Titolo: “Logica dell`indagine scientifico-sociale”

LOGICA DELL’INDAGINE SCIENTIFICO-SOCIALE
Capitolo primo
“ IL PROBLEMA DELL’OGGETTIVITA’ SOCIOLOGICA”
( L’idea dell’oggettività della conoscenza )
Oggettività: l’essere tangibile, la qualità di ciò che si può constatare
Valori: qualità morali che una persona possiede.
L’idea che la conoscenza debba essere oggettiva (valida) affonda le sue radici agli inizi del pensiero
filosofico occidentale, in modo particolare quando si afferma la Gnoseologia, cioè quella scienza
che studia i limiti e le condizioni della conoscenza, intesa come rapporto tra soggetto conoscente e
oggetto di studio.
Questa idea si rafforza maggiormente con l’Epistemologia, che studia criticamente la conoscenza
scientifica, attraverso l’analisi delle metodologie, stabilendone i criteri di validità.
Secondo gli epistemologi il concetto di “oggettività” presuppone una dualità di termini (soggetto e
oggetto) nel processo conoscitivo, ciascuno dei quali si colloca su un versante definito.
Ma l’idea stessa di conoscenza sembra attribuire un ruolo predominante a uno dei due termini in
questione: da qui la priorità del soggetto o dell’oggetto.
Il problema, però, non è tanto attribuire la priorità all’uno o all’altro termine, ma stabilire un
rapporto fra di essi, in modo da superare la dualità; inoltre chiunque faccia ricerca sa che l’impresa
scientifica si muove fra la “costruzione del dato” e “l’attribuzione di senso a relazioni fra dati
costruiti” e non fra oggetti e dati non costruiti.
Quindi dal punto di vista della logica dell’indagine scientifica, quello dell’oggettività è un falso
problema. Tutta la storia della scienza moderna (e anche quella delle scienze sociali) è tuttavia
condizionata dal problema dell’oggettività, in particolare si è data una certa enfasi al concetto di
“causa”, ritenuto necessario per la conoscenza scientifica, quasi come se rappresentasse una via di
accesso privilegiata per la stessa conoscenza.
Venuta meno la pretesa della Chiesa di definire i confini al di là dei quali non poteva spingersi il
metodo sperimentale, con i “Principia” di Newton si ebbe una svolta decisiva, ovvero tutte le
discipline potevano accostarsi al metodo scientifico.
Infatti le categorie di “causa” ed “effetto”, quelle di “falsificazione” e “verificazione” crearono
quella logica della scienza che durò per decenni e che si rafforzò col positivismo, estendendosi
anche alla sfera sociale e psichica.
Naturalmente non è mancata una risposta anti-positivista, che alle leggi ha contrapposto la
specificità degli eventi, alla procedure della sperimentazione e del controllo empirico ha
contrapposto la procedura delle “esperienze vissute”.
Uno degli studiosi anti-positivisti fu Wilhelm Dilthey, esponente di spicco dello storicismo tedesco.
Egli era interessato ai modi in cui si perveniva alla conoscenza storica, ritenendo che la storia fosse
la regina di tutte le scienze dello spirito.
Nell’affrontare la questione della conoscenza storica, si è imbattuto nella filosofia della storia che in
Inghilterra (con Spencer) e in Francia (con Comte) aveva preso il nome di “Sociologia”.
Ma c’è da dire che Dilthey, Windelband e Rickert (storici anch’essi) rivendicavano l’autonomia
dell’indagine storiografica, più che l’autonomia della sociologia.
Dilthey criticò soprattutto la “Legge dei tre stadi” enunciata da Comte, in quanto presentava
l’evoluzione umana attraverso una fugace occhiata sulla storia dell’uomoe Dilthey è arrivato alla
conclusione che i metodi della sociologia fossero sbagliati, in particolar modo quelli proposti da
Comte: l’individuazione di un principio o di una formula, che spiegasse i meccanismi che
governano la statica e la dinamica delle società umane, in ogni tempo e in ogni luogo.
In opposizione a questa impostazione metodologica, Dilthey propone la distinzione tra le scienze
dello spirito e le scienze della natura, e quindi una distinzione di oggetto e metodo tra le une e le
altre. Infatti le scienze dello spirito si distinguono dalle scienze della natura perché queste ultime
hanno come oggetto di studio i “fatti” che si presentano alla coscienza dall’esterno, mentre nelle
prime i “fatti” si presentano dall’interno.
Da ciò ne deriva che nelle scienze naturali, la connessione della natura è data attraverso un
collegamento di ipotesi; mentre nelle scienze dello spirito la connessione della vita psichica
rappresenta l’elemento primo: cioè noi spieghiamo la natura perché intendiamo la vita psichica.
La diversità degli oggetti di studio e il loro rapporto con il soggetto che fa la ricerca condizione,
secondo Dilthey, la struttura metodologica delle scienze dello spirito e quella delle scienze naturali.
Infatti il fatto che l’oggetto di studio delle scienze dello spirito sia interno all’uomo fornisce una via
di accesso privilegiata alla conoscenza storico-sociale, che è l’Erlebnis, cioè l’esperienza vissuta,
per mezzo della quale è possibile il Verstehen, cioè la “comprensione” dell’evento indagato.
Il Verstehen si contrappone allo strumento metodologico delle scienze naturali, cioè al nesso
causale, che permette una classificazione provvisoria dei fenomeni naturali.
Quindi per Dilthey l’errore della sociologia di Comte e di Spencer è quello di aver trasferito nelle
scienze dello spirito gli strumenti metodologici delle scienze naturali, in particolar modo il nesso
causale.
Egli, però, non nega in modo assoluto l’applicabilità del nesso causale alle scienze sociali, ma esso
deve essere applicato solo se è utile allo studio dell’uomo nei suoi rapporti sociali e soprattutto deve
essere affiancato dall’esperienza vissuta, perché solo essa permette la comprensione degli eventi
sociali, che sono prima di tutto eventi storici.
Ad ogni modo, le diverse vie di accesso alla conoscenza devono mirare all’oggettività della stessa,
al fine di risolvere i dualismi.
Dilthey indica poi una serie di scienze dello spirito, a cui attribuisce una funzione ausiliaria rispetto
alla storiografia; tra queste vi è la psicologia, la cui conoscenza della psiche della psiche deve
fungere da supporto per la conoscenza storica.
Ma si tratta di una psicologia in senso lato perché il suo compito è quello di informare lo storico
delle uniformità, rilevabili nel comportamento degli individui in società diverse.
Ad ogni modo, quale che siano le vie di accesso alla conoscenza, il fine è l’oggettività.
( Le scienze della “cultura” e la comprensione )
Il neo-kantiano Windelband (anch’esso antipositivista e storico) cerca di ridimensionare il muro
anti-positivistico eretto da Dilthey, infatti ritiene che le scienze dello spirito, che lui chiama
“scienze della cultura”, hanno dei caratteri peculiari che le distinguono dalle scienze della natura,
in primo luogo il metodo individualizzante; mentre in queste ultime prevale il metodo
generalizzante.
Egli nota che lo stesso fenomeno può essere studiato sia in una prospettiva nomotetica (che
permette di cogliere la similarità rispetto ad altri fenomeni), sia in una prospettiva idiografica (che
permette di sottolineare l’irripetibilità e l’individualità del fenomeno.
Dilthey riconosceva questo duplice metodo solo alla storiografia, invece Windelband lo estende a
tutte le scienze della cultura e anche a quelle naturali (ritiene infatti che un fenomeno biologico
possa essere studiato mediante le due prospettive).
Ad esempio, ciò avviene di fatto nello studio degli organismi viventi, compiuto dalla biologia che in
quanto descrittiva finalizza l’indagine in senso nomotetico, mentre in quanto studio dell’evoluzione
della vita organica sulla Terra, procede idiograficamente.
Però il presupposto dualistico rimane nei suoi scritti, in cui si può leggere che “la legge e l’evento
rimangono l’uno accanto all’altro come incommensurabili grandezze della nostra rappresentazione
del mondo”.
In ultima analisi, la generalizzazione naturalistica finisce col contrapporsi all’irrepetibilità
dell’evento storico-sociale, prodotto e vissuto da uomini e quindi soggetto a indagine storica
individualizzante. Egli da un lato ripropone il dualismo kantiano fra soggetto e oggetto, tra
fenomeno e noumeno, e dall’altro lato mantiene l’idea che l’indagine storica sia essenzialmente
idiografica.
Circa il concetto di “causa” (a cui attribuisce lo statuto di categoria ), ritiene che tale concetto
determini una sequenza di eventi.
Ad esempio: la prima guerra mondiale ha come causa determinante l’attentato di Sarajevo, ma
sarebbe improduttivo per la ricerca se lo studioso si fermasse all’attentato e non utilizzasse lo stesso
per evidenziare le forme di nazionalismo che stavano nascendo in Europa, oppure i sottostanti
interessi politici ed economici.
In altre parole, ci sono evidenti uniformità nel comportamento di un paese che sceglie la guerra e si
tratta di uniformità tendenziali e non di leggi universali, che tuttavia possono far comprendere
nell’immediato perché l’Austria-Ungheria impose un ultimatum alla Serbia, piuttosto che chiedere
accettabili compensazioni.
Insomma, la spiegazione storica sottindente generalizzazioni del tipo: “In presenza di un forte
sistema di alleanze, una grande potenza tende a reagire con energia e immediatezza ad ogni
provocazione; mentre una potenza regionale tenderà di resistere all’ultimatum se saprà di godere
dell’appoggio dell’opinione pubblica e della simpatia di altre potenze.
Metodo generalizzante  prospettiva nomotetica
Metodo individualizzante  prospettiva analitica o idiografica
Metodo generalizzante: in presenza di alcune condizioni specifiche, un evento si verifica e si ripete.
Esso viene applicato alle scienze della natura.
Rickert, esponente dello storicismo tedesco, ha a che fare con la sociologia empirica di Tonnies,
Simmel e Max Scheler e ciò gli consente di guardare al di là del problema posto da Dilthey e di
attenuare il giudizio critico nei confronti della sociologia.
Infatti le riconosce una piena legittimità sulla base dei riferimento ai “valori”.
Egli parte dall’assunto che conoscere significa “esprimere un giudizio di valore”, ma questo non
implica un punto di vista soggettivo, infatti Rickert si riferisce ad una valutazione (intesa in senso
etico), che approva o disapprova in base ad essenze eterne e assolute: i Valori con la V maiuscola.
Questo conferisce al giudizio di valore un carattere di necessità, distinguendo il lavoro dello storico
e del sociologo da quello del fisico e del biologo.
I primi, infatti, considerano solo quegli eventi che si rivelano connessi al mondo dei valori;
connessione che è assente per quanto riguarda il campo di indagine delle scienze della natura.
In particolare, quando i gli storici e i sociologi esprimono giudizi di valore sull’evento, oggetto di
studio, devono ricostruire e descrivere oggettivamente tali giudizi perché essi possono avere la
funzione di Valori.
Anche la comprensione di un fenomeno non comporta un giudizio morale sugli eventi e sugli stessi
giudizi di valore, che si pongono come oggetto di indagine.
( Dicotomie nel dibattito sul metodo )
Le principali dicotomie con cui oggi diversi sociologi hanno a che fare sono: valori contro fatti,
comprensione contro spiegazione, individualità e irrazionalità del comportamento contro regolarità
e uniformità dello stesso, interiorità contro esteriorità.
Queste sono le principali dicotomie che si rintracciano nei precursori di Max Weber ( Dilthey,
Rickert e Windelband) e che oggi troviamo nelle riflessioni di alcuni sociologi italiani (come
Ferrarotti, Ardirò, Crespi e altri) e stranieri (come Habermas, Schwuartz e altri).
A dire il vero, esse, qualche volta, appaiono metodologicamente irrilevanti.
Ad esempio, assumere che la comprensione degli eventi sociali sia una via di accesso alla
conoscenza, contrapposta al ragionamento logico che fa leva sul concetto di causa, è indimostrabile.
Da un lato infatti si comprende una buona spiegazione, dall’altro una buona spiegazione si può
avere rifacendosi a regolarità empiriche e/o a teorie.
Ad esempio, la categoria di causa può essere e può non essere utilizzata nelle teorie a cui si fa
ricorso.
Quanto alla dicotomia intenzionalità / regolarità, è difficilmente comprensibile cosa mai possa
esserle di ostacolo alla rilevazione che la maggioranza di singoli individui reagisca tendenzialmente
in modo omogeneo a certi stimoli.
È il caso di quei soggetti esposti ad una pressione di gruppo che induce a certi modelli di consumo o
ad un determinato tipo di abbigliamento.
In questo caso non si è in presenza di comportamenti individuali che seguono certi stimoli, ma in
presenza di “tendenze prevalenti”, cioè di una intenzionalità diffusa in presenza di determinate
condizioni”.
E questo è esattamente quello a cui le scienze sociali sono interessate.
La dicotomia interiorità / esteriorità: se si assume che lo Spirito non vada contaminato con logiche e
procedure che si sono sviluppate per dare un senso agli eventi naturali (leggi, causalità, analisi
empirica, misurazioni), l’unica conseguenza logica di questo assunto filosofico-metafisico è che
della natura si può fare scienza, mentre ciò che ha a che fare con l’uomo è conoscibile solo per vie
diverse (intuizioni, erlebnis, etc.).
Questo porta gli storicismi a pensare che la storia, essendo la regina delle scienze dello spirito, è
arte piuttosto che scienza e nella stessa misura lo sarebbero anche la sociologia, la psicologia e
l’economia.
( La cosiddetta “oggettività” della scienza )
Nel linguaggio di diversi studiosi positivisti e neo-positivisti il concetto di “oggettività” ha assunto
il significato di verità e validità della conoscenza.
Per i positivisti quindi l’oggettività della conoscenza implica l’adeguamento del concetto al dato
empirico.
I neo-positivisti invece non parlano più di concetti ma di termini, e l’adeguamento non è più del
concetto al dato ma dei sistemi linguistici a sistemi di oggetti.
Gli epistemologi empirici parlano dell’oggettività come di una verità che è celata nell’oggetto e
nelle sue strutture, sta quindi allo studioso descrivere l’oggetto in tutte le sue componenti strutturali,
perché solo così sarà possibile raggiungere la verità.
L’oggetto quindi avrebbe delle proprietà intrinseche che toccherebbe allo scienziato scoprire.
Oggi, però, sia i fisici che i sociologi non parlano di verità o di oggettività in senso classico ma
preferiscono parlare di “approssimazioni successive all’oggettività”.
Ciò dipende dal fatto che sono entrambi consapevoli che ogni fenomeno non ha senso se non viene
inquadrato in uno schema teorico, quindi si sforzano di raffigurare teoricamente le strutture
dell’oggetto, servendosi di alcune costruzioni concettuali, il più possibili simili alle strutture
dell’oggetto.
C’è, tuttavia, chi sostiene che tra le strutture dell’oggetto e le costruzioni concettuali vi sia un
divario enorme, ma il problema di fondo è il rapporto tra la realtà oggettiva e le costruzioni
concettuali che intendono rappresentarla.
Ad esempio: l’epistemologo McEwen ritiene che tra la realtà oggettiva e le costruzioni soggettive di
una data disciplina non vi sia una corrispondenza diretta e immediata, perché qualsiasi conoscenza
si ha degli oggetti reali, si tratta sempre di una conoscenza rappresentativa, dal momento che il dato
(mediante il quale l’oggetto è conosciuto) non è identico all’oggetto conosciuto.
Secondo Talcott Parsons, l’applicabilità di una teoria alla realtà empirica implica che quest’ultima
sia un ordine di fatto, e tale ordine deve essere congruente all’ordine della logica umana.
In questo modo l’oggettività della conoscenza sociologica è garantita in linea di principio.
McEwen critica l’impostazione parsoniana perché a suo dire l’ordine della realtà sociale non è
raffigurabile ma solo rappresentabile in termini di sistema teorico.
McEwen si rifà a Einstein e Infeld, i quali affermano che i concetti fisici sono “libere creazioni
dell’intelletto umano e non vengono determinate esclusivamente dal mondo esterno”.
Essi aggiungono che gli studiosi, ne l capire il mondo esterno, somigliano a quell’individuo che
cerca di capire il meccanismo di un orologio chiuso: egli vede il quadrante, le sfere in moto, sente il
ticchettio ma non ha modo di aprire la cassa.
Quindi se sarà ingegnoso, attraverso gli elementi a disposizione, potrà farsi un’idea del meccanismo
dell’orologio, ma non avrà mai la certezza che la sua spiegazione sia la sola in grado di spiegare
l’effettivo funzionamento.
Tutto ciò riflette la logica dell’indagine scientifica, in cui la teoria dà senso ai dati osservati e
descritti, ma questo ha poco a che fare con la verità oggettiva.
