«A piene mani. Dono, disinteresse e beni comuni» PADRE ALEX ZANOTELLI Mi sento sempre molto imbarazzato quando devo parlare davanti a professori del vostro calibro. Mi sento ancora più imbarazzato perché è una delle poche volte che ho speso ore, per cercare di capire cosa dire, perché parlare del dono nell’economia odierna mi metteva in difficoltà. Desidero ringraziare innanzitutto l'Università , per aver scelto questo tema. E’ già significativo che se ne parli. Anche a loro va il mio grazie perché non è facile per l'università accettare questo dibattito. Per questo motivo è importante che le università tornino ad essere quello per cui sono nate, in particolare la Federico II, la più antica università statale, che sono sorte come luogo di libera espressione. Purtroppo, invece, in piena post-modernità ci ritroviamo con università prigioniere di un sistema economico-finanziario. In questo periodo, sto leggendo moltissimo su come è nato questo pianeta e penso che "A piene mani" rappresenta la generosità con cui la natura ci dona le cose, a piene mani, appunto. Ne è un esempio la biodiversità di milioni di fiori, di uccelli ! Da credente, quando penso a questo mio Dio che ci ha messo quattro miliardi e seicento milioni di anni a far arrivare la vita fino a noi, con una tale abbondanza, ne rimango estasiato. Gesù, nei Vangeli, dice “Gratuitamente vi è stato dato, gratuitamente date”: "A piene mani!". Il tema di oggi è "Dono e beni comuni". Sono ritornato agli studi sul dono nelle società che abbiamo chiamato primitive ( forse i primitivi siamo noi!). Il nostro modo di guardare la realtà è tipicamente colonialista, occidentale, razzista. Le società primarie, nate prima che ci fossero gli imperi (o le città stato), erano molto basate sullo scambio. E’ importante ritornare a studiare quelle società proprio perché il dono è quasi scomparso dalle società capitalistiche. Sarebbe bello avere un’equipe di antropologi africani che venissero a studiare le strutture mercantili della ‘tribù bianca’. Volenti o nolenti abbiamo permesso la stra-vittoria del mercato. A me non interessa parlare di capitalismo, che ormai è in crisi totale, ma del mercato che ha stra-vinto. Qual è il prodotto del mercato? La mercificazione. Il mercato, per sua natura, mercifica tutto. Provate a pensare all'acqua. Io vado in giro per l'Italia a dire: avete mai pensato di privatizzare vostra madre? E tutti si mettono a ridere. Ma l'acqua è la madre, madre di tutta la vita. Come abbiamo fatto a pensarlo?! Eppure è avvenuto il 6 agosto 2008,quando nel totale silenzio della stampa e dei media, il Parlamento italiano ha votato che l’acqua è un bene di rilevanza economica. L'unica legge che il mercato accetta è la legge del profitto, nessun'altra. E questo ha profondamente 1 mutato l'antropologia di chi vive nel mercato. Noi non siamo più quelli che eravamo cinquanta, sessanta anni fa: c'è qualcosa che è mutato radicalmente nel nostro pensiero, nella nostra interiorità. Ma c'è qualcosa ancora di più grave che è avvenuto: dal Settanta ad oggi si è passati dal mercato alla finanziarizzazione del mercato, cioè non contano neanche più il mercato e la merce ma conta solo la finanza. E questa è diventata pura speculazione. Non sono un esperto di finanza ma dagli studi emerge che il Pil mondiale, totale e reale, sarebbe sui sessantamila miliardi di dollari mentre il giro speculativo si aggirerebbe intorno ad un milione di miliardi di dollari, che vuol dire che fra il reale e lo speculativo c'è qualcosa come quindici volte in più del reale. I soldi controllano tutto l'apparato economico ed è in questa trappola mortale che dobbiamo collocare il problema dono e beni comuni. Il sistema economico-finanziario - più finanziario che economico - tra l'altro nelle mani di pochissime persone, in tutto forse tre-quattrocento ‘famiglie’, permette al venti per cento della popolazione mondiale di "papparsi" l'ottantatré per cento delle risorse del resto del mondo: è puro cannibalismo. Tre miliardi di persone devono accontentarsi di due dollari al giorno mentre un miliardo deve vivere sotto un dollaro al giorno. La conseguenza è un miliardo di affamati e cinquanta milioni di persone che ammazziamo per fame ogni anno. Sì, perché noi li uccidiamo. Notate, per permettere a così pochi di "papparsi" tutto, ci sono le armi. Nel 2009 abbiamo una spesa mondiale di 1.520 miliardi di dollari (dati SIPRI). L'Italia è uno splendido esempio. Venticinque miliardi di euro è il bilancio Difesa 2010:neanche se fossimo invasi dagli Ufo! Non abbiamo soldi per il terzo settore e per la scuola, ma venticinque miliardi di euro sì per le armi. La guerra in Iraq è costata solo agli Stati Uniti in cinque anni tremila miliardi di dollari. Abbiamo tante armi atomiche che potremmo far saltare almeno quattro volte per aria il mondo. E allora capite la follia totale: il venti per cento del mondo si sta pappando quasi tutto ad una velocità incredibile protetto da armi potentissime, e tutto questo sta pesando sull'ecosistema a tal punto che stiamo minacciando il futuro del Pianeta. Stiamo minando la possibilità che future generazioni potranno sopravvivere su questo pianeta. E’ una situazione gravissima. Viviamo dentro un sistema che io definisco di morte: ammazza per fame, ammazza per guerra ed ora sta ammazzando il pianeta! E' la negazione di tutto quello che possono essere dono e bene comune. Oggi c’è solo il mercato, che permette a pochi di vivere da nababbi, lo difendiamo con potentissime armi. E in questa maniera stiamo mettendo in pericolo il pianeta stesso. Capite a che punto di negazione di tutto siamo arrivati?! Quest'economia ci ha ridotti a robot, a cose. Ma se troviamo il coraggio di guardare in faccia la realtà e poi capire che cosa significa antropologicamente questo tipo di sistema, ci rendiamo conto che stiamo andando alla morte. L’unico documento delle Chiese che ha fatto questa analisi è quello di Accra delle chiese Riformate(2006). Questo documento è stato preparato da trecento delegati delle chiese Riformate di tutto il mondo. Nella prefazione del 2 documento i delegati raccontano che sono andati a visitare la fortezza di Elmina, da dove partivano gli schiavi per le Americhe. I delegati rimasero costernati al vedere che nella fortezza c’era una cappella dove il governatore e i soldati olandesi andavano a pregare, mentre sotto c’erano gli scantinati con gli schiavi incatenati. I delegati delle chiese del Nord rimasero schoccati.”Ma non sta avvenendo la stessa cosa oggi?