la parola della domenica Anno liturgico A omelia di don Angelo

annuncio pubblicitario
la parola della domenica
Anno liturgico A
omelia di don Angelo nella XXVIII Domenica del tempo ordinario
secondo il rito romano
9 ottobre 2011
Is 25, 6-10
Sal 22
Fil 4, 12-14. 19-20
Mt 22, 1-14
Siamo alla terza parabola.
Dopo la parabola dei due figli -uno dice no e fa sì, l’altro dice sì e fa no- e Gesù conclude:
prostitute e esattori vi passeranno avanti nel Regno di Dio, dopo la parabola dei vignaioli che
uccidono l’erede e Gesù dice: la vigna sarà data ad altri, che la faranno fruttificare, una terza
parabola oggi, simile alle prime, quella della cena, la grande cena; gli invitati non se ne
danno pensiero e l’invito arriva a tutti, buoni e cattivi. Qualcuno potrebbe dire: tre parabole
per dire la stessa cosa. E in un certo senso è vero. Ma allora, se Matteo ricuce tre parabole
simili, forse è per dire che il pericolo di essere sostituiti al banchetto da altri -esattori e
prostitute- da altri che oggi non ci sono, è reale ed è grave. Ma dove sta la sorpresa della
parabola? Una prima sorpresa nasce dall’insistenza del re: manda i suoi servi a chiamare gli
invitati, e poi manda altri servi... e poi, di fronte al rifiuto... manda i servi a raccogliere invitati
dai crocicchi, dalle strade. La sala della festa di nozze deve essere riempita. Come se
questo re perseguisse un’idea fissa, con esagerazione quasi, un sogno che non può essere
disatteso! Che la sala, alle nozze del figlio sia stracolma, questa l’idea fissa.
Ebbene, è bello, è carico di suggestione pensare che l’idea fissa di Dio, il sogno che non può
essere disatteso, è la sala stracolma, in altri termini: la salvezza di tutti i suoi figli e che la
salvezza, il Regno, siano sotto questo segno bellissimo del banchetto: il Regno di Dio non è
solo vigna -lavoro, impegno- è anche festa, è convivialità, è godimento.
E questo Dio -lasciatemi aggiungere anche questo, perché mi sembra così bello questo
tratto di Dio- questo Dio che non si scoraggia: quando il suo sogno trova un ostacolo -gli
invitati, i primi, rifiutano- egli allarga il sogno, allarga il disegno. I figli dovrebbero imparare,
noi dovremmo imparare da questo padre, noi che quando troviamo una resistenza, un
ostacolo chiudiamo -così si dice- chiudiamo baracca e burattini. No, Dio apre, allarga, trova
vie nuove.
Così Dio. Così devono essere i suoi figli: allargare il disegno. Certo -direte voi- ma poi c’è il
particolare -e non è irrilevante, non è di poco conto- il particolare della veste nuziale. Ed è
vero: la parabola tende a sottolineare non solo il sogno grande di Dio, ma anche la parte
dell’uomo. Dio non ci tratta come burattini, burattini inerti nelle sue mani, macchine da
manovrare. Rispondere tocca a noi. Tocca a noi la veste e quale veste indossare.
Che cos’è la veste dunque? e quale veste indossare? Vorrei rispondere con due brevissime
suggestioni.
La prima la ricevo dal libro dell’Apocalisse che dice: “la veste di lino sono le opere giuste dei
santi”. (Ap 19,81) Le opere giuste.
La seconda suggestione è quella che mi affascina ogni volta che celebro il battesimo,
quando alla consegna della veste bianca, la liturgia mi fa dire: Cari bambini, vi siete rivestiti
di Cristo... questa veste bianca sia segno della vostra nuova dignità. Rivestiti di Cristo.
Passare una vita a rivestirci, a rivestirci sempre più di Cristo.
Ma forse potremmo ricavare e approfondire un’ulteriore riflessione: vedete, l’abito da nozze
accomuna, e invece qui nella sala c’è qualcuno che vuole distinguersi, non vuole
condividere, è al banchetto, ma ha in mente se stesso, ha in mente le sue cose. Ha la stessa
mentalità di coloro che hanno declinato l’invito: anche loro hanno in mente le loro cose; chi
va al proprio campo, chi ai propri affari. Non c’è attenzione, non c’è sensibilità, non c’è
passione per il bene comune, per la gioia comune. Ognuno il proprio, cura il proprio: il
proprio campo, i propri affari, la propria veste.
Chiudo ricordando a me stesso, che Gesù ha voluto sotto il segno del banchetto anche
l’Eucaristia.
C’è il pericolo che le nostre celebrazioni siano povere di convivialità, di festa, di godimento,
celebrazioni segnate da un eccesso di rigidità.
Certo non dobbiamo insegnare nelle celebrazioni il sermone religioso e la gestualità vuota.
Ma la dolcezza dell’espressione sì, il guardarsi negli occhi, il sorridere, l’attenzione discreta
all’altro.
Pensate: due domeniche fa alla messa di mezzogiorno una ragazza stava seduta qui sulle
panche e di tanto in tanto accarezzava il suo grembo rigonfio. Seduta vicina, una donna che
non conosceva, le si rivolse con dolcezza e le disse: “Aspetta un bambino? Che bello! Pensi
che anch’io ho una nipotina che questo pomeriggio verrà battezzata”.
E ancora incantata mi diceva: “Non sono nemmeno di questa parrocchia. Pensi che
tenerezza!”.
Il Signore ci conceda di illuminare di qualche tenerezza in più le nostra celebrazioni.
Scarica