Ad esempio Gorge Lundberg rinuncia al concetto di verità scientifica e considera la realtà come
“una x che favorisce le risposte dello studioso e la cui natura emerge dalle risposte stesse”.
Invece l’epistemologo Gerard Radnitzky (in un recentissimo saggio) afferma che senza i concetti di
verità e di realismo teorico ( una delle funzioni di una teoria è quella di rappresentare certi aspetti
della realtà empirica, nella maniera più esatta possibile), non ha significato l’idea di controllo
empirico. Infatti ritiene che ogni teoria vada controllata rigorosamente attraverso operazioni
complesse, passaggi logici e relazioni fra gli elementi; ma questo è ben diverso dal ritenere che la
teoria abbia a che fare con la realtà.
Filosoficamente la questione della verità rinvia alla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno,
ma stando a quello che dice Wittgenstein, del noumeno non si dovrebbe dire nulla, perché di ciò che
non si può parlare si deve tacere..
Dal punto di vista metodologico, Dewey ritiene che il problema della verità nasce quando si
presume che i concetti debbano necessariamente descrivere la materia esistenziale.
Egli continua facendo riferimento ad una citazione di PlancK, il quale afferma che la definizione
fisica della temperatura non scaturisce dalle sensazioni che provoca ( sensazione di calore), ma
viene misurata in base ad una scala teorica di temperatura. Analogamente i concetti scientifici non
devono essere interpretati in base alla funzione che hanno nell’indagine.
Quindi, secondo Dewey, il problema non ha bisogno di essere risolto perché non si pone.
( L’oggettività come esigenza di controllo )
Secondo Dewey il problema non è chiedersi se sia vero o falso il modello che descrive una data
realtà sociale, ma rimanda all’utlizzo dei concetti elaborati per spiegare situazioni sociali che
emergono come area problematica.
Ad esempio: il comportamento anomalo di un gruppo sociale in particolari condizioni, rappresenta
una situazione problematica e diventa problema scientifico nel momento in cui vengono considerate
nuove connessioni fra le variabili, non previste dalla teoria.
Analizzato in questo modo, comincerà ad avere un senso, cioè quel qualcosa che non torna
diventerà un dato significativo che determinerà il problema.
Tutto ciò però non basta a soddisfare i requisiti di controllo.
Le teorie infatti devono essere connesse a regolarità empiriche, a procedure ripetibili che
consentano di pervenire a risultati analoghi.
Infatti tra un sistema teorico e un sistema metafisico la differenza fondamentale è data dalla
controllabilità pubblica del primo, attraverso procedure accettate.
Per Karl Popper, invece, l’oggettività va riferita al metodo, mentre per Thomas Khun la garanzia
dell’oggettività risiede nel consenso della comunità scientifica, costituita da competenti che
condividono quell’insieme di leggi, teorie, regole e procedure, che formano un paradigma.
Per Giddens, la razionalità scientifica è “auto-giustificantesi”, infatti afferma che non c’è nessun
altro modo per giustificare la razionalità scientifica se non partendo da premesse e valori,
presupposti dalla scienza stessa e sui quali essa si è fondata nella sua evoluzione storica.
Premesse e valori che rimandano alla pubblicità, ripetibilità e controllabilità di ogni proposizione,
indagine, esperimento ed enunciazione di legge. Tutto ciò sposta il problema dal versante
epistemologico a quello della logica dell’indagine scientifica e non lo semplifica, ma anzi esalta la
sua complessità con riguardo alle scienze sociali, in cui la controllabilità è difficile per via della
scarsa sistematizzazione e per l’imprecisione del linguaggio, che rende i concetti-termini
difficilmente traducibili in indicatori empirici univoci (un solo termine o un solo linguaggio).
A questi problemi però non è possibile dare risposte concrete senza fuoriuscire dalla logica
dell’indagine scientifica stessa.
Capitolo secondo
“ IL METODO SOCIOLOGICO E IL POSITIVISMO “
( La sociologia come scienza e il suo metodo)
La sociologia come disciplina scientifica autonoma nasce nell’ambito del positivismo con Emile
Durkheim, il quale cerca di coniugare teoria sociale e indagine empirica.
Questo sforzo è rintracciabile ne “Il suicidio” e non nella sua opera canonica “Le regole del metodo
sociologico”.
Per comprendere pienamente il pensiero del primo Durkheim è necessario tenere presente che i suoi
bersagli polemici non sono solo lo psicologismo di Gabriel Tarde e la sociologia delle “idee e non
di cose” (così Durkheim la definisce), elaborata da Comte.
Alla base del suo pensiero c’è la volontà di superare la concezione contrattualistica e biologistica
della società (che inizia con Hobbes e si protrae fino ai primi del ‘900) secondo cui la società viene
vista come un contratto sociale, stipulato fra gli individui per soddisfare i bisogni biologici.
Per Durkheim il “prius”(una cosa che viene prima di tutto) dell’istituzione sociale non è nel
contratto stipulato fra individui in funzione dei loro bisogni, ma in una struttura più complessa di
moventi (motivo che induce il soggetto a compiere l’azione), i quali invertono il rapporto causale
introdotto dall’utilitarismo fra individuo e società.
Sarebbe però troppo semplicistico dire che Durkheim si sia limitato ad invertire il rapporto
utilitaristico, lasciando immutati i due termini che lo caratterizzano: la società e l’individuo.
Infatti il suo merito sta nell’aver risolto l’opposizione tra i suddetti termini, attraverso le analisi
svolte sui concetti di sacro e rituale.
Ed è attraverso questo superamento che si giungerà al modello teorico generale della sociologia
contemporanea, incentrato sulla triade: società, cultura, personalità.
Parsone però individua i limiti del pensiero durkeimiano, in cui individua il punto di partenza (cioè
una forma positivista) ed il punto di arrivo (cioè un esplicito idealismo dualistico, che si manifesta
nella sua epistemologia).
Ma è per una esigenza teorica sociologica che Durkheim cambia lentamente la sua epistemologia da
positivista a idealista, ed è la stessa esigenza a farlo allontanare dalla metodologia “cosalistica”,
propugnata ne “Le regole”.
Sempre in quest’opera, egli parla dei 3 livelli di analisi, che sono:
Epistemologico: per ogni sensazione, se la sensazione è di oggetti stabili e se il soggetto è passivo,
ne risulta una conoscenza oggettiva.
Metodologico: per ogni analisi di fatti sociali, se il fatto sociale è cristallizzato e se il sociologo
scarta le pre-nozioni, ne risulterà una conoscenza oggettiva.
Sociologico teorico: se il fatto sociale è normale e se la società è integrata, ne risulterà che il fatto
sociale è cristallizzato nella società.
Questi 3 universi, secondo Durkheim, interagiscono tra loro, così come si evince dagli scritti dello
stesso. Infatti egli afferma che la condizione di ogni oggettività è l’esistenza di un punto di
riferimento costante e identico, che permette di eliminare tutto ciò che è soggettivo.
Infatti se i punti di riferimento dati variano, non abbiamo più un mezzo per distinguere nelle nostre
impressioni: ciò che proviene da fuori e ciò che proviene da noi.
La vita sociale ha appunto questa proprietà: vi sono degli avvenimenti che sono in continua
trasformazione ed è per questo che lo sguardo dell’osservatore non riesce a fissarli.
Quindi non è da questo lato che lo studioso può studiare la realtà sociale.
Le abitudini collettive si esplicitano in regole giuridiche e morali, in detti popolari, etc. e al di là
degli atti individuali che suscitano esse si esprimono in forme definitive.
Quindi esistendo in modo permanente, queste forme collettive costituiscono un oggetto fisso, un
campione costante che è sempre alla portata dell’osservatore e che non lascia spazio alle
impressioni soggettive o alle osservazioni personali: una regola del diritto è ciò che è e non vi sono
due modi di percepirla.
Dato che queste pratiche non sono altro che vita sociale consolidata, è legittimo studiare la vita
sociale attraverso quelle pratiche.
Come si può notare si passa da un iniziale discorso epistemologico, a quello metodologico, per
arrivare ad una teoria sociale ( interazione tra i 3 livelli), secondo cui data per scontata la
passività del percepente la stabilità della sensazione è garanzia di oggettività conoscitiva e quindi il
sociologo che vuole giungere a rivelazioni oggettive deve studiare entità stabili come le norme del
diritto, le quali sono cristallizzate nella dinamica sociale.
La prima regola del metodo sociologico, la più fondamentale, è coerente con la teoria sociale, tale
regola impone di considerare i fatti sociali come “cose”, le quali presentano il carattere
dell’esteriorità e della coercitività rispetto all’individuo conoscente e socialmente agente.
Sono esteriori agli individui considerati singolarmente (cioè alle percezioni individuali) e sono
coercitivi perché essendo cristallizzati nella società, si impongono sui singoli individui.
Dopo aver considerato i fatti sociali come “cose”, il prossimo passo da fare è “scartare le prenozioni”, perché solo così il sociologo potrà arrivare ad una conoscenza oggettiva dei fatti sociali.
Egli, inoltre, parte dal postulato che la causa di un fatto sociale non può essere che un altro fatto
sociale.
(L’induttivismo epistemologico e il suo contrario)
Per induttivismo epistemologico si intende la visione dell’empirismo classico, delineata da
Aristotele e portata avanti da altri pensatori: una visione che pone l’accento sulla conoscenza
scientifica piuttosto che su quella metafisica o religiosa.
Sono induttivisti: Locke, Cartesio, Mill, Radnitzky e altri, ma l’induttivismo si riaffaccia
nell’epistemologia realista con Schlick, padre fondatore del Circolo di Vienna.
Coloro che invece aderiscono all’empirismo logico possono essere definiti deduttivisti (e anche
anti-induttivisti), perché esaltano il ruolo della teoria nell’indagine scientifica.
Tra questi vi sono: Otto Neurath (sociologo del Circolo di Vienna), Hans Reichenbach, a cui si deve
la distinzione fra “contesto della scoperta” (dove l’intuizione e perfino il caso possono avere un
posto importante) e “contesto della giustificazione” (che esige il massimo rigore logico e
metodologico).
Anti-induttivisti sono anche Karl Popper, Hempel e carnai (deduttivista, ma non anti-induttivista),
mentre Dewey e Kuhn sono sempre stati ostili all’idea secondo cui si possa fare scienza muovendo
da dati e osservazioni empiriche, per arrivare, passo dopo passo, a formulare teorie.
Idea che getta le basi dell’induttivismo.
Ad esempio, Popper ritiene che il requisito fondamentale delle teorie scientifiche sia il loro carattere
di “falsificabilità”, secondo il quale non esiste una verità assoluta ma un succedersi di verità, in
attesa di essere superate o smentite da successive teorie.
Le epistemologie contemporanee possono essere collocate su un versante deduttivista e comunque
opposto alla visione della scienza di Durkheim.
Infatti per i deduttivisti le “prenozioni” non vanno scartate ma controllate, mentre i fatti sociali non
sono assimilabili a “cose”, ma fortemente influenzati dal quadro di riferimento concettuale in cui si
vengono a delineare; infine le sensazioni non prescindono dal soggetto conoscente ma anzi sono
influenzate dalla sua esperienza.
Del resto anche lo stesso Durkheim vìola ripetutamente le proprie prescrizioni.
Ad esempio: ne “Le forme elementari della vita religiosa” per superare la contraddizione fra la
coercitività del sacro come fatto sociale e la sua desiderabilità per i credenti, introduce la nozione di
“coercitività/ desiderabilità” prefigurando l’interiorizzazione delle norme sociali, che pur
imperative, sono rispettate perché interiorizzate come motivazioni dell’agire individuale.
Circa l’oggettività della conoscenza sociologica, secondo Durkheim, sarebbe assicurata dal
postulato che la causa di un fatto sociale non può che essere un altro fatto sociale.
Induttivismo: dati e osservazioni empiriche  formulazione teoria.
Deduttivismo: priorità della teoria nell’indagine; quadro concettuale di riferimento in cui
inquadrare il fenomeno oggetto di studio.
( Il positivismo logico e i valori )
Dal punto di vista teorico, il positivismo assume i valori fondamentali come obiettivo finale e come
criterio che regola l’agire sociale.
Lo stesso Durkheim idealizza una società (il cui simbolo è il sacro), caratterizzata da un ordine
supremo che deriva dalle norme sociali e dai valori culturali.
Il passaggio dall’oggettività del fatto sociale all’oggettività del valore è caratterizzato dalla nozione
“coercitività-desiderabilità”, secondo la quale la coercitività del fatto sociale viene superata dalla
desiderabilità del fatto stesso, in quanto essa risponde all’intimo bisogno dell’individuo di
conformarsi alla società e quindi la funzione del fatto permette l’interiozzazione delle norme sociali,
che pur essendo imperative vengono interiorizzate come motivazione dell’agire individuale.
Il fatto sociale così si converte in valore.
( L’idea della “avalutatività” )
Almeno nelle sue premesse il positivismo esclude i valori dalla conoscenza scientifica, a favore dei
fatti osservabili. Ma il problema, nell’ambito del positivismo, non è la possibile interferenza dei
valori sui fatti, ma i valori che diventano oggetto di indagine.
Per Durkheim ciò è possibile perché un “giudizio di valore fa sì che l’ideale sia dato come cosa e
quindi venga incorporato al reale”.
Del tutto diversa invece è la questione della dimensione valutativa in cui ogni ricercatore si è
cimentato, sia nelle scienze sociali che in quelle naturali.
Di fatto, al ricercatore toccherà fare delle scelte fra le aree problematiche da indagare, in cui vi sarà
una certa influenza dei valori condivisi, di mode e anche di risorse disponibili; ciò è pertinenza della
sociologia della scienza.
Un’altra questione è quella del “giudizio di valore”, in senso descrittivo, che viene affrontata da
Max Weber (allievo dello storicista Rickert); egli enuncia il “principio di avalutatività”, intesa
come esclusione dalla scienza dei giudizi di valore.
Infatti, secondo Weber, l’avalutatività rappresenta una pre-condizione di oggettività della
conoscenza sociologica, anche se da molti, in particolare da Parsons, viene letta come pura
esclusione dei valori dalla ricerca scientifica.
Mentre per Weber si tratta, come si è detto, dell’esclusione del giudizio di valore.
E aggiunge che solo in base al presupposto della “fede” nel valori ha senso formulare giudizi di
valori dall’esterno. Infatti giudicare la validità dei valori rimanda all’interpretazione della vita e del
mondo, ma non è sicuramente oggetto di scienza empirica.
Weber, a dire il vero, nel famoso saggio sull’avalutatività polemizzava contro il marxismo ma
soprattutto contro i cosiddetti “profetti della cattedra”, che dal chiuso dei loro uffici pretendevano
di dettare, in nome della scienza, le norme da applicare al campo dell’attività economica e al campo
sociale.
NB: I profetti della cattedra avevano dedotto i fenomeni economici da alcune verità fondamentali
dell’economia.
Capitolo terzo
L’OGGETTIVITA’ E I VALORI
(Il riferimento ai valori)
Il principio dell’avalutatività ha a che fare con i valori solo quando denuncia la scorrettezza logica
del passaggio dai giudizi di fatto ai giudizi di valore (o imperativi morali), come quelli enunciati dai
marxisti storici (i cosiddetti profeti della cattedra).
Anche Dewey, come Weber, denuncia la scorrettezza logica dei marxisti, in quanto essi definivano
l’economia classica come una scienza solo in virtù di certe verità fondamentali, grazie alle quali
avevano dedotto i fenomeni economici.
Ma la questione del riferimento ai valori è molto più complessa: Weber, nel suo saggio
sull’oggettività della conoscenza sociologica, afferma che non c’è nessuna analisi scientifica della
vita culturale o dei fenomeni sociali che sia puramente oggettiva, perché la conoscenza scientifica
significa creazione e utilizzazione di schemi concettuali, all’interno dei quali viene esposto solo uno
dei tanti aspetti che la realtà presenta.
Inoltre la cultura è una sezione del mondo sociale, alla quale l’individuo attribuisce un senso, infatti
la cultura di per sé non ha alcun valore ma lo acquista nel momento in cui l’individuo le attribuisce
un senso; ne consegue che l’idea stessa del valore denota un punto di vista soggettivo perché frutto
di una precisa scelta individuale, condizionata dal contesto culturale.
Ne consegue ancora che il presupposto di ogni scienza della cultura non è il fatto che una
determinata cultura sia fornita di valore, ma il fatto che gli uomini sono esseri culturali, che hanno
la capacità di assumere posizione nei confronti del mondo e attribuirgli un senso.
E questo è anche il presupposto delle scienze fisico-naturali.
Questo tipo di valutazione quindi è soggetto a continue modificazioni in base alle esigenze della
ricerca, la quale non esclude l’assunzione di “modelli ideali”, ma esclude un concetto di valore non
legato alla ricerca.
Quindi per Weber, l’idea del valore deve riferirsi all’esperienza sociale e al progetto di ricerca del
sociologo, e deve tenere conto dell’analisi dei costi e dei benefici.