-risposero i delegati delle Chiese del sud-“Voi pregate nelle vostre bellissime Chiese climatizzate, mentre noi, destinati a morire, preghiamo nei bassifondi della storia.” Purtroppo le Chiese oggi nel nord del mondo sono parte integrante di un Sistema che uccide per fame, per guerra e uccide il pianeta. Eppure se c’è una parola che è parola –chiave del Vangelo è proprio il dono,la condivisione, lo spezzare il pane “a piene mani”. E’ stato proprio il Papa Benedetto XVI a ritornare su questo tema nella sua enciclica sociale Caritas in Veritate: "La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani di amicizia, socialità, solidarietà e reciprocità anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa o dopo di essa-afferma il Papa. La sfera economica non è eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’ attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente. La grande sfida che abbiamo di fronte a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancora più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è dimostrare, a livello sia di pensiero che di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale quali la trasparenza, l'onestà, la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica". "Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale ma anche un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di un'esigenza al contempo della carità e della verità. [...] La vita economica ha senz'altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di ridistribuzione, guidate dalla politica e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono”. E’ la prima volta, in campo cattolico, che emerge questo tipo di riflessione sulla “gratuità” e sul “dono”, nel contesto dell’economia globalizzata. E la conclusione che Benedetto XVI tira da queste premesse, mi sembra molto significativa per la nostra discussione. "La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura in un contesto mondiale a forme di attività economica caratterizzate da forme di gratuità e 3 di comunione. Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità mentre le forme economiche solidali che trovano il loro terreno migliore nella società civile, senza ridursi ad essa, creano socialità. Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco”. Questo significa che deve nascere un uomo nuovo: ’homo planetarius’ .Se ‘homo sapiens’ vuole sopravvivere, dovrà fare un salto antropologico. Io sono convinto che il bene non si può imporre: le peggiori dittature della storia sono state quelle dei preti e dei talebani. Il bene deve nascere da dentro, è un salto di coscienza che ognuno di noi deve fare. Quindi è fondamentale un cambiamento antropologico, un cambiamento che per noi che viviamo nel Nord del mondo è difficilissimo da fare ma è essenziale: deve nascere un’altra umanità. Padre Balducci nel suo volume L'uomo planetario afferma che l'uomo a un certo punto dell'evoluzione umana dovette rispondere in maniera creativa al nuovo ambiente : nacque così homo sapiens. Oggi deve nascere homo planetarius, la cui caratteristica sarà il dono e la gratuità. In secondo luogo, dobbiamo ricordarci che l'uomo è essenzialmente un animale sociale, quindi ecco l'importanza delle comunità locali. Io sto sperimentando l'importanza di tutto questo sul problema acqua, la madre, che il mercato ha mercificato. Con il referendum stiamo cercando di ripublicizzare. Sono molto grato ai giuristi (tra questi Alberto Lucarelli) che hanno fatto le tre domande referendarie, che costituiscono una sberla a ‘O’ Sistema’. Nella prima, chiediamo che l'acqua venga dichiarato un bene di non rilevanza economica; nella seconda, che l'acqua venga tolta dal mercato; con la terza chiediamo chiede che il profitto venga tolto dall'acqua. E' proprio una sberla totale al Sistema. Quindi con questo referendum ci stiamo giocando tutto. Ci giochiamo tutta la partita sui beni comuni: l’acqua è dono di Dio. E l'acqua è il più fondamentale dei beni comuni. E’ una sfida epocale! Pochi lo hanno colto così bene come Raj Patel, nel suo recente volume Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo : "Per riconquistare la politica, anche noi dovremmo far leva su più immaginazione, più creatività, più coraggio-afferma Raj Patel. Dovremmo tenere a mente che i trionfi della democrazia non provengono dalle urne, ma dalle circostanze che rendono quella democrazia possibile: uguaglianza, responsabilità delle proprie azioni e la possibilità della politica. Dovremmo essere consapevoli del fatto che trasformandoci in tanti mostri di Greenspan, ruolo per il quale veniamo generalmente educati fin dalla nascita, battezzati nella cultura del consumo e oberati di desideri materiali fino alla morte, la nostra felicità individuale e collettiva verrà irrimediabilmente distrutta. Un futuro sostenibile avrà bisogno di mercati che dovranno però essere tenuti sotto controllo per evitare che le motivazioni, le passioni, le risorse che alcune persone traggono da essi continuino a corrompere il resto della società e del pianeta. Dobbiamo imparare a vedere, valutare, 4 amministrare il mondo in maniera più democratica, rendendoci