Intrecci di Storie europee Molteplici prospettive su cinque momenti della Storia dell'Europa Versione inglese: Crossroads of European histories – Multiple outlooks on five key moments in the history of Europe Le opinioni espresse in quest’opera sono sotto le responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente gli orientamenti ufficiali del Consiglio d’Europa Le domande di riproduzione o di traduzione di tutto o parte del documento devono essere indirizzate alla Divisione dell’informazione pubblica e delle pubblicazioni, Direzione della comunicazione (F-67075 Strasbourg oppure [email protected]). Si sottolinea che la presente traduzione in lingua italiana del testo prodotto dal Consiglio d’Europa è una bozza non ufficiale elaborata esclusivamente per i fini didattici connessi alla diffusione del progetto del Consiglio d’Europa “Le date chiave della Storia d’Europa nel XX secolo”, ad uso delle Istituzioni Scolastiche aderenti al progetto stesso. La traduzione in lingua italiana è stata realizzata grazie alla collaborazione dei Dirigenti Scolatici e dei Docenti sottoelencati, ai quali vanno i più sentiti ringraziamenti della Direzione Generale per gli Affari Internazionali, Ufficio IV, per il prezioso contributo alla disseminazione nazionale delle attività del Consiglio d’Europa. Intrecci di Storie europee Molteplici prospettive su cinque momenti della Storia d'Europa Traduzione in lingua italiana a cura dei docenti: Patrizia Aratano - I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Gabriella Benzi - I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Marilena Caselli - I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Elisabeth Casteels (I.I.S.S. “D. Fioritto” di San Nicandro Garganico - Foggia Monica Crociani- I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Gabriella De Palma- I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Ivana Ferraro - I.T.C. “Cosentino” di Rende - Cosenza Maria Luisa Ghirardo - I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Luciana Guido - I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Andrea Manus - I.T.C.T.G. “S. Satta” di Macomer - Nuoro Cosimo Mercuri - I.T.C. “Cosentino” di Rende – Cosenza Giovanna Pira - I.T.C.T.G. “S. Satta” di Macomer - Nuoro Carmela Pititu - I.T.C.T.G. “S. Satta” di Macomer - Nuoro Chiara Puggioni- I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Anna Russo - I.I.S.S. “D. Fioritto” di San Nicandro Garganico - Foggia Teresa Scanzano - I.I.S.S. “D. Fioritto” di San Nicandro Garganico - Foggia Rosella Sisto - I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Rosa Torre - I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” - Genova Giovanna Trazzi - I.T.C.T.G. “S. Satta” di Macomer - Nuoro Coordinamento a cura di: Giuseppe De Cato- Dirigente scolastico I.I.S.S. “D.Fioritto” di San Nicandro Garganico -Foggia Raffaele Franzese - Dirigente scolastico I.T.C.T.G. “S. Satta” di Macomer - Nuoro Mario Nardi – Dirigente scolastico I.T.C. “Cosentino” di Rende - Cosenza Roberto Olmi - Dirigente scolastico I.I.S.S.”Einaudi-Casaregis-Galilei” – Genova 3 Sommario Gli autori .................................................................................................................................. 6 Introduzione............................................................................................................................. 8 PARTE I ....................................................................................................................................... 10 Il 1848 nella storia europea ....................................................................................................... 10 1. Introduzione all’anno 1948 ................................................................................................ 12 2 - La Dimensione europea nel 1848: dalla democrazia allo Stato-nazione ........................ 13 3 - La visione francese del 1848 verso l'Europa ................................................................... 22 La Seconda Repubblica .......................................................................................... 22 4- La Germania e la Monarchia degli Asburgo 1848-1849 .................................................. 30 5. La Rivoluzione ungherese del 1848 e le sue conseguenze ........................................ 40 6. La Rivoluzione del 1848 nei Principati rumeni: continuità e discontinuità ....................... 52 7. Libertà e unità: un matrimonio impossibile. Le feste pubbliche del centenario del 1848" in Germania nel 1948 ................................................................................................................ 60 PARTE II ...................................................................................................................................... 68 1912-13 nella storia europea .................................................................................................... 68 8. Introduzione all'anno 1913 ................................................................................................ 70 9. Le grandi potenze ed i Balcani: 1878-1914 ...................................................................... 71 10 Le ripercussioni delle guerre balcaniche del 1912-1913 sulla vita quotidiana dei civili ... 79 11 Le guerre balcaniche: valutazioni e previsioni dal servizio di informazioni dell’armata russa. (Nuovo quadro della situazione stabilito a partire dalle varianti delle opinioni antiche). .............................................................................................................................................. 89 12 Le guerre balcaniche nella storiografia e i manuali bulgari recenti. ................................ 99 13. Le guerre balcaniche del 1912-1913: il punto di vista turco ......................................... 106 14 Le guerre balcaniche (1912-1913): il punto di vista austriaco ................................... 117 PARTE III ................................................................................................................................... 130 Il 1919 nella storia europea ..................................................................................................... 130 15. Introduzione all’anno 1919 ............................................................................................ 132 16. L’indomani della “Grande Guerra”: la Francia ed i Francesi nel 1919 .......................... 133 17. La Repubblica di Weimar: il peso della Grande Guerra ............................................... 137 18. Immagini di sconfitta: l’Ungheria dopo la guerra persa, la rivoluzioni ed il trattato di pace di Trianon ............................................................................................................................ 142 19. Dall’equilibrio delle forze alla sicurezza collettiva? La Società delle Nazioni e la diplomazia internazionale .................................................................................................... 148 20. Gli Iugoslavi alla conferenza di pace di Parigi e l’eredità della prima guerra mondiale 158 21. La “Grande Guerra” ed il trattato di Neuilly – sur – Seine- Retaggio reale ed immaginario nel dibattito pubblico in Bulgaria ......................................................................................... 166 22. L’immagine della donna dal 1914 al 1920. Miti e realtà ................................................ 171 23. 1919: La dimensione globale ........................................................................................ 179 24. La Grande Guerra: una rottura culturale? ..................................................................... 185 PARTE IV .................................................................................................................................. 194 IL 1945 NELLA STORIA EUROPEA ........................................................................................ 194 25. Introduzione all’anno 1945 ........................................................................................... 196 26. La conferenza di Yalta e l’emergenza della guerra fredda .......................................... 197 27. Yalta, Potsdam e l’emergenza della guerra fredda: la visione del Regno Unito alla luce di recenti ricerche ................................................................................................................ 203 28. La conferenza di Crimea e le origini della guerra fredda ........................................... 213 29. Yalta, nella prospettiva polacca .................................................................................. 220 30. Yalta, Potsdam e l’emergenza della Guerra fredda: la visione della Germania dopo le recenti ricerche. ................................................................................................................... 228 31. Note: una visione ucraina ......................................................................................... 237 PARTE V ................................................................................................................................... 241 4 IL 1989 NELLA STORIA EUROPEA ....................................................................................... 241 32. Introduzione all’anno 1989 .......................................................................................... 243 33. 1989: in retrospettiva, l’anno dei miracoli. .................................................................... 244 Le rivoluzioni del 1989 .......................................................................................... 245 La Guerra Fredda. Le Grandi Linee ...................................................................... 247 Un Continente che Cambia : L’Europa Degli Anni 1980 ....................................... 248 L’Europa occidentale e il progetto europeo negli anni 1980 ................................. 249 L’Europa orientale I: il ristagno economico ........................................................... 249 Come spiegare questa situazione? ....................................................................... 250 Conclusione : esame retrospettivo dell’anno 1989 ............................................... 253 34. 1989: la fine della guerra fredda ed il crollo dell’Unione Sovietica ............................... 255 35 Eroi, “passati”, protagonisti e popolazione L’Ungheria nel 1989 Janos Rainer ........ 265 36 - La storia della caduta del comunismo – cantiere delle scienze socio-umane ......... 272 Il piano di ricerca: studio del caso - “la rivoluzione rumena” del 1989 .................. 272 Applicazione pratica: l'effetto “groupthink” nella rivoluzione rumena .................... 273 Conclusioni ............................................................................................................ 276 37. La risposta degli Stati Uniti agli eventi del 1989 ........................................................... 278 Conclusioni ............................................................................................................ 286 38. La riunificazione della Germania .................................................................................. 288 39. Il manifestarsi delle differenze nazionali, 1989 – 1992: la divisione della Cecoslovacchia ............................................................................................................................................ 301 Sfondo storico circa la questione Slovacca .......................................................... 301 La Rivoluzione di Velluto e la questione slovacca ................................................ 303 La Guerra del “Trattino di Congiunzione” e la nuova divisione del potere............ 303 Conclusione .......................................................................................................... 312 40. Media, partiti e transizione politica: approcci contrastanti di discipline sorelle ........... 314 5 Gli autori 6 7 Introduzione Il 31 ottobre del 2001, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha adottato la Raccomandazione (2001) 15 relativa all’insegnamento della storia d’Europa del XX secolo. Il testo è il risultato di una lunga serie di lavori e di progetti posti in essere dal Consiglio D’Europa fin dal 1950 nel campo dell’insegnamento della storia. Dalla sua adozione, e fino ad oggi, è l’unico strumento di questa natura in Europa. La raccomandazione affronta differenti questioni, con particolare riferimento ai contenuti dei programmi, ai metodi di apprendimento, alla formazione degli insegnanti, all’utilizzazione delle nuove tecnologie ma soprattutto definisce chiaramente quali dovranno essere gli obiettivi dell’insegnamento della storia nel XXI secolo. Due obiettivi sono particolarmente sottolineati: - l’insegnamento della storia occupa un posto esenziale nella formazione del cittadino responsabile e attivo, aperto all’altro e rispettoso di tutte le diversità in una società democratica; - l’insegnamento della storia deve permettere di sviluppare negli allievi la capacità intellettiva di analizzare e interpretare l’informazione in maniera critica e responsabile attraverso il dialogo, la ricerca dei fatti storici grazie a un confronto aperto su una visione plurale, in particolare sulle questioni controverse e sensibili. Lanciando nel 2002 il Progetto “La dimensione europea nell’insegnamento della storia”, il Comitato dell’istruzione ha deciso di mettere a disposizione dei formatori degli insegnanti, degli insegnanti e degli allievi un insieme di risorse relative a un certo numero di avvenimenti storici, di proposte metodologiche e di esempi di approcci multidisciplinari. Ciò al fine di permettere in particolare ai docenti di tradurre nella pratica pedagogica i principi generali contenuti nella Raccomandazione (2001)15. La messa in opera di questi principi generali presuppone che sia introdotto e sviluppato il concetto di multiprospettività nella presentazione di avvenimenti o di fatti storici. In effetti qualsiasi avvenimento storico può essere l’oggetto di approcci differenti, di concetti convergenti o divergenti o di interpretazioni particolari secondo il punto di vista, l’obiettivo fissato, il contesto storico e politico di coloro che li spiegano, li descrivono o li presentano. Non si tratta solamente di differenze o di sfumature nell’esposizione e nell’interpretazione dei fatti dal punto di vista nazionale ma anche di diversi legami con la filosofia o la concezione della storia, con l’evoluzione continua della ricerca, con l’evoluzione delle concezioni nel tempo, dei contesti e dei punti di vista propri di certi gruppi sociali. Questo concetto è stato l’oggetto di numerose riflessioni e analisi nel quadro dei lavori precedenti le cui conclusioni figurano nel manuale “La multiprospettiva nell’insegnamento della storia” redatto dal Referente del Progetto, il Dott. Robert Stradling. Il risultato finale del Progetto è rappresentato da tre elementi strettamente legati: l’insieme dei contributi presentati durante le conferenze che hanno avuto luogo sui cinque momenti-chiave della storia recente dell’Europa, un DVD che presenta documenti originali relativi a queste cinque date e un manuale pratico per l’utilizzatore. L’opera “Incrocio di Storie europee – Prospettive multiple su cinque momenti della storia dell’Europa” costituisce il primo elemento. I contributi presentati durante le cinque conferenze 8 non rappresentano evidentemente l’esaustività dei punti di vista e non costituiscono che qualche esempio che l’insegnante potrà chiaramente arricchire. Questi contributi non costituiscono nemmeno la posizione ufficiale degli stati di cui gli autori sono rappresentanti né quella del consiglio d’Europa. Perciò nella loro diversità esse non impegnano che i loro autori. Occorre sottolineare che quest’opera non ha finalità in quanto tale e che essa ha senso solo se utilizzata congiuntamente agli altri due strumenti (DVD, manuale pedagogico) nella preparazione di un corso o di una lezione. Ciò implica anche, tenuto conto del programma, degli obiettivi pedagogici e delle risorse e dei mezzi messi a disposizione degli insegnanti, che siano fatte aggiunte e ricerche complementari. Questo insieme di strumenti è messo a disposizione degli attori dell’insegnamento della storia al fine di aiutarli nel raggiungimento degli obiettivi fissati dalla Raccomandazione (20001)15. non mette in discussione le prerogative degli Stati membri nella definizione dei programmi di storia. Gli strumenti così proposti non hanno la finalità di sostituire i manuali di storia dei rispettivi curricula. Essi sono proposti in quanto risorse complementari. Però nel dibattito in corso sull’insegnamento della storia nella maggior parte degli stati membri, la metodologia e l’approccio plurale qui proposti dovrebbero permettere di arricchire la ricerca di nuove strade. Esso permetterà all’insegnamento della storia – come sottolinea la raccomandazione, di giocare un ruolo di riconciliazione, di riconoscenza, di comprensione e di mutua fiducia tra i popoli e di contribuire a una ricostruzione europea liberamente consentita basata su un patrimonio storico e culturale comune arricchito delle sue diversità anche nei suoi aspetti conflittuali e qualche volta drammatici. 