Anno A
27ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO




Is 5,1-7 - La vigna del Signore è la casa d’Israele.
Dal Salmo 79 - Rit.: La vigna del Signore è il suo popolo.
Fil 4,6-9 - Il Dio della pace sarà con voi.
Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io
in lui, porta molto frutto. Alleluia.
 Mt 21,33-43 - Darà la sua vigna ad altri vignaioli.
La morale dell’alleanza
Un compito pastorale fondamentale è la formazione morale della coscienza cristiana. Ebbene, le letture di questa domenica ci offrono alcuni spunti interessanti per riflettere sulla morale cristiana. Ponendoci nel contesto dell’alleanza di amore tra Dio e il suo popolo,
esse ci dimostrano che la morale va compresa anzitutto come dialogo tra Dio e uomo, ma
dialogo interpersonale. Dinanzi al cristiano non sta una legge astratta, impersonale, bensì una Persona che ama, entra in relazione, agisce. Inoltre la morale va collocata nel quadro della storia della salvezza. La 1a lettura e il Vangelo ci richiamano appunto la storia
dei rapporti tra Dio e il suo popolo.
Ciò che Dio ha fatto in passato per la sua vigna, lo fa oggi – e in modo pieno – con la sua
Chiesa ch’egli ha edificato sulla pietra che è Cristo. Il suo amore per la «vigna» è senza
misura e senza riserve, ma è anche esigente. È un amore che vuole risposta, impegno,
frutti concreti. A noi oggi il profeta dice: «Giudicate!», cioè scegliete e decidete. I nostri
frutti sono uva acerba? Siamo anche noi tra i vignaiuoli che non consegnano i frutti e
respingono gli inviti del padrone della vigna? È poi sintomatico che la liturgia, nella 2 a
lettura, ci faccia ascoltare un brano paolino incentrato non sul fare, ma sul pregare. La
morale cristiana è animata e nutrita dalla preghiera.
La vigna del Signore
Il nostro brano fa parte del blocco di Is 1-5 che contiene una raccolta di oracoli contro
Giuda e Samaria risalenti ai primi tempi della predicazione del profeta. È probabile che
Isaia abbia pronunciato questo oracolo durante una festa, forse la festa delle tende, dinanzi a una gran folla. Il brano di Isaia canta la fedeltà e l’amore di Dio per il suo popolo,
il quale risponde al suo Dio con l’infedeltà e l’ingratitudine.
Is 5,1-7 è un esempio caratteristico di allegoria, con numerosi tratti simbolici. Il profeta
stesso spiega che il padrone e la vigna sono immagine di Dio e di Israele (cf v. 7: «La vigna del Signore è la casa di Israele»). L’uva è il simbolo della giustizia (cf v. 2: «Egli
aspettava che producesse uva» e il v. 7: «Egli si aspettava giustizia»). L’uva selvatica (v.
2) è il simbolo dello spargimento di sangue e dell’oppressione (v. 7). Tutta la pericope ha
la forma di un «processo» che si svolge tra Dio e il suo popolo: il profeta è l’accusatore,
Israele l’accusato e il testimone, Dio è l’imputato innocente e anche il giudice che infligge
il castigo al colpevole. Dio instaura un processo con il suo popolo: egli dimostra la sua
innocenza, si fa accusatore mediante il profeta-giudice. Tra Dio e il suo popolo esiste
un’alleanza in base alla quale si giudica chi è innocente e chi è colpevole. È questo un
modo molto efficace usato dai profeti per invitare il popolo a riconoscere i propri peccati
e la fedeltà di Dio all’alleanza.
27ª Domenica del Tempo Ordinario - “Omelie per un anno - vol. 2”, Elledici
1
La vigna è «la piantagione preferita» (v. 7), oggetto dell’amore di Dio. Ma il popolo di
Israele non capisce e non ricambia l’amore del suo Dio, è infedele. L'amore non
ricambiato spinge il profeta a fare l’invito seguente: «Or dunque, abitanti di
Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna» (v. 3). Isaia non
si limita a fare un’astratta lezione di teologia, ma lancia un appello, una provocazione, un
invito a prendere una decisione.
Da questa pericope impariamo a fare l’esame di coscienza: anzitutto pensiamo a tutto
quel che Dio ha fatto e continua a fare per noi per riuscire veramente a riconoscere le
nostre infedeltà. Soltanto chi conosce il «fare» di Dio (vanga, sgombra dai sassi, pianta
viti, scava un tino, costruisce una torre) può capire quanto poco facciamo noi, ma anche
comprendere che la fecondità umana è prevenuta e provocata dall’azione divina. Dio
infatti è all’inizio e al termine di tutto il nostro fare buono.