L’oggettività della conoscenza sociologica, infatti, dipende da questo, cioè dal fatto che il dato
empirico venga indirizzato alle idee di valore, le quali forniscono al dato stesso un valore
conoscitivo.
L’oggettività è resa possibile dal riferimento a “supreme idee di valore”, perché il dato empirico
viene indirizzato ad esse. E la fede, che in qualche forma è presente in tutti noi, fa sì che i punti di
vista mutino incessantemente; punti di vista da cui la realtà empirica trae un significato.
Qui non è chiaro se il discorso abbia una connotazione ontologica, relativa all’agire sociale (esso
sarebbe guidato dalle idee di valore) oppure una connotazione metodologica (cioè il dato empirico
acquisterebbe senso solo alla luce di tali idee).
È opportuno ricordare che la metodologia weberiana non deriva da un’opera compiuta e sistematica,
ma è estraibile da saggi, conferenze e articoli scritti in periodi diversi e questo spiega anche la
difficoltà di una lettura univoca del suo pensiero.
( L’influenza socio-culturale )
Quando si parla dei valori nella metodologia della ricerca sociologica, il problema diventa
l’influenza dei valori nelle diverse fasi della ricerca; influenza che avviene attraverso i valori
interiorizzati dal sociologo.
Tale influenza, fra l’altro, non è una caratteristica delle scienze sociali perché anche l’astronomia, la
fisica, etc l’hanno subita.
Basti pensare ai “Principia” di Newton (principi teorico-matematici), ritenuti un paradigma di
scienza pura, invece ad un esame più attento si rivelano fortemente orientati a risolvere una serie di
problemi tecnici (trasporti via mare, industria estrattiva e bellica); insomma problemi centrali per la
borghesia del 1600, che era interessata a risolverli.
Ciò conferma l’idea consolidata che le diverse esigenze economiche, tecnologiche e culturali,
sollecitano la ricerca in una direzione piuttosto che in un’altra.
Ma nelle scienze naturali, ad un certo punto, l’ideologia si deve sottomettere alle leggi della natura,
mentre nelle scienze sociali l’influenza della cultura è più forte e influisce in modo preponderante
sull’elaborazione delle teorie.
Ad esempio: il naturalista Gorge Lundberg era fermamente convinto che applicando i metodi
matematici e statistici alla sociologia, si sarebbe passati dai valori ai fatti, dal soggettivo
all’oggettivo. Infatti affermava che gli scienziati naturalisti conoscono i dati fisici più direttamente e
oggettivamente perché hanno utilizzato particolari strumenti e simboli per registrare i dati.
Da queste parole trae addirittura una sorta di legge metodologica, relativa al passaggio dal
soggettivo all’oggettivo, infatti per accelerare questo processo si deve solo utilizzare la matematica
e la fisica.
35 anni più tardi, egli sembra meno ottimista, però insiste sul fatto che il momento in cui tra la
fisica e la sociologia non ci sarà più nessuna differenza in termini epistemologici, è vicino.
Secondo Dewey, invece, questo passo è lontano perché nella fisica l’influenza dei fattori culturali è
diventata indiretta, mentre in sociologia il materiale dell’indagine si presenta in uno stato
qualitativo. Perciò il problema principale è trovare un metodo per convertire questo materiale.
Fino agli anni ’70 vi era l’idea che due grandi paradigmi, fra loro incompatibili, si contendessero il
campo:
Da un lato, lo struttural-funzionalismo, teoria dell’ordine e dell’integrazione sociale, considerato
espressione del sistema capitalistico.
Dall’altro lato, il conflittualismo marxista, una teoria rivoluzionaria, congruente col sistema
socialista.
Essi non erano visti come influenzati da una ideologia ma venivano addirittura identificati con
l’ideologia stessa. Oggi invece lo struttural-funzionalismo ha al suo interno pochi sociologi e molti
antropologi. Questi ultimi vi hanno aderito perché questo paradigma ha una forte propensione
descrittiva, mentre la sua struttura logico-metodologica è debole ed in quanto tale può descrivere un
sistema culturale così com’è, ma non è in grado di spiegarne i mutamenti e le anomalie.
Quanto al marxismo, ha avuto un colpo durissimo con la dissoluzione dell’Urss, patri appunto
dell’ideologia marxista-leninista.
Oggi, infatti, sopravvivono diverse teorie conflittualistiche, però non in termini di opposizione tra
detentori dei mezzi di produzione e proletariato ma come coalizioni di ceti sociali conservatori (da
un lato), e modernizzanti (dall’altro lato).
Residui di marxismo (o neo-marxismo) si possono riscontrare nella sociologia radicale
nordamericana, mentre quella leninista è scomparsa del tutto e con essa anche “a pretesa di
considerare l’ideologia comunista come una ideologia scientifica in base al corso della storia”
( Cesnokov).
( Ideologismi metodologici )
Alle influenze socioculturali si uniscono le mode metodologiche di breve durata, ma che per la loro
intensità comportano dei veri e proprio stravolgimenti logico-concettuali.
Ne è esempio il filone contestativi e popularistico di Gian Antonio Gilli (dal ’68 ai primi anni ’90),
che al metodo tradizionale ha contrapposto un metodo alternativo; egli, si è collocato dalla parte
delle masse proletarie ritenendole come soggetto attivo della ricerca, in quanto il loro punto di
vista avrebbe portato alla verità scientifica.
Gilli, in quanto portavoce della “parte progressista delle forze produttive” era convinto di possedere
la verità, in nome della quale proponeva nuove tecniche di campionamento.
Infatti, a suo parere, non era necessario che le caratteristiche del campione fossero uguali alle
caratteristiche dell’universo considerato: il campione non doveva rispecchiare l’universo ma la sua
dialettica, il suo divenire storico.
Inoltre per procedere al campionamento era necessaria un’analisi storica complessiva, per essere
sicuri della certezza storica dell’universo.
Inutile dire che sono state fatte diverse ricerche, condotte su “campioni dialettici”, che hanno
preteso di rispecchiare fedelmente la realtà sociale e proponendosi come paradigmi metodologici,
non contaminati dall’ideologia.
Ci sono voluti più di 10 anni affinché si riaffermasse la logica tradizionale della ricerca scientifica.
( Punti di vista e opzioni teoriche )
In rapporto ai valori, intesi come punti di vista o come visione del mondo del sociologo, si possono
distinguere due questioni:
L’influenza dei valori culturali sul problema oggetto di studio e quindi anche sulla sua spiegazione.
L’influenza dei valori interiorizzati dal sociologo, che lo portano allo studio di determinati problemi
piuttosto che di altri. Problemi che possono essere rilevanti dal punto di vista pratico, in una certa
società oppure possono essere significativi per il contesto culturale della società o che possono
assumere rilevanza per una certa scuola sociologica o per un sociologo.
La distinzione operata è di carattere funzionale per l’analisi, ma di fatto i due punti devono essere
considerati come momenti di un solo processo.
I moderni comportamentismi, a partire da Lundberg, ritengono che ormai sia operante una sola
influenza delle premesse di valore per quanto riguarda la selezione dei problemi e non delle teorie;
ma tale influenza si riduce al ricorso a tecniche perfezionate e ad accurati procedimenti
d’osservazione. E questa non è altro che la riproposizione dell’idea illuministica di progresso,
trasposta alle diverse discipline scientifiche, che trascura il fatto che i caratteri dell’oggetto di studio
delle scienze sociali hanno delle peculiarità dovute alla natura umana di coloro che compongono le
società.
Ciò è evidente se si considera che nessuno riterrebbe ragionevole proporre un questionario ad un
gruppo di delfini, in merito ai loro spostamenti nell’oceano.
Quindi né i fisici, i chimici o i biologi hanno a che fare con opinioni e valutazioni come invece
accade ai sociologi, psicologi ed economisti.
Ma questo, tuttavia, non toglie nulla al comune obiettivo di rintracciare regolarità, di stabilire
connessioni tra eventi o comportamenti e di spiegare gli eventi. Né toglie nulla alla comune
esigenza di costruire e migliorare teorie, di formulare generalizzazioni, etc.
Ad esempio: una moria di pesci può essere indicatore di inquinamento e una scarsa partecipazione
elettorale può significare un calo di fiducia nei partiti politici, considerati inefficienti e corrotti; ma
possono esservi anche altre spiegazioni.
Nel primo caso un’epidemia e quindi basterà fare un’autopsia, nel secondo caso lo sciopero dei
mezzi di trasporto. In quest’ultimo caso, a parte il controllo della presenza/assenza, gli studiosi
avranno a che fare con stati d’animo, valutazioni, ragionamenti, etc.
Ed ecco che si affaccia l’idea, riguardo al sentire e alla progettualità dei gruppi umani, del
“confronto” fra la lettura del sociologo e l’auto-lettura degli attori sociali.
Giddens definisce tale confronto “doppio livello ermeneutico” e ritiene che gli schemi teorici degli
attori sociali influenzino quelli del sociologo e viceversa; e questo potrebbe far pensare ad una
limitazione della libertà che il sociologo ha quando elabora una teoria o deve scegliere fra diverse
teorie, ma se si considerano gli ambiti dell’indagine sociologica nel loro complesso non si
troveranno molti settori in cui vi sarà l’esigenza di rapportare la teoria del sociologo al mondo preinterpretato degli attori sociali, che fra l’altro sono oggetto di studio della stessa sociologia.
Ad esempio, la teoria della modernizzazione di Lerner non sembra richiedere una qualche
mediazione con il mondo pre-interpretato dall’attore sociale per essere accettata o rigettata (
perché è espressa in termini di assoluta generalità).
Il fatto è che Wich, Schutz, Giddens e tutti coloro che propongono metodologie ermeneutiche o
neo-comprendenti prestano attenzione esclusivamente all’interazione sociale fra singoli attori e
talvolta pensano alla società come ad un concetto filosofico astratto.
A questo si aggiunga il fatto che hanno poca dimestichezza con l’indagine sociologica empirica.
Si affaccia l’ipotesi che le prospettive neo-comprendenti possono avere un qualche rilievo
metodologico quando, in vista di formulare proposizioni empiriche o ipotizzare teorie, sia utile
tenere presente le rappresentazioni che, ad esempio, gli individui in fila all’ufficio postale hanno
sviluppato per ridurre il tempo di attesa ( padre malato a casa, malore improvviso simulato, etc.).
Quindi che si tratti di descrivere l’apparato respiratorio di una specie animale o della descrizione
della teoria delle file all’ufficio postale, la correttezza logico-metodologica non cambia.
In quest’ultimo caso però la teoria potrà essere confutata dallo stesso signore che fa la fila
all’ufficio postale, quindi agli scienziati sociali è richiesta una maggiore attenzione nel descrivere il
proprio oggetto perché c’è la possibilità di essere contraddetti direttamente dall’oggetto di studio
stesso. Però, per quanto riguarda le teorie scientifiche, i punti di vista entrano in gioco in modo
rilevante nel suggerire al sociologo questa o quella possibile lettura di una serie di processi,
regolarità e connessioni empiriche tra eventi sociali; ma ciò non significa che ci si deve confrontare
con le teorie degli attori sociali.
Nelle scienze naturali basta un solo paradigma per creare il consenso e ciò dipende dall’imporsi
delle leggi della natura. Per le scienze sociali è diverso, infatti la possibilità di scegliere fra alcune
teorie per spiegare lo stesso fenomeno sociale rappresenta una prerogativa delle teorie generali.
Ecco perché vi sono diverse scuole sociologiche che guardano allo stesso problema da angolazioni
diverse.
( Modificazione dell’oggetto di indagine )
A detta di alcuni epistemologi, i punti di vista, i valori e le teorie possono modificare l’oggetto di
indagine.
Stando alle parole di Weber, il dato di per sé è privo di senso perché acquista un senso nel momento
in cui l’individuo gliene attribuisce uno e lo stesso si può dire per l’oggetto dell’indagine, il quale
astrae (cioè generalizza) gli elementi rilevanti dell’indagine dal materiale esistenziale che circonda
la situazione problematica.
Ora, il materiale esistenziale (cioè l’insieme incomprensibile di ciò che accade nell’universo
infinitamente piccolo  cioè in un embrione di teoria) è oggetto di indagine della microfisica
all’interno del quale viene costruito il dato o il concetto-termine, noto come atomo.
Analogamente l’aggregarsi di piccoli gruppi costituisce l’oggetto della micro-sociologia.
A questo proposito si vuole ricordare la ricerca del sociologo nord-americano William Foote
Whyte, che negli anni ’40 decise di studiare una piccola comunità attraverso l’osservazione
partecipante, cioè calandosi nella realtà oggetto di studio.
Il sociologo, nel costruire il suo dato o mondo sociale, è venuto a confrontarsi con il mondo
rappresentato dai membri della comunità, cioè ha dovuto far propri i valori e le abitudini della
comunità e nel momento in cui ha cominciato a scrivere una relazione descrittiva ha dovuto mediare
la propria rappresentazione della comunità con quella dei suoi componenti.
In questo modo il sociologo ha dichiarato di correre il rischio di trasformarsi da “osservatore
partecipante” a “partecipante non osservatore” e questo avrebbe comportato la modificazione
della comunità indagata, non più percepita attraverso l’occhio analitico del ricercatore, ma vissuta
come membro della comunità che in quanto tale aderisce a valori e norme.
In questo caso si può sostenere che vi sia stata una duplice modifica: una sorta di “transazione
cognitiva” e quindi anche comportamentale sia del ricercatore che dell’oggetto di indagine ( la
comunità), che comprende anche il ricercatore.
Quindi da un lato si ha il cambiamento del ricercatore, che non si auto-percepisce più come
osservatore partecipante ma come membro attivo della comunità, dall’altro lato cambia la
percezione della comunità nei confronti del ricercatore.
Tutto ciò sul versante della micro-sociologia. Se ci si sposta sul versante macro, sia per quanto
riguarda la fisica che la sociologia, la questione della modificazione dell’oggetto assume
connotazioni diverse.
Dal punto di vista sociologico, singoli sociologi possono incidere su intere società ma segnalare la
centralità della dimensione valutativa nell’analisi sociologica non legittima la logica dell’indagine
scientifica attraverso il riferimento alla “totalità”, come affermano Adorno, Habermas e altri.
( Previsioni e mutamenti sociali )
Le modificazioni dell’oggetto di indagine possono essere innescate anche da una previsione
scientifica.
Questo fenomeno può manifestarsi quando si formulano previsioni sui sistemi sociali.
È evidente che quanto più la fonte è autorevole più sconvolgenti sono le modificazioni.
Dal punto di vista logico, la previsione è strettamente imparentata con la spiegazione, infatti se
quest’ultima è corretta e rigorosa, più alto è il grado di probabilità che la previsione si verifichi.
Ora, poiché una spiegazione non è altro che l’inferenza da leggi e teorie di un accadimento, è
evidente che non c’è difficoltà a prevedere che, in presenza di certe condizioni, un fenomeno possa
manifestarsi.
Ad esempio: la caduta di un masso dall’alto verso il basso può essere spiegata facendo riferimento
alla teoria della gravitazione universale, specificando le condizioni del sistema in cui si è verificato
il fenomeno. Quindi in presenza di leggi di natura dal carattere universale, ogni qualvolta si dà x, si
dà y; infatti la previsione si basa sulle “condizioni” presenti al momento dell’evento.
In sociologia le cose cambiano: il sociologo potrà fare delle previsioni incerte non solo per la
difficoltà nel controllare le condizioni empiriche ma anche perché dispone di proposizioni che
esprimono regolarità che sono enunciate in forma probabilistica o in termini di “tendenza”.
In questo caso se si dà x, si dà tendenzialmente y.
Ad esempio: l’elevato tasso di suicidi nell’Ungheria degli anni ’80, può essere spiegato attraverso la
legge probabilistica che connette crisi socio-economica e culturale a correnti suicidogene e tale
legge deriva dalla teoria generale dell’anomia.
L’evento però, in presenza di una crisi economica, sociale e culturale, poteva benissimo non
verificarsi e forse si sarebbe trovata una spiegazione alternativa.
Con la previsione invece non ci sono alternative possibili: o l’evento si verifica oppure non si
verifica e la previsione si rivela errata.
Nelle scienza naturali, l’errore si verifica con una frequenza minore rispetto alle scienze sociali, in
modo particolare in economia.
Ad esempio, si è rivelata errata la previsione, enunciata da Marx, della pauperizzione del
proletariato nelle società capitaliste e del crollo del sistema capitalistico come un tutto.
Ma gli economisti sbagliano ancora oggi: dalle previsioni sull’incremento o decremento del
prodotto nazionale lordo ( PIL ) a quelle sugli indici delle borse valori.
Nel caso delle previsioni marxiane, il fallimento è dovuto a una serie di complesse circostanze:
contaminazione di una teoria generale con giudizi di valore ( wishful thinking ), immersione
delle previsioni in un contesto fortemente ideologico-valutativo, etc.