conto che la proprietà ed il governo sono molto più malleabili di quanto non abbiamo mai ritenuto possibile. Questa a conti fatti sarà un'impresa collettiva. Non è cercando individualmente la felicità che riusciremo a trovarla. Essa potrà scaturire soltanto dalla libertà di vivere insieme, di partecipare a quella politica democratica che ci aiuterà dare il giusto valore al nostro futuro comune". UGO OLIVIERI Il nostro incontro è basato su un dato metodologico che voglio mettere subito al centro della riflessione e cioè che oggi esiste un duplice interrogativo cui siamo esposti come soggettività e come soggettività delle conoscenze con le quali ci confrontiamo. Il primo interrogativo è quello dei confini delle discipline e quindi il problema è quello dell'interdisciplinarietà. Il fatto che io ed Alberto Lucarelli parliamo due linguaggi diversi che debbono trovare un punto comune è la sfida di questo seminario a partire, per me, da alcuni testi di riferimento. I primi testi cui penso sono due saggi di Emile Benveniste: Problemi di linguistica generale e Vocabolario delle Istituzioni indoeuropee. Benveniste è un grande indoeuropeista che si pone il problema di determinare le regole di funzionamento della comunicazione accanto a un lavoro sulla semantica di base delle istituzioni sociali. Questo serve per porre la questione della soggettività del linguaggio (cioè chi enuncia, da quale luogo enuncia e da quale posizione di potere enuncia) e questo consente di fare una riflessione sulla cultura, perché Benveniste nel Vocabolario delle Istituzioni indoeuropee, dopo aver detto che cos'è il segno, come si enuncia il segno, enumera una serie di voci quali “dono”, “città”, “gioco”, e fa un'analisi genealogica della parola, dall'indoeuropeo alle soglie della modernità. Benveniste, quando faceva questo, pensava ad un linguaggio comune europeo, si poneva il problema, dopo la Guerra mondiale, di ricostruire un lessico comune europeo. Ecco l'interdisciplinarietà: tra me ed Alberto Lucarelli deve esistere un lessico comune che poi consente l'interdisciplinarietà. Voglio ora porre un problema di fondo: quanto e come, oggi, le discipline sono interrogate e cambiate dalle pratiche? Questo rapporto è sempre stato pensato in senso unilaterale, dalle discipline alle pratiche. Quando mi riferisco alle pratiche voglio dire che Alberto Lucarelli, ad esempio, produce una pratica a partire dalla propria disciplina, ha una effettività di quello che pensa dentro la disciplina, cioè redige dei pareri giuridici che mutano alcuni aspetti del sociale. Ma siamo proprio sicuri che noi, come letterati, non agiamo dentro le pratiche? Le nostre pratiche sono quelle dell'insegnamento e la pratica cambia la disciplina: è questa l'ipotesi su cui stiamo lavorando. Definire categorialmente le tre parole “dono”, “bene comune” e “società postmoderna” serve a dire che è esistito un mondo di cose, in cui il dono per 5 i popoli arcaici (non li chiamiamo primitivi perché effettivamente la ricerca antropologica non li chiama primitivi ma arcaici) serviva come scambio. Questo mondo di cose utilizzava gli oggetti (il dono) per far entrare in contatto le soggettività: attraverso questo passaggio si poneva la soggettività, cioè i popoli arcaici usavano il dono per porre la soggettività e poi, ad un certo punto, per porre la regalità, la sovranità. Noi oggi abbiamo trasformato questo dono in regalo. C'è un'introduzione al rapporto Censis di quest’anno scritta da De Rita che è su questo molto chiara poichè un sociologo come De Rita afferma che noi viviamo in una società di desideri senza autorità, cioè desideri senza simbolizzazione. Il regalo non è più dono, non è più simbolo: in una società di desideri senza norme e di norme senza desideri, che quindi diventano autoritarie, il regalo non serve più a comunicare ma si deve consumare. E' un'analisi di tipo psicanalitico della società italiana per spiegare il berlusconismo. Su questo su Il Manifesto” c'è stato un dibattito perché De Rita ha contaminato il linguaggio sociologico con quello della psicanalisi, la sua analisi della società italiana è un esempio di contaminazione. Noi vogliamo andare in questa direzione: le pratiche interrogano le teorie perché il rapporto non è più univoco ed unidirezionale ma biunivoco. Cercheremo di mettere in campo una interrogazione categoriale di questi tre lessemi “dono, bene comune, società postmoderna” iniziando, oggi, con un'interrogazione sulle prime due categorie, perché riteniamo che il problema attuale sia quello di vivere in una società di flussi di informazione e non più in una società di oggetti. Noi vogliamo fare una genealogia della società di oggetti, dei rapporti linguistici di potere di una società di oggetti per arrivare a determinare il nostro posto linguistico e di potere dentro una società di flussi di informazioni. La nostra analisi è che se non si governa questo processo conoscitivo siamo tutti fuori da ogni possibilità di intervenire nel reale. Oggi sempre di più si sta restringendo in un modello decisionale piramidale il governo simbolico e non - lo abbiamo sentito dalle parole di padre Alex Zanotelli - dell'informazione, dei beni comuni, ecc. e se non spieghiamo al sapere comune, cioè a noi stessi, il governo delle informazioni come funziona e, quindi se non facciamo una riflessione radicale, concettuale, categoriale su alcuni dei cardini di questo flusso informativo, siamo destinati a fare dei discorsi essenzialmente ed unicamente o ideologici o di retroguardia. Con questo non pensiamo di fare un discorso di avanguardia ma di radicare nel nostro sapere comune un'interrogazione sulle nostre discipline e quindi sulla nostra soggettività. ALBERTO LUCARELLI A me tocca continuare brevemente l'introduzione legata alla natura e all'oggetto di quest'iniziativa e