9 PARTE I Il 1848 nella storia europea 10 11 1. Introduzione all’anno 1948 Il 1848 è un anno movimentato. In febbraio, viene pubblicato il Manifesto del Partito Comunista. Un'epidemia di colera, causata dall'ingestione di acqua contaminata, si propaga a tutta l'Europa e provoca numerose vittime, adulti e bambini, già indeboliti da due anni di magri raccolti. Si assiste anche alla fine brutale della schiavitù e di altre manifestazioni del feudalesismo praticamente in tutta l'Europa centrale ed orientale. Ma il 1848 resta innanzitutto l’" anno delle rivoluzioni", il popolo dietro le barricate in Francia, negli Stati tedeschi ed italiani, in Austria, in Ungheria ed in quasi tutta l'Europa centrale ed orientale. Queste sommosse non arrivano a sorpresa. I tre decenni precedenti sono già stati segnati dalle ondate di agitazione politica, di disordini civili e di rivolte in diverse zone del continente. In Portogallo, a Napoli e in Spagna ci sono stati dei colpi di stato militari e delle guerre civili. Nel 1821, i greci si sono ribellati contro il dominio ottomano e hanno finito per ottenere la loro indipendenza nel 1829. In questo stesso anno, l’Impero ottomano è stato costretto ad accordare l'autonomia alla Serbia e ai principati danubiani. La rivoluzione del 1830, in Francia, ha causato delle manifestazioni a Bruxelles e ha portato il Belgio a proclamare la sua indipendenza. Da parte sua, la Polonia è in preda a delle agitazioni popolari, represse dalle truppe russe. Nell'ottobre 1847, Metternich commenta in questi termini la situazione in Europa: "sono un vecchio medico, so fare la differenza tra un’ affezione passeggera e un male mortale... ci siamo ridotti a questo stadio." Quattro mesi più tardi, altri pensano, come lui, che per il vecchio ordine europeo suona ormai il rintocco funebre. Tuttavia, appena un anno dopo, le vecchie forze conservatrici ritornano al potere. Lo storico britannico G. M. Trevelyan più tardi descriverà l'anno 1848 come una svolta "che l'Europa non ha saputo prendere." Le rivoluzioni del 1848 non ne hanno nemmenolasciato tracce il cui impatto ha avuto ripercussioni a lungo praticamente in tutta l'Europa. La restaurazione del potere degli Absburgo non ha completamente messo fine alle aspirazioni nazionaliste dei popoli che componevano il loro Stato, costituito da una moltitudine di nazioni e di lingue. L'idea dell'unificazione non avrebbe più abbandonato gli Stati italiani e tedesci. Anche le monarchie più tradizionali cominciano a riconoscere che le riforme costituzionali sono necessarie. Inoltre, in tutti i paesi in cui ci sono state delle rivoluzioni, la cultura politica comincia a trasformarsi. Numerosi individui, avendo acquisito una coscienza politica, si organizzano in partiti politici, in sindacati e in associazioni professionali, incaricati di difendere i loro interessi. Sono sempre più numerose le donne che si impegnano nella vita pubblica. Si stringono sempre più legami tra partiti politici e classi sociali e la stampa politica ha un rapido sviluppo. In certi paesi, il panorama politico si troverà riplasmato per più di un secolo, poiché certi settori della società restano radicali o conservanti, come lo erano nel 1848. In conclusione, le rivoluzioni del 1848 hanno contribuito a stabilire l'ordine del giorno politico e sociale di una gran parte dell'Europa per il resto del XIX secolo ed oltre. 12 2 - La Dimensione europea nel 1848: dalla democrazia allo Statonazione Dieter Langewiesche Il 150° anniversario della rivoluzione del 1848 si è celebrato cinque anni fa in pompa magna. Soprattutto la Germania si è distinta per suo entusiasmo festoso, ma anche per il carattere commerciale delle manifestazioni organizzate in quell’occasione. Non mancava niente,dal “Heckerhut", cugino del berretto frigio, al " vino dei ribelli", dall’ " escursione della rivoluzione" alla birra preparata secondo una ricetta del 1848. L'attuale ritorno di popolarità della rivoluzione del 1848 contrasta fortemente con lo scarso interesse che ha suscitato nel XIX secolo, in cui era considerata ingiustamente come una semplice rivolta borghese fallita. Certo, la rivoluzione non ha raggiunto gli obiettivi che si era fissata in parecchi paesi europei, ma ha tuttavia influenzato profondamente il corso degli eventi. Si può affermare che la rivoluzione del 1848 segna una svolta nella storia dell'Europa. Tenterò di spiegare questa svolta alla luce di due aspetti: la democratizzazione e il nazionalismo. Per afferrare tutta l'ampiezza degli avvenimenti dell'epoca, dobbiamo soffermarci innanzitutto sull'orizzonte di notizie di cui disponevano allora gli Europei, e sulla propagazione spettacolare che ha avuto. L'europeizzazione dell’informazione La rivoluzione, ma anche la repressione della rivolta e la contro-rivoluzione, hanno creato un'unità europea che non esisteva prima del 1848. Il continente europeo è diventato così uno spazio unico di comunicazione e di azione, uno spazio di informazione di una densità senza precedenti, eliminando i confini geografici, sociali e politici e anche le barriere che tenevano tradizionalmente le donne fuori dallo spazio pubblico maschile. Sotto l'effetto della rivoluzione, le possibilità di informazione hanno migliorato velocemente per tutta la popolazione, presa dalla sete di sapere. Mai prima, una rete di informazione così capillare aveva coperto l'Europa. L’informazione era oramai, in teoria, accessibile a tutti. L’ europeizzazione dell’informazione permette il cambiamento radicale dell'Europa. Il segnale viene dato dalle sommosse del febbraio 1848 a Parigi che creano un pubblico europeo. In tutte le regioni d'Europa, gli sguardi si girano verso Parigi, questo" cuore eterno dell'Europa" come scriveva Fanny Lewald. Appena si diffondono le prime notizie sull'insurrezione di febbraio, questo scrittore tedesco si reca a Parigi per assistere agli avvenimenti (Lewald, 1969, p.7). La capitale europea della rivoluzione è il punto di convergenza di tutte le speranze e di tutti i timori, sia dei rivoluzionari che dei loro avversari. Solo quattro mesi dopo la vittoria della rivoluzione politica di febbraio, la rivolta sociale firma il suo fallimento nel giugno del 1848. L’ una e l'altro, la vittoria e il fallimento, sono degli avvenimenti importanti per tutta l’Europa. Se Parigi dà il segnale, le rivoluzioni che si sviluppano dovunque in Europa hanno tuttavia delle cause e delle mire differenti, anche se la trama è identica. Esse hanno in comune due obiettivi principali: in primo luogo, democratizzare l'ordine politico e l'ordine sociale; in secondo luogo, instaurare l'autodeterminazione nazionale nei paesi europei che non sono, ancora organizzati in Stati-nazione, cioè, in quel tempo, nella maggior parte delle società europee. Le forze all’opera in questi due campi si sostengono reciprocamente, ormai nelle regioni reclamate da più nazioni, in cui esse si oppongono violentemente. Democratizzazione e nazionalismo, queste due grandi speranze del 1848fondano così un’Europa che prende coscienza della sua identità oltre le frontiere, fanno nascere uno spazio pubblico europeo, stabiliscono uno spazio di informazione alla scala del continente. Parallelamente, 13 l'Europa rivoluzionaria aspira ad una Europa di nazioni, di Stati-nazione. Democratizzazione e nazionalismo sono due obiettivi che si completano ma diventano presto contraddittori. 1848: una serie di rivoluzioni costituzionali Che cosa s’ intende per "democratizzazione" nel 1848? Tutti i movimenti rivoluzionari hanno per principali rivendicazioni, tra l’ altro, la democratizzazione e la parlamentarizzazione dello Stato. La richiesta di sapere quale deve essere l’ampiezza delle riforme dà luogo, invece, ad accese discussioni sull'ordine costituzionale del futuro. La polemica culmina nella polarizzazione intorno a due simboli: repubblica da un lato, monarchia parlamentare dall'altro. Il dibattito finisce per dividere i movimenti rivoluzionari in due campi accanitamente opposti. La prima metà del XIX secolo ha visto la monarchia costituzionale insediarsi come sistema costituzionale predominante sul continente europeo. Nel 1948, numerosi riformatori vogliono andare oltre ed esigono di accrescere i poteri del parlamento a spese della monarchia. La monarchia parlamentare è all'epoca l'appannaggio del Regno Unito, e quelli che sperano di instaurarla sul continente devono lottare su due fronti: contro i monarchici che vogliono conservare il potere e contro i repubblicani che pensano che questo capovolgimento non andrà molto lontano. Dopo la Rivoluzione francese del 1789, la repubblica in quanto forma di organizzazione dello Stato scatena delle passioni contraddittorie in tutta l'Europa. È difficile oggi comprendere che per i contemporanei della rivoluzione, la repubblica è molto più di una semplice forma di governo. Essa porta in sé sia la speranza della felicità che il timore del cedimento. Nell' Education sentimentale, Gustave Flaubert ha colto in alcune parole l'aura che spira nel 1848 intorno alla parola repubblica: " È stata proclamata la Repubblica! Tutti saranno felici adesso! (...) libereremo la Polonia e l'Italia! Non più re, capite? Tutta la terra libera! Tutta la terra libera!" All'entusiasmo di un combattente delle barricate, bisogna opporre lo spavento che assale i conservatori, i liberali e molti altri all'evocazione della repubblica. Numerosi sono i democratici per i quali la repubblica evoca innanzitutto lo spettro del 1793 e del Terrore rivoluzionario. Per riprendere le parole di Flaubert, " la mannaia della ghigliottina [vibrava] in tutte le sillabe della parola Repubblica" (Flaubert, 1869). Solo in Francia si sa, nel 1848, che la repubblica non deve condurre necessariamente al terrore come è successo dopo il 1789. Per gli altri Stati europei, l'esperienza di una repubblica borghese e dominata resta ancora da fare. Agli occhi dei suoi detrattori, la repubblica è "rossa" e significa la “libertà dei predatori e degli assassini" (Der Grânzbote, 29 novembre 1851, in: D. Langewiesche, 1993, p. 38). Quanto ai suoi difensori, la coprono di speranze illusorie. Così la repubblica nutre al tempo stesso la visione di un riscatto quasi religioso e il timore vano di una caduta agli inferi. Nel 1848, democratizzare il regime significa ampliare innanzitutto le possibilità di partecipazione della popolazione. Per fare ciò occorre restringere le competenze delle dinastie al potere e soffocare l'influenza delle “élite” politiche tradizionali. Una delle principali caratteristiche della rivoluzione del 1848 è di avere tentato di giungervi appoggiandosi sui mezzi dello Stato di diritto. Il principale strumento adoperato per avvicinarsi all'ideale di uguaglianza dei cittadini non è né la ghigliottina né la barricata ma la Costituzione. Questo è il motivo per il quale la rivoluzione del 1848 può essere chiamata una rivoluzione costituzionale una rivoluzione il cui scopo è di stabilire, obbligatoriamente, un nuovo ordine liberale e democratico. Tutti gli Stati coinvolti dalla rivoluzione o trascinati nella sua corrente riformistica si dotano allora di una costituzione o cominciano a liberalizzare la loro costituzione esistente. Le costituzioni adottate negli anni 1848/1849 non sono più dettate dalle autorità ma elaborate da parlamenti regolarmente eletti, incarnando così il principio della sovranità del popolo. Di 14 conseguenza, i parlamenti occupano il centro dell'attualità politica. Mai prima, il pubblico si è interessato così attivamente alla politica, mai prima un movimento popolare ha avuto una tale dimensione europea, mai prima, il pubblico si è organizzato così per far valere le sue rivendicazioni, mai prima, le città europee hanno visto pubblicare tanti giornali come nel 1848. La stampa di opinione si inserisce nella vita pubblica e aiuta a organizzarla. I giornali sono un mezzo di comunicazione indispensabile per costituire degli organismi di pressione interregionale. Una stampa di una grande diversità e un tessuto associativo di un grande spessore: queste due strutture strettamente legate sono al tempo stesso un risultato e un motore della rivoluzione. La popolazione in generale e l'elettorato in particolare ne escono trasformati, democratizzati dagli anni rivoluzionari, durante i quali il raggio delle categorie sociali che godono del diritto di voto si allarga considerevolmente. La società cittadina che prende forma resta tuttavia una società maschile – anche questa è una caratteristica comune a tutta l’Europa. Solo gli uomini hanno il diritto di voto e di eleggibilità, solo loro possono assumere delle funzioni in seno alle istanze dello Stato o dei comuni. Ma, a parte questi due principi, la rivoluzione ha stravolto profondamente i rapporti politici tra i sessi. Nel 1848, le donne leggono la stampa e pubblicano dei giornali, partecipano alle riunioni politiche, ascoltano i dibattiti parlamentari, e si esprimono sulle questioni politiche di attualità, in privato, nelle riunioni politiche e sulle barricate. Si, poiché le donne scendono in strada e si appoggiano sul principale vettore di sensibilizzazione politica dell'epoca: il tessuto associativo. Nascono numerose associazioni di donne e appaiono anche negli Stati dove questa forma di collettività era fino ad allora sconosciuta. Le donne approfittano, quindi, delle nuove possibilità di partecipazione politica senza tuttavia godere dei diritti uguali a quelli degli uomini. A sinistra come a destra, pochi sono gli uomini disposti a considerare le donne come dei cittadini uguali. Numerosi libelli aggressivi sono la testimonianza del fastidio provato dagli uomini quando durante la rivoluzione vedono le donne liberarsi dei loro ruoli tradizionali. Nel 1848 diventa percettibile, in tutta la sua ampiezza, ciò che mi sembra essere una costante dell'emancipazione delle donne nel corso del XIX secolo: man mano che il processo politico si istituzionalizza, le possibilità per le donne di parteciparvi si riducono, e per molto tempo. Bisognerà aspettare il XX secolo perché questa tendenza si concluda. Tutti i riformatori del 1848 hanno uno scopo comune nonostante le separazioni politiche: esigono delle riforme strutturali puntellate dalle garanzie costituzionali e dal rinnovo delle istituzioni dello Stato. Le istituzioni devono essere il focolare duraturo della società cittadina e democratica del futuro. Ora, queste istituzioni sono il campo esclusivo degli uomini. Nel 1848 esse si aprono ampiamente a nuove categorie sociali – ormai le donne. Le istituzioni politiche restano, tuttavia, il campo riservato agli uomini. Ciò non impedisce che la rivoluzione allarghi lo spazio di espressione politica di tutti, rafforzando così la politicizzazione della società nel suo insieme. Ormai possono nascere , anche nei paesi dove erano vietati, dei partiti di concezione moderna che hanno una struttura duratura, elaborano dei programmi, tentano di convincere il pubblico, nominano dei candidati alle elezioni, e si sforzano di stringere dei legami tra l'associazione extraparlamentare e il gruppo parlamentare. Le associazioni diventano dei centri di formazione politica. Si concentrano nelle città ma si propagano anche nelle campagne. La forte partecipazione della popolazione rurale alla fase conclusiva della rivoluzione rivela un processo di sensibilizzazione politica che non sarebbe possibile senza l'esistenza di un tessuto associativo ben impiantato. Dopo la rivoluzione, la repressione dello Stato riesce certo a neutralizzare il processo di strutturazione politica della società, ma il suo successo non è che di breve durata. L'organizzazione e la politicizzazione in profondità della società sono dei risultati duraturi della rivoluzione del 1848. Con una forza certamente variabile, il vento della rivoluzione spira su tutte le categorie sociali delle società europee. Le donne, la popolazione rurale, gli operai fanno il loro ingresso in 15 politica nel 1848. Si potrebbe dire altrettanto degli ebrei, del clero, degli insegnanti universitari e delle scuole, degli studenti. Ma non tutti partecipano con la stessa intensità alle riunioni politiche, petizioni, organizzazioni, dibattiti ed altre attività rivoluzionarie di quegli anni: generalmente gli uomini sono più interessati delle donne, i cittadini più dei campagnoli, gli artigiani più dei contadini. i borghesi più degli aristocratici. E tutti ne escono più politicizzati di prima. Chiunque vuole affermarsi sulla scena politica o in seno alle istituzioni dello Stato deve agire in un quadro politico. Anche questo è un risultato durevole della rivoluzione del 1848. Per ogni uomo politico l'obbligo di andare incontro all'opinione pubblica si impone anche alle élite tradizionali che non possono più affidarsi ai meccanismi di conservazione delle loro prerogative. Nascono nuovi centri di potere e nuove forme di azione politica. Per la prima volta, la democrazia rappresentativa sembra imporsi sul continente europeo. I liberali e i democratici si sforzano di promuoverla, ma anche i conservatori vanno incontro al pubblico, fondano delle associazioni e dei giornali, e organizzano delle petizioni per non essere esclusi della scena politica. Gli avversari della rivoluzione sono costretti a far ricorso alle armi. Anche la violenza fa parte di queste armi che la contro-rivoluzione non è l'unica a usare. In tutta l'Europa, vengono spiegate delle truppe regolari per opporsi alla rivoluzione, ma i governi rivoluzionari stessi non avevano esitato, prima, a far ricorso all'esercito o alle milizie cittadine quando certi movimenti rivoluzionari sembravano mettere in pericolo i loro progetti politici. Consideriamo ora la rivoluzione nazionale, cioè la seconda fase della rivoluzione dopo la rivoluzione costituzionale imperniata sulla riforma dello stato. 