Nel caso dell’economia contemporanea, il fallimento è dovuto alla difficoltà di tenere sotto
controllo le variabili sociali e culturali connesse ai processi economici e alla scarsa attenzione che la
teoria economica presta a tali variabili.
Non bisogna dimenticare che vi sono i casi di “previsione auto-avverantisi”, un caso particolare di
modificazione prodotta dallo scienziato sui processi sotto indagine, che Merton chiama “Teorema
di Thomas”, cioè quella pericolosa influenza del pregiudizio, che dà luogo a comportamenti che
rafforzano il pregiudizio stesso.
L’obiettico di Merton è quello di dimostrare che il teorema della profezia che si auto-adempie opera
solo all’interno di quelle società in cui mancano le istituzioni adatte per interrompere la catena di
azioni e reazioni, prodotta dal pregiudizio.
Infatti è stato ampiamente dimostrato che, ad es., se neri e bianchi hanno la possibilità di lavorare
insieme, il pregiudizio via via va scemando.
Il teorema di Thomas ha rilevanza anche sul piano metodologico.
Ad esempio: se un sociologo prevedesse sanguinose rivolte nere facendo derivare la previsione da
certe considerazioni sulla cultura nera, anche come fatto biologico, non farebbe che accentuare il
pregiudizio presso i bianchi e quindi la discriminazione; conseguentemente a tutto questo si avrebbe
come reazione la rivolta dei neri. Ciò significa che la fiducia risposta in certi individui (e tale
fiducia è veramente un fatto valutativo) può produrre una modificazione in certe credenze culturali.
Capitolo quarto
“ LA COMPRENSIONE IN SOCIOLOGIA “
( Il “Verstehen” come strumento )
Dilthey considerava il Verstehen (cioè la comprensione ) come una via d’accesso privilegiata alla
conoscenza storica, resa possibile dall’Erlebnis (cioè dall’esperienza vissuta ).
Egli affermava che a fondamento delle scienze dello spirito c’è sempre la connessione originaria
della vita psichica, ne consegue che “noi spiegheremo la natura mentre intendiamo la vita
psichica”.
Con Weber il Verstehen viene esteso alle scienze sociali, in modo particolare alla sociologia, che si
definisce proprio per il suo essere comprendente. Infatti scriveva che per l’astronomia i corpi celesti
hanno interesse soltanto nelle loro relazioni quantitative, accessibili ad un’esatta misurazione,
mentre alla sociologia (e in generale a tutte le scienze sociali) riguarda la configurazione qualitativa
dei processi. “Intendere” questi processi è un compito diverso da quello che mira alla soluzione
delle formule della natura.
Quindi da un lato il Verstehen si pone come strumento, dall’altro lato come fine della sociologia
comprendente, infatti cogliendo il senso intenzionale dell’agire si analizza il sociale nella sua
interezza e lo si comprende in modo oggettivo.
L’obiettivo di Weber, attraverso il Verstehen, era quello di legittimare la sociologia come scienza
oggettiva, caratterizzandola in termini di conoscenza oggettiva.
Ma secondo Giddens, ciò che Dilthey e Weber chiamano comprensione non è solo un metodo per
dare senso all’agire umano, ma rappresenta la condizione ontologica della vita umana in società.
Egli si rifà al pensiero di Wittgenstein e di Schutz, il quale aveva affermato che il Verstehen è una
forma specifica di esperienza, nella quale il pensiero di senso comune prende cognizione del mondo
sociale e della cultura.
Ora, se il Verstehen è una tecnica, allora si tratta di provare se funziona come tale; poi se oltre ad
essere una tecnica è anche una specifica forma esperenziale che permette la conoscenza degli attori
sociali nella vita quotidiana, questo è un problema aggiuntivo.
Riguardo al primo problema, Theodore Abel afferma che il Verstehen non aggiunge nulla alla
conoscenza poiché consiste nell’applicazione di una conoscenza già convalidata dall’esperienza
personale e quindi esso non serve come strumento di verifica.
Egli aggiunge che l’idea della comprensione come operazione mentale, che è propria delle scienze
che hanno per oggetto l’uomo, nasce con Dilthey e poi con Comte, ma prima ancora di loro con
Gianbattista Vico, il quale avviò un’analisi comparativa tra le scienze umane e quelle fisico-
naturali, che si concluse a favore delle prime proprio perché esse si prestano ad una maggiore
comprensione degli eventi umani.
Attraverso lo storicismo, l’idea come operazione mentale è stata abbracciata da Cooley e Sorokin, i
quali insistevano sulla dimensione simpatetica dell’indagine sociologica.
Sorokin, in particolare, riteneva che il modello causale-funzionale, pur essendo inteso in termini
probalistico-tendenziali, non fosse soddisfacente per “comprendere pienamente i fenomeni
culturali”.
Invece McIver insiste sulla “ricostruzione immaginaria” a cui attribuisce una funzione
metodologica analoga “all’esperienza vicaria” di cui parla Znaniecki ( il libro non ne parla).
È da sottolineare il fatto che McIver non insiste sull’irripetibilità degli eventi, sulla loro
imprevedibilità e originalità, anzi ritiene che alcuni fattori che operano nella causazione sociale
possono essere interpretati come cause per mezzo dell’esperienza umana.
Secondo Abel, tutte queste posizioni non hanno nulla a che vedere con la comprensione scientifica
degli eventi e quindi cerca di tradurre l’Understanding, di cui parlano McIver e Znaniecki, in
termini operativi, per dimostrarne i suoi limiti.
( L’operazione detta Verstehen )
Per chiarire in che cosa consista tale operazione, Abel propone 3 esempi diversi di analisi del
comportamento, che riguardano:
Un evento particolare
Una generalizzazione
Una regolarità statistica
In base a questi esempi stabilisce che l’operazione del Verstehen comporta 3 fasi:
Internalizzazione dello stimolo ( mondo ostile)
Internalizzazione della risposta ( rifugiarsi in verità eterne)
Applicazione di massime di comportamento ( inadeguatezza mutamento  verità eterne).
Per argomentare il secondo esempio si rifà ad un saggio di Lundberg, secondo il quale “di fronte
ad un mondo ostile e in continuo mutamento, l’uomo cerca sicurezza creando nel pensiero
delle verità eterne e tanto maggiore è l’inadeguatezza al mondo esterno, tanto più egli si
rifugerà in queste verità.
Il suddetto enunciato stabilisce una connessione rilevante fra il credere in verità eterne ( risposta)
e un mondo ostile in continuo mutamento ( stimolo).
Tale connessione è rilevante perché la comprendiamo e quindi la riteniamo possibile.
Il Verstehen in questo caso comporta che noi internalizziamo gli elementi “ostilità, mutamento”
(B), che vediamo come attributi del mondo (A), in un sentimento di inadeguatezza (B’).
La connotazione “immutabile” ( C ) implicata dal concetto di verità eterna (D), viene da noi
internalizzata come sentimento di sicurezza ( C’).
Avendo internalizzato la situazione in questo modo, possiamo applicare la massima di
comportamento: “Una persona che si sente inadeguata, di fronte al mutamento, cercherà sicurezza
in qualcosa di immutabile ( verità eterna).
Lo schema è stato simbolizzato da Abel nel seguente modo, per una maggiore chiarezza:
A – B (attributi del mondo – mutamento e ostilità )
C – D (connotazione immutabile – verità eterna )
B’ – C’ (sentimento di inadeguatezza – sentimento di sicurezza).
Le porposizioni enunciate da Lundberg, in realtà, richiederebbero un’analisi molto più complessa
perché implicano altre proposizioni in forma di legge, date per scontate (ad es: che il mutamento
produca un sentimento di inadeguatezza).
Ora, la deduzione dalle proposizioni universali di Lundberg, di una serie di eventi particolari, date
certe condizioni, può farci comprendere tali eventi anche senza internalizzare i valori e i sentimenti
di cui si tratta: si avrebbe una completa spiegazione scientifica, coerente con il modello
nomologico-inferenzale (proposto da Hempel e Oppenheim e sviluppato da Nagel), rispetto al quale
l’internalizzazione dei sentimenti di cui parla Abel risulta un elemento aggiuntivo, che è proprio
della spiegazione sociologica delle scienze fisico-naturali.
Abel quindi avrebbe ragione a dire che l’operazione del Verstehen non aggiunge nulla di nuovo alla
conoscenza sociologica, perché si configura come una sorta di complemento dell’inferenza
esplicativa ( cioè che spiega).
Per l’esattezza il Verstehen operazionalizzato da Abel entra in gioco prima dell’inferenza
esplicativa e cioè nel contesto della scoperta, ma anche dopo l’inferenza e cioè nel contesto della
giustificazione.
La distinzione fra questi due contesti ha suscitato diverse obiezioni, incentrate sul fatto che in
questo modo la ricerca scientifica appare come un meccanismo standardizzato e suddiviso in
scomparti, anche se non c’è nulla di male nell’ammettere due momenti diversi, ma che fanno parte
dello stesso processo conoscitivo.
( Comprensione e vita quotidiana )
Secondo Giddens, l’intendere sarebbe una condizione ontologica del sociale e da questo
deriverebbe il metodo, un metodo che richiede che si comunichi con le persone che costituiscono
l’oggetto di indagine, attraverso i questionari, l’osservazione partecipante, le interviste.
E questa, nell’ottica di Giddens, è un’interazione tra l’osservatore e l’oggetto, ma non basta perché
lo studio della condotta umana (sia diretto che indiretto) dipende dal possesso di una conoscenza
condivisa con l’oggetto stesso.
In altre parole, ogni attore sociale è egli stesso uno scienziato sociale che nella pratica della vita
quotidiana interpreta la sua condotta e quella degli altri, come momenti integranti della produzione
della vita sociale.
Ragion per cui c’è un rapporto necessario fra i concetti usati dai componenti di una società e quelli
usati dal sociologo.
Ora, che un consenso sia necessario per accettare una teoria è fuori dubbio, ma che l’accettazione
dipenda in larga misura da come gli individui vedono le cose, questa è un’idea che non sta in piedi,
infatti l’unico consenso necessario è quello degli studiosi del settore, sostenuto a sua volta da
regolarità empiriche coordinate alla teoria.
( Estremismi metodologici )
L’etnometodologia, di cui è fondatore Harold Garfinkel, studia i metodi utilizzati da un gruppo
etnico per comprendere il loro stesso mondo sociale.
Infatti a Garfinkel non interessano gli atti intenzionali degli attori sociali, ma il modo in cui essi
costruiscono il mondo sociale e lo interpretano, trova quindi fuori luogo che possano esserci due
livelli ermeneutici (quello degli attori e quello dello scienziato sociale).
Egli ritiene quindi che un evento sia comprensibile solo se riferito alla situazione specifica in cui si
è espresso, infatti ritiene che ogni attore sociale sia produttore di senso e questo “senso comune”
non dev’essere indebolito dalla conoscenza scientifica perché esso rappresenta un altro modo di
conoscenza. Quindi il suo obiettivo (di Garfinkel) è lo studio degli “etno-metodi”, cioè le
procedure della sociologia non professionale ( profana, nel senso che ogni attore può essere
considerato scienziato sociale) attivata nella pratica quotidiana dagli attori sociali
Capitolo quinto
“ LA LOGICA DELL’INDAGINE SOCIOLOGICA “
( La situazione indeterminata  quella situazione a cui è possibile applicare le procedure della
ricerca scientifica: concettualizzazione, operazionalizzazione, etc) )
Dewey, nel suo saggio “Logica, teoria dell’indagine”, scrive che l’indagine così come la logica
dell’indagine sociologica è la trasformazione di una situazione indeterminata in una situazione
problematica, cioè affinché l’indagine parta è necessario che la situazione sia fonte di dubbio.
Il dubbio può essere teorico se riguarda la controllabilità di alcuni aspetti di una teoria generale,
cioè l’adeguatezza della teoria stessa nel rendere conto di certi processi osservati e da essa stessa
definiti; ma può anche essere pratico se risponde a determinate esigenze sociali.
I termini che costituiscono i problemi pratici sono i fatti, che vengono stabiliti dall’osservazione, ma
questo non è certo un assioma ( qualcosa che è superfluo dimostrare perché è palesemente vera) il
fatto che i problemi pratici siano fatti e che essi vengano stabiliti dall’osservazione.
Tante volte però succede che l’osservazione si pieghi alle esigenze della teoria dominante, com’è
successo agli studiosi pre-durkheimiani del suicidio (Montesquieu, Falret, etc), che pur di tenere in
piedi la teoria dell’influenza del clima e della temperatura sulla propensione al suicidio, fecero di
tutto pur di adattare le loro osservazioni alla teoria stessa.
Anche Lombroso adattò le sue osservazioni alla teoria, apportando delle variazioni, secondo cui non
erano il caldo o il freddo a influenzare la propensione suicidogena (come aveva affermato
Montesquieu), ma il cambiamento di stagione (repentino passaggio dal caldo al freddo), che
sconvolgeva l’equilibrio dell’organismo.
Nelle scienze sociali, quando si è in presenza di uno scarso patrimonio di conoscenze su
determinate questioni, si imposta l’indagine nella forma più esplorativa possibile e questo nella fase
operativa significa mettere a punto dei questionari con cui raccogliere più informazioni possibili
(sesso, età, professione, status socio-economico, reddito dichiarato, etc.), ipotizzando che possano
risultare utili come variabili indipendenti o intervenienti.
Come esempio viene citata la ricerca di Statera (1977) sul destino lavorativo dei laureati
dell’università di massa. Sia il modo minuzioso in cui si raccolsero i “dati di base”, sia la grande
quantità di elementi acquisiti, permisero di rispondere a interrogativi che non erano stati formulati
nella progettazione dell’indagine.
Ad esempio: indagando le correlazioni tra l’occupazione dei laureati a due anni dal conseguimento
del titolo, e il sesso, l’estrazione sociale, la fruizione dell’università e il tipo di laurea, emerse che
influivano il genere (l’essere maschi), un certo tipo di laurea ( Economia e Commercio, Scienze
politiche…in quanto più spendibili sul mercato del lavoro) e la mancata frequentazione
dell’università durante il periodo degli studi.
Quindi tra le ipotesi iniziali trovavano conferma il sesso e il tipo di laurea, ma risultava nulla
l’influenza dell’estrazione sociale e il voto di laurea; inoltre la frequentazione dell’università
influiva negativamente sull’occupazione a due anni dalla laurea.
Un dato significativo e non ipotizzato, emerso dalla ricerca, fu la relazione anomala tra la mancata
frequenza all’università e l’elevata occupazione dei laureati.
Questa relazione però acquisì un senso quando emerse che il 47% dei soggetti del campione,
durante gli studi, non aveva abbandonato né l’università né il lavoro che stava svolgendo. E questa
relazione non avrebbe avuto un senso se si fosse trascurata la variabile “condizione occupazionale
durante gli studi”.
Questo ci fa capire che il modo di porre e di affrontare un problema è determinante per la
risoluzione del problema stesso.
( Rilevanza del problema )
La rilevanza del problema, dal punto di vista della logica dell’indagine, dipende dai modi in cui
esso viene definito, dalla correttezza logica delle ipotesi e dal ruolo che esse svolgono all’interno di
un quadro teorico più ampio.
Ad esempio: se si volesse affrontare il problema delle condizioni che favoriscono la partecipazione
politica delle masse, si dovrebbe “definire” innanzitutto il concetto di partecipazione politica,
componendolo in dimensioni e individuando i relativi indicatori (dati empirici), che permettono di
misurare il grado di partecipazione politica.
Quindi si dovrebbe prestare attenzione ai diversi livelli delle “condizioni”( forme del sistema
politico, struttura del sistema sociale, modelli culturali prevalenti, etc.), e ai livelli e alle forme della
partecipazione politica ( istituzionale, extra-istituzionale, etc).
Di fatto, però, ciò che comunemente viene misurato è il grado di partecipazione al gioco politico,
che è regolamentato dall’attività dei partiti e dalle consultazioni elettorali.
Da questo emergono gli indicatori classici: partecipazione al voto, iscrizione ai partiti politici,
partecipazione attiva a campagne elettorali e informazione sugli eventi politici.
E in effetti questi indicatori indicano il grado di adesione dei cittadini; ma con una simile
operazionalizzazione non stupisce che ci siano state delle difficoltà nel descrivere l’effervescenza e
la mobilitazione politica dei giovani nel ’60 e negli anni ’70.
Infatti la partecipazione extra-istituzionale non era stata considerata nella concettualizzazione,
ragion per cui si lamentava l’apatia politica dei giovani e la loro propensione al consumismo.
L’incapacità della previsione dipese dall’inadeguatezza del quadro teorico, che aveva trascurato le
dimensioni delle mobilitazioni di massa dei figli dei ceti medi e medio-alti, da come era stato
formulato il concetto centrale dell’indagine, etc.