ovviamente lo faccio da un'angolazione che non può che essere del 6 giurista e soprattutto di chi studia il diritto con metodo giuridico positivo, diacronico e sincronico ma soprattutto di chi studia gli istituti classici del diritto pubblico, quelli del principio di uguaglianza, la solidarietà, i beni pubblici, il principio di responsabilità, la partecipazione. E proprio nel percorso di approfondimento di queste categorie classiche del diritto pubblico, chi studia questi istituti non può che sentirsi sempre più limitato nell'estensione, nella qualità e nella quantità del suo pensiero sia teorico che applicativo, come si diceva prima, e quindi progressivamente, io direi necessariamente, attratto da prospettive, metodi, e contenuti che sono apparentemente extravaganti rispetto a un giurista ma che in realtà non lo sono. Quindi ben consapevoli di non voler scivolare tra le languide e lascive braccia della interdisciplinarietà, troppo spesso paravento a confuse, disinvolte e pasticciate tesi, ben consapevoli di voler procedere con metodo giuridico ma con l'apporto da una parte di differenti correnti di pensiero, dall'altra con la manifesta specificità verso le pratiche sociali e la cittadinanza attiva. Dunque, il pensiero e le analisi diventano più complessi per un giurista positivo, si è costretti ad attraversare zone oscure che sembrano non lasciare spazi e luce ma che durante il percorso impongono umiltà, curiosità, voglia e desiderio di mettersi continuamente in discussione. Il tutto ha l'obiettivo di cercare di mettere in asse le pratiche sociali con la riflessione teorica, di sollecitare riflessioni multidisciplinari, di configurare nuove teorie aperte, che partendo dalle categorie classiche sappiano o cerchino di arrivare a traguardi ed obiettivi partecipati, che siano in grado di contribuire progressivamente a quel meccanismo virtuoso che partendo dal binomio informazione e formazione permanente possano dar luogo a consapevoli processi partecipativi forti e, per quanto possibile, di resistere e resistere a fenomeni di cooptazione e di strumentalizzazione. Nel caso specifico, di chi parla, la sfida è particolarmente complessa. Chi studia il diritto positivo studia i valori, studia i principi, studia le regole ma per metodo è costretto - lo dico tra virgolette - a partire dall'analisi di un principio giuridico, di una norma prescrittiva, di una regola, e comunque è costretto, per serietà e rigore, a confrontarsi con la dimensione dell'effettività. Il seminario che oggi mette in relazione il dono con il bene comune ed è bene da subito, dunque, evidenziare che sia la categoria del dono, quale oggetto di politiche pubbliche sociali, nelle quali si incrociano interesse e disinteresse, sia la categoria del bene comune non presentano un autonomo fondamento giuridico ma hanno una innegabile valenza giuridica, hanno una dimensione giuridica, ancorché indiretta, quanto meno sotto il profilo valoriale. Dunque, dono e bene comune sono categorie che al di là del riferimento normativo, al di là del fondamento giuridico, hanno valenze ed implicazioni giuridiche. E queste implicazioni giuridiche devono essere poste in collegamento attraverso una nuova lettura della cittadinanza, attraverso le pratiche sociali dei movimenti, dei comitati, delle associazioni che si configurano in quella che 7 possiamo definire cittadinanza attiva o, per definire meglio, nelle nuove dimensioni della partecipazione o, per andare oltre, io direi che le nuove dimensioni del diritto pubblico - o per fermarci a uno stato precedente - nelle nuove dimensioni del pubblico. Dal punto di vista metagiuridico, non può non rilevarsi che nelle dinamiche sociali il dono quale azione oggetto di politiche pubbliche sociali e non la donazione, tecnicamente intesa, innesca un circuito di scambio, prestazione contro prestazione. Donare significa regalare qualcosa di sé che il donatario sarà obbligato a restituire (teorie delle obbligazioni sia naturali che pecuniarie). Le dinamiche sociali che spingono al dono, in questi termini, poco avrebbero in comune con l'istituto giuridico della donazione: da una parte abbiamo il dono, dall'altra la donazione, perché quest'ultima è un negozio giuridico attraverso il quale una parte (il donante) intenzionalmente arricchisce l'altro (il donatario) disponendo di un proprio diritto o obbligandosi a disporne, senza conseguire un corrispettivo. Il contratto di donazione sorge allo scopo preciso di arricchire un altro soggetto; ne segue che elementi della donazione sono lo spirito di liberalità e l'arricchimento. Mentre la donazione esplica i suoi effetti in ambito di dinamiche di ordine civilistico ed individualistico, il fenomeno metagiuridico del dono va ben oltre tali dinamiche. Esso non resta nell'ambito di una rigorosa applicazione individualistica del diritto romano di natura codicistica, secondo una logica tipicamente proprietaria, ma avrebbe anche implicazioni pubblicistiche e sociali. In sostanza, non soltanto si donerebbe anche per ricevere - fattispecie stravagante rispetto alla donazione - ma si donerebbe soprattutto affinché l'altro doni, innescando meccanismi di selezione ed interessi del controllo sociale. Ci sarebbero in sostanza tre momenti legati al dono, tutti e tre con una potenziale dimensione giuridica: la donazione, non intesa tecnicamente come dicevo prima dal punto di vista giuridico, l'accettazione e la restituzione, ovvero donare, ricevere, ricambiare. E' la configurazione di una società concepita su basi orizzontali dove il principio di uguaglianza sostanziale cede al cospetto del principio di sussidiarietà orizzontale, fondato sulla spontaneità dell'azione del singolo individuo dando luogo a quella che è stata definito l'agire solidale del proprio interesse ma anche solidarietà di gruppo. Le pratiche del dono