1848: una serie di rivoluzioni nazionali Sono numerosi coloro per quali la rivoluzione è simile inizialmente a un dolce sogno, quello della" primavera dei popoli" in Europa. Costoro aspirano a un’ Europa pacifica composta di nazioni con uguali diritti. La realtà cambierà radicalmente dopo alcuni mesi. Il sentimento nazionalista diventa sicuramente il collante più potente dei movimenti rivoluzionari europei, riunendo sotto una stessa bandiera i difensori di cause diverse, ma questo forte ideale conduce anche le nazioni a difendere ciecamente i loro interessi e a impegnarsi in alleanze contrarie ai loro obiettivi democratici. Quando nel 1848 la rivoluzione infrange la cappa di piombo reazionaria, la primavera dei popoli tanto attesa non fiorisce. I conflitti di territorio sono numerosi in Europa, e in tutti i paesi interessati, la nazione, di una comunità che aspira alla conquista della libertà, diventa una comunità di combattimento. Ora la rivoluzione deve rilanciare un'immensa sfida per mettere in pratica i progetti rivoluzionari dei popoli europei. Si tratta di dividere le confederazioni per riunire le nazioni disperse su più Stati. Dovunque i problemi si pongono in modo diverso, e dovunque la guerra minaccia. Nel 1848 tutti i principali paesi rivoluzionari si impegnano in guerre nazionali rivoluzionarie di unificazione e di secessione. Solo la Francia, patria dei rivoluzionari, fa eccezione a questa regola. Il suo statuto di Stato- nazione è già ben stabilito, e nessuno lo rimette in causa. È per questo motivo che il programma della Rivoluzione francese non comporta rivendicazioni nazionali. E tuttavia, la Repubblica francese stessa, nel 1849, prende le armi per intervenire in Italia contro la nuova Repubblica romana. Per comprendere tutta l'ampiezza degli sconvolgimenti indotti dalla democratizzazione e la prospettiva di riorganizzazione nazionale dell’Europa, per l'emergenza di un’ Europa delle nazioni e degli Stati-nazione, vorrei esporvi brevemente il contesto nel quale i differenti movimenti nazionali sono emersi. Cominciamo dall'Impero degli Asburgo. La quasi totalità delle linee di conflitto che lacerano l’Europa del 1848 attraversano questo territorio multietnico. Insieme di stati e di nazioni, l’ Impero si oppose alla riorganizzazione nazionale dell’Europa. Per questo motivo, inevitabilmente, esso diventa un focolaio di conflitti nazionalisti. Nessuna delle nazioni che lo compongono è maggioritario, e numerose regioni sono abitate da un mosaico di popoli diversi, e 16 ciò dà adito a rivendicazioni territoriali concorrenti. L'Impero diventa così un campo di esperienza del nazionalismo nel quale non ci possono essere semplici soluzioni. Uno studente viennese, militante rivoluzionario e tuttavia monarchico, percepisce molto bene il dilemma che si pone alla rivoluzione. Dobbiamo a questo tedesco della Bucovina che si dichiara cittadino appartenente alla Grande Austria, delle osservazioni molto istruttive sullo svolgimento della rivoluzione e i problemi nazionali. Si legge nella corrispondenza che intrattiene con suo padre il quale rimane a Czernowitz: "Se è vero che la libertà di un paese può significare l'oppressione dell'altro, questa è la situazione in Italia, dove la libertà degli italiani va di pari passo con la messa in pericolo del Tirolo tedesco. Queste questioni di politica e di filosofia sono un temibile rompicapo. Ciò che alcuni creano nelle migliori intenzioni, la dura legge della politica può trasformarlo in maniera mostruosa "(Langewiesche, 1993, p. 104ff. Questo studente originario della Galizia, provincia multietnica dell'Impero asburgico, pone le sue speranze in una monarchia democratizzata e osserva con benevolenza lo slancio rivoluzionario delle altre nazionali senza tuttavia rimettere in questione l'unità dell'Impero, che deve naturalmente - questo è ovvio per lui - restare sotto il potere tedesco. Il comportamento dei gruppi nazionali non tedeschi presenti a Vienna lascia già presagire , all'inizio della rivoluzione, che il sogno della primavera dei popoli rischia di sprofondare in un incubo delle nazionalità. È nella capitale stessa che questo futuro prende forma prima e più chiaramente. Alla fine del mese di marzo 1848, delle delegazioni di tutte le nazioni slave si recano a Vienna per esporre i loro punti di vista al pubblico e alle istituzioni dello Stato. Slovacchi, Serbi, Croati, Cechi e Polacchi celebrano la fratellanza austro-slava ma riescono ad intendersi solo su un doppio rifiuto: rifiuto delle ambizioni di egemonia della nazione ungherese e rifiuto delle rivendicazioni nazionali-rivoluzionarie tedesche che mirano alla creazione di uno Stato-nazione. Nei confini della Confederazione germanica (Deutscher Bund), cioè che includeva la Boemia, la Moravia e la Slesia austriaca. La comunità austro-slava, confrontata alla sfida di liberare spazi di autonomia nazionale tra le due nazioni dominanti che formano i Tedeschi e gli Ungheresi controllando comunque i conflitti di territorio tra nazionalità slave, non arriva a unirsi al di là di questo fronte comune. I libri di storia hanno generalmente uno sguardo critico sul congresso slavo che si riunisce nel giugno del 1848 a Praga per dibattere questioni fondamentali delle nazionali nella monarchia degli Asburgo. Bisogna tuttavia rendere giustizia a questo congresso per il fatto che propone delle soluzioni pacifiche; le altre generazioni cercano rifugio nelle soluzioni militari che tentano di "nazionalizzare" con la forza -vale a dire con l'oppressione o l'espulsione delle minoranze nazionali - le regioni multinazionali. I nostri contemporanei hanno inventato l'eufemismo "pulizia etnica" per designare questo modo di operare. Il congresso slavo mira, nelle decisioni che si propone di adottare, a stabilire una monarchia federativa degli Asburgo nella quale tutte le nazionalità godrebbero degli stessi diritti. Secondo il Manifesto dei popoli europei, "la questione delle nazionalità è una questione vitale per l'Austria" e l’uguaglianza di diritti e di statuto di tutte le nazioni deve essere il principio di base di ogni Costituzione austriaca in mancanza della quale dei conflitti razziali in seno alla monarchia e, di conseguenza, il deperimento cioè la caduta dello Stato sarebbero inevitabili" (Manifesto, citata da Josef Kolejka. Il congresso slavo mette in luce i problemi di nazionalità che agitano l'Europa del 1848. Esso difende certamente la riorganizzazione della monarchia asburgica secondo dei principi federativi, ma le modalità di questa riorganizzazione e il senso che bisogna dare all’"uguaglianza di statuto" sono oggetto di una vivissima controversia. Numerosi cechi sognano innanzitutto l'autonomia dei tre paesi della corona di Boemia ( Boemia, Moravia e Slesia austriaca) nel quadro della monarchia asburgica e rifiutano categoricamente la loro integrazione in uno Stato-nazione tedesco. I Croati aspirano a uno statuto di autonomia paragonabile per il loro "regno tripartitico" (Croazia, Slavonia e Dalmazia) nel quadro della 17 monarchia asburgica; parallelamente, si allontanano dal loro alleato tradizionale, la corona ungherese, andando fino a contestare apertamente i rapporti storici tra i due regni e schierandosi con l'imperatore austriaco fin dall'inizio della guerra di indipendenza ungherese. Il regno dell'Ungheria è, a immagine della monarchia asburgica di cui fa parte, uno Stato multietnico composto da diverse nazionalità che vogliono liberarsi della dominazione magiara. I croati rivendicano un rafforzamento dei loro diritti, persino la secessione dall'Ungheria. I serbi dell'Ungheria del sud vogliono disporre delle loro proprie istituzioni politiche, in particolare di un parlamento. Anche gli Slovacchi formano un movimento nazionale ed esigono di poter beneficiare di diritti allargati. La rivoluzione nazionale ungherese non è disposta ha accettare queste rivendicazioni. Si mostra pronta a fare delle concessioni solo nella fase finale della rivoluzione, quando comincia a stagliarsi il fallimento generale dei movimenti rivoluzionari. Tenuto conto delle rivalità nazionali, il mantenimento del monarchia asburgica in quanto unità dello Stato era probabilmente il solo modo per evitare che scoppiasse una guerra tra tutte le nazioni. Ma per tutto ciò ci sarebbe stato bisogno di riorganizzare la monarchia secondo dei principi federativi. Questo era l'obiettivo del congresso slavo di Praga, e quello della Dieta austriaca nel suo progetto di costituzione. Tutti e due, il congresso slavo e la Dieta, devono il loro insuccesso non solo alla contro-rivoluzione ma anche al disaccordo tra le nazioni. Le ”élite” tradizionali vicine alla corte asburgica condividono coi movimenti nazionali il rifiuto di qualsiasi progetto federativo conseguente. In quanto, al di là dell'allargamento del suo campo di autonomia, un'organizzazione federale significa per la nazionalità maggioritaria la perdita dei poteri delegati alle altre entità. Forse l'elaborazione delle regole di funzionamento della federazione avrebbe permesso di risolvere questi problemi. Una parte, se non tutti i movimenti nazionali sono disposti ad attraversare un tale processo di apprendimento, come prevede anche la Dieta austriaca nel progetto costituzionale adottato a Kremsier. La vittoria della controrivoluzione conclude questi progetti. Sarebbe tuttavia troppo semplice imputare all'unica controrivoluzione le rivalità che nascono tra le nazioni europee all'indomani del risveglio democratico. Lo studio della rivoluzione polacca svela quanti democratici e liberali sono anch’ essi implicati nel conflitto. Nel 1848, questo paese diviso in tre territori spera di compiere un primo passo verso il rinnovamento dello Stato nella regione di Poznan. La popolazione di Poznan è principalmente polacca, ma i Tedeschi sono più numerosi nei distretti occidentali. Si può quindi prevedere facilmente che la "riorganizzazione nazionale" auspicata inizialmente, nel 1848, dal nuovo governo prussiano e il parlamento regionale, darà luogo a gravi difficoltà. I movimenti di liberazione europea non avevano pensato a questi problemi quando avevano scritto con enfasi la restaurazione della Polonia sulle loro bandiere, parecchi decenni prima della rivoluzione. Dopo il fallimento della rivoluzione polacca nel 1831, sono state create numerose associazioni polacche in seno alla Confederazione germanica che offrivano un sostegno morale e finanziario agli esiliati polacchi. Ma la solidarietà dei popoli si trasforma in rivalità alla prima prova della verità politica, cioè nel 1848. I rappresentanti della vecchia Prussia e della nazione tedesca finiscono per far fronte comune contro la restaurazione dello Stato polacco, e l'esercito prussiano mette in pratica la loro politica di rifiuto verso i movimenti nazionali-rivoluzionari polacchi. Per la rivoluzione polacca, il fallimento è totale. A Poznan, dove la "nazionalizzazione" prosegue, i rapporti tra Tedeschi e Polacchi si sono rovinati definitivamente. Nel 1848 e 1849, anche l'Italia è scossa da gravi conflitti che culminano nella guerra. Gli Asburgo che possiedono la Lombardia e il Veneto, e la Confederazione germanica, proprietaria di alcune regioni del nord, non saprebbero accettare la creazione dello Stato-nazione auspicato dal movimento nazionale italiano. I conflitti di nazionalità sono inevitabili e culminano in una guerra tra la monarchia asburgica e l’ Italia. Di fronte ai combattimenti, il movimento nazionalerivoluzionario italiano si unisce con l'esercito senza creare un vero potere centrale e rappresentativo. La sua azione si iscrive così in un quadro molto diverso dalla situazione negli altri paesi europei. Il punto di unione dei nazionalisti italiani non è il parlamento ma il campo di battaglia della guerra contro l'Austria. 18 Non approfondirò questo aspetto, nemmeno i dibattimenti e le lotte di nazionalità tra la Germania e la Danimarca. Bisognava concludere, nel 1848, la lunga trasformazione dell'impero nordico in uno Stato-nazione danese? La nazione danese poteva includere nel suo Stato i ducati di Schleswig e di Holstein, popolati principalmente dai Tedeschi? Queste domande danno il via a vivaci dissensi in seno ai movimenti rivoluzionari danesi e tedeschi. Scoppia la guerra: il re della Prussia fa appello all'esercito per far valere le rivendicazioni territoriali della nazione tedesca verso la Danimarca. Ma le grandi potenze europee intervengono, e la decisione sanguinosa è aggiornata fino alla guerra dei Ducati, che oppone nel 1864 la Danimarca alla Prussia. Alla luce di tutto ciò, la disputa tra il movimento nazionale tedesco e i Paesi Bassi per quanto riguarda l'appartenenza nazionale del ducato di Limbourg che fa parte della Confederazione germanica, si svolge senza grandi problemi. Anzi, essa illustra il carattere esplosivo della messa in pratica del principio di stato-nazione nel XIX secolo: in tutte le regioni i conflitti appaiono rivendicati da più nazioni. Nemmeno la Norvegia è risparmiata. È governata dal re della Svezia e, nel 1848, i sostenitori dell'indipendenza alzano il tono verso questo paese. Nel corso di un secolo segnato dai movimenti nazionalisti e l'emergenza dello stato-nazione, nel 1905 la Norvegia e la Svezia offrono il solo esempio di una separazione pacifica di due Stati. è la prima e l’ ultima volta che una tale separazione non è preceduta da una guerra di secessione. Per i democratici, il bilancio delle rivoluzioni europee del 1848 può sembrare, quindi, molto negativo. Portata da uno slancio democratico, la primavera dei popoli tanto auspicata diventa un campo di battaglia sin da quando si affrontano le rivendicazioni territoriali concorrenti. Ma il quadro sarebbe incompleto se non si evocassero anche molti aspetti positivi. Nel 1849, il movimento nazionale ungherese tenta di andare incontro alle rivendicazioni delle altre nazioni. Non si può dire oggi quale sarebbe potuto essere il risultato di questi sforzi: la vittoria della controrivoluzione li ha annientati. Parimenti la Dieta austriaca, confrontata alle rivendicazioni di autonomia delle sue nazionalità, cerca di riorganizzare la monarchia secondo dei principi federativi mantenendo l'unità dello Stato; anche qui la controrivoluzione vittoriosa ha fatto svanire questi progetti. Anche il movimento nazionale tedesco fa prova di tanta resistenza. Certo, il Parlamento di Francoforte si lascia andare a spaventose utopie di potere imperiale. Si immagina l’impero pangermanico estendersi dal mare del Nord all'Adriatico, dal mar Baltico al mar Nero. Ma il Parlamento resta misurato nelle sue politiche concrete. Esso deve far fronte a un compito enorme, una doppia sfida senza precedenti: secessione ed integrazione simultanea da un lato, democratizzazione forzata dello Stato e della società dall’ altro. Il movimento nazionalrivoluzionario tedesco alla fine decide di rinunciare all'idea della Grande Germania, adottando così una posizione accettabile per i paesi vicini. Il suo insuccesso scaturisce dal rifiuto dei principi tedeschi più potenti di ammettere la soluzione auspicata che ritorna a spossessarli dei loro poteri. Conclusione Permettetemi di concludere con un brevissimo bilancio. Nel 1848, la rinascita rivoluzionaria che attraversa l'Europa ne fa un vasto spazio di comunicazione. Presa di coscienza europea e riorganizzazione nazionale dei sistemi politici vanno di pari passo. La rivoluzione unisce l'Europa, ma gli Europei ne traggono esperienze diverse, positive e negative. Il movimento democratico, poi la controrivoluzione e la ricostruzione nazionale di una gran parte del continente si inserisce ormai in un contesto europeo. Nel 1848, il movimento nazionalrivoluzionario vede nel suo principio centrale, la nazione, una promessa di democrazia e di progresso, ma cominciano anche a stagliarsi gli aspetti più oscuri di questo principio: esclusione, xenofobia, bellicismo. Se la rivoluzione non ha creato questo rovescio della 19 medaglia nazionale, ha sicuramente contribuito a definirlo e a divulgarlo in numerose regioni e categorie sociali in Europa. Anche questo fa parte dell'eredità della rivoluzione del 1848. 