fulvio con una nuova flotta sconfiggono i cartaginesi nei
pressi del promontorio Ermeo, recuperano i soldati rimasti in Africa e tornano in Italia.
Fallito il tentativo africano, la Sicilia rimase il teatro della guerra e gli anni dal 255 al 242
furono i più difficili, nei quali non mancò l'attività piratesca da entrambe le parti.
Deciso l'allestimento di una nuova flotta poderosa, il console Gaio Lutazio Catulo investì
Drepana (Trapani), dove si erano asserragliati i Cartaginesi e in uno scontro navale presso
le Egadi sbaragliò l'armata cartaginese di 300 navi che trasportava ingenti aiuti alla fortezza
assediata (241 a. C.).
A conseguenza di ciò Cartagine chiede e ottiene la pace a condizioni abbastanza moderate,
rinunciando, a favore di Roma, al possesso della Sicilia e a far guerre senza il consenso
romano.
Roma e Cartagine fra le due guerre
La fine della prima guerra punica poneva il problema della smobilitazione, particolarmente
grave per Cartagine il cui esercito, formato quasi totalmente da mercenari, non potendo
riscuotere il soldo pattuito, provocò una gravissima rivolta. I mercenari di Sardegna
offersero l'isola ai Romani, e quando Cartagine si accinse a domarli, Roma intervenne e la
costrinse a rinunziare alla Corsica e alla Sardegna, secondo il trattato di pace del 241.
La Sicilia aveva una civiltà molto sviluppata e non poteva essere romanizzata gradualmente
con colonie romane o latine, ne le sue città dovevano essere trattate tutte a un modo, dato il
loro diverso atteggiamento.
Roma, continuandovi l'uso cartaginese, distinse le città in categorie (federate, libere e
immuni, decumane, censorie) a cui erano imposti differenti contributi granari. Furono così
costituite le due prime province romane (Sicilia e Sardegna), con a capo di ciascuna un
pretore con potere assoluto della durata di un anno.
Dopo il 236 Roma fu occupata nelle lente campagne per la sottomissione effettiva dei Sardi,
dei Corsi e dei Liguri per assicurarsi il dominio dell'Arno e di Pisa, come base delle sue
comunicazioni con la Corsica; ma a un certo momento si trovò di fronte i Galli che, offesi da
una distribuzione al popolo romano del territorio a Sud del Rubicone (282) o sobillati dal
cartaginese Asdrubale, mossero contro Roma: il loro grosso esercito tuttavia fu affrontato
dai Romani presso Talamone in Etruria, e interamente distrutto (225 a. C.). Con la
successiva battaglia di Clastidium (Casteggio), i Galli Insubri furono costretti a cedere gran
parte dei loro territori, in cui furono dedotte le colonie latine di Cremona, Piacenza e
Modena. Così una parte notevole dell'Italia continentale fu aggregata alla Repubblica
romana.
Negli stessi anni Roma affrontò anche il problema degli Illiri, che danneggiavano il
commercio degli Italici nell'Adriatico con azioni di pirateria, e li ridusse a suoi tributari,
obbligandoli a non navigare con più di due navi insieme a Sud di Lissio (Alessio); le città
greche, fino allora sottomesse alla supremazia illirica, ottennero da Roma la libertà a
condizioni abbastanza favorevoli.
Frattanto Cartagine aveva iniziato la conquista economica e militare della Spagna per
compensare la perdita della Sicilia: ne era stato incaricato Amilcare Barca, che ricuperò
dapprima i domini Cartaginesi costieri, perduti durante la guerra con Roma, poi si volse a
sottomettere le tribù indigene e ad assicurarsi il controllo dei bacini minerari di rame e di
argento. La sua opera fu continuata da Asdrubale, che si valse delle arti diplomatiche più
che della guerra, stringendo accordi con vari capi Iberi: fondò Cartagena, che fu la migliore
stazione navale spagnola, ma dovette concludere il trattato dell'Ebro con i Romani,
riconoscendo tale fiume come limite dell'espansione cartaginese in Spagna.
Quando Asdrubale nel 221 venne assassinato da un indigeno, scoppiarono a Cartagine
gravi agitazioni per opera degli avversari dei Barca, ma l'esercito acclamò il suo
comandante Annibale, il maggiore dei figli di Amilcare.
La seconda guerra Punica
L'azione di Annibale assunse subito un carattere nettamente ostile ai Romani. Concentrato
un forte esercito a Cartagena (220-219 a. C.), preparò una spedizione contro Sagunto, città
iberica indipendente a Sud dell'Ebro, alleata di Roma, sapendo così di provocare la guerra.
I romani dapprima intimarono ai Cartaginesi di abbandonare l'assedio della città, poi
chiesero loro la consegna di Annibale e dei suoi consiglieri; al rifiuto seguì l'apertura delle
ostilità.
Annibale, lasciato il fratello Asdrubale al comando dei presidi spagnoli, intraprese la sua
marcia memorabile dalla Spagna, attraverso i Pirenei, la valle del Rodano e le Alpi, fino alla
Valle Padana. Interessante la disquisizione fatta da Polibio riguardo alla geografia e al
percorso seguito da Annibile per giungere in Italia.
Egli contava anche sull'effetto morale della sua impresa e in particolare sulle tribù galliche
della Cisalpina, insofferenti del dominio romano, e sulla disgregazione della lega italica
stretta intorno a Roma.
I Romani avevano preparato due eserciti, destinati l'uno a sbarcare in Africa, l'altro, sotto il
comando di P. Cornelio Scipione a invadere la Spagna. Scipione, che si trovava alle foci del
Rodano, avuta notizia della marcia di Annibale, si gettò al suo inseguimento senza riuscire a
impedirgli di varcare le Alpi. Al Ticino avvenne il primo scontro, conclusosi con la vittoria
cartaginese (218).
Ma se Annibale trovò favorevole i Galli, le vittorie del Ticino, della Trebbia e quella più
importante del Trasimeno (217) non intaccarono la lega italica, e nessuna città umbra ed
etrusca si diede ad Annibale, che si accampò in Campania. Roma in questa difficile
situazione nominò dittatore Fabio Massimo che, per la sua tattica di indebolire il nemico
senza venire a battaglia campale, fu chiamato cunctator, il "temporeggiatore".
Nel 216, con l'elezione dei nuovi consoli Emilio Paolo e Terenzio Varrone, riprese favore
presso i Romani il programma dell'offensiva, ma in Puglia, presso Canne , l'esercito romano
fu disfatto dai Cartaginesi; Emilio Paolo cadde sul campo. Poco dopo un altro esercito fu
sconfitto dai Galli nell'Italia Settentrionale, sicché questa regione andò perduta; rimasero a
Roma solo l'Italia Centrale e parte dell'Italia Meridionale.
I Romani però avevano sempre il dominio del mare, così' che Annibale non potè ricevere
adeguati soccorsi da Cartagine e dalla Spagna. In Sicilia tuttavia dovettero ridurre
all'obbedienza Siracusa, passata ai Cartaginesi, mentre in Epiro dovettero difendersi contro
l'attacco del re di Macedonia Filippo V (prima guerra macedonica e pace di Fenice). Mentre
Roma riprendeva Capua, falli alla battaglia del Metauro il tentativo di Asdrubale di portare
aiuto dalla Spagna al fratello Annibale. Immobilizzato Annibale nelle sue posizioni del Bruzio
(Puglia), i Romani furono in grado di portare la guerra in Africa; il comando fu affidato a
Scipione, che sbarcò l'anno dopo in Africa, presso Utica. Assicuratosi l'alleanza del re di
Numidia, Massinissa, Scipione batté ai Campi Magni i Cartaginesi, che s'affrettarono a
richiamare Magone dalla Liguria e Annibale dal Bruzio (203).
I due capitani si affrontarono in battaglia non lontano da Zama; la vittoria dei Romani fu
piena e decisiva (202). Cartagine dovette accettare la durissima pace che Scipione le
impose.
Cartagine fu, secondo il trattato di pace, costretta a rinunciare alla Spagna e a tutti i dominii
non punici d'Africa; consegnare gli elefanti da guerra e tutta la flotta meno dieci triremi;
rinunciare a far guerre fuori dell'Africa e a farle in Africa solo col consenso di Roma; pagare
un'indennità di diecimila talenti in cinqnant'anni. Cento ostaggi scelti da Scipione dalle
primarie famiglie dovevano garantire la sincera osservanza degli accordi stipulati.
La secolare rivale di Roma, che un tempo era stata signora dell'Occidente, spariva per
sempre dal numero delle grandi potenze (201 a. C.); Scipione ebbe il titolo di Africano.
Roma e il Mediterraneo
L'espansione romana nel bacino del Mediterraneo
Roma aveva così spezzato a proprio vantaggio l'equilibrio di forze fino allora esistente nel
Mediterraneo occidentale e nella sua capacità di ascesa poteva rivolgersi all'Oriente,
agevolata in questa sua espansione dalla rottura dell'equilibrio fra le tre grandi potenze del
Mediterraneo orientale,
Macedonia, Egitto e Siria. Sorse così il problema dei rapporti tra Roma e questi tre stati e, in
primo luogo, fra Roma e la Macedonia, che si stava espandendo.
Il primo a essere attaccato dai Romani fu proprio Filippo V, re di Macedonia, che dovette
abbandonare la Grecia e tutte le conquiste fatte dopo il trattato di Fenice in seguito alla
seconda guerra macedonica (199-197 a. C.) conclusasi con la vittoria romana di Cinocefale.
Nel 196 fu proclamata l'indipendenza della Grecia.
In seguito scoppiò la terza guerra macedonica contro il figlio di Filippo, Perseo (171-168 a
C.), portata vittoriosamente a termine dal console L. Emilio Paolo, e fu domata una
successiva ribellione guidata dal Pseudo Filippo: la Macedonia fu allora trasformata in
provincia dello Stato romano (148). La stessa sorte toccò alla Grecia due anni dopo,
allorché Lucio Mummio sconfisse l'esercito greco e distrusse Corinto, trasformando la
Grecia nella provincia di Acaia.
Anche Antioco, re di Siria, che si era compromesso non solo con la conquista di dominii
egiziani, ma anche perché aveva accolto nel 195 alla sua corte Annibale, esule da
Cartagine, dovette venire a patti con Roma. Battuto dai Romani alle Termopili, in Grecia, e
costretto a ritirarsi in Asia, fu definitivamente sconfitto nella piana di Magnesia, in Asia
Minore, nel 190 a. C. Il suo regno fu limitato al di là della catena del Tauro e del fiume Halys;
il re dovette consegnare gli elefanti da guerra e la flotta, e pagare un'indennità di 15.000
talenti. I territori dell'Asia Minore tolti alla Siria furono in gran parte assegnati al re di
Pergamo e a Rodi.
Molto più gravi furono le guerre che i Romani dovettero sostenere nella prima metà del
secondo secolo a. C. nella penisola iberica, divisa nel 197 nelle due province della Spagna
Citeriore e Ulteriore. Lunga resistenza opposero le tribù dei Lusitani e di altre genti indigene,
soprattutto dei Celtiberi. L'insurrezione dei Lusitani fu stroncata da Quinto Servilio Cepione
con l'assassinio di Viriato (138-134); l'insurrezione dei Celtiberi fu conclusa da Lucio
Cornelio Scipione Emiliano con la distruzione di Numanzia (133 a. C.).
Le guerre non distolsero però i Romani dalla restaurazione del loro dominio in Italia: l'azione
era necessaria in quanto aveva presa nuovo vigore l'insurrezione gallica nella valle del Po.
Nell'Italia Settentrionale furono prima sconfitti e sottomessi i Galli Insubri e Boi (nel loro
territorio fu dedotta la colonia di Bononia, 189 a. C.), poi i Salassi e i Taurini. Alla guerra
gallica si accompagnarono le campagne contro i Liguri, in particolare dal 186 contro gli
Apuani e contro gli Ingauni. In conseguenza della vittoria sui Galli e sui Liguri, un vasto
territorio dell'Italia Settentrionale a Sud del Po venne confiscato e diventò dominio diretto dei
Romani, i quali provvidero a dedurvi numerose colonie, fra le quali vanno ricordate Forti,
Lucca, Modena, Parma e Aquileia.
La terza Guerra Punica
La distruzione di Cartagine
Dopo la guerra annibalica i rapporti fra Cartagine e Roma furono corretti; i Cartaginesi non
vennero mai meno agli impegni verso Roma, dandole anche aiuto con la flotta nelle guerre
d'Oriente. Ma il re di Numidia, Massinissa, prese ad abusare della clausola del trattato
romano-cartaginese che gli consentiva di rivendicare tutti i territori di Cartagine appartenuti
un tempo ai suoi antenati. Nonostante le proteste e le ambascerie dei Cartaginesi, il Senato
romano lasciò sempre mano libera all'aggressore, che venne gradualmente restringendo il
territorio cartaginese. La città fu così ridotta alla disperazione e nell'anno 151 a. C. dichiarò
guerra a Massinissa, fornendo quindi a Roma un motivo legalmente ineccepibile per
dichiararle guerra.
L'imposizione del Senato romano ai Cartaginesi di abbandonare la loro città e fondarne una
nuova a 15 km dal mare, provocò la reazione di Cartagine, che si ribellò agli ordini di Roma.
Assediata resistette per circa tre anni, finché Lucio Cornelio Scipione Emiliano poté
prenderla d'assalto al principio del 146. La città fu incendiata e distrutta; il suolo su cui
sorgeva fu maledetto, il suo territorio fu annesso allo Stato romano col nome di provincia
d'Africa.
Con la distruzione di Corinto, Cartagine e Numanzia, il periodo delle grandi conquiste
romane nel Mediterraneo era concluso (188 a. C.); nello stesso anno anche il Regno di
Pergamo, come già la Cirenaica, passò in eredità al popolo romano.
Le lotte sociali i Gracchi e Gaio Mario
Il Senato romano era, fin dalla prima guerra punica l'unica magistratura che poteva
governare l'Italia in un periodo in cui i consoli si trovavano spesso per ragioni di guerra fuori
di Roma: esso era costituito difficilmente da homines novi, prevalentemente anzi da patrizi e
plebei che avevano rivestito le magistrature dello Stato, sperimentati nelle questioni
politiche d'ordine interno e di politica estera, appartenenti a un numero piuttosto ristretto di
famiglie.