E questo equivale a dire che, nel bene o nel male, è la teoria che condiziona l’intero processo
dell’indagine, perché consente di porre dei problemi prefigurandone anche soluzioni adeguate.
Allora la rilevanza del problema scientifico dipende essenzialmente dal riferimento ad una teoria,
che sia accettabile e condivisa dalla comunità scientifica, ma anche da una corretta
concettualizzazione e da una corretta scomposizione dei concetti in dimensioni e relativi indicatori..
Secondo Dewey e Popper, la rilevanza del problema scaturisce da situazioni sociali “reali”, che
presentano in sé confusione e conflitto, perché questi due elementi (o attributi) esistono di fatto
prima ancora che esistano i problemi di indagine.
Infatti Dewey scrive che qualsiasi problema che non nasce da effettive condizioni sociali è un
problema artificioso, perché è posto unicamente dal ricercatore.
Però è probabile che Dewey si lasci un po’ prendere la mano dalla polemica e subordini la logica
dell’indagine alla realtà sociale: in altre parole sembra che a Dewey non interessino molto le
questioni dell’indagine sociologica, ma lo interessano invece i problemi sociali da un lato e alcune
questioni psico-pedagogiche dall’altro.
Quanto affermato da Dewey però è in aperta contraddizione con quanto egli afferma a proposito
della logica dell’indagine scientifica, che è centrata sulla provvisorietà dei dati, sulla selezione del
“materiale esistenziale” e sulla centralità “dell’idea” che permette di fare ordine in una situazione
indeterminata. Questa contraddizione può essere spiegata con la frequentazione di Dewey con
Herbert Mead (padre dell’interazionismo simbolico), con la sua propensione ad occuparsi di
psicologia sociale e quindi dell’interazione fra attori sociali, piccoli gruppi o della socializzazione
tra soggetti in classi scolastiche.
Ora, se l’idea che i problemi scientifici che non nascono da problemi reali sono artificiosi, è
irrilevante per le scienze fisico-naturali, perché dovrebbe avere una certa rilevanza per le scienze
sociali?
Per le prime, basta fare riferimento alla critica mossa da Merton a Bucharin e Hessen, i quali nel
ricercare le radici economiche dello sviluppo scientifico, avevano mostrato come in diversi casi
fosse stato il “bisogno” a indirizzare la ricerca su certi problemi, piuttosto che su altri.
Ma Merton non è d’accordo, infatti ritiene che la ricerca scientifica non nasca da problemi sociali e
a questo proposito cita Durkheim, affermando che il suo studio sul suicidio per individuarne le
cause sociali, nell’Europa di fine ‘800 rappresentava un problema sociale, ma di certo non era
quello più pressante.
Insomma, anche se sono frequenti i casi in cui i problemi pratici spingono alla ricerca e vengono
tradotti in problemi scientifici, questa non è una regola che fa scuola.
Ad esempio: potrà interessare ai partiti politici capire se Tangentopoli ha influenzato il
comportamento elettorale dei cittadini, ma da qui a dire che non si danno problemi scientifici se
questi non corrispondono a problemi reali, è un altro discorso.
Quanto alla rilevanza dei problemi sociologici, Popper è d’accordo con Dewey nel ritenere che ogni
problema posto all’attenzione del sociologo nasce dalla scoperta che c’è qualcosa che non và.
Ma aggiunge anche che i problemi sociali si trasformano in problemi teorici perché inducono il
ricercatore a riflettere e teorizzare.
Infatti problemi seri, come la povertà, l’analfabetismo, la repressione politica e altro, hanno indotto
gli studiosi a teorizzare e quindi a trasformare questi in problemi teorici.
Ad ogni modo, sostiene Popper, è il carattere e la qualità del problema a determinare il valore della
prestazione scientifica.
Ma questa affermazione non è proprio cristallina, perché non si capisce se il carattere e la qualità
del problema siano di natura teorica o pratica.
Alcuni sostengono che sia di natura pratica, anche se per Popper il problema pratico per essere
affrontato deve dar luogo ad un problema scientifico.
Visto in questa prospettiva allora il lavoro scientifico del sociologo che studia la povertà o la
disoccupazione ha più valore di quello che studia i divorzi.
Anche accettando questo ipotetico criterio di valutazione non si ottiene un parametro valido per
misurare la rilevanza sociale delle diverse prestazioni scientifiche, perché, ad esempio, chi studia le
caratteristiche sociali di coloro che hanno divorziato può benissimo farlo facendo riferimento ad un
quadro concettuale più ampio, che riguarda il grado di anomia o di integrazione di un determinato
sistema sociale.
E quindi la “qualità” del problema non ha alcuna rilevanza per la “qualità” della ricerca.
Habermas e Adorno criticano duramente Popper, in particolar modo Adorno ritiene che i problemi
scientifici hanno poco a che fare con i grandi problemi sociali, perché i veri problemi sono quelli
“epocali”.
Ad esempio: se, come ha insegnato Marx, la società capitalistica è spinta dalla sua dinamica al
proprio crollo oppure no, questo è uno di quei problemi importanti, epocali.
Così, mentre il filosofo ci rifletterà sopra e ci speculerà, il sociologo cercherà di trarre delle
inferenze dalla teoria marxiana una serie di proposizioni che hanno un livello limitato di generalità,
concettualizzando nel modo più univoco possibile. Poi cercherà di definire la dimensione dei
concetti, di individuare gli indicatori, etc, etc
Questo, però, per Adorno è sminuzzamento del problema in micro-questioni di scarsa rilevanza e
quello che invece si dovrebbe fare è osservare i processi storico-sociali nella loro totalità..
Quindi la rilevanza del problema dipende dal modo in cui esso viene posto, dalla teoria in cui si
inscrive e dal fatto che l’operazionalizzazione dei concetti consenta una soluzione, una risposta che
dovrà essere la stessa per tutti i ricercatori che si conformeranno alle stesse procedure. Ciò, dal
punto di vista della logica dell’indagine, equivale a dire che c’è una sola gerarchia di problemi:
quella che distingue i problemi impostati bene scientificamente, dalle situazioni indeterminate, a cui
è impossibile applicare le procedure della ricerca scientifica.
( Il processo di operazionalizzazione )
Ogni problema scientifico, per essere posto, affrontato e risolto, richiede che:
che in base alle ipotesi teoriche, si individuino i “dati del caso”,
che la concettualizzazione (connessa alle ipotesi teoriche) venga definita analiticamente,
che alle dimensioni della definizione si connettano indicatori empirici,
che le procedure di passaggio dai concetti teorici agli indicatori (o concetti empirici) siano
riproducibili,
che si definiscano rigorosamente le procedure e le regole di lettura dei concetti-indicatori, alla luce
dei concetti teorici e con riferimento ad essi.
Questo processo, nel suo insieme, è detto “processo di operazionalizzazione”, che rappresenta il
cuore dell’indagine scientifica.
Secondo Nagel, questo processo corrisponde ai modi secondo cui sono in relazione le nozioni
teoriche e le procedure osservative.
Egli riconosce che questi modi sono piuttosto complessi, al punto tale che sembra impossibile
rappresentarli tutti attraverso un unico schema e per meglio chiarire la questione fa riferimento alla
teoria dell’atomo di Bohr.
In questa teoria si afferma che ogni atomo è composto da un nucleo che trasporta una carica
elettrica positiva, e da un numero di elettroni (con carica negativa) che circolano attorno al nucleo e
il cui numero varia a seconda dell’elemento chimico.
L’energia elettromagnetica di un elettrone in un’orbita dipende dal diametro dell’orbita: essa però
rimane costante per tutto il tempo in cui un elettrone rimane in un’orbita e l’atomo non emette
radiazioni. Inoltre un elettrone può saltare da un’orbita che ha un livello di energia più alto ad
un’orbita che ha un livello di energia più basso, quando ciò accade l’atomo emette una radiazione
elettromagnetica, la cui lunghezza d’onda è funzione di queste differenze di energia.
Ciascuno dei concetti, connessi fra loro dalla teoria di Bohr, esige di essere definito e collegato a
procedure di laboratorio, così la nozione teorica del salto di un elettrone è collegata alla nozione
sperimentale di riga spettrale.
Una volta introdotte corrispondenze di questo genere, le leggi sperimentali relative alla serie di
righe che compaiono nello spettro di un elemento, si possono dedurre dalle assunzioni teoriche sui
passaggi di un elettrone da una all’altra delle sue orbite.
Qualcosa di simile accade con la teoria della partecipazione politica, nella formulazione classica di
Milbrath, che definisce la partecipazione politica nelle sue dimensioni, che includono: interesse per
la vita politica, l’informazione sugli affari pubblici, il diretto coinvolgimento in attività politiche.
Gli indicatori dell’interesse per la vita politica possono essere:
appassionarsi alle questione pubbliche,
discuterne con amici, familiari o colleghi di lavoro,
dichiararsi interessati alle questioni pubbliche.
Quindi si può dire che la definizione del concetto di interesse politico si riferisce alla propensione
soggettiva a seguire gli avvenimenti politici e all’esserne coinvolti.
Quest’ultimo aspetto della definizione rimanda ad un’altra questione: l’informazione, che
rappresenta un altro concetto-dimensione della partecipazione politica.
Infine l’interesse politico può essere connesso a forme di impegni e militanza.
Secondo Marradi, quanto si è detto finora a proposito dell’operazionalizzazione del concetto di
partecipazione politica, non distingue fra definizione operativa e indicazione.
Secondo lui, la fase della selezione degli indicatori precede (e salta) la fase della definizione
operativa di un concetto, creando confusione.
Confusione, a parere suo, iniziata da Lazarsfeld.
Ma quest’ultimo, più che confondere la definizione operativa con la selezione degli indicatori, non
ritiene indispensabile che si passi da un concetto ad altri concetti di minor livello di astrazione, tali
da permettere immediatamente delle operazioni per trasformare i concetti in variabili.
A parere suo, infatti, gli indicatori sono legati alla variabile (latente) con una certa approssimazione
e nell’affermare ciò, concorda con quanto affermato da Hempel, secondo cui le definizioni
operative non sono definizioni nel senso stretto del termine, ma specificazioni parziali del
significato.
( Definizioni operative e rapporti di indicazione )
Nella pratica dell’indagine si incontrano spesso numerose difficoltà, infatti una cosa è lavorare con
concetti-termini di carattere denotativo e un’altra cosa è lavorare con concetti-termini di carattere
connotativi e cioè astratti.
Giesen e Schmid, riprendendo la distinzione operata da Hempel, distinguono fra concetti teorici e
concetti empirici ed è chiaro che i maggiori problemi si pongono riguardo ai concetti-termini poco
vicini all’osservabilità.
Ma non aiuta operare una distinzione tra concetti-termini osservabili e concetti-termini
indirettamente osservabili.
Gallino, invece, distingue fra “concetti osservazionali” e “concetti teoretici”, affermando tuttavia
che i concetti sono invenzioni dell’attore umano, escogitate per spezzare l’interezza del mondo e
renderla accessibile a fini umani.
Infatti la croce dell’empirismo logico fu sempre quella dei cosiddetti “protocolli d’osservazione”,
che includevano illusoriamente termini osservativi.
A questo proposito va ricordato che Otto Neurath spezzò il vincolo della neutralità del protocollo
d’osservazione, rivendicando l’imprecisione e la soggettività di ogni protocollo.
Infatti lui riteneva che le proposizioni osservative protocollari, basate sull’Erlebnis, fossero causa di
ogni imprecisione linguistica.
La critica di Neurath non è rivolta solo a Wittgenstein ma anche a Carnap, che credeva di aver
risolto una volta per tutte le questione del contatto fra esperienza, linguaggio e oggetti, con la
trascrizione protocollare di singole esperienze vissute.
L’opzione di Neurath, che poi sarà condivisa anche da Carnap, ribadisce il primato della teoria
sull’osservazione. In altre parole, “il dato è costruito e l’osservazione è orientata”.
Da qui la difficoltà di tracciare una linea di demarcazione precisa fra concetti-termini osservativi e
concetti-termini teorici.
È chiaro che non si hanno grandi problemi di operazionalizzazione per concetti immediatamente
trasformabili in variabili, come l’età, il sesso, lo stato civile e la condizione socio-professionale,
perchè tali concetti sono misurabili a livello di classificazione o metrico e quindi si può definirli
come prossimi al dato empirico.
Infatti non si può dire che la condizione socio-professionale sia un concetto immediatamente
osservabile; può esserlo in parte (dopo una lunga intervista) la condizione socio-professionale di un
singolo soggetto ma non quello di un gruppo.
L’età, invece, è direttamente connessa al dato empirico grezzo.
Ai fini dell’indagine, però non è irrilevante il modo in cui viene presentato questo concetto, infatti è
una scelta del ricercatore quella di collocare i giovani nella classe d’età fra i 21 e i 25, e gli anziani
nella classe d’età fra i 55 e i 60 anni.
Quindi la classificazione è orientata e il dato stesso è costruito.
In ultima analisi la definizione operativa consiste in una interpretazione, fondata si dati osservabili.
Quello che conta nell’interpretazione è che ogni concetto venga definito in modo univoco (cioè che
abbia una sola definizione) e poi venga tradotto in concetti-termini che possono dar luogo a
variabili.
Affinché ciò accada è necessario avvalersi di “proposizioni di riduzioni”, che specificando il
significato del concetto originario, permettono la misurazione.
Rapporto di indicazione: ogni concetto-dimensione è indicabile in vari modi e più esso si
scompone in varie sotto-dimensioni, più è probabile che l’indicatore (concetto-dimensione) sia
corretto.
( Misura e qualità )
Le classificazioni rappresentano il livello più elementare delle misurazioni, in quanti distinguono i
concetti in categorie diverse.
Ciò non pone problemi quando si tratta di “variabili naturali”, ma ne crea quando si ha a che fare
con “variabili costruite”.
Uno di questi problemi è come passare dalla qualità alla quantità.
I cosiddetti “sociologi qualitativi” (interazionisti, neo-comprendenti, etnometodologi, etc.)
escludono che vi sia la possibilità di ridurre il qualitativo in quantitativo, anche se nella pratica si
contraddicono non escludendo del tutto il ricorso a tecniche quantitative.
Essi, tuttavia, propongono un metodo alternativo, basato sulle tecniche qualitative, dove l’attore
sociale occupa il posto centrale.
In questa prospettiva si rigetta l’idea di spiegazione per valorizzare la “decifrazione” degli eventi
sociali, per comprenderli.
Si enfatizzano anche i contesti, i significati e i mondi vitali; però c’è da dire che non tutti i
ricercatori qualitativi condividono questa visione.
Infatti al loro interno si trovano scuole di pensiero diverse e difficilmente componibili.
Una cosa su cui invece concordano è il fatto di guardare il mondo sociale (oggetto di studio) dal suo
interno, attraverso la partecipazione alla vita quotidiana.
Ciò però non basta per delineare un paradigma alternativo, perché la logica dell’indagine
scientifico-sociale impone una cosa: il tutto non può essere indagato, perché esso deve essere
scomposto in parti, le quali sono rese significative da ipotesi teoriche e queste ultime devono essere
tradotte operativamente in modo da consentire relazioni, misurazioni e conclusioni.
Capitolo sesto
“ LA SPIEGAZIONE SOCIOLOGICA “
( Descrizione e spiegazione )
Una disciplina scientifica si definisce tale quando è in grado di spiegare un certo evento o una
relazione tra eventi.
Se poi essa riesce anche a prevedere un certo evento, la sua scientificità si eleva ulteriormente.
Affinché ciò accada è necessario che l’iter logico della spiegazione sia ripetibile attraverso strutture
teoriche e leggi, empiricamente confermate.
Infatti la spiegazione di un evento è una buona occasione per testare la validità delle teorie generali,
all’interno di una specifica situazione d’indagine.
Nella pratica della ricerca sociologica anche la più semplice descrizione viene effettuata in
riferimento ad un quadro teorico e gli stessi dati vengono aggregati o disaggregati in base a tale
quadro teorico.
Ad esempio, supponiamo di voler descrivere la stratificazione occupazionale dei genitori di un
campione di neo-laureati.
A questo livello molto semplice si aggregano insieme gli “impiegati” (cioè quelli che percepiscono
uno stipendio pubblico o privato), i “salariati” (operai generici, specializzati, etc.) e poi si
aggregano le tre dimensioni tradizionali dell’economia (agricoltura, industria e terziario); un’altra
opzione che può essere considerata è il prestigio dell’attività svolta.
La descrizione può essere definita come un insieme di “argomentazioni” (deduttive e induttive) che
mirano ad esplicitare reti di connessione tra fenomeni, quale base del loro intendimento.
Infatti se si esclude ogni connotazione metafisica del concetto di spiegazione (cioè l’idea secondo
cui spiegare equivale a individuare le essenze), la stessa spiegazione si pone come una struttura
logica, che implica delle leggi e delle condizioni empiriche, in presenza delle quali è possibile
inferire l’accadimento dell’evento che si intende spiegare.