In Fil 4,6-9, Paolo parla come uno che conosce la durezza della vita, che ha provato mille
difficoltà, ha rischiato la morte, ha sofferto nel corpo e nello spirito; ora è in prigione. Il
suo invito alla gioia, dunque, non è frutto di superficiale ottimismo. Paolo prende sul serio
le difficoltà della vita, per questo vede nella preghiera il rimedio a ogni ansietà: «In ogni
necessità esponete a Dio le vostre richieste». La preghiera è fissare lo sguardo non sulle
nostre difficoltà, angustie e sofferenze, ma su Dio. È un atto di fiducia e di sereno abbandono in Dio. E si può esprimere in «richieste, suppliche e ringraziamenti». Paolo
esorta a saper accogliere ciò che di positivo il mondo offre, da qualunque parte venga
(«tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, virtuoso, lodevole»).
Infatti tutto ciò fa parte della tradizione apostolica, perché coincide con «ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me» (v. 9). La morale implicita nella tradizione
apostolica non separa dal mondo, anzi fa scoprire tutto ciò che il mondo sa offrire di buono. In ogni uomo, infatti, agisce la grazia di Dio e può produrre frutti di bontà. La
preghiera è renderci consapevoli della misteriosa azione della grazia di Dio, accoglierla e
farla nostra per un agire morale coscientemente ispirato e mosso dallo Spirito di Dio.
Aprendo il cuore ad accogliere la grazia divina, la preghiera rende capaci di una condotta
morale buona, ispirata e provocata da quella grazia.
Responsabilità del portare frutti
L’introduzione della parabola di Matteo richiama Is 5,1-7, ma qui protagonista non è la vigna, bensì i vignaioli. Al «tempo dei frutti» essi avrebbero dovuto consegnare il raccolto
al padrone. Invece rifiutano i servi e arrivano perfino all’assassinio. Il colmo è che
uccidono anche il figlio del padrone della vigna. Di conseguenza, la vigna sarà data ad
altri vignaioli che «consegneranno i frutti a suo tempo», «il regno sarà dato a un popolo
che lo farà fruttificare». Dominante e caratteristico di Matteo è il tema del portare frutti.
I vignaioli rappresentano il popolo eletto, Israele; ma non basta essere il popolo eletto,
bisogna mettere in pratica, osservare la volontà divina con un impegno di vita, una
condotta coerente con la propria fede. Portare frutti significa non limitarsi a dire
«Signore, Signore», ma fare effettivamente la volontà di Dio.
Ora, rifiutando i profeti e soprattutto rifiutando il Figlio di Dio, «Israele» mostra di non obbedire concretamente alla volontà di Dio. «Israele», dunque, non ha obbedito a Dio, ha
respinto tutti i suoi inviati, tutti gli appelli di Dio alla conversione a Gesù, anzi ha perfino
ucciso chi gli portava il messaggio della volontà di Dio. Questo «Israele» siamo anche
tutti noi; non dobbiamo intenderlo come argomento per qualche forma di condanna
unilaterale o addirittura come giustificazione per un atteggiamento antisemitico. Chi di
noi ha accolto veramente la Torah e i profeti?
La vigna sarà data ad «altri vignaioli». Chi sono gli «altri»? Questi «altri» non sono i «pagani» contrapposti ai «Giudei». Matteo non vuol dire che il regno di Dio viene tolto ai
Giudei per essere dato ai pagani. Qui i vignaioli rappresentano Israele come entità reli-
27ª Domenica del Tempo Ordinario - “Omelie per un anno - vol. 2”, Elledici
2
giosa, alla quale si contrappone un «popolo» (ethnos) che non si distingue dai Giudei per
la carne e il sangue, ma per il fatto che accoglie la volontà divina e porta frutti. Questo
nuovo popolo cui è dato il regno di Dio è il popolo messianico, la Chiesa. Il vero Israele è
infatti costituito da quelli che obbediscono realmente a Dio e portano frutti, cioè dalla
Chiesa formata da Giudei e pagani.
Nel v. 43 è forse sottintesa un’allusione alla missione verso i gentili e alla loro entrata nella Chiesa. In questo verso è racchiuso il senso di tutta la parabola di Matteo. Senza ombra
di antisemitismo, Matteo afferma che la Chiesa è un popolo «misto» di Giudei e di pagani
credenti in Cristo e che non basta aderire a questa comunità superficialmente per salvarsi, ma occorre fare effettivamente la volontà di Dio, cioè portare frutti come hanno insegnato gli inviati di Dio dell’Antico Testamento e ultimamente, in modo perfetto, Gesù
Cristo.
27ª Domenica del Tempo Ordinario - “Omelie per un anno - vol. 2”, Elledici
3