Dall'esame dei cento collegi consolari che precedono il tribunato dei Gracchi, si ricava che
su 92 consoli patrizi ben 85 appartennero a sole dieci famiglie, ciascuna delle quali diede un
minimo di quattro consoli:
la gens Cornelia per es. ne diede da sola 23. Lo stesso avvenne per i 108 consoli plebei, 74
dei quali appartennero a undici sole famiglie. In mezzo secolo, dal 200 al 146 a, C., si ha
solo una dozzina di consoli appartenenti a famiglie meno illustri, non giunte prima al
consolato; in quattro casi soltanto si tratta di homines novi e cioè M. Porcio Catone nel 195,
M. Acilio Glabrione nel 191, C. Ottavio nel 165, L. Mummio nel 146.
In questo modo un'oligarchia di nobili governava la cosa pubblica, in contrasto sia con la
classe dei "cavalieri", provenienti in genere da famiglie di bassa condizione, arricchitesi coi
commerci, con le forniture di guerra e con gli appalti dei lavori pubblici e delle imposte, sia
con le classi inferiori della cittadinanza, cioè plebei poveri, clienti, liberti, peregrini ossia
stranieri domiciliati nel territorio della Repubblica, sia con gli Italici. Si venne così delineando
un complesso di gravi problemi, fra i quali i più urgenti erano quello agrario, provocato dalla
miseria dei plebei nullatenenti e dei vecchi contadini romani e italici, quello dei Soci italici,
che esigevano la concessione della cittadinanza, e quello dei cavalieri e dei libertini, i nuovi
ricchi non pervenuti ai gradi della nobiltà, che aspiravano a una condizione politica
adeguata.
Il problema più grave era quello dei Latini e degli altri alleati italici, sia per la mancata
concessione della cittadinanza, sia per la limitazione ai soli Romani dei comandi militari, del
governatorato delle province, delle decime e di gran parte del bottino di guerra.
Inoltre vi era stretta connessione fra il problema della cittadinanza e quello agrario, perché i
Soci non cittadini romani erano esclusi dalle distribuzioni terriere, La sperequazione fra le
varie classi richiedeva una soluzione, ma alle classi dirigenti mancava la volontà e la
capacità di ricostituire la piccola proprietà rurale arrestando lo sviluppo del latifondo.
La questione agraria fu così posta all'ordine del giorno da Tiberio Sempronio Gracco, un
aristocratico eletto tribuno della plebe, che nel 133 a.C. propose una legge per confiscare
tutti i possedimenti abusivi di agro pubblico e limitare l'estensione di quelli legittimi a 500
iugeri, aumentabili fino a 1000 per chi avesse uno o più figli. I terreni confiscati avrebbero
dovuto essere distribuiti ai cittadini poveri, che non avrebbero potuto venderli ad altri.
La legge fu approvata con un atto di illegalità, avendo Tiberio Gracco fatto destituire il
collega M. Ottavio che si era opposto alla sua promulgazione. Ne nacquero tumulti e
violenze in cui il tribuno venne ucciso (132).
Frattanto era nata una grave agitazione fra gli alleati Italici, che non erano stati considerati
nella legge, e il partito dei Gracchi chiese che fosse loro concessa la cittadinanza. Il fratello
di Tiberio, Gaio Gracco, tribuno della plebe nel 123, rieletto nel 122, presentò un complesso
di leggi riprendendo la politica del fratello e collegandola con la politica favorevole agli Italici.
Di mente aperta e grande oratore, seppe elevarsi, da vero rivoluzionario, dal problema
dell'agro pubblico a una totale riforma dello Stato romano in senso democratico, con la
legge frumentaria, la riconferma della legge agraria, la creazione di colonie, l'assegnazione
ai cavalieri di un numero preponderante nelle giurie che dovevano giudicare le cause di
corruzione (de repetundis) contro i governatori delle province, la concessione della
cittadinanza romana ai Latini e del diritto latino agli altri Italici. La reazione suscitata dalle
sue proposte portò alla costituzione di bande armate e alla promulgazione da parte del
Senato dello stato d'assedio: in uno scontro i Gracchi furono battuti e Caio si fece uccidere
da uno schiavo, l'oligarchia senatoria, combattendo le leggi agrarie, aveva così preparato la
trasformazione della Repubblica in Impero e la propria rovina.
Negli anni delle agitazioni dei Gracchi, Roma conquistò la Gallia meridionale riducendo il
territorio a Sud-Est delle Cevenne a " provincia " (nome rimasto alla Provenza), assicurando
così il collegamento diretto fra Italia e Spagna.
Poco dopo; in seguito alle vicende del regno di Massinissa, i Romani furono impegnati in
Africa nella guerra contro Giugurta (111-109), nella quale si affermò il console Gaio Mario ,
che aveva come legato Lucio Cornelio Silla, il suo futuro avversario.
Mario sì accquistò con questa guerra la fama di grande generale, il solo che potesse
fronteggiare le tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni: rieletto console nel 104 e
successivamente e senza interruzione fino al 100, sconfisse ad Aquae Sextiae in Gallia i
Teutoni e gli Ambroni, e successivamente i Cimbri ai Campi Raudii presso Vercelli (102).
Riformò anche radicalmente la struttura della legione romana e introdusse un'innovazione di
capitale importanza, destinata a portare nella storia di Roma le più imprevedute
conseguenze: l'arruolamento nell'esercito dei capite censi, ossia dei nullatenenti; si
creavano infatti in questo modo legami particolari fra un generale e i suoi soldati, che
finivano col considerarsi al servizio del loro duce più che a quello della Repubblica.
Mario potè così ottenere, per cinque volte consecutive, l'elezione al consolato da una massa
elettorale che militava o aveva militato in gran parte nei suoi eserciti, realizzando una specie
di dittatura fuori dalla tradizione e senza rispetto per le leggi. Ciò non era cosa nuova, ma
ora, per la prima volta, l'esercito si rivelava come un fattore perturbatore della costituzione
romana, come una forza a se stante, fedele a un capo e staccata dal resto dello Stato.
L'ascesa di Mario, un homo novus, era una prova dell'indebolimento dell'oligarchia e della
potenza raggiunta dai cavalieri, mentre rappresentava nello stesso tempo l'intervento nella
vita politica romana dei proletari arruolati negli eserciti.
La lotta politica fra l'oligarchia e la nuova classe dei cavalieri si complicò con il problema
dell'elevazione economico-politica del proletariato e dell'estensione della cittadinanza agli
Italici. A costoro il governo romano chiedeva solo sacrifici finanziari e militari, non
collaborazione ma obbedienza alle decisioni di Roma. Convinti che non avrebbero mai
ottenuto l'equo riconoscimento dei loro diritti, nell'anno 90 a. C. gli Italici insorsero contro
Roma: i Marsi e i Sanniti dell'Italia Centrale e Meridionale furono alla testa della ribellione
(guerra sociale); Corfinium (non lontana da Aquila), cui fu cambiato il nome in quello di Italia,
fu la sede della lega formata dai ribelli, che ebbe a capo due consoli e dodici pretori,
coadiuvati da un Senato di 500 membri. I Romani, colti di sorpresa, toccarono varie
sconfitte. Il governo di Roma, con la legge Iulia, concesse il diritto di cittadinanza agli alleati
rimasti fedeli, che già avevano deposto le armi; con una seconda legge Plauzia Papiria
estese la concessione a coloro che l'avessero richiesta entro sessanta giorni dalla
pubblicazione della legge; infine la legge del console Cneo Pompeo Strabone estese ai
Transpadani la cittadinanza latina e quella di Cesare del 49 a. C. conferì loro la piena
cittadinanza. Con queste concessioni le file dei ribelli si assottiglia rapidamente.
Le guerre civili
Silla e le guerre civili
In seguito alla concessione della cittadinanza agli alleati si ebbe un enorme ampliamento
del territorio romano, ma nessun cambiamento fu portato alle leggi fondamentali di Roma,
aggravando così l'inefficienza della vecchia costituzione, adatta soltanto per uno stato di
territorio limitato. I magistrati romani divennero quelli dell'Italia; l'esercizio dei diritti politici
continuò a essere subordinato all'intervento dei cittadini alle assemblee dell'Urbe, dove
avvenivano le votazioni: soltanto il Senato poté apparire l'espressione di tutta la
cittadinanza, poiché accoglieva, attraverso le magistrature, i cittadini di ogni parte d'Italia.
Molti contrasti e conflitti suscitò a Roma questa situazione e un grave disaccordo si
manifestò sul modo di inscrivere nelle 35 tribù i nuovi cittadini italici. L'aristocrazia, per
limitare la loro influenza nei comizi, voleva che fossero inclusi in un numero ristretto di tribù
che avrebbero votato per ultime; gli avversari, che avevano ritrovato in Mario il loro
esponente, volevano che fossero distribuiti in tutte le 35 tribù. Mentre si riaccendevano le
discordie interne che culminarono nella guerra civile, nuovi pericoli si delineavano
all'esterno.
In Oriente con Mitridate VI Eupatore re del Ponto; in Occidente con la guerra di Spagna
contro Sertorio; in Italia con la guerra servile suscitata da Spartaco, nel Mediterraneo con la
guerra contro i pirati.
Tutte queste guerre si trovano variamente intrecciate con le lotte civili, che si svolsero in tre
fasi distinte e con protagonisti diversi per oltre mezzo secolo, dall'anno 87 al 31 a. C., e si
chiusero con l'avvento di Augusto.
Il comando della guerra contro Mitridate era stato assegnato a Silla, eletto console nell'88,
ma per l'ostilità dei cavalieri e della plebe gli fu revocato e affidato a Mario. Silla non si
rassegnò e dalla Campania marciò con l'esercito su Roma, abrogò le leggi antisillane e punì
molti loro fautori; Mario fuggì in Africa. Partito Silla al principio dell'87 e scoppiati nuovi
tumulti a Roma, Mario tornò dall'Africa e rientrò da padrone nella città, dove fu costituito un
governo popolare, proscritto Silla, distrutte le sue case, confiscati i suoi beni. Mario, eletto
console per la settima volta, morì dopo due settimane di consolato il 14 gennaio dell'anno 86
a. C.
Mentre a Roma spadroneggiava il console Lucio Cornelio Cinna, Silla costrinse Mitridate a
venire a patti in Oriente (85 a. C.), e nell'83 sbarcò in Italia, dove incontrò l'ostilità degli Italici
e dei seguaci di Mario. Li sconfisse nella battaglia di Porta Collina e, impadronitosi di Roma,
si abbandonò a feroci rappresaglie e a proscrizioni di nemici, mentre Gneo Pompeo
liquidava gli avanzi dei mariani in Sicilia e in Africa, ottenendo il titolo di Magno.
Abbattuti gli avversari e fedele all'ideale di un governo della nobiltas romana, morti i due
consoli in carica alla fine dell'82, Silla si fece nominare dittatore a tempo indeterminato con
lo scopo di riordinare lo Stato. Il suo governo, che da una parte aveva significato la
distruzione delle forze avverse alla oligarchia, doveva rappresentare dall'altra la
restaurazione del Senato. Nell'opera di riforma procedette rapidamente durante il biennio
81-80, raddoppiando il numero dei Senatori, portati a 600, rendendo lenta la carriera delle
magistrature, stabilendo a trent'anni l'età per la questura e quaranta per la pretura,
restituendo al Senato l'esame delle leggi da presentare ai comizi e il potere giudiziario per le
cause di concussione e per quelle più importanti come la lesa maestà, il peculato la
violenza, ecc.
Il tribunato della plebe fu ridotto a magistratura di secondaria importanza: fu nettamente
diviso il potere civile da quello militare, stabilendo che i consoli e i pretori in carica non
potessero avere comandi militari.
Con queste riforme Silla credette esaurito il suo compito di riordinatore dello Stato e
nell'anno 79 a. C., deposta la dittatura, si ritirò a vita privata nella sua villa a Pozzuoli, dove
morì poco dopo.
In realtà il suo governo, basato sull'appoggio dell'esercito, aveva aperto la strada al
principato. Le sue riforme non furono durature e finirono con l'accrescere l'importanza del
fattore militare nella vita dello Stato.
L'ascesa di Pompeo
La situazione infatti si aggravò con la lotta del Senato contro Emilio Lepido, che aveva
tentato di abbattere la costituzione sillana; contro di lui il Senato si giovò di Pompeo, giovane
generale di Silla, al quale fu affidata anche la guerra di Spagna contro Sertorio, chiusa
nell'anno 72 a. C. In quell'anno il Senato affidò al pretore M. Licinio Crasso, padrone della
fortuna più colossale di Roma, il comando della guerra servile contro Spartaco; ma
temendone l'eccessivo potere gli affiancò Pompeo, ritornato dalla Spagna. Nel 71 la terza
guerra servile era vinta; ma i due generali, avendo in mano l'esercito, poterono imporre il
loro volere a Roma nell'elezione dei consoli per il 70. Pompeo, che non aveva i requisiti
legali per l'elezione secondo la costituzione sillana, violata anche nel caso di Crasso, si
impose portando a Roma le sue legioni. La loro nomina a consoli segnò la fine
dell'ordinamento sillano.
I contrasti fra Pompeo e Crasso, che usciti di carica aspiravano al predominio nello Stato,
determinarono un nuovo progresso verso il principato. In seguito ai gravi danni provocati al
commercio romano dai pirati che infestavano il Mediterraneo, si concedette a Pompeo nel
67 a. C. un imperium straordinario della durata di tre anni su tutto il Mediterraneo e sulle
regioni costiere sino a 50 miglia dal mare, con una flotta di 500 navi e un esercito di
120.000 uomini: a nessuno era stato mai concesso un potere così grande, che rendeva
arbitri dello Stato. Pompeo adempì in pochi mesi brillantemente il compito che gli era stato
assegnato, sicché in breve anche la Cilicia e Creta passarono sotto il dominio romano.
Frattanto in Asia Mitridate VI aveva ripreso le ostilità contro i Romani. Questa seconda
guerra mitridatica fu vittoriosamente condotta da Lucullo, che in seguito venne sostituito da
Pompeo il quale, sconfitto Mitridate e obbligato Tigrane re d'Armenia a chieder la pace,
rioccupò tutta l'Asia Minore e il regno del Ponto; passò quindi in Siria e, occupata la
Palestina, riordinò le nuove province del Ponto e della Bitinia, della Siria, della Cilicia e
ritornò a Roma (62 a. C.).
Durante l'assenza di Pompeo si era riaccesa vivissima nella capitale la lotta fra oligarchici e
democratici ed era mancato poco che il governo senatorio fosse abbattuto da una congiura
di cui era capo Lucio Sergio Catilina, giovane e ambizioso patrizio. La congiura venne
rivelata a Cicerone, che attaccò in Senato Catilina costringendolo a fuggire. Questi, recatosi
in Etruria per suscitare la guerra civile, fu ucciso presso Pistoia in battaglia (62 a. C.) e
Cicerone fu chiamato "padre della Patria".