Quindi non è sostenibile l’idea di Duhem (primi ‘900), secondo cui la teoria formulata da un fisico
per spiegare fenomeni sensibili, è costituita da due parti:
una rappresentativa, che mira alla classificazione delle leggi,
l’altra esplicativa, che mira a rilevare una realtà sottostante ai fenomeni.
E non è più condivisibile l’affermazione di Hobson, secondo il quale la scienza naturale descrive i
fenomeni in base a determinate regole ma che è del tutto incompetente a spiegare il perché tali
fenomeni avvengano.
Secondo Nagel è restrittivo credere che vi sia un solo senso corretto in cui si pongono le domande
in termini di “perché”.
Infatti esistono diversi usi (e tutti corretti) delle parole “perché” e “spiegazione”, e tali usi
ammettono la risposta ad una domanda (in termini di perché) come spiegazione.
In effetti è possibile formulare la domanda: “Perché in Giappone c’è un elevato tasso di suicidi?”
anche in termini modali e cioè: “Come accade che in Giappone vi sia un elevato tasso di suicidi?”
In questo caso, la risposta adeguata per entrambi i tipi di formulazione è quella che mostra come x
(elevato tasso di suicidi) si presenti in determinate condizioni, in conformità con una o più
proposizioni in forma di legge, le quali sono connesse a teorie più generali.
Nell’esempio del Giappone quindi una serie di proposizioni (connesse alla teoria generale
dell’anomia) potrà dar conto dell’explanandum, così come vuole il modello Popper-Hempel della
spiegazione scientifica.
Explanans: participio presente di explano. Illustrante
Explanandum: participio passato di explano. Illustrato.
Tale modello prevede che E sia l’evento che si intende spiegare, e che C1, C2, C3…Cn siano le
condizioni empiriche, in presenza delle quali si è verificato l’evento E.
Mentre L1, L2, L3…Ln sono le proposizioni generali in forma di legge.
La struttura esplicativa può essere schematizzata come segue:
C1, C2, C3…..Cn
L1, L2, L3…...Ln
-------------------------------E
(prima classe di enunciati)
(seconda classe di enunciati)
In forma ulteriormente semplificata si avrà:
C
L
------E
(explanans)
(explanandum)
Questo modello è detto “nomologico-inferenziale”, in quanto fondato essenzialmente su inferenze
di leggi e assume una connotazione propriamente deduttiva nelle scienze fisico-naturali, mentre
nelle scienze sociali l’inferenza risulta più tenue.
Successivamente Hempel e Oppenheim esemplificarono il modello, facendo riferimento al
fenomeno che si registra quando si immerge un termometro a mercurio, in acqua calda.
In un primo momento si abbassa il livello del mercurio nella colonnina e in un secondo momento
tale livello si alza rapidamente.
Questo fenomeno può essere spiegato tramite operazioni da cui si dedurrà il fenomeno, il quale
viene indicato da un insieme di leggi e in presenza di certe condizioni empiriche.
Si avranno quindi due classi di enunciati, che esprimono rispettivamente una serie di condizioni
empiriche e una o più leggi scientifiche.
Più dettagliatamente, nella prima classe figureranno i seguenti enunciati:
C1 = C’era un termometro, consistente in un tubo di vetro, parzialmente riempito di mercurio.
C2 = Il termometro veniva immerso in acqua calda.
C3….Cn = Ulteriori specificazioni sulle condizioni in cui si realizza l’evento in considerazione, con
le relative determinazioni spazio-temporali.
Nella seconda classe vi saranno i seguenti enunciati:
L1 = Legge dell’espansione termica del mercurio.
L2 = Legge dell’espansione termica del vetro.
L3….Ln = Enunciati descrittivi e/o esplicativi sulla scarsa conducibilità termica del vetro.
Quindi nella prima classe, come abbiamo visto, figurano le condizioni che hanno reso possibile
l’evento, nelle seconda classe figurano le leggi generali in base alle quali l’evento è avvenuto.
Quindi la domanda “Perché avviene il fenomeno?” equivale alla domanda “Secondo quali leggi
generali e in virtù di quali condizioni antecedenti avviene il fenomeno?”.
Secondo Hempel e Oppenheim anche un evento socio-economico (come quello che 1946: crollo del
prezzo del cotone, sui mercati americani) può essere spiegato attraverso questo modello.
Prima classe di enunciati (condizioni empiriche):
C1 = A New Orleans c’era un grosso produttore di cotone, che aveva ampie riserve di cotone.
C2 = Egli, temendo che tali riserve fossero troppo ampie, cominciò a liquidarne una grande parte.
C3….Cn = Ulteriori specificazioni sul panico che colse i piccoli produttori, sui modi in cui
avvennero le contrattazioni, sulla chiusura del mercati di New Orleans, New York e Chicago.
Seconda classe di enunciati (leggi sociologiche, economiche e psicologiche):
L1 = Leggi economiche della domanda e dell’offerta.
L2 = Leggi socio-psicologiche dell’imitazione di un leader economico.
L3…Ln = Moventi che riproducono il panico, la tendenza dei mercati a chiudere i battenti a causa
di congiunture economiche sfavorevoli.
( Il modello nomologico-inferenziale in sociologia )
Il crollo dei prezzi e la chiusura dei mercati nel ’46, non sono deducibili dalla legge della domanda
e dell’offerta, né tantomeno dalla legge dell’imitazione dei leaders economici.
Quindi il modello nomologico-inferenziale in questo caso specifico non è applicabile, perché tale
modello consente la spiegazione dell’evento (e la previsione che lo stesso possa accadere),
attraverso un corpus di dati empirici e di teorie.
Invece la legge della domanda e dell’offerta e quella dell’imitazione dei leaders economici non
presentano quel carattere universale, tipico delle leggi fisiche.
Entrambe le leggi infatti presentano un carattere probabilistico, cioè l’evento in presenza di tali
condizioni empiriche, si è verificato ma poteva anche non verificarsi.
La legge “Il ghiaccio galleggia” è spiegabile attraverso leggi generali (ad esempio la legge che
asserisce che la densità del ghiaccio è minore rispetto a quella dell’acqua; oppure la legge di
Archimede, secondo cui un corpo immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l’alto,
pari al peso del volume di liquido spostato; etc); quindi affinché una legge venga spiegata è
necessario ricorrere ad un corpus di proposizioni a più elevato livello di generalità.
Stabilire che una legge non è esplicativa se non viene spiegata, è irragionevole, in quanto spiegare
una legge vuol dire che essa è deducibile da leggi di vasta portata, a loro volta spiegate da leggi
fondamentali, e così via.
Di conseguenza se la conoscenza scientifica dispone di leggi, queste saranno leggi di tipo
probabilistico, cioè che esprimono una “tendenza” senza fare riferimento a determinazioni
numeriche.
Alla luce di quanto detto, nella spiegazione sociologica, il modello nomologico-inferenziale è
utilizzabile solo in forma debole, cioè l’inferenza sarà di tipo induttivo e non deduttivo.
L’idea che l’induttivismo sia una posizione debole dal punto di vista logico, la si deve a Popper,
massimo sostenitore del deduttivismo.
Egli afferma che il problema dell’induzione può essere formulato anche come problema del modo
in cui stabilire la verità delle asserzioni universale, basate sull’esperienza.
E a questo proposito infatti afferma che molti studiosi credono che la verità di queste asserzioni
universali sia nota per esperienza, ma a parere suo il resoconto di un’esperienza (cioè di
un’osservazione o del risultato di un esperimento) è solo un’asserzione singolare e non universale.
Di conseguenza chi dice che conosciamo la verità di un’asserzione universale per mezzo
dell’esperienza intende dire che la verità di tale asserzione può essere ricondotta in qualche modo
alla verità di asserzioni singolari e che la verità di queste ultime è nota per esperienza.
Vediamo ora come si articola la spiegazione del tasso elevato di suicidi in Giappone.
Prima classe di enunciati:
C1 = Si dà in Giappone un impetuoso processo di sviluppo.
C2 = In Giappone i modelli culturali tradizionali sono entrati in crisi.
C3 = Di conseguenza alcuni individui non hanno più adeguati modelli di riferimento.
C4…Cn = Ulteriori specificazioni sulle condizioni socio-economiche e culturali della società
giapponese contemporanea.
Seconda classe di enunciati:
L1 = Legge che enuncia la frequente connessione fra periodi di boom economico e aumento
del tasso suicidogeno.
L2 = Legge che enuncia cambiamenti culturali e conseguenti incertezze nei valori dominanti, a
causa di una rapida evoluzione sociale.
L3…Ln = Ulteriori specificazioni per descrivere la situazione di anomia (divario fra mete culturali
E mezzi per raggiungerle, mancanza di punti di riferimento stabili, incertezza nei modelli
comportamentali individuali, ulteriori proposizioni che enunciano il “probabile aumento di suicidi”
in relazione ad una situazione economica.
Le due classi di enunciati C ed L implicano la conseguenza che nella società giapponese
contemporanea si riscontri un tasso elevato di suicidi.
L’implicazione però si presenta debole per due motivi:
La classe di enunciati L potrebbe essere applicata perfettamente ad altri Paesi (ad es: in Corea del
Sud si sono riscontrate le stesse condizioni economiche e tuttavia essa non ha presentato un tasso
suicidogeno elevato).
L’elevato tasso di suicidi in Ungheria, negli anni ’70, non è spiegabile con le deu classi di enunciati
utilizzate nella società giapponese.
Questi motivi confermano essenzialmente che:
le leggi sociologiche sono di tipo probabilistico,
anche le teorie generali possono spiegare adeguatamente solo alcuni fenomeni.
Ciò rafforza l’idea di Nagel, Dewey ed Hempel, secondo i quali la portata esplicativa e descrittiva
della sociologia è modesta, perché la disciplina si trova ancora in una fase pre-teorica, o per dirla
con le parole di Kuhn “in una fase di scuole”.
( L’individualismo metodologico )
Fra i massimi fautori dell’applicabilità del modello nomologico-inferenziale alle scienze sociali, vi
sono alcuni studiosi che sostengono la tesi dell’individualismo metodologico.
Secondo tale tesi, gli eventi sociali vanno descritti e spiegati attraverso gli atteggiamenti degli
individui, le loro aspettative e le loro motivazioni.
Lo stesso Popper sostiene che l’individualismo metodologico rappresenti un “postulato”, cioè una
verità fondamentale che non necessita di dimostrazione.
Altri studiosi che aderiscono a questa corrente sono: Alfred Schutz e Friedrick Von Hayek.
Quest’ultimo sostiene che la società, così come noi la conosciamo, non è altro che l’effetto di
concetti e idee posseduti dagli uomini che la compongono.
Infatti per Von Hayek, i tipi di azione intenzionale costituiscono un “dato” attraverso il quale è
possibile “scoprire” i principi strutturali dei fenomeni complessi; principi che non possono essere
colti attraverso l’osservazione diretta.
L’individualismo di Popper ha poco in comune con quello di Schytz e Von Hayek.
Infatti Popper, nello stesso saggio in cui afferma che l’individualismo metodologico è un postulato
della sociologia, scrive che nelle scienze sociali noi non possiamo osservare i nostri oggetti se prima
non ce ne facciamo un’idea precisa; infatti la maggior parte degli oggetti delle scienze sociali sono
oggetti astratti, cioè costrutti teorici.
Ad esempio, i concetti di “guerra” e “esercito” sono dei costrutti teorici, che acquistano un senso
solo se li relazioniamo ai caduti e agli uomini in uniforme.
Quindi questi costrutti teorici derivano dalla costruzione di determinati modelli per spiegare
determinate esperienze.
Altro sostenitore dell’individualismo metodologico è Raymond Boudon, il quale afferma che ci
sono due grandi tradizioni sociologiche:
Quella di Durkheim, che dichiara di essere interessato alle strutture sociali e non agli individui, e
quindi stabilisce delle relazioni globali (es: crisi economica e tasso suicidogeno).
Quella di Weber, che afferma che un fenomeno sociale è sempre il risultato di azioni individuali.
Boudon aderisce alla tradizione weberiana e infatti afferma che sul piano metodologico, spiegare un
fenomeno sociale equivale a spiegare le azioni individuali.
Circa il Verstehen (che per Weber rappresentava una via di accesso privilegiata alla conoscenza
sociologica), egli afferma che esso non è un medito caratteristico delle scienze sociali, in quanto
rappresenta semplicemente una fase, quindi da solo non è mai sufficiente per spiegare un fenomeno.
Consideriamo ora un altro evento in relazione al modello nomologico-inferenziale: il prevalente
orientamento dei ceti medi verso i partiti di sinistra, nella metà degli anni ’70.
Al sociologo tocca mostrare che tale evento è accaduto in conformità con quanto enunciato nella
classe L, essendo note le condizioni empiriche del momento enunciate nella classe C.
Schematicamente si avrà:
C1 = Nell’Italia degli anni ‘74/’76 si registrava una crisi economica.
C2 = Negli stessi anni si registrava una crisi socio-politica.
C3 = Nel ’75 e ’76 si svolgevano importanti consultazioni elettorali.
C4…Cn = Ulteriori specificazioni sulle condizioni in cui si svolgevano tali consultazioni.
L1 = L’appartenenza ai ceti medi, in Italia, normalmente veniva associata ad un comportamento
elettorale, favorevole ai partiti di sinistra (riformisti).
L’evento E non è inferibile da L, in presenza di C1, C2, C3, C4…Cn, perché la classe L non è
congruente con la classe C e quindi la classe L non può essere introdotta nella struttura esplicativa
(explanans).
Si tratta allora di vedere se esistono leggi L che possono essere congruenti con le particolari
condizioni di crisi economica, sociale e politica, mediante le quali il fenomeno si è verificato.
Ad esempio, si può ricorrere ad una connessione fra “crisi economica” e “tensione politica”, ma tale
connessione spiega in termini molto generali il comportamento dei ceti medi negli anni ’75 e ’76.
In questo caso si avrebbe:
C1, C2, C3, C4…Cn = Enunciati descrittivi delle condizioni empiriche, prima e durante i periodi
elettorali.
L1 = In periodi di crisi economica e politica, l’elettorato tende ad accostarsi ai partiti
dell’opposizione.
E  L’elettorato, nel ’75 e ’76, premiò la principale forza politica dell’opposizione.
La spiegazione ipotizzata però è scarsamente soddisfacente, perché come spesso accade per i
fenomeni sociali nuovi, è difficile che possano darsi delle leggi già determinate e quadri teorici in
cui inserire il fenomeno per darne una spiegazione soddisfacente.
Tuttavia il fenomeno può considerarsi spiegato, in quanto sono state individuate le variabili che
hanno concorso a determinarlo, consentendo così di inquadrarlo all’interno di una ipotesi teorica.
In questo modo, possiamo dire che l’instabilità politica, la crisi economica e il dilagare degli
scandali, possano aver favorito il comportamento del ceto medio, sia per il desiderio di
rinnovamento sia per l’incapacità della leadership al potere di fronteggiare la crisi, sia per
l’immagine rassicurante offerta dal PCI di Berlinguer.
( Spiegazioni causali )
L’idea che spiegare equivale a dedurre leggi e teorie è un’idea piuttosto remota, ma lo è ancora di
più l’idea che spiegare scientificamente un evento significhi individuarne la causa o le cause.
Questa idea è talmente consolidata che spesso si tende a misurare la scientificità della disciplina in
base alla sua capacità di istituire dei precisi nessi causali.
Oggi, con l’evoluzione del concetto di causa, non è più possibile considerare una spiegazione
individuando la causa di un evento.
Ad esempio, chi spiega il dilagare della tossicodipendenza nell’Italia meridionale, imputandone la
causa prevalentemente alla disoccupazione giovanile, sottindente a sua volta generalizzazioni
empiriche in forma probabilistica, connesse alla teoria della devianza.
Inoltre per connessione causale si intende più di una successione di eventi, infatti solitamente si dice
che x è causa di y solo se ci sono elementi tali da ritenere che x è condizione sufficiente perché si
abbia y.
Arthur Pap dice: “Supponiamo che 5 uomini siano affetti da una malattia rarissima e che essi siano
stati convinti da uno stregone a ingerire un’erba molto rara.
Supponiamo che tale erba abbia prodotto effetti positivi nel giro di mezz’ora.
Può tale regolarità di successione essere equivalente ad una successione causale?
La risposta è no, perché 5 casi non sono sufficienti a legittimare un rapporto di causa/effetto; inoltre
è tutto da verificare il fatto che non sia intervenuto qualche altro fattore fra x e y (ad esempio: i
malati potrebbero aver evitato l’esposizione al sole, oppure durante la malattia potrebbero aver
bevuto solo acqua purificata, etc).