in quanto espressione delle politiche sociali a rilevanza pubblica sono regolate ed assumono una dimensione pubblicistica, passando da una dimensione individualistica ad quella pubblicistica, e non sono lasciate più al libero arbitrio religioso ed economico ma sono regolate con finalità che rientrano nella determinazione delle politiche pubbliche, attraverso i diritti di prestazione e, in senso più ampio, attraverso lo Stato sociale. Tuttavia il modello verticale fa troppo spesso assumere ad un soggetto pubblico le caratteristiche negative del proprietario, lo Stato proprietario, e laddove diventa escludente tende a trattare il bene di un soggetto 8 proprietario pubblico, bene di sua appartenenza come un dominus assoluto, sottovalutando la funzione e soprattutto il soddisfacimento di diritti fondamentali attraverso il bene stesso: tutta l'attenzione si concentra sul bene, sulla sua dimensione economica, ancorché il dominus sia pubblico, sulla sua capacità di fare profitto e quindi anche sulla possibilità di darlo in concessione ai privati (siamo alle acque minerali e all'abuso del diritto del proprietario pubblico che svende a concessione di quattro soldi al privato l'utilizzo delle stesse). Questo processo genera quello che è stato definito da Pietro Rescigno negli anni '60 l'abuso del diritto, ancorché esercitato da un soggetto pubblico, la dimensione sociale della nostra Costituzione che aveva come ricordava Mario Rusciano - nel rispetto del principio di eguaglianza disciplinato le pratiche del dono, entra in crisi perché entra in crisi quel modello della separazione tra Stato e cittadino che invece era stato garanzia di immunità a forme di contaminazione pubblico-privato. In sostanza, il modello verticale, che avrebbe dovuto democraticamente regolare le pratiche sociali del dono, è troppo distante sia dalla cittadinanza attiva che dalle sue pratiche, sia dalla funzione del bene oggetto del dono, anche e soprattutto se espressione di utilità materiali, cioè il modello pubblicistico verticale entra in crisi. Tale modello non impedisce che le regole giuridiche del dono continuino a muoversi all'interno delle dicotomie classiche (soggetto pubblico-soggetto privato, bene pubblico-bene privato) non percependo le nuove istanze e anzi regredendo a forme di sussidiarietà orizzontale si reagisce all'invadenza del soggetto pubblico, regredendo a forme precedenti, in alcuni casi, anche le teorie illuministiche. Cioè attraverso forme di governance escludenti, corporative, lobbistiche, affaristiche, che tendono artatamente ad anestetizzare le forme naturali del conflitto. La critica a questo modello, ovvero lo Stato sociale, viene risolta con un indebolimento dello spazio pubblico (si pensi alla sussidiarietà orizzontale della nostra Costituzione, o anche al progetto di federalismo fiscale e demaniale che io amo definire federalismo per abbandono - di beni, di servizi pubblici, di diritti...) o attraverso una generale privatizzazione degli spazi pubblici, come servizi, beni o rapporti di lavoro. Il dono riassume quella configurazione antidemocratica ed escludente, violenta, individualistica, tipica dello stato presociale, facendoci piombare in una democrazia postmoderna che fa rivivere la legge del più forte. Ecco dunque la necessità di un ragionamento aperto e partecipato, occorre ragionare su come mettere in collegamento le pratiche del dono con quelle del bene comune, partendo da un dato, ovvero che oltre alle categorie del bene pubblico e del bene privato esiste, per l'appunto, una nuova categoria giuridica che è il bene comune e che la sua governance non può prescindere da pratiche sociali virtuose, fondate su modelli di gestione partecipativa attraverso le quali lo Stato continua a donare diritti di prestazione, diritti sociali, ma dona anche porzioni della sua sovranità su beni di appartenenza collettiva, appunto sui beni comuni, che vogliono sfuggire a quel rapporto dominus-bene, romanistico, civilistico, 9 individualistico, che vogliono sfuggire a quel rapporto di appartenenza escludente del dominus con il bene al regime proprietario proprio perché beni di appartenenza collettiva. In sostanza, la finzione giuridica della sovranità popolare ed in un certo senso anche della rappresentanza popolare che hanno consentito alle istituzione pubbliche, al soggetto pubblico di dominare gli spazi pubblici o gli spazi comuni, anche in termini negativi, ovvero decidendo di volta in volta e con grande discrezionalità di abbandonarli o di farli sfruttare da privati o di consentire ai privati di fare affari sui beni di appartenenza collettiva, cederebbe dinanzi all'incedere della teoria giuridica dei beni comuni; questa cessione si concretizzerebbe in una forma metagiuridica di dono. Dunque, democratizzazione delle pratiche del dono evitando forme regressive o postmoderne (le privatizzazioni sono le versioni postmoderne dei rapporti feudali) e per quanto riguarda i beni comuni, donare porzioni di sovranità e agevolare forme di gestione partecipativa. Tutto ciò impone una riflessione sulla nozione di contre-démocratie, quale risultato di un insieme di pratiche di controllo, di impedimento, di giudizio, attraverso le quali la società civile, la cittadinanza attiva, fa l'esperienza del suo ruolo richiedendo la trasformazione del comune da luogo di non diritto a luogo di diritto: potremmo dire, dal pubblico al comune. Questi io credo che saranno, dal versante giuridico, i temi centrali sui quali puntiamo: sono ancora in forme embrionali ma sono dei punti centrali sui quali vogliamo puntare la nostra attenzione nel ciclo di seminari che ha inizio oggi. Carlo OSSOLA E' stato ripreso un progetto che nacque qui a Napoli alla metà degli anni Ottanta, certamente un po' troppo ambizioso, ma non tutto va perduto di quello che utopicamente si sogna