20 Bibliografia Flaubert, Gustave, “Education sentimentale, Parigi, 1869. Kolejka, Josef, "Der Slawenkongress in Prag im Juni 1848. Die slawische Variante einer ôsterreichischen Fôderation" in Rudolf Jaworski and Robert Luft (eds), 1848149 Revolutionen in Ostmitteleuropa, Oldenbourg, Monaco, 1996. Langewiesche, Dieter, Republik und Republikaner, Von der historischen Entwertung eines politischen Begriffes, Stoccarda, 1993. Lewald, Fanny, Erinnerungen aus dem Jahr 1848, brani pubblicati da Dietrich Schâfer, Francoforte, 1969. 21 3 - La visione francese del 1848 verso l'Europa Pierre Barral Dopo gli sconvolgimenti della Rivoluzione e le conquiste dell'Impero, la Francia è stata guardata dai suoi vicini come l’ “enfant terrible” dell’ Europa. Dopo il 1815, sotto il monarchia censuaria, essa si è stabilizzata all'interno, ammansita all'estero. L'esplosione inattesa del 1848 scatena in tutto il paese la volontà di costruire una società di libertà. Questa avventura febbricitante, instabile, effimera, suscita oggi negli storici una simpatia benevola, sebbene un po’ sprezzante. La Seconda Repubblica Nel corso di un anno ricco di grandissimi avvicendamenti, possiamo cogliere prima di tutto tre tempi importanti, in cui si affrontano le correnti di opinione, in cui si manifestano le forze profonde della società, in cui si orienta la politica della nazione. Febbraio è radioso, giugno è tragico, dicembre è ambiguo. Nel febbraio 1848, un'insurrezione parigina rovescia la Monarchia di Luglio, nata da un'altra insurrezione parigina, diciotto anni prima. Questo regime che voleva conciliare l’Ordine e la Libertà, si è di fatto sclerotizzato nell'immobilismo conservatore detto ironicamente del "giusto mezzo". Dopo parecchi mesi, il governo diretto dallo storico François Guizot è tormentato da una campagna di banchetti, in cui l'opposizione reclama senza successo l'allargamento del diritto di voto censuario ("la riforma elettorale") e l'incompatibilità dell'alta funzione pubblica con la deputazione ("la riforma parlamentare"). Il divieto del banchetto colossale previsto a Parigi il 22 febbraio non basta a controllare un'effervescenza disordinata. La guardia nazionale, milizia cittadina fino ad allora sicura, grida anch’essa “Viva la Riforma!” Alcuni soldati spaventati sparano sulla folla, la manifestazione si trasforma in sommossa. Le dimissioni di Guizot non riporta la calma, i tentativi dei suoi rivali Molé e Thiers falliscono. La città si riempie di barricate e il maresciallo Bugeaud, nominato comandante delle truppe, non domina più la situazione. Il re Luigi Filippo sconvolto abdica la mattina del 24, un programma di reggenza a nome di suo nipote è annullato .Si insedia un governo provvisorio al quale, come nel 1830, la provincia aderisce docilmente. Si apre così una primavera di "illusione lirica" è stato detto, di ottimismo generoso e di sensibilità romantica, in cui i francesi si abbandonano al loro gusto dell’ assoluto. La Repubblica, proclamata a immagine di quella del 1792, si vuole questa volta esente dal sangue del Terrore: abolisce la pena di morte in materia politica. Il suffragio universale al quale sognavano soltanto alcuni esaltati, è adottato in uno slancio unanime. Nonostante sia limitato agli uomini, come sembra allora andare da sé, porta di colpo il numero degli elettori da 250 000 a nove milioni. Un salto di grandissima portata , mentre il liberismo britannico realizzerà questa riforma in quattro tappe, dal 1832 al 1918. In una nota pagina, Alexis de Tocqueville ha descritto il corteo dei cittadini verso il luogo del voto"secondo l'ordine alfabetico: io volli camminare nella fila che mi assegnava il mio nome, perché sapevo che in tutti i paesi e i tempi democratici, bisogna farsi mettere a capo del popolo e non mettersi da soli". Si insedia la Costituente e una commissione esecutiva sostituisce il governo provvisorio. Le libertà pubbliche si esercitano senza ostacoli, i giornali si moltiplicano, i club discutono animatamente. E la schiavitù è abolita nelle colonie (quindici anni dopo la monarchia britannica). La nuova Repubblica vuole essere anche sociale e l'operaio Albert (un meccanico) occupa un seggio simbolico a lato dei borghesi che compongono il governo provvisorio. Se rifiuta la bandiera rossa, come segno del disordine, “egli si impegna a garantire l'esistenza dell'operaio per il lavoro". Ma come mettere in pratica "l'organizzazione del lavoro", secondo uno slogan alla moda? I nuclei che si riferiscono al "socialismo" non costituiscono ancora un vero partito e il loro programma è la conseguenza della costruzione di un'utopia. In mancanza di un Ministero 22 del Progresso, proposto da alcuni impazienti, viene insediata al palazzo del Lussemburgo, al posto dei pari di Francia, una commissione di operai delegati per studiare delle soluzioni. Ma ciò non basta a placare gli animi. Mentre fermentano qua e là agitazioni agrarie e forestali, le manifestazioni parigine si succedono con crescente turbolenza: il 17 marzo ancora pacificamente, il 16 aprile sotto il controllo della guardia nazionale, il 15 maggio con un'invasione temporanea dell'assemblea. In giugno, il fuoco che cova infiamma la capitale, quando, sotto la pressione dei deputati, la commissione esecutiva se la prende con lo sviluppo disordinato dei Gruppi di lavoro nazionali. La Francia vive da due anni una grave crisi economica che combina, diceva il mio maestro Ernesto Labrousse, una crisi agraria di vecchio tipo e una crisi industriale di nuovo tipo. I disoccupati sono numerosi e non usufruiscono di nessuna assicurazione. Per venir loro incontro, sono stati aperti dei cantieri di lavori pubblici, ma i loro effettivi aumentano e la loro gestione non è sufficiente. Louis Girard li definisce giustamente come "un insieme di cassa di disoccupazione e di laboratorio di carità". Con l'intenzione di correggere gli abusi, un'ordinanza ministeriale invita il 21 giugno i più giovani beneficiari ad arruolarsi nell'esercito o a partire in provincia. Questa prima decisione è intesa come una provocazione per gli operai, disoccupati e non, che insorgono in massa. Insurrezione spontanea, senza capi, senza programma, spinta alla violenza dalla disperazione. Un conciliatore di buona volontà si fa dire sulle barricate: "Ah, signor Arago, voi non avete mai avuto fame"! La commissione esecutiva affida la missione di ristabilire l'ordine al generale Cavaignac, ministro della Guerra. È "un militare di sinistra" (un esemplare più frequente in Francia che in Europa centrale): il figlio di un Convenzionale del 93, il fratello di un militante repubblicano scomparso prematuramente, ma anche un ufficiale di carriera che si è distinto nella conquista dell'Algeria. Dispone di una guarnigione rinforzata, della guardia nazionale dei quartieri borghesi e di volontari di provincia e riconquista con le armi i quartieri popolari della zona est di Parigi. Questa battaglia di quattro giorni (23-26 giugno) impegna sia da una parte che dall’ altra da quaranta a cinquantamila uomini; provoca 1 600 morti nel campo governativo (mentre in febbraio il numero delle vittime non superava alcune decine). È il secondo tempo forte dell'anno che infrange nel sangue l'unità morale della nazione. I proprietari, repubblicani o monarchici, vi vedono con Tocqueville, aristocratico liberale, "un combattimento di classe, una guerra servile" che "non ebbe per scopo di cambiare la forma di governo, ma di alterare l'ordine della società". Gli operai, che siano o no socialisti, hanno l’ impressione di essere abbandonati nella disgrazia e schiacciati dalla repressione. La romanziera George Sand mormora con emozione: "Non credo più nell'esistenza di una Repubblica che comincia con l’uccidere i suoi proletari." La Costituzione dibattuta durante l'estate mette in atto i principi dei repubblicani moderati maggioritari nell'assemblea. Le uniche Repubbliche che esistono allora, la Confederazione elvetica e gli Stati Uniti d’America, sono degli Stati federali. Nella Francia "una e indivisibile", le timide proposte di decentramento sono scartate, come ha mostrato la tesi documentata del nostro amico Rainer Riemenschneider (Dezentralisation und Regionalismus in, Frankreich um die Mitte des19. Jahrhunderts, Bonn, 1985). Una rigorosa separazione dei poteri è istituita tra il legislativo, esercitato da un'assemblea unica, e l'esecutivo, affidato al Presidente della Repubblica. La scelta di quest’ultimo è affidata al suffragio universale, dopo una famosa controversia, dove l'appassionato Lamartine prevale sul pacato Grévy. Il posto sembra destinato al generale Cavaignac che assume da giugno una dittatura di fatto con un saggio legalismo. Tuttavia le correnti di destra, inibite in primavera, si sono riprese progressivamente. In Francia, non sono in grado di riprendere il potere con la forza (come in Austria o in Prussia) perché l'esercito serve lealmente la Repubblica, tanto per disciplina quanto per convinzione. D’altra parte, si sono divisi tra legittimisti, fedeli ai Borboni del ramo primogenito, e orleanisti che hanno sostenuto il regime di Luglio. Se questa scissione esclude una restaurazione monarchica, i dirigenti giocano il gioco parlamentare e si ritrovano nel " partito dell’Ordine", "la via di Poitiers", 23 dal programma conservatore. Ma chi proporre per la presidenza? I nomi che sono avanzati suscitano le obiezioni degli uni e degli altri. Una nuova stella spunta allora all’orizzonte: il principe Luigi Napoleone. Questo nipote del grande Imperatore ha tentato poco tempo prima due colpi di stato che sono stati un fallimento. Riunisce intorno a sé un modesto nucleo bonapartista, alcuni ufficiali in pensione e alcuni avventurieri. Nutrendo idee vagamente progressiste, fa delle “avances” agli uomini di ordine. Molti di questi immaginano che potranno manovrarlo e si schierano per la sua candidatura presidenziale. Il 10 dicembre 1848, è il terzo tempo importante. Un fallimento cocente per i concorrenti: 1500 000 voti per Cavaignac, 370 000 per Ledru Rollin, l'uomo dei repubblicani radicali, 17 000 appena per Lamartine, ora stanco. Un trionfo per il principe: 5 500 000 voti. Trionfo eccezionale nella lunga storia delle elezioni francesi (l’unico equivalente è il nostro recentissimo secondo turno del 2002! ). L'accordo degli stati maggiori è stato ratificato da un'adesione di massa alla quale ha contribuito certamente la trasfigurazione della leggenda napoleonica. La Fratellanza dei Popoli Se la politica interna è oscillante e agitata, i francesi del 1848 sono anche attenti ai movimenti nazionali che sollevano parallelamente i popoli vicini e che possono anche rivendicare il primato in Polonia o in Italia. Dai monarchici, scrive l'ex ministro Rémusat, "questa improvvisa agitazione di tutta l'Europa ci toccò solo come una garanzia del mantenimento della pace". I repubblicani, in compenso, non limitano all’Esagono la loro esaltazione della libertà. Aspirano a vedere le altre nazioni emanciparsi anche loro dai loro regimi reazionari. Victor Hugo, poeta già illustre, vibra di fervore il 2 marzo 1848, quando viene piantato davanti al suo domicilio parigino in places des Vosges un albero della Libertà: "Siamo tutti degli uomini di buona volontà, non risparmiamo né la nostra pena né le nostre fatiche. Spargiamo sul mondo che ci circonda, e da qui sul mondo intero, la simpatia, la carità, la fratellanza". Il tono è più rivoluzionario e più bellicoso nel popolare Canto dei soldati, composto da Pierre Dupont,: “Le Repubbliche nostre vicine Della Francia invocano il nome Che le Alpi siano delle colline Per i cavalli ed i cannoni. Alle armi, corriamo alle frontiere! Che si mettano davanti ai nostri fucili Gli oppressori di ogni paese I petti dei Radeski! I popoli sono per noi dei fratelli E i tiranni dei nemici.” Questi slanci generosi, rileva Maurice Agulhon, non escludono gesti xenofobi contro degli operai belgi a Douai, contro degli operai italiani a Marsiglia. Le colonie straniere sono molto numerose nelle grandi città che sono sempre state in Francia dei focolai di immigrazione. Nella primavera del 1848, l'effervescenza generale li assale e la passione politica, aumentata dalla crisi economica, suscita delle spedizioni avventurose verso il paese di origine. Il 25 marzo, dei gruppi belgi superano la frontiera del nord, sono fermati facilmente dalla gendarmeria, nella frazione di Rischiamo tutto, dal nome predestinato. Il 30 marzo, dei Savoiardi, appoggiati da militanti lionesi, occupano velocemente Chambéry che appartiene ancora al regno di PiemonteSardegna. Una legione tedesca, costituita da operai che lavorano a Parigi e da simpatizzanti polacchi, in aprile penetra già attraverso Strasburgo nel grande ducato di Bade insorto. La sua azione tardiva e disordinata, mal condotta dal poeta Georg Herwegh, non impedire l'insuccesso della sommossa. Mai la scintilla gettata dalla Francia provoca l'incendio. Se l'esempio parigino 24 incoraggia i rivoluzionari dell’ Europa centrale, la loro azione che ha un grande sviluppo, è pienamente autonoma. I Francesi del 1848 portano la più viva simpatia alla causa della "Polonia martire". Questa si basa sul ricordo di un'alleanza ancestrale, sull'indignazione di vedere una nazione divisa tra tre Imperi avidi, sulla partecipazione di volontari durante la Rivoluzione e l'Impero. Più recentemente, l'opinione francese ha sostenuto con i suoi auspici l'insurrezione del novembre 1830 a Varsavia. Dopo il suo annientamento, sono accorse alcune migliaia di ufficiali patrioti. Mentre, per precauzione, queste schiere turbolente venivano confinate in provincia, la società della capitale ha fatto festa ai grandi nomi: al principe Czartoryski, al musicista Chopin, al poeta Mickiewicz. Nell'aprile 1848, l'argomento ritorna in auge, quando Berlino rifiuta l'autonomia al granducato di Posen. Un club parigino lancia una petizione in favore dell’ "eroica e sfortunata nazione", che si recherà in massa all'Assemblea, il 15 maggio. Se è piuttosto un pretesto che una rivendicazione, la scelta del tema è significativa "Il nome altisonante della Polonia, commenta Pierre del Gorce, era d’altronde azzeccato per portare in strada questa folla innocua e idiota che, in tutte le sommosse, copre i provocatori e paralizza la repressione." Si segue parimenti con favore il movimento liberale e unitario negli Stati italiani, lo slancio di emancipazione dei Cechi in Boemia e, meno unanimemente, la lotta degli Ungheresi per restaurare la loro indipendenza. Ascoltiamo di nuovo Pierre Dupont, che fa appello alla solidarietà contro i sovrani dell’ Ancien Régime, "Da Pest a Roma le tappe Sarebbero dei roghi di martiri. I cosacchi, orrendi satrapi, Sazierebbero i loro desideri. [...] Soldati, fermiamo questa orda! [... Cannoni, con le vostre bocche giganti Respingete la marcia dello Zar! ". Quanto alla Rivoluzione tedesca, la sua approvazione di principio si sfuma di perplessità e di apprensione. I francesi non hanno dimenticato lo scontro passionale delle opinioni durante la crisi internazionale del 1840, e il dialogo dei canti composti allora sul tema del "Reno tedesco", o francese? Si preoccupano, nota Rainer Riemenschneider, di dichiarazioni sentite alla Paulskirche sulla cultura germanica dell'Alsazia. "L'alsaziano", afferma il 18 ottobre Charles Dupin, personaggio in vista, "prenderebbe le armi contro la Dieta di Francoforte, se questa dieta gli dicesse che deve essere tedesco di fatto, per il diritto del suo dialetto". In un'ottica globale, Jules Dufaure che farà una bella carriera ministeriale, invita i deputati dell’Assemblea costituente a tenere ampiamente conto di questo dato "che un grande paese alle nostre porte si sforza di costituire uno Stato di 50 milioni di uomini." Davanti a questa fermentazione dei popoli, i nuovi dirigenti di Parigi conservano del resto il sangue freddo. In seno al governo provvisorio, Lamartine che possiede solo una notorietà europea, ha ricevuto la responsabilità degli Affari Esteri. In una circolare agli ambasciatori, scrive il 4 marzo: "Se l'ora della ricostruzione di alcune nazioni oppresse in Europa, o altrove, ci sembrasse essere suonata nei decreti della Provvidenza", se negli Stati dell'Italia "si contestasse a mano armata il diritto di allearsi tra di loro per consolidare una patria italiana, la Repubblica francese crederebbe di avere il diritto di armare lei stessa per proteggere questi movimenti legittimi di crescita e di nazionalità dei popoli". Slancio retorico, subito completato per allontanare ogni sospetto di messianismo rivoluzionario: la Repubblica ” non farà affatto propaganda sorda o incendiaria presso i suoi vicini. Sa che le libertà durature sono solo quelle che nascono da sole sul proprio suolo". Rémusat, un uomo del regime precedente, commenta con malizia. Lamartine "copriva con un fragore di eloquenza umanitaria una politica prudente e pacifica. Egli era la poesia di cui Guizot era la prosa". 