Quindi non si può affermare che una connessione causale equivale all’enunciato “x è
invariabilmente seguito da y”; inoltre nulla può escludere che y non si verifichi anche in presenza di
x. Questo ostacolo di solito viene superato col dire che “x è causa di y, se x è seguita da y
ogniqualvolta le circostanze siano perfettamente identiche”.
Ma il guaio è che le circostanze (come sostiene Pap) non sono mai identiche ma semmai simili tra
loro.
Una volta che lo scienziato si è fatto un’idea di quali siano le circostanze che devono accompagnare
x affinché y sia prevedibile, egli non ha più bisogno di usare il linguaggio causale perché può
direttamente sostenere la proposizione che “ogni volta che x compare in presenza di C1, C2, C3.....
Cn, x è seguito da y.
( La spiegazione come riconoscimento )
Secondo Bridgamn la spiegazione come riconoscimento deve mirare ad una riduzione in termini
familiari. In quest’ottica la spiegazione cinsiste nell’analizzare complicati sistemi entro sistemi più
semplici, in modo tale da riconoscere nel sistema, il gioco reciproco degli elementi.
Questa concezione risale ad Aristotele ma la scienza occidentale si è sviluppata lungo una linea
opposta
Ad esempio, Nagel ritiene che le spiegazioni possano essere soddisfacenti anche quando non si
effettua una riduzione in termini familiari, del non-familiare.
Infatti aggiunge che se la spiegazione dovesse consistere nella riduzione dei fenomeni poco
conosciuti in termini di elementi familiari, non avrebbe senso la forza esplicativa di ogni argomento
fondato su proposizioni teoriche.
Inoltre la comunità scientifica attribuisce spesso un ruolo fondamentale all’analogia con modelli e
teorie familiari: ad esempio, il sociologo Spencer istituì un parallelismo fra l’evoluzione dei sistemi
sociali e la biologia evoluzionistica.
Secondo Kaplan, la familiarità aiuta a vedere una spiegazione, ma non è necessaria per trovarne
una.
La familiarità inoltre è fondamentale per la spiegazione semantica (cioè che riguarda il significato
di una parola), ma può essere secondaria per quanto riguarda la spiegazione scientifica, il cui scopo
primario non è quello di dar conto del significato di una parola ma di un intero fenomeno.
Ecco perché, sempre secondo Kaplan, vanno tenute separate la spiegazione semantica da quella
scientifica. In altra parole, il modo per evitare equivoci è chiarire che l’attributo delle familiarità va
riferito alla comprensione e non alla spiegazione.
A proposito della spiegazione, Kaplan introduce il concetto di “pattern-model” (campione o
modello), il quale permette di spiegare qualcosa quando questo qualcosa lo si è collegato ad una
serie di elementi, in modo tale da costituire un sistema unitario.
In altre parole, comprendiamo qualcosa quando esso viene identificato come parte specifica di un
tutto organizzato.
In questo caso si tratta del “riconoscimento” di una struttura in quanto sistema organizzato: esso
rappresenta il primo approccio ad una situazione problematica, dove il ricorso al pattern-model fa sì
che la situazione problematica venga tradotta in problema vero e proprio.
( Spiegazione e “scoperta” )
Tradizionalmente per “scoperta” si intende la scoperta di leggi di natura, assunte come date.
Oggi questo modello è superato sia nelle scienze naturali che in quelle sociali, infatti per scoperta si
può intendere (facendo riferimento a Popper) una libera creazione dell’intelletto, che è la teoria
scientifica. Da qui la distinzione classica tra “contesto della scoperta” e “contesto della
giustificazione” (o validazione).
Rudner precisa che al contesto della scoperta appartengono diverse questioni: il modo in cui si
arriva ad ipotesi interessanti; quali condizioni sociali, psicologiche, politiche e/o economiche hanno
favorito tale ipotesi.
Il contesto dela giustificazione è quello in cui trascuriamo il modo in cui si perviene alla scoperta e
valorizziamo invece il problema della sua accettazione o del suo rifiuto.
Considerando la distinzione di Rudner, è difficile sottrarsi all’impressione che possa essere proprio
il rigetto di una teoria (nel contesto della giustificazione) a dirci del modo in cui si è pervenuti ad
ipotesi interessanti nel contesto della scoperta, così come non si può escludere che il contesto della
scoperta influisca sull’accettazione di una teoria.
Infatti, secondo Popper, c’è un nesso fra la scoperta e la giustificazione, in quanto ogni teoria va
sottoposta a controllo sistematici e proprio da tali controlli può nascere una nuova idea scientifica.
Molti studiosi ritengono discutibile il fatto che siano proprio i controlli sistematici a creare una
nuova idea, ma accettano invece l’intreccio tra la scoperta e la giustificazione; infatti non si dà
spiegazione scientifica soddisfacente se la teoria che la sottende non è in qualche modo giustificata
(controllata).
( La ricostruzione storico-genetica)  ricostruire attraverso una successione cronologica
In alternativa al modello nomologico-inferenziale, alcuni studiosi propongono la ricostruzione
storico-genetica per spiegare gli eventi.
Prendiamo come esempio la rivoluzione cubana.
Un evento simile può interessare il sociologo quanto lo storico, solo che il primo procederà
considerando gli eventi che hanno preceduto la presa del potere da parte di Fidel Castro, quindi
costruirà una struttura esplicativa, enunciando una classe C piuttosto ampia (condizioni empiriche
che hanno portato alla rivoluzione) ed una classe L di tipo psico-sociale (proposizioni teoriche in
forma di legge): lo Stato e la disposizione delle masse e più in generale la teoria dei movimenti
collettivi.
Lo storico invece porrà maggiore enfasi alle condizioni empiriche precedenti e in qualche modo
collegate all’evento in questione.
La struttura nomologico-inferenziale sarà più complessa invece quando gli eventi, precedenti alla
rivoluzione, dovranno essere ricostruiti attraverso una successione cronologica.
Come esempio poniamo il distacco dei comunisti dal partito Socialista Italiano, avvenuto a Livorno
nel 1921. in questo caso, per ricostruire l’evento è necessario ricostruire le origini e gli sviluppi del
movimento operaio in Italia, in relazione alle condizioni socio-economiche e politiche.
Quindi si elencheranno numerosi eventi antecedenti: fondazione del Psi attraverso i conflitti sociali
di fine ‘700; ripercussioni della rivoluzione di Ottobre; rapporti tra Lenin e le varie frazioni del
socialismo italiano; fino ad arrivare agli eventi direttamente legati alle scissioni di Livorno (come il
congresso di Bologna del 1919 e l’ultimatum del Comintern al Psi).
Gli eventi antecedenti menzionati, vengono visti come condizioni indispensabili per la ricostruzione
della struttura esplicativa.
In termini formali avremo due classi di enunciati:
C = condizioni empiriche
G = proposizioni generali in forma di legge probabilistica.
La classe C sarà a sua volta composta da due sottoclassi:
C1  proposizioni che affermano l’accadere di certi eventi, spiegabili attraverso C e G (rivoluzione
bolscevica e sue ripercussioni in Italia; Lenin nei suoi rapporti col socialismo italiano; ultimatum
del Comintern, etc.)
C2  proposizioni che affermano l’accadimento di quegli eventi che costituiscono le condizioni
iniziali del processo, su cui costruire la struttura esplicativa.
Si può concludere che la spiegazione storico-genetica (sia che riguardi un’azione individuale sia che
riguardi un’azione collettiva) si configura come una sequenza concatenata di spiegazioni
nomologico-inferenziali di tipo probabilistico, in cui le condizioni empiriche sono disposte
cronologicamente.
Ma la ricostruzione storico-genetica della struttura esplicativa non sempre è possibile, pena un
regresso all’infinito.
Infatti la comunità scientifica mira alla “familiarità” con alcune leggi generali, per evitare di
ripercorrere cronologicamente la genesi della struttura esplicativa.
Capitolo settimo
“ IL FUNZIONALISMO E LA SPIEGAZIONE FUNZIONALE “
( Il paradigma funzionalistico )
Nel funzionalismo la società è concepita come un insieme di parti interconnesse tra di loro (
principio di interdipendenza). Nessuna di esse, quindi, può essere compresa isolata dalle altre, ma
solamente nel suo contesto. Le relazioni che intercorrono tra le parti della società sono di tipo
funzionale, ovvero ogni elemento svolge una particolare compito (o funzione) che, unito a tutti gli
altri, concorre a creare e mantenere funzionante quell'apparato che noi chiamiamo società. Esiste
infatti, per il funzionalismo, uno stato di equilibrio nella società (principio di autoregolazione), che
si ha quando ogni parte svolge correttamente il proprio compito. Per questo motivo possiamo
affermare che il funzionalismo è basato sul modello del sistema organico che troviamo nelle scienze
biologiche.
I funzionalisti propongono un paradigma alternativo rispetto al modello nomologico-inferenziale,
un paradigma che guarda al mondo in termini di sistema funzionalmente articolato e questa è una
visione che permette di elaborare modelli e spiegazioni alternativi.
( Il concetto di funzione )
Merton ha cercato di mettere ordine nella metodologia del funzionalismo, cominciando col
determinare il concetto di “funzione”. Egli prende in considerazione i vari usi del termine e ne
sottolinea 5:
come celebrazione o pubblico raduno
come equivalente a occupazione
come denotazione dell’attività di chi è stato investito di una carica pubblica
come regolazione fra due classi di elementi, tale che per ogni elemento di una classe vi sia un
elemento determinato dall’altra classe ( nesso di covarianza)
come funzione riferita ai processi vitali, i quali concorrono al mantenimento del sistema.
Altri studiosi, come Nagel e Martingale, imitano Merton cercando di individuare i possibili
significati del concetto di funzione. Martingale ne individua 3:
funzione come attività utile, cioè finalizzata al raggiungimento di un fine o al soddisfacimento di
un’esigenza
come attività appropriata, sia per raggiungere uno scopo che per soddisfare un’esigenza
come attività determinata dal sistema, che tende al mantenimento del sistema stesso.
Secondo Martingale, ci si muove all’interno di un particolare sistema teorico quando il concetto di
funzione viene utilizzato come attività appropriata e come attività determinata dal sistema.
Anche Nagel, nonostante non fosse un estimatore del paradigma funzionale, individuò 5 significati
(oltre quello matematico) del concetto di funzione, prendendo spunto dai testi di Malinowski,
Radcliffe-Brown, Parsons e Merton stesso.
(Ad esempio, Radcliffe-Brown afferma che la vita sociale della comunità rappresenta il
funzionamento della struttura sociale. Il riferimento quindi è ad una serie di processi sociali,
indipendentemente dagli effetti che loro hanno sul sistema).
Nagel nota che questo è lo stesso ragionamento fatto dai biologi per indicare i processi che
avvengono nel funzionamento dello stomaco (secrezione, contrazione e assorbimento).
Quindi nota che fin qui non c’è nulla di nuovo o di originale, anzi ritiene che l’analisi funzionale
non sia adatta a studiare le cose umane, in quanto tale procedimento poggia su un’analisi descrittiva
anziché esplicativa.
Anche Malinoswki sottolinea la natura essenzialmente descrittiva dell’approccio funzionalista, ma
nel farlo non si riferisce al funzionamento dei sistemi culturali e dei loro elementi, ma all’utilità che
tali elementi presentano.
In un passo de “La teoria scientifica della cultura”, egli afferma che attraverso la funzione che
l’analisi funzionale della cultura mira alla spiegazione dei fatti antropologici, attraverso la funzione
che essi svolgono nel sistema culturale.
In questo e in altri passi, Nagel individua 3 diversi usi del concetto di funzione:
come utilità per raggiungere certi scopi
funzione che indica le conseguenze di un processo sul sistema o su alcune parti di esso
funzione che denota il contributo di un elemento nel mantenimento del sistema.
Un quarto uso, meno esplicito, rimanda a quello di funzione come attributo che definisce un
organismo (questa a grandi linee è anche la tipologia enunciata da Nagel).
Da ciò emerge che Malinowski (e anche Radcliffe-Brown) pone le spiegazioni funzionali come
valutazione del sistema e come spiegazione globale, cioè che comprende tutti i possibili significati
dati al concetto di funzione.
Circa le “funzioni vitali” menzionate dal Malinowski ci sarebbe molto da discutere.
Ad esempio, dire che la magia è un attributo che definisce una cultura primitiva e poi spiegare che
la funzione della magia è quella di mantenere in vita una cultura primitiva, è una tautologia (
ripetere lo stesso concetto con parole diverse).
Ciò può essere giustificato solo se la forma tautologica viene considerata come descrizione accurata
del sistema culturale in esame.
Ma per spiegare la magia e la sua indispensabile funzione all’interno di una cultura, ci vuole di più:
è necessario infatti determinare le condizioni della cultura, per vedere se è la magia a definire la
cultura stessa, o se la cultura si è definita indipendentemente dalla magia.
Il problema dell’analisi funzionale sta nell’individuare certe condizioni empiriche, grazie alle quali
si possa effettivamente parlare di autoregolazione del sistema sociale.
( La spiegazione funzionale )
Una spiegazione funzionale per essere logicamente corretta, deve soddisfare 4 condizioni:
deve disporre di una proposizione teorica generale di autoregolazione
deve stabilire quali conseguenze si avrebbero nel sistema nel caso in cui venisse a mancare
l’elemento da spiegare
deve descrivere con precisione (cioè in termini empirici) il contributo di tale elemento, sul
funzionamento del sistema
deve escludere la possibilità di alternative funzionali.
Volendo spiegare l’elemento e, in un sistema S, in un tempo t, la spiegazione funzionale nella
struttura esplicativa sarebbe la seguente:
In t, S funziona adeguatamente in un assetto di tipo c, caratterizzato da certe condizioni empiriche.
S funziona adeguatamente in un assetto di tipo c, solo se viene soddisfatta la condizione n.
Solo se l’elemento e, è presente in S, la condizione n è soddisfatta.
In t è presente in S l’elemento e
Facciamo un esempio.
Nella società americana contemporanea il piccolo gruppo funziona adeguatamente.
Il piccolo gruppo funziona adeguatamente nella società americana contemporanea solo se viene
soddisfatto il requisito della coesione interna al gruppo stesso.
Solo se nel piccolo gruppo nella società americana viè una leadership riconosciuta, si ha la coesione
interna.
Nel piccolo gruppo, nella società americana contemporanea, è presente una leadership.
Come fa notare Hempel la validità del punto d, è condizionata dalla connotazione restrittiva “solo”
del punto c, infatti se si esclude il termine “solo” dalla c, la struttura sarà così:
In t, S funziona adeguatamente in un assetto di tipo c.
S funziona adeguatamente in un assetto di tipo c solo se è soddisfatta la condizione necessaria n.
Un elemento della classe e soddisfa la condizione n.
d) In t è presente in S un elemento della classe E.
Facciamo un esempio.
Nella società americana contemporanea il piccolo gruppo funziona adeguatamente.
Il piccolo gruppo funziona adeguatamente nella società americana contemporanea solo se è
soddisfatta la condizione che in esso vi sia un certo tipo di coesione.
Un elemento della classe e produce la coesione di gruppo
Nel piccolo gruppo nella società americana contemporanea è presente un elemento della classe E.
In quest’ultimo caso (es:2), cioè quando non siamo in grado di inserire nella struttura una
proposizione che riguarda l’indispensabilità funzionale di un certo elemento, la portata esplicativa
dell’analisi funzionale è piuttosto limitata.
Ad es: l’attribuzione dell’indispensabilità funzionale all’elemento religione, quale mezzo di
controllo della condotta umana e quale mezzo di integrazione in base a valori condivisi, non è
empiricamente sostenibile perché vi possono essere altri elementi al di là della religione che
permettono l’integrazione ( l’ideologia, il prestigio nazionale, etc.).
Merton, ad es, dimostra che la stessa funzione può essere assolta da diversi elementi alternativi.
Egli in primo luogo respinge il “postulato dell’indispensabilità dell’elemento funzionale”,
proponendo il teorema fondamentale dell’analisi funzionale: “Proprio come lo stesso elemento può
avere molteplici funzioni, così la stessa funzione può essere assolta da vari elementi alternativi”.
Merton sostiene che la rimozione del postulato dell’indispensabilità dell’elemento (con quello
dell’indispensabilità della funzione), tolga la possibilità di dare spiegazioni attraverso lo schema 1.
Inoltre il fatto che un certo elemento sia o meni indispensabile al funzionamento del sistema, non
deve intendersi come un postulato indimostrabile, ma come interrogativo a cui rispondere caso per
caso, in base alla raccolta di un vasto materiale empirico.
Secondo Merton il concetto di “requisito funzionale del sistema” è piuttosto debole dal punto di
vista empirico, così tenta di individuare tipi di requisiti funzionali (universali e specifici), in
rapporto ai vari sistemi.