Il primo triumvirato e la vittoria di Cesare
La morte di Catilina e il ritorno di Pompeo dall'Asia sembrava avessero rinsaldato la
posizione dell'oligarchia senatoria, ma Pompeo si trovò di fronte l'opposizione del Senato e
due rivali: Crasso e Cesare. L'atteggiamento dei Senatori, che rifiutarono di concedere le
terre ai suoi veterani, spinse Pompeo a intendersi con Crasso e Cesare, coi quali strinse un
accordo prima segreto e poi palese, di carattere privato, che fu detto triumvirato, per una
spartizione amichevole delle forze militari e dei comandi nelle province. A Cesare fu
assicurato il consolato per l'anno 59 a. C., Pompeo ebbe il governo della Spagna, Crasso il
comando di una spedizione in Asia contro i Parti; a Cesare toccò inoltre per cinque anni il
comando della Gallia Narbonese. L'accordo ebbe attuazione pratica coll'elezione di Cesare
al consolato; egli fece approvare la legge che assicurava la distribuzione di terre ai veterani
di Pompeo, i cui provvedimenti d'Oriente furono ratificati.
Cesare poté quindi intervenire nella Gallia dove lo avevano chiamato in aiuto gli Edui,
minacciati da una migrazione dalla Svizzera della forte tribù celtica degli Elvezi: respinse gli
Elvezi, ricacciò Ariovisto capo dei Suebi oltre il Reno e sconfisse i Belgi (56 a.C.), avviando
così l'unificazione della Gallia sotto il dominio romano. Dopo questi successi pensò alla
conquista della Britannia, dove sbarcò negli anni 55 e 54 a.C., ma non poté insistere in
questa impresa a causa della rivolta generale dei Galli sotto Vercingetorige (52 a.C.), un
guerriero arverno di eccellenti qualità militari, che Cesare costrinse a chiudersi in Alesia e a
darsi prigioniero: la Gallia nel 51 a.C. era sottomessa.
Durante la guerra gallica a Roma non erano cessati i disordini e si avvertiva il bisogno di
stabilire un maggiore equilibrio fra i triumviri. Così nel convegno di Lucca del 56 a. C. si
concordò che Cesare e Pompeo, divenuti consoli per l'anno 55 a.C. avrebbero fatto
confermare a Cesare il governo della Gallia per altri cinque anni, mentre a Crasso sarebbe
stata assegnata per un identico periodo la provincia di Siria e a Pompeo il governo della
Spagna. L'equilibrio fu rotto nel 53 a.C. per la morte di Crasso nella guerra contro i Parti:
restavano di fronte Cesare e Pompeo.
Il conflitto tra i due avversari scoppiò nell'anno 50 a.C.. Pompeo voleva conseguire il primato
a Roma con il consenso e la sanzione del Senato; Cesare senza scrupoli costituzionali
mirava a un potere fondato sull'appoggio dell'esercito. A una dubbia decisione del Senato di
sostituirlo nel comando della Gallia, Cesare, non avendo altra via che la ribellione per
conservare il proprio potere, si oppose con la forza e nella notte del 10 gennaio dell'anno 49
a.C. varcò in armi il Rubicone (che segnava il confine fra l'Italia propria e la Gallia Cisalpina),
occupò Rimini e avanzò su Roma, dalla quale fuggirono Pompeo e il Senato, passando
nell'Illiria e poi in Macedonia. La battaglia decisiva fu combattuta a Farsalo in Tessaglia, e
Pompeo, vinto, fuggì in Egitto dove Tolomeo XIV lo fece uccidere a tradimento (48 a. C.).
Cesare, occupata l'Italia e le isole, passò in Egitto dove assegnò a Cleopatra il potere tolto a
Tolomeo XIV e sconfisse in una rapida campagna Farnace, figlio di Mitridate. Nel 47
intraprese la campagna d'Africa che rapidamente concluse a Tapso (febbraio del 46); i
superstiti seguaci di Pompeo fuggirono in Spagna, ove la resistenza anticesariana fu
spezzata definitivamente con la vittoria di Munda, nel marzo del 45 a. C.
Cesare dittatore
Svetonio (Vite dei Cesari):
Si dice che fosse, alto, ben proporzionato e di colorito chiaro. Aveva il viso troppo pieno e gli
occhi neri e vivaci. Godeva di ottima salute, ma negli ultimi tempi soffriva di svenimenti e di
incubi notturni: due volte, mentre svolgeva la sua attività, fu anche colto da attacchi epilettici.
Cesare era padrone di Roma: si fece conferire la dittatura e anche la praefectura morum,
propria dei censori, per dieci anni e iniziò una vasta opera di riforma dello Stato. Completò
l'allargamento della cittadinanza estendendola ai Galli dell'Italia Transpadana, restituì i
tribunali al Senato e ai cavalieri, limitò il lusso, restrinse l'elenco dei proletari che avevano
diritto alle distribuzioni gratuite di frumento, attuò un largo piano di colonizzazione in Italia e
fuori d'Italia (nella Gallia Narbonese, in Africa dove fu ricostruita Cartagine, in Grecia con la
ricostruzione di Corinto); riformò il calendario portando anche gennaio, agosto e dicembre a
31 giorni e a 30 aprile, giugno, settembre e novembre, formando così l'anno di 365 giorni, ai
quali veniva aggiunto il 3660 ogni quattro anni (anno bisestile).
Per l'attuazione delle riforme e per la sistemazione del dominio romano, Cesare disponeva
di una grande potenza materiale basata sull'esercito e di un ascendente morale senza limiti.
Rispettoso del potere politico della plebe, conservò all'assemblea plebea (i comizi tributi) il
diritto di nominare i tribuni e gli edili e di promulgare plebisciti; ma tolse al popolo il diritto di
associazione, abolendo le corporazioni artigiane. Pensò che fosse urgente assicurare la
giustizia amministrativa nelle province, eliminando ogni abuso di funzionari, per mezzo della
legge de repetundis, che conservò valore fino a Giustiniano. Favorì l'elevazione graduale
delle popolazioni per giungere a un livellamento fra l'Italia e il mondo romano, ma era
persuaso che alle province orientali si dovesse lasciare il loro carattere culturale greco,
mentre l'opera di romanizzazione doveva attuarsi in Occidente.
Le province furono portate a diciotto, dieci in Occidente (Sicilia, Sardegna e Corsica, Gallia
Cisalpina, Illirico, Gallia Narbonese, Gallia Comata, Spagna Citeriore, Spagna Ulteriore,
Africa Vetus, Africa Nova) e otto in Oriente (Macedonia, Acaia ed Epiro, Creta, Asia, Bitinia
e Ponto, Cilicia e Cipro, Siria, Cirenaica), sotto il governo di due consoli uscenti di carica e di
sedici ex-pretori scelti col consenso del dittatore.
Ma mentre Cesare stava preparando una spedizione contro i Parti per vendicare la sconfitta
di Crasso, i capi dell'opposizione, Gaio Cassio Longino e Marco Giunio Bruto, congiurarono
contro di lui: Cesare fu ucciso nella Curia il 15 marzo del 44 a. C.
Il secondo triumvirato e il trionfo di Ottaviano
L'uccisione di Cesare non ebbe per risultato la restaurazione automatica delle antiche
libertà repubblicane, né provocò quella insurrezione popolare che gli anticesariani avevano
sperato, e il gruppo di congiurati si trovò isolato.
Suprema autorità dello Stato, in quel momento, era il console Marco Antonio, amico di
Cesare; con lui stava Marco Emilio Lepido, comandante della cavalleria. Gli anticesanani,
incerti di fronte al popolo muto e titubante, non osarono convocare il Senato e decisero di
iniziare trattative con Antonio e Lepido, che avevano in mano le forze armate, i documenti e
la cassa privata di Cesare e il tesoro pubblico, conservato nel tempio di Opi (700 milioni di
sesterzi).
Nella seduta del Senato del 17 marzo, tra i pareri diversi e contrastanti, Cicerone propose
che il delitto avvenuto due giorni prima fosse del tutto dimenticato; Cesare non era colpevole
di aver aspirato al regno e le sue decisioni erano riconosciute valide; ma non si doveva
neppure procedere contro coloro che lo avevano colpito. La proposta fu approvata; ma le
discussioni ripresero subito a proposito dei funerali, decisi a spese dello Stato.
In seduta senatoria Antonio comunicò il testamento di Cesare, che adottava e lasciava
erede di tre quarti del suo patrimonio il nipote Gaio Ottavio, donava al popolo romano i
giardini ai piedi del Gianicolo e 300 sesterzi per persona. Scoppiato un tumulto popolare,
Bruto e Cassio abbandonarono Roma; Antonio, per mezzo di plebisciti e con l'appoggio di
veterani, riuscì a controllare la situazione e andò in Campania.
Ottavio, che si trovava ad Apollonia, decise di tornare a Roma per affermare i suoi diritti
come erede di Cesare. Qui giunto, accettò l'adozione col nome di Gaio Giulio Cesare
Ottaviano, ma dovette subito arruolare un esercito per combattere contro Antonio, che
sconfisse nella cosiddetta guerra di Modena. Il Senato, però, diffidando di Ottaviano, gli
rifiutò il trionfo: il giovane puntò allora arditamente su Roma con le legioni e impose con la
forza la sua nomina a console. Ciò lo riavvicinò ad Antonio, tanto più che Bruto e Cassio si
erano impadroniti l'uno della Macedonia, l'altro della Siria; e poiché Antonio aveva stretto
accordi con Lepido, governatore della Gallia e della Spagna, i tre convennero dopo varie
trattative nella formazione di un nuovo triumvirato (43 a. C.) riconosciuto come una
magistratura superiore a tutte le altre, consolato compreso, per la durata di cinque anni. Essi
presero il nome di Triumviri rei publicae constituendae, affermando così il loro fine di
elaborare una nuova costituzione per lo Stato romano. La devozione a Cesare fu
proclamata dai triumviri facendo ufficialmente riconoscere come dio il divus Iulius.
Immediatamente cominciarono le proscrizioni e le confische dei beni; la vittima più illustre fu
Cicerone, che aveva duramente attaccato nelle sue Filippiche il console Antonio. Quindi
Antonio e Ottaviano decisero di combattere Bruto e Cassio: passarono con le loro forze a
Durazzo e lo scontro decisivo avvenne a Filippi in Macedonia. Bruto e Cassio, sconfitti, si
suicidarono (42 a. C.); i loro legionari passarono ai triumviri. Nella divisione dei domini e
delle truppe la parte maggiore toccò ad Antonio, che si prese le province orientali, quelle
galliche e l'Africa Vetus; Ottaviano ebbe la Sicilia, la Sardegna con la Corsica, la Spagna,
l'Africa Nova e tutta l'Italia, cui era stata unita la Gallia Cisalpina.
Ottaviano, ritornato a Roma, assegnò a Lepido, che nella spartizione non era stato
compreso, l'Africa, e si dedicò al gravissimo problema di distribuire le terre promesse ai suoi
veterani (oltre 150.000). Vinta, nella guerra di Perugia, l'opposizione del fratello di Marco
Antonio, si fece cedere da quest'ultimo con l'accordo di Brindisi (40 a. C.) la Gallia
Transalpina e quella Narbonese, lasciandogli tutto l'Oriente. In segno di concordia poi
Antonio sposò Ottavia, sorella di Ottaviano, e lo aiutò nella lotta contro Sesto Pompeo che
controllava Sicilia, Sardegna e Corsica. Frattanto Lepido dovette cedere l'Africa a Ottaviano,
deporre l'autorità di triumviro e ridursi alla funzione di Pontefice Massimo.
Nel 31 a. C. Antonio fu sconfitto dai Parti e questo insuccesso e la sua passione per
Cleopatra aggravarono il disaccordo con Ottaviano. In seguito, le sue nozze con la regina
d'Egitto, alla quale aveva donato territori della Siria e della Cilicia, e il ripudio di Ottavia
resero inevitabile il conflitto tra i due rivali. Riuscì facile a Ottaviano far privare Antonio, con
deliberazione del Senato, della sua autorità triumvirale e far accortamente dichiarare guerra
a Cleopatra e non ad Antonio. Quest'ultimo contrasto si concluse con la vittoria di Ottaviano
ad Azio in Grecia (31 a. C.). Antonio, inseguito fino in Egitto, si uccise ad Alessandria;
seguito da Cleopatra. L'Egitto passò sotto il dominio romano, non come provincia ma come
patrimonio personale di Ottaviano (30 a. C.).
Questi, ormai padrone di Roma, poté provvedere al riordinamento dello Stato; bisognava
dare un assetto unitario all'impero, tale da eliminare ogni causa di lotte civili e risolvere il
problema della posizione personale di Ottaviano evitando di creare una monarchia militare
appoggiata esclusivamente sulle legioni e rispettando al massimo le tradizioni di Roma. Per
qualche tempo dopo Azio, Ottaviano pensò di fondare il proprio potere sull'antica autorità
consolare, ampliata con vari privilegi, poi, nel 27 a. C., si fece conferire dal Senato il potere
proconsolare maius che comportava l'imperium militiae e il titolo di Augustus, che egli
considerava come suo cognome indicativo del suo carattere sacro. Augusto divenne quindi
il primo imperator e princeps di Roma; alla Repubblica si era ormai sostituito l'Impero.
(vedere: Istituzione Augustea)
L'Impero
Augusto (27 a.C.-14 d.C.)
Svetonio "Vite dei Cesari":
D'inverno si riparava dal freddo con una grossa toga e quattro tuniche, e portava la camicia
e la maglia di lana, e delle fasce attorno alle cosce e ai polpacci. D'estate dormiva con le
porte della camera da letto aperte, e spesso anche nel peristilio, vicino a uno zampillo
d'acqua, o facendosi far vento da qualcuno. Però, anche d'inverno, non poteva sopportare il
sole, e no, passeggiava all'aria aperta senza cappello, nemmeno in casa propria.
Ottaviano preso l'imperium militiae e il titolo di Augusto nel 27 a.C. (vedere: Istituzione
Augustea) iniziò il riordinamento e all'assetto dell'Impero quindi, preoccupato di assicurare
la pace all'interno e di dare confini più sicuri allo Stato, dovette affrontare varie guerre e
sollevazioni in Egitto e nella Spagna. Lunga, ma relativamente facile fu la conquista del
confine alpino in Italia: nel 24 a. C. le tribù semi selvagge dei Salassi nella valle della Dora
Baltea furono domate e vi fu dedotta la colonia militare di Augusta Pretoria (Aosta).
Nel 16 a. C. fu ridotto a provincia il Norico; l'anno dopo ebbero la stessa sorte la Rezia e la
Vindelicia; nel 14 fu la volta della regione delle Alpi Marittime. Maggiori difficoltà presentò la
conquista del confine sul medio e basso Danubio, dove solo nell'8 a. C. la Pannonia potè
essere sottomessa; nel 6 a. C. Tiberio cominciò la conquista della Boemia, così detta dai
Galli Boi che l'avevano occupata; ma l'impresa fu interrotta da una ribellione della Pannonia,
che fu risottomessa solo dopo tre anni e ridotta a provincia romana. A oriente di essa
divenne provincia anche la Mesia.