25 Sotto la risonanza di queste belle frasi, il comportamento concreto è molto trattenuto. In favore dei Polacchi di Posnania, Lamartine si accontenta di un intervento discreto a Berlino che delude gli spiriti focosi. Manda a Francoforte solo un rappresentante ufficioso, in missione di osservazione. Il suo fedele Jules Bastide, giornalista giacobino serio e scialbo, deplora da parte sua "il potere temibile" del Reich che prende forma e "lo spirito di invasione che si manifesta in Germania". Contrario all'unione del regno lombardo-veneto al Piemonte-Sardegna, preferirebbe nella penisola "una confederazione di Stati sovrani" alla " formazione di una monarchia italiana". Il principe Luigi Napoleone certo non ha dimenticato il suo passato da militante carbonaro a Modena, ma all'inizio del suo mandato non è ancora abbastanza forte per imporre le sue vedute ai suoi ministri conservatori. Tra questi ministri, il prudente Tocqueville, brevemente incaricato agli Affari Esteri nell'estate 1849, fa sue le due massime " rompere senza riserve col partito rivoluzionario ", ma "senza mai entrare nelle passioni dei vecchi poteri". Resta passivo davanti al fallimento della democrazia unitaria in Germania come davanti all’ annientamento dei sostenitori dell'indipendenza in Ungheria. In Italia, tenta in buona fede una mediazione pacifica tra i campi opposti. Con questo intento, un corpo di spedizione è stato mandato a Roma, dove i repubblicani trascinati da Mazzini hanno rovesciato il potere temporale del Papa. Ma, sotto la pressione dei cattolici, il corpo di spedizione lo ristabilisce finalmente con le armi, contro la volontà del ministro, e la protesta indignata della sinistra francese resta assolutamente vana. La visione francese dell'Europa La Repubblica francese si ravviva nel quadro dell’ ordine internazionale che caratterizza l'epoca. Per l'espansione oltremare, quello è un momento di pausa, tra le spinte imperialistiche del 1760 e del 1880. L'attenzione dei poteri si concentra sul vecchio continente. Esiste un sistema diplomatico, che viene qualificato correntemente come "concerto europeo". Alla caduta di Napoleone, i sovrani di Russia, Austria e Prussia hanno firmato un proclama di ordine ideologico, "la Santa Alleanza"; soprattutto, hanno preso l'impegno di solidarietà che proponeva loro il governo della Gran Bretagna, il 20 novembre 1815. All’inizio posta sotto sorveglianza, la Francia monarchica è stata ammessa successivamente in questo direttorio supremo. Per tre decenni, si sono sviluppate rivalità e si sono manifestati disaccordi: così tra Parigi e Londra a proposito dei matrimoni nella famiglia reale della Spagna. Domina tuttavia la volontà di mantenere lo status quo dell'equilibrio. Il perno di questo orientamento conservatore è il vecchio cancelliere austriaco Metternich che resta al suo posto fino all'insurrezione viennese del 15 marzo 1848. Prendendo le sue funzioni, Lamartine cerca al tempo stesso di soddisfare l'amor proprio nazionale e di rassicurare i paesi stranieri. Nelle sue istruzioni agli ambasciatori, tenta con acutezza di conciliare i contrari. Da una parte, "i trattati del 1815 non esistono più di diritto agli occhi della Repubblica francese". Dall’altra parte, "tuttavia le circoscrizioni territoriali di questi trattati sono un fatto che ammette come base e come punto di partenza nei suoi rapporti con le altre nazioni". Così "i trattati del 1815 esistono solo come fatti per modificare un accordo comune". dandosi per "missione di arrivare regolarmente e pacificamente a queste modifiche", la Repubblica francese, insiste Lamartine, desidera "entrare nella famiglia dei governi istituiti come una potenza regolare, e non come un fenomeno perturbatore dell'ordine europeo". Dichiarazioni credibili, poiché pronunciate, nota Rémusat, da un ministro "poco sensibile alla gloria militare, ostile ai ricordi dell'Impero e i cui modi e tono non potevano scagliarsi contro la diplomazia straniera". Ora, "ciò conveniva al temperamento dell'assemblea che non era affatto bellicosa e che, in tutte le sue parti, anche sulle altezze della Montagna [a sinistra], si interessava poco alla politica estera". Questo perché in fondo "lo spirito di propaganda bellicosa che aveva così tanto agitato il popolo del 1830 si era molto raffreddato nel popolo del 1848." Ciò non cambia col potere personale di Cavaignac. Per Rémusat, "all'estero, dove né la necessità, né il dovere, né l'opinione gli chiedeva cosa fosse, non fece niente, o così poca cosa che si può dire che non avesse politica estera". E al Quai d’Orsay, Tocqueville si fisserà per 26 obiettivo "di non aspirare, in una parola, al posto che avevamo potuto occupare in altre epoche e che lo stato attuale del mondo non ci permetteva più di tenere, ma di occupare fieramente il posto che ci restava ancora." L'opinione pubblica è molto più vibrante. Ai suoi occhi, l'emancipazione delle nazioni, che spera di vedere realizzarsi, metterà fine alle guerre, che si attribuisce ben schematicamente ai soli appetiti dei monarchi. La democrazia, si vuole credere, introdurrà uno spirito nuovo nelle relazioni internazionali. Il 21 agosto 1849, Victor Hugo apre così un Congresso della Pace: "Gentili Signori, esclama con eloquenza, questo pensiero religioso, la pace universale, tutte le nazioni legate tra loro da un legame comune, il Vangelo per legge suprema, la mediazione sostituita alla guerra, questo pensiero religioso è un pensiero pratico, questa idea santa è un'idea realizzabile"?. "Io, rispondo con voi, rispondo senza esitare: Sì! ". "E Francesi, Inglesi, Belgi, Tedeschi, Russi, Slavi, Europei, Americani, che cosa dobbiamo fare per arrivare il più presto possibile a questo grande giorno? Amarci." Il poeta si entusiasma sul progresso tecnico: “Come svaniscono le cause della guerra con le cause della sofferenza! Come si toccano popoli lontani! Come si accorciano le distanze! E l’avvicinamento, è l’inizio della fratellanza!” Speranza idilliaca sicuramente, illusione di cui la storia del XX secolo svelerà l’ingenuità: i conflitti scatenati dal nazionalismo dei popoli verseranno molto più sangue delle piccole guerre dei re dell’ Ancien Régime. In questo slancio, Victor Hugo propone una visione profetica del destino dell'Europa. All'Assemblea legislativa, il 17 luglio 1851, egli profetizza: "Il popolo francese ha tagliato in un granito indistruttibile e posato proprio nel mezzo del vecchio continente monarchico la prima base di questo immenso edificio dell'avvenire che si chiamerà un giorno gli Stati Uniti d'Europa"! La formula, calcata sul modello americano, denota dell’ utopia sognata più che della politica concreta. Secondo il processo verbale dei dibattimenti, suscita un gran "Movimento" nel pubblico e "una lunga risata a destra." Questo non è che uno slogan vuoto. In esilio, in un banchetto del mese di febbraio 1855, il suo autore preciserà la filosofia che lo ispira: "Il continente sarebbe un solo popolo; le nazionalità vivrebbero della loro vita propria nella vita comune: l'Italia apparterrebbe all'Italia, la Polonia apparterrebbe alla Polonia, l'Ungheria apparterrebbe all'Ungheria, [rileviamo la scelta degli esempi, rivelatori delle sue simpatie] la Francia apparterrebbe all'Europa, l'Europa apparterrebbe all’Umanità". Ormai, "poiché il gruppo europeo non è che una nazione, la Germania starebbe alla Francia, la Francia starebbe all’Italia ciò che oggi la Normandia è alla Picardia e la Picardia alla Lorena". Conclusione ottimista: "non più guerra, di conseguenza non più esercito". Perché non si considera assolutamente che i pericoli potrebbero venire ancora dall’estero. Il quadro di questa futura Europa, abbozzato a grandi tratti, contiene un'audace predizione, che noi vediamo realizzarsi dopo centocinquant'anni. Nel quadro continentale, "i fiumi liberi, gli stretti liberi, gli oceani liberi". Sul piano economico, "non più frontiere, non più dogane, non più imposte, il libero scambio". Anche "una moneta continentale, a doppia base metallica e fiduciaria, che ha per punto di appoggio il capitale Europa tutto intero e per motore l'attività libera di duecento milioni di uomini". Sul piano politico, "l'Assemblea degli Stati Uniti d’Europa uscita dal suffragio universale di tutti i popoli del continente". è indicato che regolerà "tutte le questioni dell'Umanità", perché il profeta non ha previsto affatto la preponderanza a venire dall'America e dalla Russia. Fin dal 1835 il suo contemporaneo Tocqueville vedeva invece questi due popoli chiamati "da un decreto segreto della Provvidenza a tenere un giorno nelle sue mani i destini della metà del mondo": l’uno ha per principale mezzo di azione la libertà, l'altro la schiavitù." L'Europa di Victor Hugo, aggiungiamolo, fisserà la sua capitale a Parigi. Fin dal 2 marzo 1848, dichiarava senza nessuno complesso: "Da tre secoli, la Francia è la prima delle nazioni". " Amici miei, fratelli miei, cari concittadini, instauriamo nel mondo intero, attraverso la grandezza dei nostri esempi, l'impero delle nostre idee. Che ogni nazione sia felice e fiera di 27 somigliare alla Francia". "La Grande nazione", come si qualificava lei stessa nel 1792, si considera come un modello. Se non pensa più certamente a un'espansione conquistatrice con le armi, crede sempre con arroganza alla sua superiorità sulle altre nazioni nel campo della lingua, della cultura, delle idee. Con Maurice Agulhon, il migliore esperto del periodo, riconosciamo semplicemente "che lo spirito quarantottino, in questo campo, copriva di una formulazione umanitaria la perpetuazione del nazionalismo francese suscitato in reazione ai trattati del 1815." 28 Riferimenti e selezione bibliografica Agulhon, Maurice, 1848 ou l'apprentissage de la République, Seuil, 1972. Agulhon, Maurice, Les Quarante-huitards, Julliard, 1975. De La Screpolo, Pierre, Histoire de la Seconde République française, Plon, 1886. De Remusat, Charles, Mémoires de ma vie, Plon, Vol. IV, 1962. De Tocqueville, Alexis, Souvenirs (Opere complete, Vol. XII, 1964. Girard, Louis, La II République, Calmann Lévy, 1968,. Pena Ruiz, Henri, e Scot, Jean Paul, Un poète en politique. Les combats de Victor Hugo, Flammarion, 2002. Pouthas, C., Démocratie, réaction, capitalisme, PUF, 1983,. Renouvin, Pierre, Histoire des relations internationals, Hachette, Vol. V, 1954, pp. 193-218. Riemenschneider, Rainer, Dezentralisation und Regionalismus in Frankreich um: die Mitte des 19. Jahrhunderts, Bonn, 1985. Vigier, Philippe, La vie quotidienne en province et à Paris pendant lesjournées de 1848, Hachette 1982. 29 4- La Germania e la Monarchia degli Asburgo 1848-1849 Wolfram Siemann Il presente articolo tratta la questione della Germania e della monarchia degli Asburgo sotto quattro angolature diverse. Esso esamina innanzitutto in quale misura le relazioni della Germania e della monarchia degli Asburgo hanno presentato nel momento della Rivoluzione europea del 1848-49 un carattere particolare e difficile; successivamente si interroga sulla partecipazione della monarchia asburgica allo slancio nazionale in Germania e in Europa centrale; la terza parte tratta dell'insuccesso della Rivoluzione, mentre il quarto ed ultimo punto si sforza di procedere ad una classificazione storica, portando un'attenzione particolare al ruolo della monarchia degli Asburgo. I rapporti della Germania con la Monarchia degli Asburgo 1848-1849 Lo storico praghese Jiřï Kofalka, autore dell'opera monumentale Die Habsburgermonarchie, ( La monarchia degli Asburgo), tratta dell'Impero in seno al sistema delle relazioni internazionali nel tomo intitolato Deutschland und die Habsburgermonarchie 1848-1918 ( La Germania e la Monarchia degli Asburgo dal 1848 al 1918, Kořalka, 1993 ed.). La formulazione stessa del titolo pone già problemi in sé, perché lascia supporre che "la Germania" e la monarchia degli Asburgo formavano due entità distinte i cui rapporti si situano sul piano delle relazioni internazionali. Ecco che non manca di sorprendere, perché la monarchia asburgica faceva parte fino al 1866 , per una parte importante dei suoi territori, della Confederazione germanica di cui assicurava la presidenza in seno ai trentotto Stati tedeschi della Dieta di Francoforte. Lo storico viennese Heinrich Lutz pone il problema in un' altra maniera, intitolando il suo studio generale del XIX secolo Zwischen Habsburg und Preuβen Deutschland 1815-1866 (Tra Asburgo e Prussia - La Germania dal 1815 al 1866, Lutz 1985). Non sarebbe stato più logico preferirgli il titolo "Tra Austria e Prussia"?. E che cosa si intente per "la Germania"?. Si pone davvero " tra Asburgo e Prussia?" Questo dilemma non è nuovo; i contemporanei della Rivoluzione del 1848 ne avevano particolarmente coscienza. Franz Grillparzer scrive così il 18 aprile 1848 nel suo giornale viennese: "Questi cari Austriaci! Ecco che riflettono sul modo di unirsi alla Germania, senza unirsi alla Germania! Questo progetto sarà molto difficile da realizzare, tanto difficile come per due persone volersi abbracciare girandosi la schiena"! , citato da Siemann, in Haider e Hye, 2003. Kořalka lo descrive come "il dilemma esistenziale dell'Austria riguardo alla questione tedesca" che si è delineata al momento della Rivoluzione del 1848; è in effetti in questo momento che si è posta, non più unicamente sotto forma di riflessione teorica di cui era oggetto prima delle giornate di marzo 1848, ma nella pratica politica della rivoluzione civile, la domanda di sapere "se, e se sì in quale misura, l'Austria era parte costituente della Germania". Si trattava difatti solo di determinare "se conveniva mantenere, dividere o distruggere lo stato imperiale degli Asburgo" (Kořalka, op. cit. p. 4). Una caricatura pubblicata dal quotidiano democratico Reichstags-Zeitung scinde l'aquila imperiale bicefala, sormontata da una corona imperiale sospesa, in due parti che rappresentano la Prussia e l'Austria; la prima incarna Heinrich von Gagern, Presidente dell'Assemblea nazionale di Francoforte, e la seconda si presenta sotto i tratti di Anton Ritter von Schmerling, Primo, ministro imperiale. Essi appaiono come due siamesi che si girano la schiena, indissolubilmente legati l’uno all'altro. Ci piacerebbe credere che Grillparzer abbia preso conoscenza di questa litografia. L'allusione fatta dalla legenda scritta sotto la caricatura, "Oreste e Pilade", era comprensibile solo da un lettore studioso di lettere classiche: essa significava difatti che, come Oreste aveva assassinato la propria madre con l'aiuto di Pilade, Gagern metteva fine alla speranza di una Germania democratica col sostegno di Schmerling. 