e cioè di far rinascere l'esperienza, almeno dal punto di vista delle istanze soggiacenti, di cui tre non dico protagonisti ma almeno fautori del progetto ora sono qui: Roberto Esposito, Ugo Olivieri ed io. Tra poco ritornerà qui anche il quarto, cioè Francisco Jarauta. Questo progetto è poi proseguito anche con un corso tra fine anni Novanta ed inizio Duemila Figure del dono tra mito e consumo; poi abbiamo continuato con un corso al College de France con un corso che, provocatoriamente, si intitolava - si trova sul sito della mia cattedra - "In pura perdita", cercando di vedere una storia Otto-Novecentesca, in questa radicalità che rinuncia ad ogni forma di scambio perché si pone in pura perdita di sé. Vecchie abitudini nostre di formazione chiedono, prima di passare alla fase propositiva che sia fatta prima un'analisi critica, una sorta di autocritica e critica dei concetti che si mettono in campo, perché altrimenti si rischia immediatamente di mitizzarli o di ideologizzarli e quello che vorrei qui fare rapidamente è una ipotesi critica in ordine 10 al dono - come ha già fatto Roberto con una focalizzazione intorno al termine munus, ripreso nella sua diramazione semantica che è molto importante. Il primo elemento che vorrei mettere in rilievo è che, in realtà come ha detto Roberto Esposito, noi oggi siamo in una società nella quale è bene pensare che il dono non esiste, anche per le ragioni dette prima da Alberto Lucarelli, cioè che se si teorizza il dono, in realtà si retrocede ad una società dalla quale veramente vorremmo non essere condizionati. La ragione per la quale è importante criticare il concetto di dono è che - oltre le cose già dette - esso suppone un passaggio, un andare e venire, una distanza che viene colmata, pur provvisoriamente, un percorso, in sostanza, e suppone, in definitiva, una territorialità. I modi stessi con cui nel libro di Starobinski, Largesse vengono rappresentate le forme storiche di dono mette in rilievo come la maggior parte di esse suppone la territorialità, l'elargire, il buttare il dono, perché è dal carro trionfale che si elargisce (e-largior, elargire: presuppone una territorialità) cosa che oggi mi sembra difficile da predicare. Credo che abbia ragione Zygmunt Bauman quando dice che noi oggi viviamo in una società liquida che, in quanto tale - liquida proprio nel senso che non ci sono argini - togliendo la territorialità ha tolto tutto quello che ha anche il termine giuridico. Se posso avanzare questa ipotesi, direi che la figura del dono classico oggi sparisce per mancanza di pertinenze territoriali. Nel rapporto annuale del Censis di tre anni fa, Giuseppe De Rita è arrivato a dire che in realtà in Italia noi non viviamo neppure in una società liquida, che permette quanto meno il concetto di flusso, ma in una società mucillagine, cioè dove il flusso non c'è perché viviamo in acque stagnanti che quindi creano continuamente mucillagine, spore, alghe, cioè fenomeni degenerativi del flusso, nonché del territorio che non c'è. Due domande io vorrei porre in questa sede, cioè: a) si può riconsolidare una società liquida? Lasciamo perdere per un momento l'idea di società mucillagine, altrimenti dovremmo chiudere qui il seminario, dire che la storia è finita, il Paese è finito, eccetera; b) ammettendo e non concedendo che si possa riconsolidare una società liquida, dove si può porre il principio di una bildung, di una costruzione (che però in tedesco è anche formazione) capace appunto di ricostruire un territorio? E poi, subordinatamente, quali sono le virtù, l'ethos, che suppongano e siano in grado di produrre la costruzione di un edificio? Mi riferisco ad una casa comune, con i presupposti teorici già evocati, cioè alla difficile costruzione del passaggio - che non è senza inquietudine, senza perdite, senza problematicità –dal pubblico al comune. In un momento in cui il pubblico è fortemente attaccato dal privato e dalla teoria delle privatizzazioni, siamo in quella congiuntura nella quale si rischia di perdere il pubblico, senza aver costruito il comune e quindi perdendo da ambedue le parti. Questo è politicamente un problema molto serio, cioè è necessaria la costruzione del bene comune, che ha una gittata temporale lunga, ma con la conoscenza che se perdiamo anche il pubblico rischiamo di perdere l'uno e 11 l'altro. Voglio ancora porre un'altra questione che deriva dal cambiamento anche di titolo che proposi anche io stesso all'Einaudi, che accettò e così pure l'autore, del titolo francese di Starobinski (non per una questione di filologia ma perché il titolo italiano di questo seminario “A piene mani” deriva appunto dal titolo dell'edizione Einaudi di Largesse), la cui traduzione letterale sarebbe stata Largizione o Elargizione ma evidentemente insufficiente rispetto a tutti i casi che contempla il termine così come l'ha usato Starobinski. Proposi quindi questo titolo A piene mani, teoricamente più neutro, anche se suppone una sovrabbondanza da una parte e da un'altra no, per cui è anche pericoloso. Ma mi sembra meno pericoloso che non il termine largio che è particolarmente inficiato da un'osservazione dei Padri della Chiesa, in particolare di Ambrogio, il quale dice in un bellissimo latino che quando tu elargisci al povero non dai del tuo ma restituisci del suo. Dunque, questo termine, fin dalla concezione classica, è un termine estremamente ambiguo e implica quello che è stato a lungo opposto dalle società moderne, soprattutto di stampo protestante, alla compensazione elargitiva delle società fideistiche e cioè che al dono, all'elemosina va sostituita la giustizia. Se uno stato funzionasse nella sua perfetta redistribizione egualitaria non ci sarebbe bisogno di donativi. Ecco che questa critica, che viene già dall'interno della Chiesa cioè che non c'è bisogno di elargizione ma