la parola della domenica Anno liturgico A omelia di don Angelo

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la parola della domenica
Anno liturgico A
omelia di don Angelo nella Domenica delle Palme
secondo il rito romano
17 aprile 2011
Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Mt 26, 14-27. 66
L’evangelista Matteo ci ha raccontato -e il suo messaggio diventava sempre più incalzantela Passione e la Morte del Signore.
Nel racconto di Matteo, che abbiamo ascoltato con emozione, alcune cose ci colpivano.
Ci colpiva quel suo raccontare la Morte di Gesù in un clima da “ultima cosa del mondo”, in
un linguaggio apocalittico, da fine del mondo, con sette verbi:
“ecco il velo del tempio si squarciò -dicela terra si scosse
le rocce si spezzarono
i sepolcri si aprirono
molti corpi risuscitarono
uscendo dai sepolcri entrarono in città
e apparvero a molti”.
Come se Matteo ci dicesse che l’ora della storia -l’ora grande della storia- è questa e non
vale rincorrere chissà quali altre apocalissi, chissà quali altre parole, chissà quali altre
sapienze, chissà quali altre potenze, l’ora è questa, la rivelazione è questa, la sapienza è
questa, la potenza è questa.
Finiva un mondo e ne nasce un altro.
Per questo vengono ricordate le donne, perché non si sono fermate prima, prima dell’ultima
parola, quella del Calvario: è scritto che esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per
servirlo e osservavano da lontano (qewrevw): il verbo non dice un guardare curioso e
superficiale, ma un guardare con profondità, con attenzione, contemplare.
Ognuno di noi -oggi, domani, sempre- faccia suo questo verbo: non importa se magari siamo
lontani, purché contempliamo in silenzio, come le donne.
Sotto la Croce, quando tutto tace, rimangono le donne e rimane la confessione del
centurione romano e di quelli della sua scorta.
Anche questo è sconcertante.
È come se Matteo, annotandolo, volesse commentare le parole che aveva scritto in
precedenza: “il velo del tempio si squarciò in mezzo dall’alto al basso”. Per Matteo il velo del
tempio -quello che si squarciò- è quello che divideva l’atrio dei pagani dal santuario vero e
proprio. L’accesso è libero, si può andare alla presenza di Dio. “Questo è veramente il Figlio
di Dio” ha detto il centurione; può accedere alla presenza di Dio anche il pagano: non c’è più
il velo.
E la distanza, la distanza delle donne, la distanza del pagano, la distanza diventa il luogo
privilegiato da cui guardare e capire, confessare il Crocifisso.
Ci sono le donne, quelle che non avevano parlato, avevano seguito e servito: seguire e
servire, i verbi dei veri discepoli.
E c’è il centurione, quello che non si era accodato a tutti gli altri nell’idea che se c’è un Dio è
un Dio che salva se stesso, quello che era rimasto affascinato da un Dio che non salva se
stesso, ma perde la vita. La Croce per lui portava un’altra scritta, un evangelo, una notizia
buona, quella che Paolo nella lettera agli Efesini e ai Galati (Ef. 5,2 e Gal. 2,20) annoterà
con commozione, la parola che anche noi oggi, guardando, baciando e contemplando il
Crocifisso, ripeteremo: “Ha amato me e ha dato se stesso per me”.
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