30 La Rivoluzione del 1848-49 segnò l'inizio dell'era degli Stati-nazione in Europa centrale. Per le nazioni che componevano gli insiemi di poteri sovranazionali ( in Prussia, nella monarchia degli Asburgo e nella Russia zarista), l'obiettivo era obbligatoriamente di vedere i fuoriusciti della loro nazione riuniti in uno Stato sovrano, dotato di una costituzione moderna elaborata sul modello dell'Europa occidentale. Oltre i Tedeschi, questa ambizione animava in particolare i Polacchi, gli Ungheresi e gli Italiani. I Cechi, gli Slovacchi, gli Sloveni, i Croati e i Ruteni rimanevano per il momento disposti ad accontentarsi di un'autonomia posta sotto la sovranità degli Asburgo. I Cechi e gli Italiani del Sud-Tirolo avrebbero d’altronde dovuto partecipare alla formazione di uno Stato nazionale a Francoforte, in virtù della loro appartenenza ancestrale alla Confederazione germanica; ma essi gli opposero un rifiuto categorico. Il dilemma tra una forma di Stato sovranazionale e un orientamento nazionale esisteva dall'adozione dell’ "atto costitutivo della Confederazione germanica", all'epoca del Congresso di Vienna l’ 8 giugno 1815. Nel suo preambolo, "i principi sovrani e le città libere della Germania" sono d’accordo sull’obiettivo confederale comune di concludere un'alleanza solida e duratura "per la sicurezza e l'indipendenza della Germania, così come la pace e l'equilibrio dell'Europa" e di voler stabilire tra essi "una confederazione continua" (Huber, 1978, p. 84M. La Confederazione germanica e la monarchia degli Asburgo si consideravano insieme come una costruzione prenazionale, una sorta di corpo ereditario generato dal Sacro-Impero romano germanico. Quest’ultimo rappresentava un agglomerato di territori sovrani, diretti da principi e patriziati municipali poco preoccupati delle particolarità nazionali. Se si sovrappone la superficie territoriale che presentava il Sacro-Impero fino al 1806 ai confini della Confederazione germanica sancita nel 1815, si può constatare che ad eccezione dei Paesi Bassi belgi e delle minime differenze il tracciato della seconda riprende fedelmente quello del primo. Ciò spiega perché la Confederazione germanica accoglieva un così grande numero di nazionalità non tedesche; è anche questo il motivo per il quale la monarchia degli Asburgo era annessa di diritto pubblico, dalla parte occidentale dell'Impero che inglobava delle popolazioni di nazionalità italiana, ceca, slovena e croata, alla Confederazione germanica. Questa eredità del Sacro-Impero spiega nello stesso modo che il Ducato di Schleswig, così come le province prussiane di Posnania, della Prussia orientale e della Prussia occidentale, non facessero più parte della Confederazione germanica, sebbene le rivendicazioni in questo senso siano state forti all’epoca dell'agitazione nazionale del 1848 ed abbiano portato il potere centrale provvisorio associato alla Prussia, a causa della questione dello Schleswig, alla guerra contro la Danimarca. Inoltre, la Confederazione germanica non offriva un quadro adeguato a uno Stato- nazione tedesco unificato sin dal momento in cui non si ricercava un modello federale come quello della Svizzera, ma un insieme etnico omogeneo. Il ruolo della Monarchia degli Asburgo nel rinnovamento nazionale in Germania e in Europa centrale Tenuto conto della moltitudine di orientamenti statali e nazionali che regnava in Germania, non è facile comprendere perché il monarchia asburgica ha in un primo momento preso parte attivamente allo slancio nazionale tedesco o, più precisamente, perché i Tedeschi della monarchia hanno considerato Francoforte, e non Vienna, come il centro nazionale della sua rifusione sottoforma di uno Stato costituzionale; perciò è necessario un chiarimento. Da un punto di vista attuale, è difficile determinare quanto l'impronta delle vecchie strutture, in particolare quelle della Confederazione germanica, rimanesse viva, malgrado la pressione degli avvenimenti rivoluzionari. La Costituzione generata dalla rivoluzione riprende le norme della Confederazione germanica, basandosi sulla sua definizione delle circoscrizioni elettorali e, naturalmente, sulle regioni tradizionali del territorio confederale. Fu così fino alla fine del processo costituzionale, poiché l’Assemblea nazionale costituente iscrisse, a dispetto di tutte le esperienze dell'anno rivoluzionario, nell'articolo primo della "Costituzione dell'impero tedesco" del 28 marzo 1849: "l’Impero tedesco è costituito dal territorio della vecchia Confederazione germanica" (Huber, 1978, p. 375). 31 La partecipazione inizialmente attiva della popolazione germanofona della monarchia degli Asburgo allo slancio nazionale tedesco e ai lavori costituzionali di Francoforte che gli hanno fatto seguito si spiega per cinque importanti ragioni. 1. Una nuova libertà L'immagine di un "sistema Metternich" concepito come repressivo per l'insieme della vita sociale si era imposta, con più o meno forza a seconda del periodo, nello spirito della popolazione austriaca della Restaurazione e del periodo precedente alle giornate del marzo 1848. Anche se la storiografia più recente considera molto più questa transizione verso i tempi moderni come un periodo ben più contrastato e complesso di quanto lo si credeva una volta e sfuma molto il suo giudizio sul cancelliere austriaco, i contemporanei di quest’ ultimo rappresentavano tuttavia questo sistema come un meccanismo pesante e fisso il cui cedimento avrebbe dato vita a un'era di libertà e di prosperità. La borghesia illuminata e la nobiltà liberale avevano forgiato questa immagine, che la stampa libera doveva amplificare verso il popolo. Questa enorme speranza nell'avvenire, associata alla caduta di Metternich, non aveva guadagnato le sole popolazioni tedesche della monarchia. Una caricatura ceca ne è la testimonianza in modo molto netto: si vede Mettemich in fuga, posto su due piccole locomotive, mentre un volo di corvi che gracchiano rotea sopra alla sua testa e in lontananza si erge un arco di trionfo sormontato dal gonfalone della Costituzione. La particolarità della Rivoluzione che infiammò tutta l'Europa fu di propagandare un programma comune essenziale che andava oltre tutte le particolarità regionali e territoriali, che diffuse con una rapidità incredibile ed uno stesso obiettivo. Da Mannheim, dove avevano esordito le "rivendicazioni di marzo", aveva guadagnato non solo gli Stati della Confederazione germanica, ma anche gli ultimi recessi della monarchia degli Asburgo, come la lontana città moldava di Kronstadt, e richiesto il diritto alla nazionalità, alla rappresentazione politica incarnata dai parlamenti eletti e ad una Costituzione scritta che garantisse le libertà pubbliche. La Rivoluzione non si propagò in modo unidimensionale, ma evolvendosi da Parigi fino al sud della Germania, da Milano e Vienna a Berlino, dalle numerose città dove aveva sede il potere verso la periferia, poi da quest’ ultima di nuovo verso le capitali, di modo che mise temporaneamente in piedi una rete di comunicazione che comprendeva tutta l'Europa . (Vedere, per esempio, Dowe, Haupt e Langewiesche, 1998,; Jaworski e Luft, 1996,; e Haider e Hye, 2003). Questo movimento trasse la sua forza particolare nel fatto che trovò, al di là degli strati borghesi della società, un'accoglienza favorevole presso una gran parte dalla popolazione contadina che associava innanzitutto le sue aspirazioni libertarie all'abolizione delle corvé, schiavitù e dipendenze eccessive alle quali era sottoposta. 2. La "primavera dei popoli" Il sentimento di appartenere a un fronte di opposizione comune e di prendere parte a un gigantesco movimento di liberazione dell' intera Europa fu rafforzato ancora di più quando i "popoli" presero coscienza della loro identità nazionale e realizzarono che questi erano gli argomenti della storia. Questa esperienza raggiunse il suo punto culminante con l'utopia della "Primavera dei Popoli" che dilagò in particolare nelle nazionalità "oppresse" che costituivano i Polacchi, i Cechi, gli Ungheresi e gli Italiani. La sua rappresentazione immaginosa più celebre è quella del litografo francese Frédéric Sorrieu. Egli presenta l'utopia dell'amicizia dei popoli in una serie di incisioni, dove i popoli si uniscono in un ordine mondiale pacifico, una "Repubblica universale democratica e sociale". La prima tavola è la più conosciuta; essa si intitola "Il patto". Il corteo lunghissimo dei popoli si avvicina verso la statua della Libertà, simboleggiata da un'allegoria femminile. Essa tiene nella sua mano sinistra la fiaccola della luce e si appoggia con la sua mano diritta sulla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. I simboli infranti delle monarchie europee animano il primo piano; il Cristo, incarnazione della fratellanza, sovrasta la scena. Una "santa alleanza" dei popoli viene a sostituire la Santa Alleanza dei principi. L'utopia della "Primavera dei Popoli" fu comune in tutta l'Europa e gli storici successivi a questo periodo non possono far altro che stupirsi che gli attori della Rivoluzione abbiano 32 giudicato, nei primi tempi del movimento, questa fede nel futuro naturalmente compatibile con l'esistenza della monarchia degli Asburgo. I dirigenti politici e militari della monarchia si resero invece conto fin dall’ inizio della minaccia fondamentale che rappresentava la Rivoluzione per il mantenimento dello Stato multinazionale. Quattro esempi attraverso le immagini che rappresentano diverse nazioni all’inizio della Rivoluzione permettono di constatare che l'enfasi del movimento di liberazione (contro il vecchio sistema) sembrava includere un'intesa pacifica tra le nazioni. Queste testimonianze immaginose provengono da Presbourg, Milano, Praga e Berlino. Un'illustrazione stilizzata glorifica l'eroe nazionale e poeta ungherese Sándor Petöfi, che declama a Pest il 15 marzo 1848 la sua poesia "In piedi, Magiari…”Questa litografia contemporanea è considerata come il punto di partenza dell’ insurrezione nazionale ungherese. La litografia a colori stampata a Milano, "Il Risorgimento d’ Italia 1848", crede ancora fermamente in un'associazione compatibile della "risurrezione dell'Italia" con i rappresentanti del vecchio Regime, poiché l'allegoria dell'Italia, elevata nei cieli dove è in compagnia dei monarchi che avevano promulgato una Costituzione nei loro Stati, cioè Pio IX, Carlo Alberto di Piemonte-Sardegna e il granduca di Toscana, Leopoldo d’Asburgo, scaraventa col suo bastone le truppe austriache negli inferi. Lo stesso messaggio traspare in una litografia la cui legenda è stampata in tedesco e in ceco, "Die Slawenmesse am Pfingstmontag in Prag 1848" ( La messa slava del lunedì di Pentecoste a Praga nel 1848), che, attraverso questa grande manifestazione che riunì il 12 giugno 1848 tutti gli strati della popolazione, illustra in modo vivace l'atmosfera di partenza, piena di speranza che si espresse il giorno stesso nella proclamazione del Congresso slavo di Praga. I delegati convinti della "Primavera dei Popoli" vi presentarono la loro proposta di "trasformare lo stato imperiale in una Confederazione di nazioni con gli stessi diritti" e di convocare a tal fine un "Congresso generale europeo dei popoli per il regolamento di tutte le questioni internazionali", poiché "i popoli liberi si comprendono più facilmente dei diplomatici remunerati." La preoccupazione di dominare il problema che rappresentava il fatto di poter essere compreso dalla popolazione grazie all'impiego di diverse lingue è illustrata perfettamente dalla Proclamazione di Berlino del 3 aprile 1848, che invita a recarsi a una grande riunione repubblicana" (…) "in onore della grande Rivoluzione europea"; i discorsi si erano infatti tenuti in tedesco, inglese e francese. Queste dichiarazioni devono essere prese sul serio, come l'espressione di una volontà annunciata di giungere a un’ intesa pacifica tra le nazioni. Non è affatto necessario sottolineare che questa utopia della Primavera dei Popoli non rispondeva alla complessità delle motivazioni contrarie alla Rivoluzione europea. La stampa liberata smascherò, nel corso dell’anno rivoluzionario, l'utopia irrealistica che si nascondeva dietro a questa pratica politica e non risparmiò i suoi sarcasmi - motori propizi ad attivare la formazione dei partiti. Le contraddizioni emersero quando i deputati dei diversi parlamenti si prepararono a creare degli Stati-nazione e a definire il tracciato delle loro frontiere. Il tracciato delle frontiere significava tuttavia tanto la guerra quanto le dislocazioni. I Tedeschi e Danesi dello Schleswig, i Polacchi di Posnania, i Cechi di Boemia e Moravia, gli Ungheresi e gli Italiani dei territori della monarchia asburgica ne fecero le spese. La gravità con la quale furono descritti i rapporti tra l’ impero austriaco e la Germania traspaiono anche nelle caricature. Una caricatura viennese prese così per tema il carattere esplosivo della questione delle nazionalità e la posizione delicata dell'Austria in seno alla Confederazione germanica. Appariva chiaramente che questa questione doveva far scoppiare l'unità tedesca: "Calma signori, se si strappasse potreste cadere! ". 3. La possibilità per l’Austria di prendere una via tedesca La terza spiegazione di questa breve speranza nazionale tedesca posta nella monarchia degli Asburgo giunge ad una fase particolare, nel corso del quale il grande Stato sembrò smembrarsi e 33 la fortuna di una "via tedesca" per l'Austria sembrò sorridere ai contemporanei. Questa opportunità si presentò quando il più fedele sostenitore di Metternich, il conte Franz Hartig, si pronunciò a favore di un ritiro della Lombardia in Italia del Nord; il granduca Giovanni vi fu ancora appena disposto nell'ottobre 1848. A ciò si aggiunse il fatto che in estate l'Ungheria sembrò totalmente persa per la monarchia. Il Primo ministro Wessenberg tenne per probabile la perdita della Galizia che Franz Stadion, il governatore austriaco di Lemberg, non dichiarò il 6 maggio 1848 di non poter tenere ( per maggiori dettagli cf. Hôbelt, 1998). In questo periodo di apparente cedimento dell’intera monarchia, sembrò plausibile ai suoi rifugiati tedeschi che avrebbero preso parte attiva all'opera di unificazione nazionale di Francoforte. 4. Il mito delle barricate Inoltre, il "mito delle barricate" contribuì a sopravvalutare le forze della Rivoluzione. La quasi totalità delle immagini di barricate diffuse a Berlino, Vienna, Parigi e Francoforte facevano credere che esse rappresentavano il modo di resistere alle vecchie forze militari e di vincere l'esercito tradizionale durante la Rivoluzione. Questo mito delle barricate, andando di pari passo con le attese delle milizie cittadine, era, per la prima volta sottolineata da Langewiesche, in Bachofer e Fischer, 1983. Gli unici due dagherrotipi probabilmente conservati delle barricate del 1848 stabiliscono chiaramente che la realtà era ben più amara di quanto lasciavano intendere le litografie colorate e stilizzate che ne riproducevano le immagini. Si scopre così, priva della stilizzazione eroica propria del giornalismo illustrato, una strada sbarrata da un ammasso di pietre, di mobili e di utensili, che appare, nella seconda immagine, sgombra al termine dei "combattimenti di giugno". 5. Elezioni Infine, le prime elezioni generali tedesche sul suolo della Confederazione germanica e la designazione del granduca Giovanni d'Austria come "vicario d’Impero" il 29 giugno 1848 non spinse immediatamente gli Austriaci a manifestazioni traboccanti di favore della loro partecipazione a un processo di costituzione di uno Stato tedesco comune. Conviene tuttavia osservare a questo proposito che il granduca Giovanni era stato nominato poco tempo prima, il 16 giugno 1848, rappresentante dell'Imperatore. In un certo modo, malgrado le proteste levate dai democratici e in particolare i prussiani nella chiesa di San Paolo, questi avvenimenti apparvero così come un’ anticipazione della forma futura di un Impero tedesco che avrebbe inglobato l'Austria. Una litografia anonima restituisce, nello stile affascinante dell'epoca Biedermeier, il sentimento di concordia che prevaleva nell'estate 1848. Intorno al medaglione del vicario dell’Impero, il granduca Giovanni, e davanti alle due allegorie femminili della Germania e della Libertà che si tengono in piedi, si inginocchiano o si inclinano il prete, l'ufficiale, la guardia nazionale, il soldato, il contadino, il commerciante, l'artigiano e l'operaio, cioè tutti gli strati della popolazione ad eccezione della sua componente femminile). Sotto l'immagine appare il motto "Niente più Prussia né Austria, una Germania unita, forte e maestosa, solida come le sue montagne". Questo insieme doveva essere unito sottoforma di una confederazione di Stato, dotata di una flotta e di un esercito tedesco, fondata sulla libertà di stampa, la nazione armata e il diritto di associazione. L'ingresso del vicario dell’Impero a Francoforte l’ 11 luglio 1848 diede luogo a una festa di unità nazionale conforme alla gioia che faceva nascere il futuro. Quest’ingresso fu messo in scena riprendendo tutte le forme della tradizionale consacrazione imperiale, come si svolgeva a Francoforte ai tempi del Sacro Impero romano germanico. La paralisi della rivoluzione L'evoluzione della Rivoluzione in tutta l'Europa, i fatti avvenuti a Berlino e Vienna, così come alla sede del potere centrale provvisorio a Francoforte e in seno ai corpi legislativi, permettono di comprendere perché il tentativo di consolidare le relazioni germano-austriache su una nuova 34 base costituzionale, alle condizioni fissate dalla Rivoluzione, finisce per fallire. Se si fa astrazione di tutte le contraddizioni sociali interne che esistevano sul piano materiale, legale e psicologico e che partecipavano dalla transizione del corporativismo verso un sistema di classi economiche definite, il fattore cruciale rimane la sottovalutazione del potere