Oltre la linea del Reno i Germani continuavano nei loro tentativi di varcare il fiume con
sconfinamenti e aggressioni a mercanti romani: Augusto alla fine decise una serie di azioni
per porre termine a queste incursioni. Il confine del Reno era troppo prossimo alle Gallie e
troppo debole per una difesa effettiva: bisognava perciò passare all'offensiva, obbligare le
tribù germaniche a fare atto di sottomissione e raggiungere il confine dell'Elba. Ne derivò
una guerra lunga e complessa che costò all'Impero gravissimi sacrifici di uomini e mezzi.
Druso diresse con perizia la prima fase della conquista, ma venne a morte nell'anno 9 a. C.
appena raggiunto l'Elba. Il nuovo confine poteva dirsi acquisito, ma non era fortificato e
Arminio, capo della tribù dei Cherusci, riuscì ad attirare in un agguato nella selva di
Teutoburgo Quintilio Varo, le cui legioni furono distrutte (9 a. C.). La gravità del disastro
indusse forse Augusto a rinunziare alla rivincita e al proposito di estendere oltre il Reno il
confine dello Stato romano, lasciando così incontrollate le tribù dell'Europa centrale.
In oriente Augusto evitò la guerra contro i Parti ottenendone, per via diplomatica, la
sottomissione, mentre il regno vassallo della Galazia fu trasformato in provincia romana,
ampliata poi con i territori del Ponto. Nella Palestina fu favorita dapprima la formazione di un
forte stato vassallo sotto Erode, un idumeo convertito al giudaismo; alla sua morte, nel 4 a.
C., lo stato fu diviso in tre parti e nel 6 d. C. anche la Giudea divenne provincia romana.
Augusto non ebbe discendenti diretti maschi e gli premorirono gli amici più cari, tra cui
Agrippa, che si era associato al potere, e i nipoti prediletti.
Alla fine, dopo contrastate vicende, adottò nel 4 d. C. Tiberio Claudio, figlio di primo letto
della sua terza moglie Livia Drusilla, e gli conferì la potestà tribunicia per un decennio; nel 13
d. C. gliela rinnovò unendole l'imperium proconsulare: Tiberio fu così il suo successore
designato.
Nel 14 d. C. Augusto, che continuava a governare il vasto impero nonostante i suoi 76 anni,
volle accompagnare Tiberio, mandato a riordinare l'illirico, fino a Benevento. Al ritorno,
colpito da grave infermità, dovette fermarsi a Nola, dove spirò il 19 agosto. Scompariva con
lui una delle figure più complesse della civiltà romana, alla quale diede un'impronta che
doveva durare lungo tempo.
Le Dinastie dei Giulii e dei Claudii
Tiberio (14-37 d. C.)
Svetonio (Vite dei Cesari):
Nel suo ritiro di Capri fece anche arredare con divani un locale apposito, quale sede delle
libidini segrete; lì dentro, dopo essersi procurato in ogni dove greggi di ragazze e di invertiti,
assieme a quegli inventori di accoppiamenti mostruosi che egli stesso aveva chiamato
"spintrie, li faceva unire in triplice catena , e li costringeva a prostituirsi fra loro in ogni modo,
in sua presenza, allo scopo di rianimare, con il loro spettacolo, la virilità in declino
Alla morte di Augusto, Tiberio, riconosciuto come nuovo signore, si mostrò titubante a
sobbarcarsi l'enorme fardello di responsabilità del governo, che ben poteva valutare a causa
dell'esperienza fatta come coreggente. Solo dopo le ripetute insistenze del Senato assunse
la carica, ma rinunciò al prenome di Imperator e al titolo di Pater Patriae. Mandò il figlio
Druso in Illiria e propose di concedere l'impero proconsolare al figlio di Ottavia, Germanico.
Restavano aperti gravi problemi. Augusto aveva trasformato l'Impero romano e creato un
potere unico superiore fondato sulle capacità e sul suo ascendente personale: bisognava
ora trovare un sistema che garantisse la successione imperiale senza lotte e
sconvolgimenti. D'altra parte i due elementi (aristocrazia senatoria ed esercito, formato da
piccola borghesia e proletariato) su cui poggiava il sistema augusteo non si erano ben
amalgamati tra loro, mentre esisteva fra l'Italia, che aveva il primato nell'Impero, e le varie
province un certo contrasto derivante dalla disparità del trattamento. A tutto ciò bisognava
aggiungere la tendenza del Senato e dei pretoriani a far valere la propria autorità. Tiberio
accentuò all'interno l'autorità del Senato, dal quale volle intima collaborazione, portando in
questo consesso la discussione delle questioni più importanti e attribuendogli il diritto di
eleggere i magistrati. Furono anche soppressi i comizi, secondo l'incarico avuto da Augusto,
sicchè il Senato da questo momento divenne l'unico corpo elettorale di Roma.
Libero di iniziare la sua politica estera, l'erede presuntivo Germanico potè compiere dal 14 al
17 d. C. una serie di spedizioni in Germania, per rialzarvi il prestigio delle armi romane
scosso dalla sconfitta di Varo: nell'anno 16 Arminio fu battuto e ucciso nella pianura di
Idistaviso ma, nonostante la vittoria, i Romani non poterono realizzare la sottomissione dei
popoli germanici fino all'Elba. Subito dopo Germanico fu richiamato da Tiberio e, celebrato il
trionfo, venne mandato in Oriente, dove nel 19 d. C. venne a morte, forse di veleno.
Dopo alcuni anni di governo e di buona amministrazione specialmente finanziaria, Tiberio si
abbandonò ad atti di violenza e ministro del suo dispotismo divenne il prefetto del pretorio
Elio Seiano. Fu l'errore più grave di Tiberio l'aver accordato la sua fiducia a questo uomo
senza scrupoli, lasciato a Roma a spadroneggiare mentre egli viveva nel ritiro della sua
residenza a Capri. Seiano aspirava a succedere a Tiberio, e cercò di eliminare coloro che gli
davano ombra, a cominciare dall'unico figlio di Tiberio, Druso, morto di veleno il 23 d. C.
Sette anni dopo Tiberio si associò Seiano nel potere proconsolare; ma l'audace ministro
volle affrettare la successione cospirando contro l'imperatore. Questi, benché tardi, si
persuase delle colpe di Seiano e lo fece condannare a morte dal Senato.
Dalla strage quasi totale della famiglia imperiale, organizzata da Seiano, era scampato il
figlio di Germanico Gaio, soprannominato Caligola (da caliga, il calzare dei soldati che egli
portava da piccolo). Tiberio si prese cura di lui, e quando a 78 anni venne a morte lo lasciò
come suo successore senza indicarlo esplicitamente (37 d. C.).
Caligola (37-41 d. C.)
Svetonio (Vite dei Cesari):
Era di statura alta, di corpo enorme, di colorito livido, con collo e gambe gracilissime, occhi
incavati, tempie strette, fronte larga e torva, capelli radi, completamente calva la sommità
del capo, irsuto il resto del corpo ... Ad arte rendeva ancor più brutto il suo viso, già orrido e
tetro per natura, studiando davanti allo specchio espressioni che ispirassero terrore e
orrore.
Tiberio lasciava un dominio forte e finanziariamente ordinato; erano invece piuttosto tesi i
rapporti fra potere imperiale e Senato in conseguenza del crudele governo degli ultimi anni.
I senatori, non vincolati da alcuna precisa designazione di Tiberio e sperando Caligola
favorevole alla loro autorità, si affrettarono ad accettarlo come successore, ma il nuovo
imperatore si rivelò incline a instaurare una monarchia assoluta, su modello orientale, con
l'introduzione, fra l'altro, del culto divino del sovrano e dei suoi familiari. Si aggravò così l'urto
col Senato, reso più acuto dalle eccessive spese che compromettevano la stabilità del
bilancio. Nel 37 o nel 39 Caligola fu colpito da una grave malattia che gli sconvolse la mente
e segnò l'inizio del peggioramento del suo governo. Nel 38 ruppe col Senato, che del resto
subì passivamente, mentre mantenne invariati i rapporti coi magistrati. Riformò i collegi
sacerdotali e iniziò il sistema di imporre il suo culto secondo il concetto orientale di sovrano;
non va accettato però tutto ciò che di assurdo scrissero gli antichi, specialmente gli Ebrei,
intorno alle sue velleità divine. Alla crescente impopolarità credette di poter rimediare con la
politica estera, organizzando una spedizione per la conquista della Britannia e un'azione
contro i Germani, senza nulla concludere. Contro di lui, durante il suo impero, vennero ordite
parecchie congiure, alcune delle quali furono scoperte e represse, ma quella organizzata da
un tribuno dei pretoriani, Cassio Cherea, riuscì a sorprenderlo e a ucciderlo (24 gennaio del
41 d. C.), a ventotto anni.
Claudio (41-54)
Svetonio (Vite dei Cesari):
Non gli mancò né l'autorità né la dignità del portamento, sia che fosse in piedi che seduto, e
principalmente quando riposava. Era infatti di corporatura alta e non magra, aveva bei
capelli bianchi, il collo robusto, e una figura prestante. Ma quando camminava, le ginocchia
malferme spesso gli si piegavano sotto, ed egli si prestava a molte critiche sia quando
scherzava che quando era serio.
Alla morte di Caligola non restava nessuno della famiglia Giulia che potesse assumere il
potere e, mentre Senato e congiurati avevano sperato di ristabilire il governo repubblicano, i
pretoriani provvidero senza indugio alla successione, proclamando imperatore Claudio,
fratello di Germanico. Cagionevole dì salute e di carattere timido, alieno dalla politica e
chiuso nei suoi studi, non era stato adottato ne da Tiberio ne da Caligola, e quindi non era
passato, come il fratello, nella famiglia Giulia, ma era rimasto nella famiglia equestre dei
Claudii. I pretoriani costrinsero il Senato a riconoscerlo imperatore: aveva 51 anni e la
tradizione, sulla quale la moderna storiografia pone però molte riserve, ce lo presenta ora
sanguinano e venale, ora debole e quasi deficiente, in balia della moglie Messalina (il cui
nome rimase simbolo di sfacciata corruzione), di Agrippina Minore e di liberti, come
Pallante, Callisto e Narciso, abili ed energici, ma quasi padroni dell'Impero. In realtà fu un
uomo meditativo, dotato di buon senso, e dimostrò come imperatore energia e serietà
nell'adempimento dei suoi doveri.
La morte violenta di Caligola provava che era sbagliato il programma di imporre a Roma la
monarchia assoluta; Claudio dichiarò quindi di riprendere la politica di Augusto favorevole al
Senato, restaurò la censura, allontanò da Roma gli astrologi per difendere l'antica religione
contro la diffusione dei culti orientali. D'altra parte cercò di migliorare le condizioni delle
province, mirando, a differenza di Augusto, ad attenuare la loro inferiorità verso l'Italia,
suscitando così l'opposizione di alcuni senatori e cavalieri romani. Questo principe, descritto
come un timido studioso, realizzò la conquista della Britannia, che fu ordinata a provincia, e
ridusse sotto il dominio romano la Mauritania. Ne trascurò Roma e l'Italia, dimostrando
saggezza e tenace volontà nel campo dei lavori pubblici. Così condusse a Roma mediante
un magnifico acquedotto, l'Acqua Claudia, e vi portò le acque dell'Aniene, Anio Novus; fece
prosciugare il Lago Del Fucino, costruì con criterio nuovo il porto di Ostia in aperta spiaggia,
dotandolo di un faro; terminò la Via Claudia Augusta, iniziata da suo padre Druso, che
conduceva da Altino al Danubio.
Claudio aveva sposato in terze nozze Valeria Messalina dalla quale ebbe un figlio,
Britannico, e una figlia, Ottavia; messa a morte la moglie per la condotta scandalosa, sposò
la nipote Giulia Agrippina, vedova di Gneo Domizio Enobarbo e madre di Lucio Domizio, il
futuro Nerone, Agrippina si preoccupò di assicurare la successione al figlio; ottenne da
Claudio il matrimonio di Nerone con Ottavia e lo spinse ad adottare Nerone, diseredando il
figlio Britannico; infine, per evitare cambiamenti da parte di Claudio, lo avvelenò nell'anno
54.
Nerone (54-68)
Svetonio (Vite dei Cesari):
Era ancora semivivo quando ad un centurione che, fatta irruzione e fingendo di volerlo
aiutare, gli aveva tamponando la ferita con un proprio mantello, rivolse soltanto queste
parole: E' troppo tardi! , e : Questa è fedeltà!. E così dicendo morì, i suoi occhi stralunati si
fecero fissi da ispirare orrore e terrore in coloro che li videro.
La successione avvenne senza contrasti: Nerone fu acclamato dalle coorti pretorie e il
Senato accettò senza discussioni il fatto compiuto, concedendo il potere al giovane
imperatore. Egli aveva infatti solo diciassette anni e governarono per lui durante i primi
tempi la madre Agrippina e i maestri Lucio Anneo Seneca, il filosofo, e Sesto Afranio Burro,
prefetto del pretorio. La sua crudeltà però si rivelò fin dal principio, quando fece avvelenare
Britannico. Nerone si proponeva di attuare il programma di Augusto, riservandosi la politica
estera e la cura dell'esercito e lasciando al Senato la politica interna, ma questo tentativo di
diarchia urtò contro la realtà politica: se la tradizione di Roma repubblicana ancora forte
impediva infatti l'instaurazione di un potere imperiale assoluto, si avvertiva sempre più,
specie nelle province, la necessità di superare la divisione dei poteri pubblici fra Senato e
imperatore.
Nerone, fornito di discreto ingegno e di cultura letteraria ma privo di affetti profondi, volle a
poco a poco eliminare tutti coloro che potevano creargli opposizioni: dopo Britannico fece
uccidere nell'anno 59 la madre, quindi allontanò Seneca dal governo per restare solo a capo
dello Stato e nello stesso tempo fece uccidere la propria moglie Ottavia per sposare Poppea
Sabina, sottraendola al marito Otone. Gli eccessi e le follie di Nerone non ebbero più limiti,
mentre nuovi problemi urgevano ai confini e nelle province esasperate dalle imposte. In
Oriente era ripresa la guerra col regno dei Parti per il possesso dell'Armenia; una ribellione
era scoppiata in Britannia; nel 66 si ribellarono gli Ebrei di Palestina; agitazioni si ebbero
anche in Gallia, sul Reno, nella Mesia, ecc. Ma di ciò poco si occupava Nerone, intento più
che altro a esaltare se stesso con gli attributi della divinità. La persecuzione dei cristiani, ai
quali l'imperatore attribuì l'incendio di Roma dell'anno 64, forse casuale, finì col suscitare
orrore, mentre a screditare Nerone e ad accrescere l'animosità contro di lui contribuì il suo
famoso viaggio in Grecia.