A questo proposito, secondo Nagel, la prima cosa da fare è determinare la lista completa degli
elementi e dei processi esibiti dal sistema; poi attribuire ad un certo numero di elementi uno status
di funzione vitale, simile a quello degli organismi biologici; infine per classificare gli elementi
universali e quelli specifici si dovranno determinare le relazioni intercorrenti fra gli elementi
individuati e il sistema.
Anche se l’analisi di Nagel è rigorosa, essa si presenta assai limitata per il fatto che i requisiti
funzionali devono essere determinati con lo stesso rigore, utilizzato in biologia.
Talcott Parsons definisce dei “pre-requisiti” molto generali, validi per ogni tipo di sistema e in ogni
tempo. Il primo pre-requisito che egli indica, implica una commistione di elementi biologici e
psicologici, infatti sostiene che “Un sistema sociale non può essere strutturato in modo tale da
essere incompatibile con il funzionamento dei soggetti che lo compongono, sia dal punto di vista
biologico che da quello della personalità; e ancora….il sistema non può essere incompatibile con le
condizioni che permettono l’integrazione.
Da tale enunciazione, Merton fa riferimento all’integrazione e alle possibili situazioni di anomia,
prodotte dallo scarto fra mete culturali e mezzi per raggiungerle.
Egli così individua particolari situazioni anomiche nel sistema socio-culturale americano degli anni
’50, formulando anche una tipologia del comportamento deviante.
Tuttavia afferma che, pur presentando situazione anomiche, il sistema americano continua a
funzionare perché c’è un grosso numero di soggetti che risultano perfettamente integrati e quindi si
astengono dal porre in atto comportamenti devianti.
Sia che l’evento si spieghi in termini causali che in termini funzionali, è necessario ricostruire la
storia del sistema, gli antecedenti dell’evento e gli eventi ad esso collegati.
Ad esempio: la spiegazione funzionale dell’ascesa di un nuovo leader all’interno di un piccolo
gruppo, richiederà la descrizione delle condizioni antecedenti, la ricostruzione della storia di
gruppo, le ragioni per cui il leader precedente è stato destituito, la sub-cultura del gruppo, il fatto
che il nuovo leader abbia rafforzato o no la coesione interna, etc.
( I postulati del funzionalismo )
Postulato dell’unità funzionale (le attività sociali standardizzate o gli eventi culturali sono
funzionali all’intero sistema).
Postulato del funzionalismo universale (ogni elemento socio-culturale ha una funzione positiva in
rapporto al sistema).
Postulato dell’indispensabilità funzionale dell’elemento (gli elementi sono indispensabili).
Questi postulati non sono stati formulati esplicitamente ma sono impliciti in alcuni passi del
Malinowski, di Ridcliffe-Brown e di Kluckhon, e muovono dall’assunto dell’autoregolazione del
sistema, in quanto condizione necessaria.
Il postulato del funzionalismo universale può essere dimesso abbastanza tranquillamente, sia perché
Merton lo evince da un passo del Malinowski, sia perché è prematuro affermare che ogni elemento
debba essere funzionale, solo perché all’interno del sistema ha delle funzioni.
Circa il postulato dell’unità funzionale (che si riferisce all’autoregolazione), le questioni che si
pongono sono molto più complesse.
Secondo Merton, tale postulato si evince da un passo di Radcliffe-Brown ed è il seguente: “La
funzione di una consuetudine sociale sta nel contributo che essa porta al funzionamento del sistema
sociale. Tale concezione implica che il sistema sociale abbia un certo tipo di unità fondamentale,
cioè una condizione in cui tutte le parti del sistema cooperano in armonia per il funzionamento del
sistema stesso”.
Il presupposto enunciato dal Malinowski è in stretta armonia con quello di Radcliffe-Brown, infatti
afferma che i vari elementi culturali svolgono una funzione positiva sia per il sistema (considerato
come un tutto), sia per i singoli individui che lo compongono.
Secondo Merton è piuttosto chiaro che in una società il grado di integrazione sia una variabile
empirica che cambia da periodo a periodo e da società a società.
Inoltre che tutte le società hanno un certo grado di integrazione è una definizione che diamo per
dimostrata, ma non è detto che tale integrazione sia funzionale alla stessa società, intesa come unità.
( Leggi e previsioni )
La struttura logica della previsione scientifica è la seguente: data una serie di leggi, coordinate a una
o più teorie, ipotizzando che si diano in futuro determinate condizioni empiriche, è possibile
prevedere l’accadere di un evento.
Formalmente la struttura predittiva sarà uguale a quella esplicativa, con la differenza che in
quest’ultima l’evento è già presente e deve essere spiegato, mentre nella prima l’evento deve
verificarsi.
Struttura esplicativa
Struttura predittiva
C1, C2, C3…..Cn
L1, L2, L3……Ln
________________
E
C1, C2, C3……Cn
L1, L2, L3……Ln
____________________
P
È bene ricordare che quando le leggi sono di tipo probabilistico, come in sociologia, la previsione è
un esercizio a rischio.
Le previsioni in termini funzionalistici hanno invece una buona probabilità di successo.
Ad esempio: che un piccolo gruppo non si disgreghi nel momento in cui il leader se ne allontana è
prevedibile, a meno che non vi sia un altro soggetto che assolva la funzione di leader.
Distinzione tra:
Previsione scientifica
Enunciato di previsione (o proposizione predittiva).
Nel primo caso, la struttura è identica a quella della spiegazione e si basa su proposizioni già
confermate, che implicano deduttivamente la proposizione sul futuro.
Nel secondo caso, si tratta di un’anticipazione priva di sistematicità, che si basa su proposizioni da
cui può derivare la proposizione sul futuro.
Capitolo ottavo
“ PARADIGMI E TEORIE SOCIOLOGICHE “
( Il concetto di paradigma )
L’introduzione del concetto di “paradigma” nel campo dell’epistemologia contemporanea si deve a
Thomas Kuhn (nel 1962).
Ciò segnò una vera e propria rivoluzione rispetto alla concezione neopositivista della scienza, anche
se a dire il vero l’obiettivo di Kuhn era quello di superare la visione di Popper, il quale col suo
“principio di falsificabilità” nega l’idea della verificazione delle teorie, avanzando invece la
falsificazione delle stesse. Ciò significa che Popper concepisce la teoria come un costrutto
provvisorio, da sottoporre a critica costante.
Kuhn distingue tra “scienza normale” e “rivoluzione scientifica”, dove la prima è quella fase in
cui predomina un paradigma, cioè viene largamente accettato dalla comunità scientifica; la seconda
invece è quella fase in cui il paradigma dominante viene messo in discussione o, per dirla con le
parole di Kuhn, viene sfidato da paradigmi alternativi.
Quest’ultima fase nasce con la consapevolezza che il paradigma largamente accettato non funziona
più, non è più sufficiente per analizzare una determinata area problematica.
Questa è anche una fase particolare, di aspri dibattiti, in quanto ciascun gruppo cerca di difendere il
proprio paradigma; per questo motivo quindi uno dei due gruppi dovrà convertirsi all’altro
paradigma, che è quello che Kuhn chiama “spostamento di paradigma”.
Questa situazione sembra adattarsi perfettamente a due paradigmi che a lungo si sono contesi il
campo delle scienze sociali: il conflittualismo-marxista e lo struttural-funzionalismo.
Nel primo caso si ha un permanente conflitto fra produttori e detentori del capitale e come soluzione
si ha il superamento delle classi.
Nel secondo caso si ha invece l’imborghesimento del proletariato e la crescente omologazioni degli
stili di vita, dei modelli di comportamento e delle aspirazioni;
di conseguenza nel primo caso si esalta la conflittualità, nel secondo caso l’integrazione.
Inoltre, nel conflittualismo, il diritto positivo è espressione della volontà repressiva della classe
dominante, mentre nello struttural-funzionalismo, tale diritto è funzionale all’ordine sociale.
( Il significato di “paradigma” )
Esso si configura come un insieme coordinato di postulati, di leggi universali e di teorie generali,
ovvero di un corpus di conoscenze, categorie e strumenti, accettati dalla comunità scientifica.
Nelle fasi di “scienza normale” è il paradigma a definire lo statuto scientifico di una disciplina,
invece nelle fasi di “rivoluzione scientifica” sono entrambi i paradigmi in competizione a garantire
tale scientificità.
Tuttavia la contrapposizione non si caratterizza come una netta demarcazione tra visioni del mondo
del tutto incompatibili, anzi è probabile che tra i due paradigmi vi siano dei punti di contatto.
E la letteratura scientifica lo dimostra.
Come esempio basta citare la fisica di Einstein e quella di Newton: quest’ultima rappresenta il
superamento della fisica einsteiniana ma allo stesso tempo mantiene rapporti di continuità.
Margaret Masterman individua, nell’opera di Kuhn, ben 21 significati del concetto di paradigma,
che poi riduce a 3.
Paradigma come visione del mondo (un sistema di regole).
Paradigma come consenso della comunità scientifica.
Paradigma come modello, costruzione.
( Paradigmi e consenso )
Secondo Kuhn un paradigma è “ciò che i membri di una comunità scientifica condividono e nello
stesso tempo una comunità scientifica è formata da individui che condividono lo stesso
paradigma”.
Kuhn è stato accusato di “sociologismo” (o irrazionalità) principalmente per due motivi.
per l’idea stessa di paradigma
per l’inaccettabilità logica di un criterio sociologico quale il “consenso”, inteso come criterio di
demarcazione.
Hempel, padre fondatore della logica della spiegazione scientifica, però scagiona Kuhn da ogni
accusa. Infatti afferma che “il comportamento scientifico, nel suo insieme, è il miglior esempio di
razionalità”. Non solo. Kuhn ascrive alle regole scientifiche la necessità della pubblicità e della
ripetitibilità delle procedure; la necessità di rigore logico in fase di concettualizzazione e di
operativizzazione dei concetti; infine la necessità della capacità predittiva.
Per quanto riguarda il fatto che Kuhn, a proposito della scelta tra teorie, si appelli a decisioni di
gruppo che non sono governate da regole procedurali, è bene notare che Duhem (nei primissimi
anni del ‘900) espresse posizioni simili.
Infatti provò, con argomenti del tutto logici, che l’esito di un esperimento scientifico non può
confutare un’assunzione teorica isolata ma semmai un insieme complessivo di assunzioni.
Ciò significa che se i dati sperimentali sono in contrasto con previsioni deducibili dall’insieme, si
dovrà cambiare qualcosa nella teoria complessiva e non tutta la teoria e fra l’altro non esistono
criteri logici che indicano cosa cambiare e cosa no.
Feyerabend invece non riscuote la stessa approvazione da Hempel, in quanto afferma che la scelta
fra due teorie dipende in ultima analisi solo da giudizi estetici, giudizi di gusto e dai nostri desideri
soggettivi. In realtà ciò che interessa a Feyerabend è sfatare il mito della Metodologia con la M
maiuscola, cioè la metodologia di quegli epistemologi che non sono mai entrati in un laboratorio,
che non hanno mai fatto i conti con la scelta degli indicatori empirici ( per cogliere le dimensioni
di un concetto).
Questi epistemologi, a detta di F., pretendono di enunciare leggi che non solo sono insufficienti al
funzionamento della scienza ma la incatenano in modo da arrestarne ogni sviluppo; e Feyerabend
(come del resto anche Kuhn) era interessato alla scoperta, all’innovazione.
( L’accettazione delle teorie )
Bloor ha creato le basi per una nuova epistemologia, quella post-empirista, enunciato i 4 principi
del cosiddetto “programma forte”.
Anche se di fatto nella nuova epistemologia vengono ripristinate l’idea di causalità e quella di
neutralità fra vero e falso, fra razionale e irrazionale.
In realtà, Bloor è interessato alle “credenze”, siano esse di natura scientifica, magica o religiosa.
A parere suo, infatti, più si attenua il peso dei criteri della razionalità, della ripetibilità e della
controllabilità delle procedure d’indagine come condizione del consenso, tanto meno le credenze
magiche sono distinguibili da quelle scientifiche.
E per sostenere questa tesi si appella ai 4 principi del programma forte, secondo cui la sociologia
della conoscenza scientifica si pone come:
1) causale, cioè interessata alle condizioni da cui nascono le credenze e le forme di conoscenza
2) imparziale rispetto al vero e al falso, alla razionalità e all’irrazionalità
3) simmetrica nel suo stile di spiegazione, in quanto stessi tipi di spiegazione dovranno spiegare
sia le credenze vere che quelle false
4) riflessiva, perché i suoi modelli di spiegazione dovranno essere applicati alla sociologia stessa.
A detta di molti studiosi, quella delineata da Bloor non è una via promettente perché non si tratta di
determinare criteri di consenso che si limitano ad un accordo temporaneo o ad uno scambio di
opinioni fra ricercatori; si tratta invece di determinare validi criteri per la formazione del consenso o
che dir si voglia per la piena accettazione di un paradigma o di una teoria ad elevato livello di
astrazione.
Si tratta anche di stabilire se vi sia una diversità tra i criteri di accettazione di un paradigma e quelli
di una teoria e questo problema richiede una specificazione dei due concetti: paradigma e teoria.
Secondo gli epistemologi contemporanei i due concetti sono interscambiabili e la stessa cosa
emerge a tratti nell’opera di Kuhn.
Ma di fatto, nella scienza vi sono diversi livelli di astrazione in cui si collocano le diverse teorie,
infatti una cosa è la teoria della classe agiata e un’altra è la teoria del conflitto.
Con questo si intende dire che alcune teorie presentano un così alto livello di astrazione che
possono essere considerate come veri e propri paradigmi.
Quindi nel campo scientifico non si accetta una teoria perché essa è vera ma perché è in grado di
spiegare in modo soddisfacente un’ampia gamma di regolarità empiriche o connessioni tra eventi,
etc E ancora: una teoria ad elevato livello di astrazione include teorie con un minore livello di
astrazione, leggi, regolarità empiriche, etc.
Teoria: essa è innanzitutto una prospettiva, un modo di guardare ai fenomeni ed in quanto sistema
di riferimento incorpora diversi gradi di complessità, che sono:
i costrutti, concetti
le ipotesi, relazioni tra costrutti
i modelli, sistemi di organizzazioni di ipotesi
le generalizzazioni, conclusioni estendibili dal fenomeno indagato alla classe di fenomeni a cui esso
appartiene, o anche ad una sotto-classe di esso.
Inoltre la teoria dirige le operazioni mentali e facilita la formulazione delle ipotesi.
NB: Le teorie non fanno parte del programma, servono solo per farsi un’idea.
La teoria della classe agiata: sostiene che la proprietà privata non risponde solo a necessità di
sussistenza, ma va interpretata come un segno di distinzione e di prestigio sociale che si aggiunge
alle qualità personali. Per questo la ricchezza non viene solo accumulata, ma mostrata in società
attraverso l'ostentazione di beni costosi; ciò porta anche ad un singolare gusto, per cui il valore
estetico di un oggetto è legato strettamente al suo costo economico. Questa deriva consumistica è
tipica in particolare della classe dei capitalisti che vivono di speculazione, senza produrre beni e
lucrando sul lavoro di altri. Ad essi Veblen contrappone gli industriali, i tecnici, gli ingegneri, tutti
coloro che producono beni effettivi che fanno evolvere la società. Il sociologo statunitense ritiene
che questi ultimi finiranno con il prevalere, e che la classe agiata improduttiva, con il suo istinto di
rapina, sia destinata a scomparire.
È stata elaborata da Veblen.
La teoria del conflitto: afferma che la stratificazione non è un fattore universale, se non inteso
come una naturale misura adottata dalle classi dominanti per mantenere lo status quo contro le
classi inferiori entrambe in un continuo conflitto. All’interno di questa teoria esistono due
prestigiose posizioni:
La posizione di Marx: Dato che la base delle classi si trova nei rapporti di produzione e nelle
relazioni di proprietà, la stratificazione si regola di conseguenza (chi detiene i mezzi di produzione e
chi no). Marx distingueva poi fra classe in sé e classe per sé. La prima indica un insieme di persone
che si trova nella stessa posizione rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione, la seconda è
quando questo gruppo di persone è cosciente della sua posizione condivisa, diventando così un
attore socio-economico di conflitto. L’unico modo per evitare questo è un elevato tasso di mobilità
sociale all’interno della società.
La posizione di Max Weber; A differenza di Marx, Weber non si soffermò sulla sola importanza
delle classi sociali, ma elaborò una teoria della stratificazione a più dimensioni. I principi
fondamentali di aggregazione di classi erano così l’economia, la cultura e la politica. Inoltre il
criterio principale non era la proprietà o meno dei mezzi di produzione, bensì la situazione dei
mercati: del lavoro (operai/imprenditori); del credito (debitori/creditori); delle merci
(consumatori/venditori).
C’è poi la distinzione delle classi in:
Classi possidenti positive: quelli che vivono di rendita;
Classi possidenti negative: i nullatenenti;
Classi acquisitive positive: gli imprenditori;
Classi acquisitive negative: i lavoratori.