di restituzione, è un elemento assolutamente importante: noi non possiamo parlare di dono se dietro non c'è prima di tutto un problema di giustizia. Diciamo che ipoteticamente nelle grandi teorie comunitaristiche, dai quaccheri ai kibbutz - si ricordi l'origine socialista dei kibbutz - l'idea comunitaria è fortissima: non ci sono povertà o dono ma ci sono lavoro ed eguaglianza: dai quaccheri ai kibbutz è un'utopia che ha attraversato l'Occidente, si può discutere su come sia finita ma è indubbio che dobbiamo tenerla presente problematicamente, per il fatto che nessuna interpretazione ed esecuzione del dono è in grado di sostituire il principio di una giustizia egualitaria. A controprova, si può benissimo vedere che le società ancora oggi basate sul quarto pilastro che è l'elemosina, cioè le società islamiche, sono le più profondamente ingiuste. Basta guardare le società islamiche dove esiste una possibilità di verifica e sono quelle in cui poche famiglie hanno tutto il petrolio, tutta la ricchezza e con gli altri si pratica l'elemosina; le società islamiche o re-islamizzate non sono appunto reislamizzate per ragioni religiose ma per conservare questo privilegio e quindi questo quarto pilastro, che in realtà è un potentissimo fenomeno di conservazione sociale. Tutto questo noi dobbiamo prenderlo globalmente in carico perché non possiamo astrarci, non viviamo in una società solo occidentale: se è una società globale anche questi elementi ne fanno parte. Naturalmente mi sono posto - e lo lascio qui come problema aperto - un dilemma che mi sarebbe caro sviluppare di più, proprio perché per un certo aspetto è già stato lanciato da Roberto. La mia 12 preoccupazione è quella di proporre delle virtù pubbliche nella loro storia e definizione: non è un elenco, perché gli elenchi sono tacitamente conservatori perché si elimina la scelta, quindi la responsabilità, invece c'è una necessità di esercizio di responsabilità. Queste virtù pubbliche che vorrei qui proporre sono tali perché presuppongono questo fondamento che dicevo prima di bildung, questa territorialità, in quanto sono esse stesse tetragone, cioè fatte di quattro begli angoli pilastri di fondamento. Sono tetragone perché sono così definite nel primo libro del De Officiis di Cicerone: De quattuor virtutibus unde omnia vitae communis officia manant, prudentia, iustitia, fortitudine et temperantia. Cicerone riprende un termine della Politica di Aristotele, III libro, e dice, in sostanza, che nel capitolo parlerà delle quattro virtù dalle quali promanano tutti gli officia, cioè tutti i reciproci obblighi della vita comune (si badi, non dice della vita pubblica); esse sono le quattro virtù cardinali, come noi le chiamiamo oggi, cioè sono quei cardini attorno a cui ruotano le porte dell'aprire e del chiudere, e sono cardini, vorrei dire in termini shakespeariani, quando l'autore dice nell'Amleto che il mondo è fuori dai cardini, ricorda la linea aristotelico-ciceroniana dell'agire del mondo che è andato fuori dai cardini politici (fortezza, giustizia, temperanza e prudenza). Queste sono virtù classiche che il Cristianesimo ha assolutamente integrato, con una rilettura di Ambrogio e di Agostino di queste virtù, vengono persino ridotte quelle aristoteliche a queste quattro: è un momento drammatico, secondo me, della storia del Cristianesimo perché facendo così esso salva l'eredità greco-latina ma, a mio modo di vedere chissà cosa ne direbbe Alex Zanotelli, condanna definitivamente l'eredità evangelica. Non dimentichiamo che l'unica volta in cui Maria parla nell'Evangelo è un discorso di violenza paradossale in cui si dice: "L'anima mia magnifica il Signore ed il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore [...] perché ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi". Quando leggete questo testo, all'interno di una tradizione ebraica - perché la vita pubblica del Cristo deve ancora avvenire - è un rovesciamento definitivo, una ri-voluzione, un re-volvere, che crea un altro spazio. Già i Sinottici sono più prudenti perché le Beatitudini pronunciate dal Cristo sono una risposta alla Madre, una risposta alla tradizione ebraica nella quale parla la Vergine, ed esso non è più un avvenimento ma una promessa. "Beati voi che ora avete fame perché sarete saziati; guai a voi che ora siete sazi perché avrete fame". Già nella storia delle comunità che hanno scritto questi Vangeli, c'è la perplessità per la Vergine che sta dentro tutta una tradizione profetica e dice che è accaduto mentre per le comunità che scrivono gli Evangeli è una promessa. Insomma, dopo 150 anni non era ancora accaduto e quindi gli Evangeli sono già dentro questa materia storica di un Magnificat che non si è magnificato, per cui nasce già dalle comunità degli Evangeli un tempo storico che, nel succedersi dei secoli, porta poi all'operazione agostiniana-ambrosiana che è un'operazione drammatica, secondo 13 me. E' il consolidare questa eredità greco-latina a scapito di una ipotesi vetero e neotestamentaria con cui alle quattro virtù cardinali si aggiungono le tre teologali fede, speranza e carità. Noi siamo oggi nella situazione paradossale di aver buttato via sia il Magnificat e le virtù teologali sia il dibattito sulle radici cristiane d'Europa è stato di una povertà sconcertante proprio per ignoranza, perché non si è neanche tenuto conto che tutto stava già scritto, anche nei Testi canonici, nella cultura d'Occidente, che il Cristianesimo si è affermato rinunciando alla parte più consistente e profetica della propria origine e che si è affermato facendo proprio in toto il sistema aristotelico delle quattro virtù cardinali. Andiamo ad analizzarle come ipotesi politica. E' indubbio che, quando si guardano come ipotesi politica, sono virtù che più che dello scatto in avanti sono della resistenza nei