Intanto, sulle rovine spianate al centro di Roma era iniziata la gigantesca costruzione della
Domus Aurea che assorbiva ingenti ricchezze, aggravando la crisi del tesoro. Nell'anno 58
Nerone aveva tentato una riforma finanziaria, con l'abolizione delle imposte indirette e
specialmente dei dazi tra provincia e provincia, sostituendovi un rimaneggiamento delle
tasse dirette che colpivano i ceti più ricchi, i propietari di beni fondiari; ma per l'opposizione
suscitata nell'aristocrazia senatoria e l'ostilità dei cavalieri, la legge era stata respinta dal
Senato. Più tardi, nel 63, compì una riforma di grande importanza nella storia dell'Impero,
diminuendo il piede dell'aureus da 1/40 di libbra d'oro a 1/45, quello del denarius da 1/84 di
libbra d'argento a 1/96, realizzando con ciò un buon profitto per lo Stato.
Grande era il malcontento a Roma, dove furono organizzate contro l'imperatore parecchie
congiure: a una di queste, capeggiata da Calpurnio Pisone, partecipò forse anche Seneca,
che fu costretto a uccidersi. Tuttavia lo scontento non bastò ad abbattere Nerone; furono le
insurrezioni militari scoppiate in Gallia con Giulio Vindice, in Spagna con Sulpicio Galba, in
Lusitania con Salvio Otone e infine in Africa con Clodio Macro, che costrinsero Nerone a
fuggire da Roma; il Senato lo dichiarò nemico pubblico e, coll'appoggio dei pretoriani,
proclamò imperatore Galba. A Nerone non restò che uccidersi (9 giugno del 68).
Svetonio Vite dei Cesari:
Fu di statura regolare, col capo interamente calvo e gli occhi cerulei. Aveva il naso aquilino e
le ani e i piedi gravemente deformati dall'artrite, tanto che non riusciva a sopportare le
scarpe e non poteva srotolare e nemmeno tenere in mano una pergamena.
Elevato al potere dalle forze armate, Galba affrontò subito il problema dell'esercito e dei
pretoriani e quello non meno urgente della restaurazione finanziaria; ma la sua opera,
cominciata col rifiuto del donativo ai pretoriani, gli alienò le forze dalle quali era stato
sospinto all'Impero. Così le legioni delle due Germanie, al principio del gennaio 69,
acclamarono imperatore Aulo Vitellio, i pretoriani Otone. Galba fu trucidato; poi Otone,
sconfitto dai Vitelliani, si suicidò. Contro Vitellio, che governava a Roma, avanzò Tito Flavio
Vespasiano, proclamato imperatore dalle legioni d'Oriente (luglio del 69) e la sorte di Vitellio
fu decisa dalla vittoria dei Flaviani a Bedriaco. I pretoriani in pochi mesi avevano acclamato
e tradito tre imperatori.
I Flavi
Vespasiano (70-79) e Tito (79-81)
Svetonio (Vite dei Cesari):
Vespasiano
Ebbe una corporatura tarchiata, con le membra robuste e solide, e il volto quasi contratto da
uno sforzo. Godette di ottima salute, per quanto, per conservarla, si accontentasse come
sola cura di massaggiarsi regolarmente la gola e il resto del corpo, nello sferisterio, e di
stare a digiuno assoluto un giorno al mese.
Tito
Oltre alla crudeltà, era sospetta la sua dissolutezza, poiché assieme agli amici più prodighi
si dedicava a orge che duravano fino a notte fonda e non era meno sospetta la lussuria, sia
per la sua abitudine di circondarsi di un branco di pederasti e di eunuchi, sia per la sua ben
nota passione verso la regina Berenice, che si diceva avesse persino promesso di sposare;
era anche sospetta la sua rapacità, essendo risaputo, che accettava provvigioni e premi
nelle cause trattate davanti al proprio padre.
Con la vittoria di Vespasiano su Vitellio ebbero termine le violenze della guerra civile; l'anno
dei quattro imperatori segnò così l'inizio di una fase nuova nella storia dell'Impero, la quale
prese le mosse dal governo di ricostruzione attuato da Vespasiano e da suo figlio Tito
Vespasiano.
Il problema principale era il ristabilimento della pace. Uno dei primi atti di governo di
Vespasiano fu la chiusura del tempio di Giano; il più splendido tra i suoi edifici a Roma fu il
Foritm Pacis; sulle sue monete ricomparve la figura della Pace Augusta. Il governo di
Vespasiano e di Tito nei suoi tratti essenziali arieggiò a quello di Augusto. Ebbe molta
deferenza verso il Senato, anche se da principio i senatori appartenenti alle più nobili
famiglie romane dimostrarono una certa freddezza verso il modesto plebeo di Rieti, tipico
rappresentante di quei legionari italici che costituivano ancora il nerbo dell'esercito romano.
Così Vespasiano rivestì quasi ogni anno il consolato, riprese la censura che esercitò
seriamente col figlio Tito come collega, al quale fece conferire nell'anno 71 la potestà
tribunizia, mentre attribuì all'altro figlio Domiziano il titolo di Cesare.
Vespasiano affrontò prima di tutto il gravissimo problema della trasformazione dell'esercito,
in modo da impedire che si ripetessero le ribellioni degli ultimi anni. Volendo soldati meglio
disciplinati degli Italici prese, in contrasto con la tradizione, il provvedimento di escludere
questi ultimi dalle legioni, allontanando così dall'esercito proprio coloro che avevano
contribuito a creare l'Impero: questa riforma apportò forse il colpo più grave alla supremazia
dell'Italia, privata d'ora innanzi della possibilità di far sentire la propria voce attraverso i suoi
legionari.
Tuttavia il reclutamento limitato alle province d'Occidente non era nè facile, nè sicuro: ne fu
prova la rivolta dei Batavi capitanata da Giulio Civile, mirante a una confederazione
gallico-germana staccata da Roma. Vespasiano dovette quindi ricorrere alle regioni
occidentali più progredite e meglio romanizzate, favorendo la formazione di nuovi centri
urbani e concedendo con molta facilità, in contrasto con la politica del Senato, la
cittadinanza romana o latina a intere province, come per esempio la Spagna. In questa
azione ebbe la collaborazione del figlio Tito, collega nel comando e prefetto del pretorio,
affermatosi buon capitano con la guerra contro gli Ebrei, da lui conclusa con la presa di
Gerusalemme e la distruzione del tempio di Salomone. Vespasiano provvide alla riforma
finanziaria, al consolidamento dei confini dell'Impero con l'occupazione degli Agri
decumates, per assicurare il collegamento della regione del Reno con quella del Danubio.
Nè trascurò i lavori pubblici, come la costruzione delle grandi Terme, terminate da Tito, che
diede loro il nome e che ultimò anche l'Anfiteatro Flavio.
Tito ebbe un regno brevissimo (79-81 d. C.) e quindi povero di avvenimenti; ma il giudizio
che fu dato di lui: " delizia del genere umano " rimane a testimoniare il buon ricordo che egli
lasciò. Il suo impero fu segnato da gravi disgrazie: una pestilenza particolarmente grave in
Italia; un incendio che devastò il Campidoglio e una parte notevole di Roma; l'eruzione del
Vesuvio che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia.
Domiziano (81-96)
Svetonio (Vite dei Cesari)
Fu di statura alta, ed ebbe volto modesto e facile ad arrossire, e grandi occhi un po' miopi;
nell'insieme, bello e proporzionato, soprattutto nella gioventù; si devono però eccettuare i
piedi, le cui dita erano troppo corte. In seguito, fu imbruttito dalla calvizie, dall'obesità del
ventre e dalla gracilità delle gambe, che dopo una grave malattia si era ancora accentuata.
Domiziano, fatto Cesare da Vespasiano e considerato da Tito come consors e successor,
gli successe senza difficoltà, proclamato imperatore dai pretoriani e riconosciuto dal Senato.
Nonostante la gelosia e l'avversione dimostrata verso Tito, i primi atti di Domiziano
imperatore furono diretti a onorare la memoria del padre e del fratello. La tradizione, come
per gli imperatori della casa Giulia, ce lo presenta sotto foschi colorì: in realtà fu imperatore
preparato e fornito di buone doti sebbene abbia suscitato odii profondi, volendo essere
considerato padrone assoluto dell'Impero.
Condusse spedizioni fortunate in Britannia, in Germania e un'aspra lotta contro i Daci, portò
a termine urla guerra suebo-sarmatica e un'altra contro i Quadi e i Marcomanni. Con la
guerra contro i Celti di Germania allargò il dominio romano al di là del Reno, ultimando la
conquista degli Agri decumates, che furono protetti con la costruzione del limes, un sistema
di difesa formato da fosse, palizzate, torri di guardia, fortezze e accampamenti per soldati.
Gli insuccessi toccati contro i Daci, la ribellione, poi repressa, di L. Antonio Saturnino, legato
della Germama superiore (88-89 d. C.), accrebbero il malcontento dell'aristocrazia romana
contro l'imperatore che, fattosi più sospettoso e crudele, finì con l'instaurare un regime di
terrore. Dopo varie congiure fallite, nel 96 una cospirazione aristocratica lo fece pugnalare
nello stesso palazzo imperiale. Il Senato lo colpì con la damnatio memoriae.
Durante il suo impero Domiziano ebbe cure particolari per l'esercito, cercando di
assicurarsene il favore con donativi e con l'aumento dello stipendio a tre aurei all'anno; si
interessò molto di Roma e della Italia, costruendo opere pubbliche e restaurando acquedotti
e strade; favorì il popolo con distribuzioni alimentari e vigilò gli impiegati
dell'amministrazione esigendo da loro integrità.
Gli Imperatori senatorii
Nerva (96-98)
Il contrasto fra il Senato, sempre geloso della sua tradizionale autorità, e Domiziano, che
aveva sperato di dominarlo con la violenza e le persecuzioni, si chiuse con l'uccisione
dell'imperatore. I senatori quindi non tollerarono che fosse attuata la designazione al trono
fatta da Domiziano e nominarono imperatore una loro creatura, Marco Cocceio Nerva.
Questi si trovò subito a disagio, dovendo da una parte accontentare l'aristocrazia e
fronteggiare dall'altra la reazione dei pretoriani, legati alla memoria di Domiziano e
desiderosi di vendicarne l'uccisione: il nuovo imperatore seppe però soddisfare con abilità le
richieste dei pretoriani, condannando i complici della congiura. Avendo poi compresa la
necessità che ogni nuovo eletto al potere contasse su un esercito, adottò come suo
successore un generale di grande capacità e autorità: Ulpio Traiano nativo della Spagna, il
primo provinciale assurto all'Impero. Questo sistema determinava una provvida selezione,
in quanto portava al comando uomini di provato valore, I quali garantendo ai senatori
sicurezza di vita ne ottenevano in cambio collaborazione attiva nell'amministrazione
dell'Impero. Nerva volle governare d'accordo col Senato e col popolo: preoccupato dello
squilibrio finanziario, nominò una commissione di cinque senatori preposta alle economie;
abolì l'imposta personale dei Giudei; assicurò il nutrimento ai bambini poveri; riorganizzò la
distribuzione del grano alla plebe di Roma. Mentre la damnatio memoriae aveva annullato
tutti gli atti di Domiziano, Nerva confermò quelli aventi scopo di beneficenza e di liberalità,
seguito da Traiano.
Traiano (98-117)
Questi era legato nella Germania Superiore, quando fu adottato, ma non accorse subito a
Roma e attese prima a sistemare le difese alle frontiere. Si recò poi nell'Urbe senza alcun
sfarzo. Soldato nell'anima, organizzò l'impresa contro i Daci (101-107) che avevano umiliato
l'Impero con Domiziano; tra gli anni 114 e 117 iniziò la lotta contro i Parti e costituì le due
province di Mesopotamia e di Assiria; conquistato il regno dei Nabatei l'organizzò a
provincia d'Arabia, per cui furono sottomesse al controllo di Roma tutte le grandi strade
carovaniere che attraverso l'Arabia andavano in Oriente e specialmente in India.
All'interno perfezionò le provvidenze annonarie dì Nerva, mirando a rinnovare la prosperità
dell'Italia ripopolandola e proteggendo l'agricoltura. Riordinò le finanze abbandonando il
sistema delle continue confische per aumentare le entrate e colmare i deficit. Domiziano
aveva istituito dei funzionari per controllare le finanze municipali (curatores); Traiano ne
accrebbe il numero, per cui finirono anch'essi col diventare magistrati regolari ponendo fine
all'autonomia dei municipi.
Grandiosi lavori pubblici compì a Roma e in Italia, a cominciare dal superbo Foro, sulle cui
rovine sorge ancora la colonna che narra la guerra dacica, ma attese anzitutto ai lavori di
pubblica utilità come l'assetto delle sponde del Tevere e delle cloache e lo scavo a Ostia di
un porto entro terra comunicante col Tevere e col porto di Claudio. Diede molta importanza
ai lavori portuali, compiendone a Civitavecchia, Terracina, Ancona e in Sicilia, aprì nuove
strade e molte ne restaurò in Italia, tra cui la via Appia, e nelle province. Dopo le vie e i porti
ebbero da lui attente cure gli acquedotti, come quello monumentale per l'Acqua Traiana,
condotta dal bacino del lago Sabatino (ora di Bracciano) sul Gianicolo; l'altro per l'agro di
Centumcellae, quelli di Talamone, di Subiaco e numerosi altri nelle province.
Adriano (117-136)
Traiano fu onorato dai contemporanei col titolo ben meritato di optimus princeps: alla sua
morte, avvenuta a Selinunte di Cilicia nel 117, il Senato riconobbe come suo successore
Publio Elio Adriano, un lontano parente dell'imperatore, da lui adottato. Era un momento
difficile per Roma a causa di una grave crisi finanziaria: Adriano ebbe chiara
consapevolezza dei pericoli per l'economia romana inerenti alla politica di espansione, alla
quale rinunciò. Abbandonò le nuove province oltre l'Eufrate, costruì un limes da Petra a Sud
del Mar Morto fino a Dura sull'Eufrate, di fronte al deserto siriano, allargò i Campi Decumati,
sistemò in Britannia un grande vallum. Diversamente da Traiano, Adriano elargì molte
cittadinanze, provvedendo alla fondazione di parecchie città, specialmente nella parte
orientale dell'Impero. L'Italia perdette con lui la propria autonomia, fu divisa in quattro
distretti e il suo governo, tolto al Senato, fu affidato a magistrati consolari.