degli eserciti che condusse al fallimento della Rivoluzione europea (Langewiesche, in Dowe, Haupt e Langewiesche, pp. 915 932). le operazioni militari del 1848-49 si leggono come un indicatore del consolidamento del potere detenuto dalle vecchie élite aristocratiche. L'esame della situazione nella sola monarchia asburgica evidenzia un certo numero di date decisive: il 26 aprile 1848 col bombardamento di Cracovia, il 13 giugno col bombardamento di Praga da parte di Windischgrätz, il 6 agosto con l'entrata di Radetzky a Milano, il periodo dal 6 ottobre al I° novembre, punto culminante della Rivoluzione a Vienna che crollò sotto il bombardamento ordinato da Windischgrätz. L’esecuzione di Robert Blum il 9 novembre ebbe valore simbolico. I contemporanei percepirono fin da quell’ istante che con l'esecuzione di Blum, non era un semplice rivoluzionario che era caduto: attraverso la sua persona, quella di un deputato della chiesa di San Paolo che si era esposto, tutta l’opera di unificazione di Francoforte era stata condannata dall'esercito austriaco. Blum fucilato simboleggiò in modo lampante, il fallimento della partecipazione della monarchia degli Asburgo ai lavori costituzionali pangermanici. Il programma del nuovo Primo ministro Schwarzenberg, presentato il 27 novembre 1848 davanti al Reichstag trasferito nella città morava di Kremsier, proclama senza mezzi termini: "la grandezza e il rafforzamento della Germania non consistono nella dislocazione né nell'indebolimento della monarchia. Il mantenimento dell'unità dello Stato dell'Austria è al tempo stesso una necessità per la Germania e per l'Europa" (Huber, 1978, p. 360. L'Assemblea nazionale di Francoforte perseverò in un senso, nella sua Costituzione del 28 marzo 1849, a prendere il contropiede di questa posizione sulla questione precisa della dislocazione della monarchia; il suo articolo 2 vietava difatti espressamente che un paese tedesco e un paese non tedesco fossero diretti insieme da uno stesso capo di Stato, sul fondamento di una Costituzione, di un governo e di un'amministrazione comune. La monarchia degli Asburgo era ridotta all’ordine di doppio territorio: la sua parte tedesca era sottomessa alla Costituzione e alla legislazione dell'Impero, mentre le sue parti "non tedesche" dovevano essere trattate come dei territori a sé stanti. Tuttavia, quello che nella bocca di Schwarzenberg poteva passare per una "dislocazione della monarchia" non era affatto una novità, poiché questa posizione era conforme a quella che la monarchia degli Asburgo aveva adottato in seno alla Confederazione germanica. Anche in questo quadro era difatti sottoposta alle decisioni confederali solo per quelle dei suoi territori che facevano parte della Confederazione; del resto l'Impero procedette, in modo intrastatico, ad un'applicazione più rigorosa del modello definito dall'Assemblea di Francoforte nel 1849, quando adottò il compromesso austro-ungarico del 1867. Quest’ ultimo diede l’avvio alla doppia monarchia. Al di là dell'insieme delle azioni individuali, lo Stato e la fedeltà dell'esercito austriaco, dove si mescolavano le nazionalità, furono decisive per il fallimento della Rivoluzione. L'esame delle autorità territoriali militari e della ripartizione delle truppe sul territorio della monarchia in febbraio 1848 mostra chiaramente che ad eccezione del nucleo ungherese l'esercito era rimasto alla periferia dell'Impero, nelle regioni instabili a causa delle loro popolazioni non tedesche che rappresentavano la Lombardia e il Veneto, la Boemia, la Moravie e la Galizia (Kořalka, 1993, vol. 5, p. 204). L'abdicazione dell'imperatore Ferdinando il 2 dicembre e l'avvento del giovane Francesco Giuseppe formavano la chiave di volta di questo edificio che scivolava ormai verso un neo-assolutismo sostenuto dall'esercito. Il fallimento della Rivoluzione in seguito alle operazioni militari non costituì affatto un avvenimento esclusivamente austriaco; riguardò anche l'insieme della Germania, se si tiene conto dell'intervento delle truppe imperiali che annientarono finalmente i rivoluzionari in Germania del sud-ovest con l'aiuto di reggimenti prussiani, bavaresi, di Baden, e di Wurtember .. Una domanda rimane di certo in sospeso: l'esercito austriaco sarebbe riuscito a reprimere la rivolta 35 ungherese col sostegno, in particolar modo, dei reggimenti croati se le truppe russe non fossero venute in suo soccorso? L'esclusione crescente dell'Austria La classificazione storica della Rivoluzione tedesca e austriaca del 1848-49 non saprebbe beninteso limitarsi all'esame di questi due anni memorabili. È di gran lunga preferibile tener conto del fatto che, parallelamente al processo di esclusione dell'Austria che raggiunse il suo punto culminante nel 1866, si sviluppò un processo simile di autoesclusione, nonostante questa evoluzione in direzioni opposte fosse già in nuce molto prima del 1848. Lo storico americano Peter J. Katzenstein l'ha messo molto presto in luce (Katzenstein, 1976). Dieter Langewiesche, particolarmente, ha messo in evidenza, allo studio della Rivoluzione, l'esistenza di tendenze assopite. L'esame dell'evoluzione di questo assopimento su un lungo periodo cronologico porta a una serie di osservazioni. Mentre le riforme intraprese da Giuseppe II si arenavano prematuramente e lo stato austriaco era in fallimento nel 1811, la Prussia e la Confederazione del Reno compivano le loro riforme; la monarchia degli Asburgo riuscì a recuperare questo ritardo solo all'epoca del neoassolutismo. Si tenne così in disparte, e ciò la privò, soprattutto, di un'educazione politica costituzionale precedente alle giornate di marzo. Quest’ ultima costituì un fermento politico, ignorato per molto tempo, che legava tra loro i diversi Stati tedeschi, attraverso il regolamento collettivo dei litigi in seno ai Landtage di opposizione, la vita parlamentare quotidiana e dei rituali comuni, le cui ripercussioni giungevano fino ai campi extraparlamentari della società. La Prussia non era sicuramente uno Stato costituzionale nel senso moderno del termine; ma disponeva di assemblee provinciali molto animate, soprattutto in Renania, in Westfalia e in Prussia orientale. La monarchia degli Asburgo si tenne in disparte durante la Rivoluzione di giugno 1830, quando un nuovo impulso costituzionale si diffuse negli ultimi Stati confederati tedeschi. L’istituzione dell'unione doganale (Zollverein) senza l'Austria fu già avvertita da Metternich come un'esclusione "della Germania". L'evoluzione della società della monarchia rimase negli anni 1830 e 1840 lontana dal nazionalismo tedesco organizzato che trovò nei ginnasti, cantanti e cattolici tedeschi altrettanti sostituti del dibattito pubblico. Nello stesso modo, le élite politiche austriache dell'opposizione non raggiunsero le reti delle organizzazioni liberali e democratiche, non solo prima del 1848, ma anche, come ha mostrato Langewiesche, durante l'anno rivoluzionario (Langewiesche, 1991, p. 763). Le organizzazioni nazionali che erano a capo delle diverse associazioni stabilite a Francoforte, Berlino o Lipsia, non raggiunsero più in linea di massima gli Austriaci. La monarchia non fu toccata oltre dalla campagna in favore della Costituzione dell’Impero nella primavera del 1849 e l'esame del processo di formazione dell'Assemblea nazionale di Francoforte rivela, ancora una volta, l'esistenza di una tendenza al ritiro. L'elezione di Federico Guglielmo IV alla dignità imperiale dedica senza ambiguità, alla luce dell'atteggiamento elettorale dei deputati austriaci, questa separazione. La rottura fu ancora più evidente al momento dello scioglimento dell'Assemblea nazionale di Francoforte, come mostra lo studio delle circoscrizioni dei membri del parlamento secondario di Stoccarda e dell'Assemblea di Gotha ( Best e Weege, 1996, pp. 484 493). I deputati delle circoscrizioni austriache vi sedevano solo in numero esiguo. In definitiva, trattandosi della delicata "questione tedesca" nelle condizioni che prevalevano nel 1848-49 ( Gehler e al., 1996) si impone una constatazione, che si riassume innanzitutto con la seguente formula: "dei partner male assortiti". Aggiungiamo che il successo della costituzione di una nazione risiede nell’ istituzione di una memoria storica collettiva: essa fonda la sua leggenda originaria che si impone a tutti, così come il suo "complesso di valori" e il suo universo simbolico comune in un certo numero di avvenimenti maggiori e di tradizioni. L'eredità storica che legava l'Austria e la Germania - l'ancestrale tradizione imperiale - non era più di attualità sotto gli auspici dello Stato-nazione moderno. La nuova tradizione, scaturita dalla Rivoluzione del 1848-49, trovò tuttavia la sua dimensione, sicuramente differente da 36 quella della "gloriosa" Rivoluzione del 1789, ma proprio a commuovere le folle e a far nascere l'avventura, nel fallimento: il culto dei morti caduti durante le giornate di marzo e la memoria di Robert Blum. Il richiamo al 1848-49 conservò tuttavia un tono contrario sui luoghi stessi della costituzione di una nuova eredità: nella "Piccola Germania" imperiale del 1871, come in Austria, che ne era stata divisa a partire dal 1866 (Siemann, 1999) 37 Bibliografia Best, Heinrich, e Wilhehm Weege (ed), Biographisches Handbuch der Abgeordneten der Frankfurter Nationalversammlung 1848149, Düsseldorf, 1996. Dowe, Dieter, Heinz-Gerhard Haupt et Dieter Langewiesche (éd), Europa 1848: Revolution und Reform, Bonn, 1998. Gehler, Michael, Rainer F. Schmidt, Harm-Hinrich Brandt e Rolf Steininger (ed), Ungleiche Partner? Österreich und Deutschland in ihrer gegenseitigen Wahrnehmung. Historische Analysen und Vergleiche aus dem 19. und 20. Jahrhundert, Stoccarda, 1996. Haider, Barbara, e Hans Peter Hye (ed), 1848: Ereignis und Erinnerung in den politischen Kulturen Mitteleuropas, Vienna, 2003. Höbelt, Lothar, 1848. Österreich und die deutsche Revolution, Vienna e Monaco, 1998. Huber, Ernst Rudolf (ed.), Dokumente zur deutschen Verfassungsgeschichte, Vol. 1, Stoccarda e al., 1978, p. 84 ff. Jaworsky, Rudolf, e Robert Luft (ed), 1848149. Revolutionen in Ostmitteleuropa, Monaco, 1996. Katzenstein, Peter J., Disjoined partners: Austria and Germany since 1815, Berkeley, CA, 1976. Kořalka, Jiří, Deutschland und die Habsburgermonarchie, 1848-1918, Vol. 6.2 of Die Habsburgermonarchie, 1848-1918, ed. Adam Wandruszka e Peter Urbanitsch, Vienna, 1993, pp. 1- 158. Langewiesche, Dieter, "Die Rolle des Militärs in den europäischen Revolutionen von 1848/49" in Wolfgang Bachofer et Holger Fischer (ed), Ungarn - Deutschland. Studien zu Sprache, Kultur, Geographie und Geschichte, Monaco, 1983, pp. 273-288. Langewiesche, Dieter, "Deutschland und Österreich: Nationswerdung und Staatsbildung in Mitteleuropa ira 19. Jahrhundert”in Geschichte in Wissenschaft und UnTerricht, No. 42,1991, pp. 754-66. Lutz, Heinrich, Zwischen Habsburg und Preuβen: Deutschland 1815-1866, Berlino, 1985. Siernann, Wolfram, "Der Streit der Erben - deutsche Revolutionserinnerungen" in Dieter Langewiesçhe (ed.), Die Revolutionen von 1848 in der europäischen Geschichte: Ergebnisse und Nachwirkungen; Beiträge des Symposions in der Paulskirche vom 21. bis 23. Juni 1998, Monaco, 2000 (Supplemento No. 29 of the Historische Zeitschrift), pp. 123-54. Siemann, Wolfram, "Groβdeutsch - kleindeutsch? Österreich in der deutschen Erinnerung zu 1848/49", p. 97 in Barbara Haider e Hans Peter Hye (ed), 1848: Ereignis und Erinnerung in den politischen Kulturen Mitteleuropas, Vienna, 2003, pp. 97-111. 38 Illustrazioni Nn. 1, 2, 5, 8, 9 provenienti da Germanisches Nationalmuseum (ed.), 1848: Das Europa der Bilder. 2 voll., Nuremberg, 1998. Nn. 3, 6, 7 provenienti da Lothar Gall (ed.), 1848, Ausbruch zur Freiheit, Francfort, 1998. N. 4 proveniente da "Freiheit, schöoner Götterfunken! Europa und die Revolution 1848/49", Zeit-Punkte, 1, Amburgo, 1998 39 5. La Rivoluzione ungherese del 1848 e le sue conseguenze Peter Bihari "Gli Ungheresi sono i francesi del XIX secolo “ George Weerth, Neue Rheinische Zeitung, 19 maggio 1849 Tradizioni Si sente dire spesso che c’è troppa storia al chilometro quadrato nella nostra regione dell'Europa orientale o, secondo le parole dello scrittore italiano Claudio Magris, che i popoli dell'Europa orientale non conoscono l'arte del dimenticare. Queste osservazioni molto giuste fanno riferimento al "peso della storia" in questa parte del continente europeo: le ferite e i pregiudizi del passato impediscono troppo spesso ai popoli e ai paesi di costruire il loro presente e il loro avvenire, un'impressione che si prova molto fortemente anche in Ungheria, dove quelli che dividono la stessa visione del futuro possono avere delle vedute totalmente divergenti per quanto riguarda il passato ( e non resistono sempre alla tentazione di rievocare le vecchie battaglie in costumi d’ epoca) mentre in altri paesi, più fortunati, succede normalmente il contrario. Anche se penso che Magris abbia ragione, mi propongo di mostrare, in questo testo che la storia può essere anche una forza costruttiva e liberatrice, al servizio del presente e del futuro. Qui il problema non è di trattare gli avvenimenti del 1848/49 in quanto tali ma della commemorazione dell'anno rivoluzionario. La mia principale preoccupazione è di mostrare come e perché gli anni 1848/1849 sono diventati i più importanti nell'eredità storica dell'Ungheria e di far risaltare il tipo di coscienza storica che essi hanno contribuito a creare. Non ho affatto intenzione di lasciare da parte i miti, le leggende e i culti che circondano la più grande rivoluzione che gli ungheresi abbiano conosciuto. In Ungheria, i ricercatori sono unanimi nel considerare che gli avvenimenti del 1848/49 rappresentano una svolta decisiva nella storia del paese paragonabile alla fondazione da parte di Santo Stefano del regno cristiano intorno all'anno mille. Due sono gli aspetti che caratterizzano il cambiamento che si è operato allora: la modernizzazione e la nazionalità, che vedremo più avanti. Non è,quindi, sorprendente che oggi la maggioranza degli Ungheresi indichi il 1848 come il periodo della loro storia di cui sono più fieri, come rivelano tutti i recenti sondaggi di opinione. Numerosi esempi tratti dalla vita quotidiana confermano l'importanza di questa data. Dei tre giorni festivi ungheresi, il 15 marzo, giorno della rivoluzione del 1848, è indiscutibilmente il più apprezzato. Egli coincide inoltre con l'arrivo della primavera, e ciò facilita l'associazione alla "primavera dei popoli". Passeggiando oggi in qualsiasi via principale di paese o di cittadina in Ungheria, si osserverà che porta abitualmente il nome di Lajos Kossuth o di Sándor Petöfi, le due figure principali dell'epoca. La piazza del paese si chiama generalmente piazza Széchenyi o Deák, rispettivamente “il più grande degli Ungheresi" e il "saggio del paese", tutti e due membri del primo governo ungherese, nato nel 1848. Esaminando una piantina della città di Budapest, ho notato non meno di 75 vie e piazze chiamate secondo i nove membri del governo del Conte Battyány, probabilmente il miglior governo che il paese abbia mai avuto. Infine, sedici altre strade o piazze devono il loro nome al poeta rivoluzionario Sándor Petöfi,e ciò porta a parecchie centinaia, solo a Budapest, il numero di piazze e di istituzioni che commemorano gli attori della rivoluzione e della guerra di indipendenza che ne seguì. Ultimo esempio: il giorno della festa nazionale, il 15 marzo, le radio pubbliche, radio Kossuth o Petöfi, citano le personalità ungheresi decorate dei premi più prestigiosi, il premio Kossuth e il premio Széchenyi. E ultimo dato: nel 1998, per il 150° anniversario della rivoluzione, sono state 40 pubblicate più di 250 pubblicazioni dedicate alla rivoluzione, in ungherese ovviamente, testimoniando così l'enorme interesse dei professionisti e del pubblico per l'argomento. Il primo anniversario della rivoluzione fu celebrato già il 15 marzo 1849 sotto l'egida della bandiera tricolore, creata dalle Leggi fondamentali del mese di aprile 1848, come l'emblema nazionale. Quel giorno, "dei giovani entusiasti e dei soldati giurarono solennemente che i tiranni asburgici non avrebbero mai invaso l’amatissima patria che avevano riscattato col loro sangue per fondare uno degli Stati i più liberali d’Europa.” Dopo la disfatta del 1849, un gran numero di banconote, di biglietti Kossuth, e di bandiere tricolori furono nascoste, i primi in quantità talmente esagerate che ora sono prive di grande valore nei negozi di antiquariato. Nei cimiteri si trovano anche vecchie pietre tombali che portano l'iscrizione "Honvéd"(membro dell'esercito rivoluzionario nel 1848/49).Evidentemente questo episodio rappresentava, il solo fatto ragguardevole di cui il defunto sia stato non solo fiero ma che sperava di far