tempi gravi: temperanza, giustizia, fortezza... Giungendo ad un punto di sutura tra l'uomo classico medievale e l'uomo moderno, quando voi vedete l'affresco del Buon Governo a Palazzo pubblico a Siena, grande progetto dell'Italia comunale, gli effetti del buon governo vengono testimoniati dalla rappresentazione allegorica delle quattro virtù cardinali a cui è aggiunta, come garanzia e come frutto che sono state ben esercitate, la pace. Qui ritorna il discorso di Zanotelli, una parte dell'umanità si afferma sull'altra, precisamente perché il suo obiettivo globale, ultimo non è la pace ma il dominio, quindi per esercitarlo si ha bisogno, appunto, di strumenti di dominio; mentre gli affreschi del buon governo sono dichiaratamente impostati: le quattro virtù e al centro, sopra il trono delle libertà comunali, la pace. Passiamo dal tempo medievale-moderno al tempo moderno-contemporaneo e giungiamo ad una testimonianza letteraria molto importante di Italo Calvino ne "La giornata di uno scrutatore" (1963) il protagonista Amerigo che è dentro il Cottolengo, luogo di marginalità e di esclusione, arriva a queste conclusioni: "La vanità del tutto e l'importanza di ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile. Bastava che Amerigo continuasse a farne il giro e sarebbe incappato cento volte nelle stesse domande e risposte. "Chi agisce bene nella storia - provò a concludere - è nel giusto". E aggiunse in fretta. "Certo, essere nel giusto è troppo poco". Ecco, qui noi abbiamo la proposizione fondamentale con cui si può criticare oggi il concetto delle quattro virtù. La cultura della destra non ha mai avuto una teoria pubblica ricca. Quando si è affermata la teoria dei soggetti della quale noi oggi siamo a vario modo vittime? Con le Estati di Nicolini, con la politica dei soggetti di Occhetto, la Sinistra si è fatta interprete di categorie che non le erano proprie e le ha regalate ai migliori interpreti; non è un prodotto quello che viviamo che, nelle matrici culturali, venga da Destra ma è un regalo assurdo fatto da una classe politica imbelle che ha sostituito alla politica che sembrava negativa - e in effetti il termine non era scelto troppo bene, dell'austerità prodotta da Berlinguer sei o sette anni prima - con una politica dei 14 soggetti che ha avuto gli esiti che abbiamo visto. Quindi io credo che proprio per rispondere alla domanda di Calvino, se stare nel giusto sia sufficiente o meno, occorra necessariamente sostituire una politica dei soggetti con una teoria dei fini. Faccio un esempio molto semplice: se dico - visto che padre Zanotelli l'ha citata - la povertà è ingiusta, in una teoria dei soggetti, nella quale stiamo vivendo, ci si adopera a definire una ragionevole soglia della povertà perché essa può contemperare un po' di povertà e un po' di marginalità, distribuendola dietro varie categorie sociali; mentre invece la teoria dei fini ci dovrebbe spingere a trovare le modalità per una ridistribuzione delle risorse tale da eliminare l'aporia di partenza e cioè la povertà. Già oggi sembrano democratici ed ultra, socialdemocratici e portatori di welfare, quelli che vogliono definire la soglia della povertà ma è un'aberrazione perché restiamo sempre dentro la politica dei soggetti mentre, se prendiamo sul serio la teoria dei fini, l'idea di soglia di povertà è semplicemente aberrante perché la povertà non può entrare in una simile teoria. Ma se prendiamo invece una politica dei soggetti non dico che ci sta benissimo dentro ma ci può stare. Chiudo con una ipotesi di lavoro. Credo che tre cose siano assolutamente necessarie: 1) C'è bisogno di un bene comune ma, dato che la conquista sarà lunga, bisogna stare attenti nel passaggio dal pubblico al comune a non perdere quel poco di pubblico che c'è ancora. 2) Non sappiamo quanto durerà la lunga notte che dobbiamo attraversare, ne discutevo ieri con Gustavo Zagrebelsky. Ecco perché ho proposto il canone classico delle virtù cardine di Aristotele e del De officiis. L'impressione di Zagrebelsky e anche la mia è che la notte durerà a lungo: non basterà aver cambiato governo e ceto dirigente perché basta guardarsi un po' intorno nelle nostre università: chi forma una classe dirigente degna di questo nome? Con quali criteri avviene la selezione di questa classe dirigente? Il rischio è che i complessi sociali nei quali si forma, per così dire, l'avvenire della società, sono talmente compromessi che c'è anche da domandarsi se quella che noi prendiamo come l'aberrazione di un sistema che dovrebbe ritornare alla propria normalità non sia invece l'espressione di un cambiamento già avvenuto a cui hanno contribuito molte generazioni di mancata dignità civile di questo Paese. Quindi, se vale la teoria che vale una notte per disfare e poi ci vogliono trent'anni per ricostruire, le notti in cui si è prodotta questa formazione di società sono state tali che l'attraversamento potrebbe essere di ottanta, novanta anni, cioè di tre, quattro generazioni. Allora se la notte è lunga è assolutamente necessario avere virtù di attraversamento, perciò arriviamo anche al terzo punto cioè che la sostituzione della teoria dei fini alla politica dei soggetti non può prescindere da un bagaglio minimo di trekking notturno: noi dobbiamo attrezzarci anche per una lunga notte. Qual è il 15 vettovagliamento morale minimo se la notte è lunga? Il sistema che è stato più lungamente collaudato è quello che va da Aristotele a Cicerone a Sant'Agostino alla teoria del buon governo, con i correttivi engelsiani e calviniani cioè se basti essere nel giusto. 3) Se le prossime generazioni riusciranno a tenere, ecco che bisogna fin da ora uscire da una politica dei soggetti, che è molto debole e poi già espropriata, e ritornare ad una teoria dei fini che invece è in grado di fornire strumenti di lavoro più adeguati. 16