Adriano trasformò anche il Consilium principis, un organismo di carattere privato istituito da
Augusto, in un consiglio ufficiale e permanente, composto di membri scelti fra i senatori e i
cavalieri, rafforzando così la tendenza all'accentramento del potere che portava lentamente
il consiglio a prendere il posto del Senato. Perfezionando poi le disposizioni sul
reclutamento introdotte da Vespasiano, Adriano stabilì che i soldati reclutati in una provincia
militassero nelle legioni ivi stanziate Si ottenne così il vantaggio di avere legionari pratici dei
luoghi e meno inquieti per la vicinanza alle famiglie, ma anche lo svantaggio di avere soldati
troppo legati alle loro regioni e indifferenti agli interessi superiori dell'Impero. Questa riforma
limitava anche il reclutamento alle province meno romanizzate escludendo del tutto l'Italia:
fu un privilegio che portava in sè i germi della rovina.
Le condizioni della Penisola peggiorarono e Adriano non mirò a restaurare la supremazia
anche se non trascurò le opere pubbliche e l'abbellimento di Roma. Si ricordino la Villa
Adriana presso Tivoli e il mausoleo in cui fu sepolto (Castel S. Angelo).
Gli Antonini
Antonino Pio (138-161)
Adriano provvide alla successione adottando come figlio un senatore cinquantenne, Tito
Aurelio, che, assunto il potere, fu soprannominato Pio per il suo zelo religioso verso gli
antichi dèi e per la sua difesa in Senato della memoria di Adriano. Quest'ultimo, adottando
Aurelio Antonino, aveva voluto che egli a sua volta adottasse Marco Annio, il futuro Marco
Aurelio, e Lucio Ceionio, il futuro Lucio Vero. Il lungo regno di Antonino fu pacifico e
prospero, turbato solo da qualche nube in Britannia, dove egli avanzò il confine verso
settentrione e costruì il valium (Vallo Antonino) che da lui prese nome.
La sua legislazione fu caratterizzata da mitezza e umanità: fece molte economie e istituì
nuove provvidenze alimentari. Per speciale riguardo verso il Senato, Antonino abolì la
divisione dell'Italia in quattro distretti governati da magistrati consolari e ne restituì
l'amministrazione al Senato. Ad Adriano dedicò due templi, uno a Roma e l'altro a Pozzuoli,
e prese a costruire a Roma, lungo la Via Sacra, un tempio in onore della moglie Faustina a
lui premorta e divinizzata. Alla successione era già stato provveduto da Adriano con le
adozioni già ricordate.
Marco Aurelio (161-180) e Commodo (180-192)
Ad Antonino successe Marco Aurelio, spagnolo d'origine, filosofo storico autore della
famosa opera Ricordi. Il suo regno non fu tranquillo, essendo stato turbato dalla guerra
contro i Parti (161-166), che lo spinse ad associarsi nell'impero il fratello adottivo Lucio Vero
con tutti i poteri, eccetto naturalmente il sommo sacerdozio, e dalla minaccia germanica sul
confine danubiano.
Marco Aurelio conservò sempre Verso il Senato deferenza e rispetto; tuttavia ripristinò la
divisione dell'Italia in quattro distretti affidati a funzionari di nomina imperiale scelti fra
senatori di grado pretorio.
Con lui cessò il sistema della successione per adozione, che aveva dato così buoni risultati
per quasi un secolo: lasciò l'Impero al figlio Commodo che non aveva nessuna delle qualità
del padre, ne tendenza a seguire l'esempio dei suoi predecessori; riprese infatti sistemi
tirannici e pretese di essere adorato come un dio. Fu soprattutto l'imperatore della plebe
romana, che favorì' con calmieri e altre misure; violento e brutale, avverso alle classi alte, si
urtò col Senato, provocando una congiura di Senatori che fu scoperta; si affidò a favoriti e
aumentò le retribuzioni all'esercito per ottenerne l'appoggio, ma morì assassinato alla fine
dell'anno 192.
Le prime crisi dell'Impero
I Severi.
Con l'uccisione di Commodo cominciò un nuovo periodo di lotte civili e di profonde
trasformazioni sociali. Il prefetto del pretorio, capo della congiura, fece riconoscere come
imperatore un vecchio e valoroso generale, il ligure Publio Elvio Pertinace, che fu ucciso dai
pretoriani ammutinati dopo soli 87 giorni di regno. L'Impero fu allora messo all'incanto dai
soldati e toccò al maggiore offerente, Didio Giuliano, nobile e ricco senatore. Ma nello
stesso tempo le legioni avevano acclamato altri imperatori: in Siria, Gaio Pescennio Nigro;
nella Pannonia, Lucio Settimio Severo; in Britannia e in Gallia, Decimo Glodio Albino. Si
ebbe così una situazione simile a quella che si era avuta alla morte di Nerone e si aprì una
gravissima crisi, durata quasi un secolo (dalla morte di Commodo nel 192 all'avvento di
Diocleziano nel 285), che parve travolgere nel disordine l'Impero a causa dell'instabilità
degli Imperatori innalzati e deposti o uccisi: Ventisei in meno di un secolo.
Nel primo quarantennio le condizioni dell'Impero sotto la discontinua dinastia dei Severi
furono assai difficili, ma non caotiche; fra Settimio Severo (193-211) e Severo Alessandro
(222-235) merita di essere ricordato il figlio del primo, Caracalla (211-217) così chiamato da
un indumento gallico che soleva indossare. Concesse privilegi ai soldati delle legioni, nelle
quali immise molti elementi germanici, accentuando l'imbarbarimento dell'ordinamento
militare. Per diminuire il prestigio dei pretoriani e frenare la loro prepotenza, stanziò una
legione ad Albano. Volle poi una netta distinzione fra il patrimonio dell'imperatore (fisco) e
quello della sua casa privata.
La più importante misura politica di Caracalla fu la realizzazione di quel movimento di
perfetta uguaglianza fra le province e l'Italia, che era proceduto nei secoli precedenti con
alternative di accelerazione e di ritardo. Nel 212 estese, con la famosa Constitutio
Antoniana, il diritto di cittadinanza romana a tutti i provinciali, con alcune esclusioni.
Uccisi da congiure Caracalla e i suoi successori, Macrino ed Fliogabalo, l'Impero toccò
infine a Severo Alessandro. Questi nei primi anni di regno ebbe tutrice la madre e,
consìgliato da lei, iniziò una politica favorevole al Senato, che potè di nuovo eleggere i
magistrati e i governatori delle province anche imperiali e partecipare al supremo consiglio
dell'imperatore. Ma Severo si trovò di fronte a una doppia crisi: il deficit finanziario, male
endemico dell'Impero, il disordine dell'esercito, insufficiente alla difesa contro i rinnovati
attacchi dei Parti, e la crescente pressione dei Germani. Severo riuscì a frenare le due
minacce, ma verso la primavera dell'anno 235 cadde a sua volta vittima di una congiura
militare capeggiata da Massimino.
L'anarchia militare e gli imperatori illirici
La morte di Severo Alessandro gettò l'Impero nel più caotico disordine: è il periodo
culminante dell'" anarchia militare "(235-258), durante il quale si succedettero una ventina di
imperatori, o usurpatori, eletti nell'una o nell'altra parte dell'Impero, sostenuti e talora
trucidati dai legionari o pretonani. Fra questi, Decio, di origine illirica, dimostrò ferma volontà
di tutela della tradizione romana, ciò che scatenò una persecuzione che colpì in particolare i
cristiani. Gallieno affrontò con energia la situazione, ma tolse al Senato il privilegio (li
assumere comandi nell'esercito. Tuttavia Gallieno compromise l'unità dell'Impero sia in
Oriente, dove la sua politica portò alla formazione di un vasto stato autonomo con capitale
Palmira sotto la regina Zenobia, sia in Occidente, dove Marco Cassiano Latinio Postumo
costituì nelle Gallie un regno separato con capitale Treviri (Imperium Galliarum), con
pretesa di legittimità. Nel 268 l'imperatore fu ucciso da un gruppo di generali.
La crisi venne superata dalla vigorosa reazione degli imperatori illirici, tutti animati dallo
stesso sentimento di restaurazione dello Stato. Il primo di essi, Marco Aurelio Claudio, detto
Claudio Il Gotico (268-270), assicurò condizioni di relativa tranquillità sia all'interno sia ai
confini del Reno e del Danubio, arrestando i Goti per circa un secolo.
Aureliano (270-275)
Il successore Aureliano poté perciò attuare la sua opera di riunificazione dell'Impero, ma
dovette ancora affrontare alcune irruzioni di barbari, tra cui Iutungi, Quadi, Marcomanni e
Alemanni, che si erano spinti fin nell'Italia Centrale. Questi furono fermati al Metauro e
sterminati presso Pavia; valutando poi il pericolo che allora parve incombere sulla stessa
Roma, Aureliano iniziò la costruzione di una nuova cinta di mura, le Mura Aureliane in gran
parte ancora esistenti. Vero impegno d'onore fu per lui quello di ricostruire l'unità
dell'Impero, allora diviso in tre parti: nel centro l'Italia, l'Africa e la Balcania con Roma
capitale; in Occidente il regno gallo-romano (Gallia e Britannia) sotto Tetrico, già generale
romano; in Oriente il principato di Palmira, centro carovaniero nel deserto siriaco. Aureliano
si volse all'Oriente nel 272, ove Zenobia fu sconfitta; ritornatone, potè impadronirsi della
Gallia perché Tetrico si accordò con lui: egli fu così salutato col titolo di restitutor orbis.
Aureliano tentò anche di porre rimedio alla crisi monetaria, reprimendo duramente i
conseguenti disordini verificatisi a Roma, e limitò i pochi privilegi rimasti all'Italia, ove il
corrector, magistrato straordinario adibito a porre rimedio alle varie condizioni di decadenza
nella Penisola, acquistò i poteri di un vero governatore imperiale.
Anche Aureliano fu ucciso dai soldati (275); dopo un periodo d'interregno fu designato il
vecchio consolare Claudio Tacito, che poco dopo morì, forse anch'egli ucciso. Il suo
successore Aurelio Probo, valente generale illirico, attese a lavori di strade, di bonifica, di
agricoltura, ma soprattutto dovette combattere e patteggiare coi barbari, permettendo loro
vasti insediamenti nell'Impero. Fu ucciso a sua volta dai soldati (282), e la stessa sorte toccò
a M. Aurelio Caro e ai suoi figli Carino e Numeriano.
Diocleziano e la Tetrarchia.
Nel 284 il dalmata Gaio Aurelio Valerio Diocleziano divenne unico imperatore. Nato a
Dioclea presso Spaiato portò con sè sul trono una tenace volontà di disciplina e la coscienza
di incarnare un principio di ordine e di equilibrio universale. Fu suo primo pensiero rielevare
la persona dell'imperatore al disopra di ogni competizione, rendendola sacra: così si
dichiarò sovrano assoluto, si fece chiamare dominus e divus e si isolò nel proprio palazzo.
Nei primi tre anni furono riportate vittorie su insurrezioni, tentate invasioni, usurpatori,
specialmente per opera dell'illirico Marco Aurelio Massimiano. Diocleziano diede un nuovo
ordinamento alle province , separando nettamente le funzioni civili da quelle militari; per
ridurre poi i poteri dei governatori, procedette a una nuova partizione delle province, il cui
numero fu aumentato diminuendone così l'area, la popolazione, le entrate, le forze
presidiarie. Al disopra dei governatori furono istituiti i vicarii praefectorum praetorio, con
giurisdizione su aggruppamenti di dodici province (diocesi).
Ma più pressante era il problema del governo dell'Impero. Per risolverlo, Diocleziano costituì
un collegio di capi, con la presidenza di uno di essi, organizzato in modo da sistemare anche
la questione della successione: sorse così quel sistema detto grecamente tetrarchia. Dal
284 al 286 egli assunse come collega Massimiano col titolo di " Augusto ", ma in posizione
secondaria, e non si ebbe subito una divisione di poteri; però Massimiano sì curò
principalmente delle province occidentali. Roma conservò i suoi privilegi e idealmente
restava la sede centrale dell'Impero; ma scompariva definitivamente ogni influenza politica
del Senato e delle magistrature repubblicane. Nel 293 fu completato il sistema tetrarchico
con la nomina di due " Cesari ", collaboratori e successori designati dagli Augusti. Essi
furono due esperti soldati dell'Illiria: Gaio Valerio Galerio Massimiano per Diocleziano e
Gaio Flavio Valerio Costanzo (detto Costanzo Cloro) per Massimiano. L'Impero fu diviso in
quattro parti: Diocleziano ebbe il dominio sull'Oriente (Asia Minore, Siria, Palestina, Egitto,
Cirenaica) con residenza a Nicomedia nella Bitinia e fu considerato il capo morale di tutto
l'Impero. Galerio ebbe il comando della Penisola Balcanica, della Pannonia, del Norico, con
residenza a Sirmio sulla Sava. Massimiano reggeva l'Occidente, avendo sotto di sé l'Italia,
la Rezia, l'Africa romana e parte della Mauritania, con residenza a Milano. Costanzo Cloro
aveva il comando della Gallia, della Britannia, della Spagna e in parte della Mauritania, con
capitale Treviri sul Reno. Così, la tetrarchia portò allo spostamento del centro di gravità
politica verso Oriente.
Le riforme militari e amministrative di Diocleziano
Separati i comandi militari dalle funzioni civili si aumentò la forza della milizia vicina
all'imperatore, del quale assicurava il potere e formava una massa di manovra necessaria
per intervenire rapidamente a protezione dei confini; venne perciò accresciuto nell'esercito il
numero degli elementi barbarici.
Importanti rimaneggiamenti furono introdotti nel sistema tributario, gravando sulle
popolazioni con una tassazione ebe colpiva la proprietà immobiliare e tutti gli esseri viventi
che la pongono in valore, cioè uomini e animali: fu la capititio, che ebbe a fondamento
l'annona; e per la prima volta una parte dell'Italia fu sottoposta alla tassa. La cattiva
monetazione precedente aveva prodotto un enorme rialzo dei prezzi: per frenarlo,
Diocleziano stabilì per i generi di prima necessita un calmiere ufficiale (301), ottenendo però
solo l'occultamento delle merci e prezzi più elevati con la vendita clandestina. Più benefica
fu la riforma munetaria, peraltro non completa. Per far fronte alle necessità amministrative
dell'Impero fu creata una sterminata burocrazia a capo della quale stavano gli alti funzionari
di corte, che costituivano intorno all'imperatore un corpo consultivo, il quale assorbì le
funzioni del Senato col nome di Sicrum Concistorium.
Come Pontefice Massimo, Diocleziano non trascurò la difesa della religione ufficiale dello
Stato e giunse alla persecuzione contro il Cristianesimo.
La Tetrarchia assicurò all'Impero un ventennio di pace all'interno e di maggiore sicurezza
all'esterno; ma era un sistema artificioso che non poteva reggere alla prova. Nel 105
Diocleziano e Massimiano abdicarono; si formò allora la seconda tetrarchia: i due Cesari
divennero Augusti; Galerio come suo Cesare scelse Valerio Massimino Daia, Costanzo
Cloro scelse Flavio Valerio Severo.
Costantino e l'Editto di Milano
Nel 305 però, alla morte di Costanzo Cloro, sì apri un periodo di transizione, durante il quale
si ebbero contemporaneamente anche sei Augusti, in antagonismo fra loro: Galerio,
Massimino Daia e Licinio in Oriente, Costantino, Massenzio e Massimiano in Occidente. Nel
313 Licinio rimase padrone dell'Oriente; in Occidente Costantino sconfisse Massenzio alle
porte di Roma. Dopo la vittoria Costantino andò a Milano, dove venne emanato (313) il
celebre Editto di tolleranza a favore dei cristiani, riammessi nella legge comune. Fra i due
contendenti superstiti non tardò a scoppiare la discordia e dopo varie vicende Licinio fu
sconfitto (324); Costantino resse da solo lo Stato dal 324 al 337: il sistema di Diocleziano
era fallito.
Ricostituita l'unità dell'Impero, Costantino ristabilì l'unità del potere imperiale, compiendone
la trasformazione in monarchia assoluta. L'Impero venne diviso in quattro prefetture:
Oriente, Illirica, Italica, Gallica, suddivise in 13 diocesi e 117 province; ma tutto faceva capo
all'imperatore, che viveva con fasto orientale, circondato da alti dignitari.
Costantinopoli capitale e la riforma monetaria.
Oltre alla politica verso il Cristianesimo, due atti di governo di Costantino ebbero
conseguenze di capitale importanza: la creazione di una nuova capitale dell'Impero a
Costantinopoli e la rivoluzione monetaria.
La causa principale del trasferimento della capitale era nella necessità di vigilare in
particolare i confini dell'Eufrate e del Danubio, troppo lontani da Roma. Gli effetti furono però
anche dannosi per la romanità, sia perché ciò contribuì a dare all'Impero un carattere
orientale assai più che occidentale, sia perché l'abbandono di Roma permetteva alla Chiesa
di affermarsi indipendentemente dallo Stato. Costantino scelse un'antica colonia greca del
Bosforo, Bisanzio, famosa per la bellezza della sua posizione ed eccellente per il suo valore
strategico, anello di congiunzione fra l'Occidente e l'Oriente. La città fu costruita
rapidamente (326-330) e chiamata Costantinopoli; fu dotata di tutti i privilegi di Roma e
arricchita di superbi edifici, fra i quali basiliche cristiane. Costantino vi si stabili e là compì la
trasformazione dell'istituto imperiale romano in monarchia assoluta a imitazione di quelle
orientali, con fastoso paludamento.
Rivoluzionario fu ancora Costantino rompendo i vincoli con la tradizione monetaria. La
moneta tipo, il denarius di rame, aveva subito durante l'Impero varie vicende che ne
avevano straordinariamente abbassato il valore. Costantino pensò che per fondare il
sistema monetario sulla base d'una moneta di metallo pregiato era necessario abbandonare
la vecchia moneta a corso forzoso, lasciandole solo il valore reale che aveva il suo rame,
non il valore fittizio che le attribuiva lo Stato (svalutazione). Così fondò il suo sistema sul
solidus d'oro del peso di gr 4,54, stabile moneta che caratterizzò per un periodo assai lungo
il mercato. Ma gli effetti furono gravissimi: crollando il potere d'acquisto del denaro,
crollarono la piccola borghesia e il proletariato e si creò una nuova società nella quale i soli
detentori d'oro, cioè senatori, dignitari, patrizi, alta burocrazia, potevano esercitare un
controllo sulla vita dello Stato.
Giuliano l'Apostata
Alla morte di Costantino (avvenuta nel 337, poco dopo il battesimo dell'imperatore) l'Impero
fu diviso fra i tre figli Costantino II, Costanzo e Costante che, per evitare opposizioni,
compirono un massacro di quasi tutti i parenti. Dopo altre violenze e assassinii l'Impero
rimase a Costanzo, che nel 355 diede il titolo di Cesare a Giuliano, figlio di un fratello di
Costantino, mandandolo in Gallia. Ma le truppe nel 360 proclamarono Giuliano imperatore a
Lutezia (Parigi), e la morte di Costanzo, il quale poco prima aveva ricevuto il battesimo, evitò
la guerra civile. Rimase così solo imperatore Ginliano, che passò alla storia col nome di
Apostata (361-363).
Giuliano aveva avuto educazione cristiana, ma per le sue tendenze, per i suoi studi,
entusiasta della filosofia greca, abbandonò il Cristianesimo e concepì l'idea di restaurare la
cultura e la religione pagana, ma in forma più filosofica che religiosa e non accessibile alla
plebe. A Costantinopoli fu accolto con entusiasmo e si diede alle riforme amministrative e
finanziarie, lottando contro il fiscalismo e la corrotta burocrazia; alleggerì le province dai
carichi più pesanti; restaurò le finanze; provvide alla nettezza della giustizia; reagì contro la
mollezza e l'inerzia.
Ma la sua preoccupazione maggiore fu di arrestare lo sviluppo del Cristianesimo, pur senza
bandire vere persecuzioni di cristiani. Li allontanò dalla corte e dai posti di responsabilità; la
Chiesa fu privata di ogni privilegio e protezione; templi cristiani furono occupati o distrutti; la
religione pagana riaveva le sue prerogative ufficiali. Ma questo tentativo anacronistico falli
completamente.
Ispirandosi all'esempio di Alessandro Magno e di Marco Aurelio, Giuliano allestì una
spedizione contro i Persiani, ma morì sotto le mura di Ctesifonte (363).
Teodosio
La definitiva divisione dell'Impero. Egli non lasciava eredi, per cui nel 364 succedette la
dinastia Valentiniana, i cui sovrani furono impegnati in lotte continue contro usurpatori
all'interno e contro gli invasori barbari. Dei due fratelli, Valentiniano morì nel 375; Valente
morì affrontando in disperata battaglia i Visigoti (378).
Teodosio I (378-395), generale di origine spagnola, succeduto in Oriente a Valente, battè i
Visigoti e ne permise l'insediamento entro i confini dell'impero, nella Mesia, in qualità di
federati, una specie di compromesso, in seguito largamente applicato, che concedeva loro il
possesso della terra e assicurava il loro servizio militare a favore dell'Impero (382). In
Occidente una sollevazione militare elevò all'Impero Magno Massimo, poi Flavio Eugenio e
Arbogasto, che Teodosio sconfisse nella battaglia del Frigido (Vipacco) presso Aquileia,
restando così per pochi mesi unico imperatore (394-395). Poco prima di morire compì la
definitiva separazione dell'Oriente dall'Occidente, assegnando le province orientali ad
Arcadio e le province occidentali a Onorio.
Il nome di Teodosio, grande guerriero e saggio amministratore, è strettamente legato anche
alla piena affermazione della Chiesa cattolica e all'abolizione definitiva del paganesimo. Il
suo editto del 380 proclamò sola religione dell'Impero " quella che il divino apostolo Pietro
aveva trasmesso ai Romanì ".
La crisi suprema dell'italia romana
Con l'avvento di Teodosio I si ha il principio delle grandi invasioni dei popoli germanici, le
quali si svolsero specialmente secondo due grandi itinerari: nel 378 dal confine del Danubio
dilagarono i Visigoti; nel 406 dal confine del medio Reno avanzarono i Vandali con altre
tribù, sospinti tutti dagli Unni.
L'Impero d'Occidente si trovò ridotto a poco più che l'Italia, dove si succedettero dal 455 al
476 una decina di imperatori alla mercé dei capi barbari, che prendevano il titolo di patrizi,
concesso dagli imperatori a persone che accumulavano una molteplicità di funzioni. In
Oriente, morto Arcadio (408) gli succedette Teodosio II, che legò il suo nome a un opera
legislativa di grandissima importanza, il Codex Theodosianus: fu la prima raccolta ufficiale
delle leggi e costituzioni imperiali dal 312 alla pubblicazione (438), ed ebbe valore tanto in
Oriente quanto in Occidente. Al tempo di Onorio difese l'Italia il valente generale Flavio
Stilicone di origine vandala, che nel 402 sconfisse a Pollenzo presso Bra e a Verona i
Visigoti di Alarico, che avevano depredato la valle del Po, costringendoli a rientrare
nell'Illirico. Poco dopo, orde in prevalenza Ostrogote, valicate le Alpi scendendo dalla Rezia,
si spinsero fin nell'Italia Centrale, ma furono sconfitte dallo stesso Stilicone presso Fiesole.
Nel 408 fu trasferita la capitale da Milano a Ravenna e Stilicone cadde in disgrazia:
l'ingratitudine di Onorio premiò con l'uccisione il grande generale. Fu un imperdonabile
errore: subito ricomparve in Italia Alarico che assediò Roma e nel 410 l'abbandonò al
saccheggio.
Per l'inetto Valentiniano III (425-455) tenne il potere la madre Galla Placidia, riconosciuta da
Teodosio come reggente in Occidente. Nel 451 il comandante delle milizie Ezio ottenne una
strepitosa vittoria sugli Unni di Attila ai Campi Catalaunici (Chàlons sur Marne), ma l'anno
seguente Attila entrò in Italia e distrusse Aquileia. Una parte della popolazione della regione
trovò scampo nel gruppo di isolette tra la foce del Po e il golfo di Trieste: da questi profughi
trasse la prima origine Venezia. Attila devastò parte della Valle Padana e s'avviò verso
Roma; ma gli andò incontro il pontefice Leone I, ed egli, sia mosso da reverenza verso il
papa, sia preoccupato dei promessi aiuti dell'Oriente, sia temendo il sopraggiungere di Ezio,
si ritirò nella Pannonia, ove morì (453). Subito dopo, Ezio fu ucciso per mano di Valentiniano
III, che fu a sua volta ucciso per vendetta di due soldati di Ezio; i Vandali mossero su Roma,
che subì nel 456 un secondo e più grave saccheggio.
Otto imperatori senza importanza succedettero a Petronio Massimo, ucciso dal popolo per
la sua viltà durante il sacco vandalico, alcuni elevati al trono e abbattuti dal patrizio
Ricimero, che fu allora l'uomo più potente dell'Occidente romano. In Oriente sali all'impero
Leone (457), il primo imperatore che si sia fatto incoronare dal vescovo. Dal 465, Leone
tenne il potere imperiale anche in Occidente e Ricimero il governo. Morto anche Ricimero e
nominato imperatore d'Occidente Giulio Nepote (474), gli si ribellò il nuovo " patrizio "
Oreste, che osò elevare alla porpora il proprio figlio Romolo proclamato Augusto, che ebbe
poi per dileggio il soprannome di Augustolo.
Frattanto un capo di genti germaniche, in prevalenza Eruli, Odoacre, richiese secondo
l'usanza la distribuzione di un terzo delle terre per l'aiuto dato a Oreste, e poiché questi
rifiutò, i barbari acclamarono loro re Odoacre che concesse le terre richieste. Oreste cadde
in combattimento e Romolo Augustolo venne deposto. Odoacre non assunse il titolo di
imperatore e preferì governare l'Italia come " patrizio " in nome dell'Impero d'Oriente, allora
retto dall'Imperatore Zenone (476 d. C.).
Le condizioni dell'Italia nel basso Impero
La suddivisione amministrativa
L'Italia, fino a Diocleziano, aveva conservato la divisione augustea; ma l'autonomia
municipale aveva ingenerato disordine finanziario, per cui gli imperatori presero a
esercitarvi un controllo per mezzo di curatores e di correctores. Questo istituto passò poi
anche all'Italia, che però ebbe un unico corrector. Diocleziano la divise in un forte numero di
distretti alle dipendenze di veri governatori.
Questa divisione dell'Italia fu preceduta probabilmente dall'altra più grande in pars
annonaria e pars urbicaria o suburbicaria. Queste due regioni corrispondevano ai territori
poi amministrati dal " Vicario d'Italia (Italia Settentrionale) e dal " Vicario della città di Roma "
(Italia Centro-Meridionale), e costituivano insieme la " Diocesi Italiciana ", che nel 297 era
divisa in dodici distretti, più tardi divenuti diciassette. L'Italia Settentrionale comprendeva
sette distretti: Venetia et Histria con capitale Aquileia; Liguria con capitale Milano; Aemilia,
eccettuata Ravenna, con centro Piacenza; Flaminia et Picenum annonarium con capitale
Ravenna; Alpes Cottiae; Raetia prima con centro Curia (Coira, Chur); Raetia secunda con
capitale Augusta Vindelicorum (Augsburg). L'Italia Centro-Meridionale comprendeva dieci
distretti: Tuscia et Umbria con capitale Firenze; Campania con capitale Capua; Lucania et
Bruttii con capitale Regium; Apulia et Calabria; Samnium; Flaminia et Picenum
suburbicarium; Valeria; Sicilia; Sardegna; Corsica.
Decadenza dell'Impero.
Crisi agricola e sociale
L'aspetto dell'Italia nell'ultimo periodo dell'Impero è caratterizzato dalla divisione fra
Settentrione e Mezzogiorno con i centri d'attrazione Milano e Roma, e dalle diverse
condizioni delle due parti, obbligate a fornire legna, vino, bestiame e altre derrate alle due
città. Questi prodotti dell'agricoltura, dell'allevamento, della caccia, della pesca, ecc. erano
in parte legati alle condizioni geografiche, tuttavia nei primi secoli dell'era cristiana
l'economia agricola si trasformò per opera dell'uomo. Verso la fine dell'Impero però vi fu un
aumento dei terreni incolti.
V'era stata la formazione d'importanti organizzazioni industriali nell'Italia Settentrionale e
l'organizzazione annonaria della Pianura Padana; ma la storia di alcune città ci presenta
nell'ultima sua fase una crisi demografica. Pochi centri emergevano, come Milano, Torino,
Ravenna e Aquileia. Nella proprietà terriera ormai tendeva a prevalere il latifondo, costituito
in parte notevole dai demani imperiali, lavorato con mano d'opera servile da una famiglia
rustica; se si trattava di pascoli, anche pochi schiavi erano sufficienti a custodire immensi
greggi di pecore. La media e la piccola proprietà tendevano a scomparire.
Intanto mutava la struttura sociale: scomparsa o quasi la vecchia aristocrazia, non fu
sostituita neppure da una classe media di equivalente valore, perché questa era formata in
grande maggioranza da liberti di varia origine, spesso abili e trafficoni ma alieni dallo spirito
della romanità che era stato gloria delle categorie scomparse, mentre i nuovi arrivati
pretendevano privilegi senza attaccamento allo Stato. Allo Stato restava solo il proletariato
agricolo e militare; ma anche le condizioni di questo erano diventate assai gravi.
Crisi dell'industria
Lo spopolamento
Nè migliori erano le condizioni dell'industria e del commercio, già singolarmente fiorenti
(costruzioni, mobilio, metallurgia, ceramica, industrie tessili, di lusso, ecc.). Centri famosi
della produzione di ceramiche erano Modena, Arezzo, Cuma e Cales; attiva era la
produzione laniera a Pollenzo, Parma, Modena, Luceria, Canusio, Taranto. Ma tutto fu
compromesso con l'applicazione di provvedimenti che finirono col sopprimere la libera
attività, vincolando i coltivatori alla terra, gli artigiani ai loro mestieri, i soldati alle armi, i
curiali ai loro oneri municipali. Ciò che colpisce è lo spopolamento che si nota nelle province,
non esclusa l'Italia. Le sue cause sono svariatissime: limitazione della prole, celibato,
antagonismo fra campagna e città, pestilenze, guerre civili, invasioni, razzie, distruzioni,
ecc. Nelle città maggiori il fenomeno appare meno, per l'immigrazione dalle campagne
disertate e dalle città minori. Inoltre la miseria nelle campagne gettò sulle grandi strade
bande di vagabondi che facilmente si trasformavano in briganti.
Per l'ultimo periodo dell'Impero, intorno alla popolazione dell'Italia abbiamo solo rare
indicazioni. Roma doveva avere nell'età imperiale circa un milione e mezzo di abitanti, forse
anche più, ma sotto Valentiniano III questi si erano ridotti a 400.000 e tendevano a ridursi ai
23.000 del tempo di Teodorico. Del pari grave era lo spopolamento delle altre città italiane.
Nell'Italia peninsulare, secondo i censimenti, i cittadini romani erano 4.937.000 nel 14 d. C. e
si calcolò una popolazione complessiva da 7 a 8 milioni di abitanti. Dopo la costituzione di
Caracalla (212) il numero dei cittadini crebbe a milioni in Italia e nell'Impero; ma nel V secolo
d. C. tutta l'Italia con le isole si ritiene fosse intorno ai sei milioni di abitanti; nelle province le
condizioni demografiche non appaiono migliori.
Ultime grandi opere d'arte in Roma
Roma nel IV secolo d. C. si mostrava ancora nello splendore dei suoi edifici monumentali,
anche se l'arte viene decadendo. Dopo la vittoria di Costantino (312), il Senato decretò
l'erezione dell'arco di trionfo in suo onore, il più grandioso della romanità; nello stesso tempo
si ebbero i restauri delle Mura Aureliane e sorsero numerosi monumenti onorari. I Regionari,
oltre le abitazioni, le terme, i ponti, ecc., ricordavano, in Roma imperiale, ben 258 mulini e
forni, 335 granai, 424 edicole di divinità, 23 statue equestri, 80 statue d'oro, 84 di bronzo, 34
archi marmorei, 6 obelischi.
Alla fine del IV secolo e nel V le mutate condizioni politiche ed economiche non erano più
favorevoli al sorgere di nuove grandi opere d'arte: il saccheggio della città da parte dei Goti
nel 410, quello dei Vandali nel 456 e quello di Ricimero nel 472, diedero un grave colpo allo
splendore da essa raggiunto.
Abusi e ineguaglianze sociali nel secolo IV
Le condizioni delle due parti dell'Impero nel V secolo erano diverse. La struttura politica,
amministrativa, economica dell'Impero d'Oriente era abbastanza solida e il suo
funzionamento relativamente regolare. In Occidente si venne annullando l'autorità imperiale
e il governo centrale funzionò solo irregolarmente. Nelle province e nella stessa Italia,
privata ormai di qualsiasi privilegio, non si obbediva più a un potere superiore, ma
spadroneggiavano senza controllo i funzionari imperiali e in parte l'aristocrazia locale, cioè i
grandi proprietari terrieri.
La prima preoccupazione del potere imperiale era di ricavare con ogni mezzo le somme
necessarie all'erario, anzitutto per le spese militari. Tale sistema perdurò dal IV al V secolo,
con gravissime imposte dirette e indirette; ma, con l'esaurirsi delle fonti, da una parte
diminuivano le entrate, dall'altra cresceva l'aggravio delle popolazioni.
Mentre le città si impoverivano, le forze economiche si vennero raccogliendo nelle mani di
un ristretto numero di grandi proprietari terrieri: alcune famiglie senatorie erano in pratica
padrone di un'intera provincia. Tali proprietà rappresentavano l'importanza della classe
senatoria, sebbene il Senato avesse perduto quasi ogni importanza: i ricchi proprietari, in
realtà, avevano in mano le leve del comando, per cui riuscivano a sottrarsi al pagamento di
gran parte delle imposte, sicché il carico fiscale ricadeva sempre più sulle classi inferiori, le
sole ancora produttive: fittavoli, coloni, artigiani.
Nelle città, i magistrati municipali (" curiali ") furono ridotti a funzionari fiscali del governo
centrale e resi responsabili con i loro averi delle imposte da riscuotere, per cui essi
cercarono di entrare nella burocrazia statale o nell'esercito o nel clero o perfino di ridursi a
coloni. Di fronte a questa situazione si costrinse ciascuno a restare nel proprio ordine,
trasmettendosi la qualità di padre in figlio. Anche le condizioni della plebe cittadina, che pure
apparteneva alla categoria dei liberi, non erano liete: vi era chi viveva delle pubbliche
elargizioni; altri esercitavano un mestiere, ma anche l'artigiano era costretto a restare nella
propria arte e a trasmetterla al figlio. Queste costrizioni, con la crisi monetaria, la corruzione
dei funzionari, l'oppressione dei deboli, la miseria, portarono all'indebolimento, alle
confische, alla vendita all'asta, alla fuga presso i barbari dove si trovavano condizioni più
sopportabili, perfino alla vendita dei figli come schiavi. Né valse ad attenuare queste
condizioni il defensor civilatis, mutato poi in defensor plebis, istituito per difendere i cittadini
contro il potere centrale e gli alti funzionari. Solo restava il crescente potere del vescovo,
anch'esso grande proprietario non personale, ma per l'accresciuto patrimonio della Chiesa,
il quale così si avviava a diventare magistrato cittadino e ad assumere la rappresentanza di
importanti interessi del municipio e della provincia.
Gli abusi e i privilegi erano ben noti al governo e non mancarono disposizioni per colpirli, ma
erano un po' come le grida di spagnolesca memoria. Roma imperiale moriva nell'umiliazione
e nell'abbandono; ma un grande retaggio sopravviveva: la sapienza giuridica, che viveva nel
Codice Teodosiano, che vivrà nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano.
La crisi del paganesimo.
Il culto dell'antica religione mantenne a lungo una sua vitalità, e la religione dello Stato,
anche nei secoli III e Il a. C., reagì agli influssi rafforzando i culti arcaici. Senonche la cultura
ellenistica, con la sua letteratura e la sua filosofia, determinava un rallentamento degli usi,
un affievolimento delle credenze fino a negare i culti e il valore della preghiera, col risultato
di uno scetticismo per cui la religione tradizionale doveva finire per vie diverse con l'essere
abbandonata dai dotti, dal patriziato, dalla plebe; e si avvertiva poi il bisogno di qualcosa che
riempisse quel vuoto, mentre la pratica religiosa si riduceva a semplice formalità.
Nel I secolo a. C., sull'esempio delle monarchie ellenistiche, si posero le basi di uno dei fatti
religiosi più caratteristici dell'età imperiale, il culto degli Imperatori. Angusto volle rinnovare
l'antica religiosità romana, risuscitando i culti tradizionali, ma non fu molto avverso ai culti
stranieri e nuovi; col cumulo delle cariche sacerdotali nella propria persona, avviò
l'identificazione fra Stato e imperatore, che divenne persona sacra e divina nel culto della
Dea Roma e di Augusto. Nè fu un rinnovamento religioso: rimase una pratica esteriore,
indifferente al cuore della gente. Accanto al culto imperiale durante l'Impero si ha la
diffusione delle religioni orientali, dei culti di carattere misterico. I Romani, nella loro
espansione in Oriente, erano venuti a contatto con civiltà nuove e con forme religiose varie,
grossolane e raffinate, sensuali e materialistiche, ascetiche e mistiche: così affluirono a
Roma i misteri di Demetra, l'Orfismo, i culti della Magna Mater e di Bellona dalla Frigia, quelli
di Baal e di Astarte dalla Siria, quelli di Iside, di Serapide e di Anubi dall'Egitto, quello
Persiano di Mitra, il culto del Sole. Dapprima queste divinità furono venerate da piccoli
nuclei di persone, ma presto trovarono numerosi proseliti ed ebbero anche culti ufficiali.
Così l'aspetto religioso dell'impero ci si presenta con un culto imperiale praticato senza
convinzione, con culti locali nelle province, con culti orientali che fiancheggiano il culto
ufficiale, con imperatori di diverse tendenze e preoccupati dalla crisi del paganesimo e dei
progressi della religione cristiana.
Il politeismo aveva lasciato molti privi di fede, sfiduciati, mentre gli Accademici con il loro
scetticismi, i Cinici, gli Epicurei, lo stesso Stoicismo si erano venuti esaurendo in una specie
di rassegnazione malinconica, incapace di una riforma sociale e religiosa, insufficiente a
liberare gli animi dal tormento del problema della morte, dell'immortalità, del divino. Ma la
filosofia era privilegio di pochi; le masse si rivolsero di preferenza ai culti che parlavano di
purificazione dello spirito e attraverso questa assicuravano l'immortalità. Ciò spiega la
diffusione delle religioni ricche di elementi mistici adatti a parlare al sentimento e alla
coscienza. Tale fusione, o piuttosto confusione di credenze (sincretismo), appare come una
preparazione al monoteismo e a quella crisi suprema che apri l'intelligenza e i sentimenti
alla rivelazione cristiana.
Fine dell'Impero, le invasioni
I Romani incontrarono per la prima volta i Germani quando i Teutoni e i Cimbri avanzarono
nella Gallia e nella pianura del Po e furono disfatti da Mario (102 e 101 a. C.). Cesare, nella
guerra gallica, ricacciò i Suebi oltre il Reno; Augusto tentò la conquista del territorio fra il
Reno e l'Elba, ma le legioni di Varo furono disfatte da Arminio (9 d. C.); la sconfitta fu
vendicata da Druso e Germanico, ma si desistette dall'idea della sottomissione della
Germania, con gravissime conseguenze. Prevalse dal tempo di Tiberio una politica di
amichevoli rapporti, ma nuovi turbamenti confinari cominciarono quando Quadi e
Marcomanni entrarono nella Dacia e nelle province danubiane e solo dopo lunga guerra
furono costretti a ritirarsi da Marco Aurelio (167-175). Le lotte, sempre più gravi ripresero nel
III secolo, con l'attacco degli Alemanni e di altre tribù nel 213, e da questo momento Roma fu
vincolata in una lotta pressoché ininterrotta alla frontiera del Reno e lungo il Danubio,
mentre a Oriente era costante la minaccia persiana. Gruppi di barbari ottenevano di
stanziarsi entro le frontiere dell'Impero in qualità di agricoltori, con l'onere del servizio
militare; ma falli il tentativo romano di spezzare così la pressione barbarica al confine
settentrionale.
A metà del secolo IV si apri il periodo delle cosiddette invasioni barbariche o meglio delle
trasmigrazioni di popoli. Non si tratta di eserciti, ma di popolazioni intere che si spostano,
perchè sospinte a loro volta dall'invasione degli uomini muoventi dalle steppe dell'Asia
centrale, e la terra cercata ricca e soleggiata è al Sud. La barriera romana sarà fatalmente
spezzata e travolta: è il gran momento dei Goti, che da Aureliano ottennero la Dacia, dove si
divisero in Ostrogoti o Goti dell'Est e Visigoti o Goti dell'Ovest, e donde, sotto la spinta degli
Unni, irruppero al di qua del Danubio. Le invasioni barbariche si svolsero tangenziali rispetto
all'Oriente, che mantenne i suoi territori; il fascino di Roma e dell'Italia e l'abilità diplomatica
di Costantinopoli riuscirono a incanalare il movimento gotico verso Occidente. Dopo il sacco
di Roma i Goti (410) ottennero da Onorio di stanziarsi nella Gallia meridionale; ma essi non
sì arrestarono ai Pirenei, e dilagarono nella Penisola Iberica, cacciandone i Vandali.
Intanto, approfittando della debolezza dell'Impero, altre tribù germaniche, Svevi, Vandali e
Alani dilagarono nella Gallia e nella Penisola Iberica (408), mentre Franchi, Alemanni,
Burgundi si stanziavano nelle Gallie (406-413), i Bavari occupavano la Vindelicia; luti, Angli
e Sassoni attaccavano la Britannia.
L'Italia, passata l'onda visigota, non ebbe pace, sia per il succedersi degli imperatori Unni
condotti da Attila, che si spinse verso Roma; l'autorità del pontefice Leone I e altre ragioni lo
indussero a tornare indietro; ma con la morte degli ultimi generali romani, Stilicone ed Ezio,
era finita ogni speranza di difesa dell'Italia. Nel frattempo i Vandali, occupate le province
dell'Africa, avevano costruito una flotta: così avevano potuto occupare le Baleari, la Sicilia,
la Sardegna e la Corsica e saccheggiarono Roma.
L'Impero, colpito così duramente, non potè più riaversi; ma la romanità aveva già da tempo
stretto alleanza col Cristianesimo, ed ebbe legate le sue sorti alle vicende della Chiesa.
Mancando l'imperatore d'Occidente, l'Impero restava nelle mani dell'Augusto d'Oriente,
anche se gli imperatori di Costantinopoli non avevano i mezzi per rendere effettiva la loro
autorità, riconosciuta peraltro anche da Odoacre e poi da Teodorico. Tuttavia l'Impero
disgregato non era morto; se era spezzata la compagine territoriale in Occidente, non era
possibile dimenticare la gigantesca opera da Roma svolta nel corso di dodici secoli,
attuatasi nell'unificazione del territorio immenso compreso fra l'Atlantico e l'Eufrate, fra il
Danubio e il deserto africano. Roma, con la capacità associativa che agli altri popoli
mediterranei mancò, seppe soddisfare l'esigenza di sicurezza e di pace, di sistemazione
civile e politica unitaria di carattere universale, che dominò tutto lo svolgimento storico
dell'antico mondo mediterraneo.
L'unità romana, costituita con le vittorie, l'amministrazione, la lingua, la sapienza legislativa,
non distrusse la naturale varietà delle regioni e alle genti diede ordine e cittadinanza,
regolando la vita con le savie norme di quel diritto che neppure la Grecia pensò e che solo
Roma seppe creare. Quando Carlo Magno creò il suo regno in Europa, volle chiamarlo "
Impero Romano " e si fece incoronare in Roma; così più tardi Ottone I e tanti dei suoi
successori: l'eredità del " Sacro Romano Impero " sopravvisse fino a Napoleone Bonaparte.