passare ai posteri. Col passare del tempo, queste forme di commemorazione e di lutto hanno generato diversi culti e miti. Si pensi soprattutto a Petöfi che intonava il suo "Canto alla nazione", "Ungherese, sollevati! ", una sorta di Marsigliese ungherese, sui gradini del Museo nazionale il 15 marzo. Qui si possono trovare la targa commemorativa e la corona di fiori ma è poco probabile che sia il luogo preciso dove il poeta rivoluzionario ha cantato questo inno. Si potrebbero citare anche i titoli che incoronavano già da vivo Kossuth: "il nostro padre Kossuth", "il Mosé ungherese", "il grande esiliato", "il Messia della nazione", "il santo uomo", "il nuovo Washington", ecc. Poco tempo dopo la sua morte, nel 1894, furono erette in suo onore numerose statue. Nel 1914, si contavano 75 sculture (di cui 32 lo rappresentavano in piedi), e ciò rende il suo culto paragonabile( mutatis mutandis) a quello di Bismarck nella Germania imperiale. Commemorazioni Per i bisogni di questa parte, ho selezionato alcuni momenti-chiave della storia del paese per mettere in evidenza le diverse forme di commemorazione degli avvenimenti del 1848 alle quali hanno dato luogo. Dopo il periodo di assolutismo degli anni 1850, la prima celebrazione pubblica della rivoluzione, non ufficiale ovviamente, ebbe luogo nel 1860. Si svolse in un clima di esaltazione e uno studente fu ucciso dalla polizia. Quell’anno, la coccarda tricolore e il nastro nero diventarono già il doppio "simbolo nazionale" di quella giornata. Il cinquantenario della rivoluzione, nel 1898, si rivelò un affare delicato poiché coincideva col 50° anniversario dell'ascensione al trono dell'Austria di Francesco Giuseppe, e ciò diede luogo a una strana "azione parallela". Ferenc Kossuth, figlio di Lajos Kossuth e capofila del partito indipendentista nel 1848, dichiarò che "la nazione vuole vivere e commemorare col suo re". e propose che la commemorazione degli avvenimenti del 15 marzo facesse oggetto di una legge. Al termine di burrascose discussioni, i membri del Parlamento giunsero a un compromesso: ci sarebbe stata una legge ma il nuovo giorno festivo sarebbe stato spostato all’ 11 aprile, giorno in cui il re aveva approvato le Leggi di aprile. Questa decisione era ben in linea con la "rivoluzione legale" del 1848 ma il compromesso suscitò il malcontento di una gran parte dell'opinione pubblica. Così si è potuto leggere nella maggior parte dei giornali che a partire da quel momento, ci sarebbe stato un giorno festivo ufficiale, l’ 11 aprile, ma che la vera festa nazionale sarebbe rimasta fissata al 15 marzo. Conviene precisare che il proletariato" di Budapest organizzò quell’ anno, per la prima volta, le sue celebrazioni con la bandiera rossa e formulò in quell’ occasione, delle rivendicazioni radicali. (Il partito socialdemocratico, non rappresentato al Parlamento, fu l'unica forza politica di levatura a rigettare il consenso nazionalista, sull'interpretazione degli avvenimenti del 1848 di cui fece una commemorazione separata. 41 Durante la Prima Guerra mondiale, la reinterpretazione dell'eredità del 1848 prese nettamente una piega anti-russa e anti-slava, ispirata, probabilmente, da sentimenti di rivincita nati dalla disfatta del 1849. Tuttavia, all'indomani della nuova disfatta del 1918, il vecchio modello della "rivoluzione ungherese legale" poteva essere gettato alle ortiche. Il 15 marzo sostituì l’ 11 aprile perché "questa giornata non potesse essere strappata dal cuore del popolo ungherese". Inoltre, il trionfo effimero dei Bolscevichi ungheresi nel 1919 contribuì a favorire l'identificazione delle masse proletarie coi rivoluzionari del 1848. L'oratore socialista proclamò: “Ci saranno solo due nazioni faccia a faccia sulla Terra, è Petöfi che parla [!],quella del bene e quella del male. E noi calpesteremo con i piedi il male, quell’ incarnazione del male che è il capitalismo. Giuriamo insieme che noi non saremo gli ultimi in questo combattimento." Si sentivano qui i primi accenti guerrieri della rivoluzione socialista mondiale. Con la perdita della Grande Ungheria si aprì nella storia del paese un nuovo capitolo, la vittoria della controrivoluzione e l'instaurazione di un regime di destra tra le due guerre. Il 1848 restava una data importante ma fu privata di qualsiasi connotazione liberale e democratica. La nuova interpretazione radicalmente nazionalista e antiliberale appariva chiaramente nel discorso pronunciato in occasione della festa nazionale da Endre Bajcsy-Zsilinszky, un uomo politico razzista che diventò, nel 1944, una delle rare vittime della resistenza ungherese contro il nazismo. Nel 1923, egli si rivolgeva così a un pubblico composto, senza sorpresa, di unionisti paramilitari: “Oggi possiamo dire che la nostra economia e la Borsa, la nostra letteratura e la stampa siano veramente nelle nostre mani? No, occorre riguadagnare il terreno perso su tutti i fronti. Noi abbiamo bisogno di una nazione forte, di uno Stato forte, non è di più libertà che abbiamo bisogno ma di più interventi dello Stato." Curiosamente, verso lo stesso periodo, all'approssimarsi dell’ 80° anniversario della rivoluzione , il 15 marzo diventò ufficialmente il giorno della festa nazionale dopo l'adozione di una risoluzione parlamentare in questo senso (nel 1927/28). Ma, in questi anni, tra le due guerre, il clima rimase sensibilmente lo stesso: la catastrofe del trattato di pace di Trianon (1920) fu paragonata alla catastrofe di Arad (1849); la tristezza provata per le vittime e la necessità per il paese di riprendersi e di preparare la resurrezione dell'Ungheria furono le note dominanti delle manifestazioni commemorative. Durante la Seconda Guerra mondiale, la linea ufficiale era sempre anti-russa e anticomunista ma, a causa della timida opposizione della sinistra, l'eredità del 1848/49 era opportuna poiché permetteva di unire i sentimenti anti-germanici ed anti-nazisti. Questa connotazione anti-tedesca continuò in maniera significativa per i venti-trent’anni successivi perché niente era più semplice di identificare gli Asburgo con i Tedeschi e di renderli collettivamente responsabili di tutti i mali sopraggiunti nella storia del paese.(Mi viene in mente a questo proposito un libro, ripubblicato più volte, intitolato "400 anni di lotta per una Ungheria indipendente", di lotta, bisogna precisare, contro gli Asburgo e i Tedeschi. Dopo il 1945, fu relativamente facile basare le nuove commemorazioni sulle vecchie tradizioni indipendentiste del XIX secolo). L'anno 1945 ha sconvolto i dati in Ungheria come altrove. La liberazione del fascismo ha aperto la strada a una reinterpretazione gauchista della storia. Solo allora circa cento anni dopo il glorioso anno 1848, il vero obiettivo della rivoluzione era finalmente raggiunto sottoforma di un’ Ungheria indipendente e democratica, tale era il nuovo credo. Non era il caso di essere incerti sulla natura reale di questa nuova democrazia, non parliamo dell’ indipendenza. La linea anti-germanica ed anti-asburgica si indurì mentre l'intervento russo del 1849 si spiegava 42 comodamente attraverso lo zarismo, regime intrinsecamente deleterio che il grande partito comunista aveva definitivamente annientato. Questa corrente si era considerevolmente rinforzata nel 1948, all'epoca del centenario della rivoluzione che coincideva questa volta con l'inizio della guerra fredda e il completamento del sistema del partito unico in Ungheria. I comunisti non risparmiarono i loro sforzi per controllare le commemorazioni. Si proclamarono i soli veri eredi del 1848. Petöfi fu riabilitato in quanto eroe principale della rivoluzione. Oggi, il poeta sarebbe membro del partito comunista o lo sarebbe stato nel 1848, se il partito fosse esistito. Grazie all'isteria scatenata dalla guerra fredda, non si esitò a superare alcuni passi supplementari: il capo del partito, Mátyás Rákosi, fu descritto come una reincarnazione, ancora più perfetta, di Lajos Kossuth e Tito, l'infame traditore, si ritrovò in perfetta uguaglianza con il croato Jelacic, esule. Sotto il giogo delle dittature totalitarie, tutto accadde come se il partito dirigente si fosse impadronito della memoria del 1848. Ma non era tutto. Un nuovo decreto abolì il 15 marzo come festa nazionale a partire dal 1950. La giornata restava festiva per gli istituti scolastici ma diventava un giorno lavorativo per il resto della popolazione. La memoria del 1848 rimaneva potenzialmente pericolosa. La rivoluzione anti stalinista del 1956 si fece sul modello di quella del 1848. La restituzione di ciò che si chiamava l'emblema di Kossuth" e il ripristino della festa nazionale del 15 marzo e della giornata di lutto nazionale del 6 ottobre figuravano invariabilmente tra le rivendicazioni formulate dai manifestanti. Neanche l'oratore comunista potette negare questo legame dopo la ripresa in mano del regime. "Le idee del 1848 sono state più di una volta falsificate nel corso degli ultimi 110 anni", disse il 15 marzo 1958, "ma mai come lo sono state nel 1956". "La controrivoluzione del 1956 è venuta avanti mascherata, travestita degli orpelli del 1848.... [Ma] noi cancelleremo la vergogna che, da allora, sporca la bandiera di Kossuth, Petöfi e Táncsics." .(Quest’ ultimo era un contadino impegnato in politica nel 1848). Dopo alcune tergiversazioni, lo statuto del 15 marzo rimase immutato: un giorno festivo per i bambini e un giorno lavorativo per gli adulti. Dopo la repressione della rivoluzione, il periodo di "consolidamento" sotto Kádár ("quelli che non sono contro di noi sono con noi") ha permesso di ricollocare l'autorità dei comunisti per una buona decina di anni. Le prime incrinature apparvero all'inizio degli anni ‘70. La nuova generazione, meno timorata della precedente, rifiutò di lasciarsi chiudere in questo tacito consenso alla "dittatura dolce". La prima manifestazione non ufficiale ebbe luogo nel 1972 ma passò quasi inosservata. Solo Radio Europa libera ne rese conto. In compenso, l’ anno successivo, l'organo ufficiale del partito, "Népszabadság” pubblicò un comunicato succinto in ultima pagina, dal titolo, "Hooligans arrestati dalla polizia": Dopo le cerimonie commemorative ufficiali tenute in occasione della festa nazionale del 15 marzo, alcune centinaia di irresponsabili hanno tentato di organizzare una manifestazione nazionalista nel centro di Budapest. L'assembramento è stato disperso. Durante le operazioni di ristabilimento dell'ordine, hanno avuto luogo dei controlli di identità e 41 persone che erano considerati gli istigatori dell'operazione, sono state portate nei locali della polizia a Budapest." Dopo il 1972, pochi anniversari del 15 marzo si svolsero senza una forma di manifestazione. Lo scenario abituale era quello del 1956: piccoli raggruppamenti intorno alla statua di Petöfi poi marcia in direzione della piazza Jözef Bem (generale polacco del 1848/49), scopo mai raggiunto poiché la polizia fermava il corteo molto prima. Il mese di marzo restava un mese pericoloso, anche negli anni ‘70. Infine, si verificò un nuovo ribaltamento, l'ultimo speriamo, col cedimento del socialismo di Stato. In un tentativo di acquietamento, il Politburo raccomandò nel dicembre 1987 il ripristino ufficiale della festa nazionale del 15 marzo, e ciò fu fatto nel 1988 ma fu troppo poco e troppo tardi. Una delle più grandi manifestazioni del tempo ebbe luogo il 15 marzo 1989. Di nuovo, si 43 era nella situazione del 1956 e la nuova rivendicazione era oramai la riconoscenza ufficiale della rivoluzione del 1956. Uno dei cartelli proclamava: Imre Nagy (primo ministro)=Lajos Batthyány (primo ministro), Kádár Haynau (il sanguinario generale austriaco del 1849). Ancora una volta, le due rivoluzioni erano inestricabilmente legate e la loro eredità si rinforzava reciprocamente nel perseguimento degli obiettivi politici del momento. Se si vogliono differenziare i tre grandi periodi storici che abbiamo appena ricordato, si nota che tra il 1867 e il 1918, si trattava soprattutto di differenze di intensità: la tradizione rivoluzionaria simboleggiata dal 15 marzo e la tradizione contrattuale incarnata dall’ 11 aprile esprimevano tutti e due l’essenza del 1848. Più tardi, nel 1920 poi nel 1944, la rottura tra la sinistra e la destra rifletteva l'opposizione fondamentale tra valori liberali e democratici da un lato e idee nazionali(ste) dell'altro. Infine, dopo gli anni 1945/1948, l'eredità di marzo fu svuotato totalmente della sua sostanza e riservato all'uso esclusivo di un regime totalitario che mancava di legittimazione politica, impresa condotta con un'assicurazione e un successo decrescente dopo il 1956). Prima di trattare la situazione attuale, vorrei trarre delle conseguenze più generali di ciò che è stato appena detto. Conclusioni Anche il grande storico conservatore e pro-Asburgo Gyula Szekfü ha dovuto riconoscere che il 1848 aveva finito per diventare l'anno di riferimento di tutte le tradizioni rivoluzionarie nella storia dell'Ungheria. In un certo modo, prolungava la lotta per l'indipendenza condotta contro gli Asburgo nel XVII secolo alla quale si trovava legata e costituiva un tipo di modello per tutti gli ulteriori combattimenti condotti nel nome di un’ Ungheria libera e indipendente. "Le masse smisero di analizzare il senso degli avvenimenti del 1848 semplicemente per provarli e temerli attraverso il loro cuore e i loro sentimenti piuttosto che con il loro spirito", ha scritto. Da qui l'importanza presa dai simboli del 1848 - la bandiera tricolore, la coccarda, il "Canto alla nazione" di Petöfi - ad ogni svolta della storia, dal 1850 ai nostri giorni. Ciò che emerge anche da questi culti o simboli, sono i “12 punti", l'elenco delle domande formulate dai rivoluzionari nel marzo 1848. Difatti, nel corso del secolo scorso, le rivendicazioni hanno più di una volta preso questa forma dei 12 punti, con un contenuto similare o attualizzato, come fu il caso nel 1918, 1945, 1956, 1988 e 1989. ( Sarebbe interessante paragonare questi due ultimi anni con i due successivi). Come avrete probabilmente notato in questo intervento, il 15 marzo è sempre stato un giorno festivo per l'opposizione. Ciò non ha niente di sorprendente in un paese che ha conosciuto solo raramente la libertà e l'indipendenza. La primavera, la gioventù, la libertà e l'indipendenza sono diventate delle nozioni intimamente legate nello spirito e nel cuore delle persone. Niente di sorprendente neanche per il fatto che i dirigenti hanno sempre fatto l'impossibile per strumentalizzare il 1848 a loro vantaggio e tentare di legittimare il loro governo o il loro sistema politico, spesso, con magrissimi risultati, come si è visto. Il "potere di marzo" era, in linea di massima, più forte del "Marzo del potere", secondo le parole di uno storico. Una domanda fondamentale resta tuttavia in sospeso: come spiegare l'enorme importanza del 1848 nella storia dell'Ungheria? Se ne possono trovare le ragioni nell'anno rivoluzionario stesso, bisogna attribuirlo agli avvenimenti ulteriori o, come tenderei a credere, a dei fattori sia"interni" che "esterni"?. Forse non è inutile ricordare che, nella domanda che ci interessa, i miti e gli stereotipi giocano un ruolo cruciale, "non deformano" la realtà, la modellano. L'abbiamo visto, il 1848 condensato nelle Leggi fondamentali di aprile, fu principalmente un anno determinante in Ungheria. Tuttavia, non segnò una rottura artificiale col passato ma piuttosto un cambiamento nella continuità, ad avvicinare al l'"era delle riforme", iniziata alcuni decenni prima da Széchenyi e Kossuth. A questo titolo, il 1848 può essere qualificato sia riformista che rivoluzionario. Alcuni osservatori contemporanei vi avevano già scoperto una le prime transizioni liberali/patriottiche che si dovevano verificare in seguito in questa parte del continente europeo. 44 In secondo luogo, e il fatto è piuttosto raro nella storia delle rivoluzioni, gli avvenimenti di marzo si svolsero senza spargimento di sangue, addirittura senza reale violenza. Non si potrebbe dire altrettanto della guerra di indipendenza che seguì ma l'insieme del processo ha largamente contribuito a fissare le mie tre seguenti nozioni: l'ungherese è pacifico e rispettoso della legge, è un soldato coraggioso e sa battersi in caso di necessità; infine, e questo può essere il punto più importante, sia la rivoluzione pacifica che la guerra di indipendenza difensiva hanno rafforzato tanto bene l'unità nazionale che fu al tempo stesso una delle condizioni e il risultato dell'anno rivoluzionario.(Pur essendoci similitudini tra l’ Ungheria del 1848 e la Francia del 1789, non c'era la ghigliottina in Ungheria e non c’era vera divisione in seno alla popolazione ungherese durante questa rivoluzione). L'unità nazionale non ne uscì indebolita ma rinforzata per il ruolo giocato da Budapest ( era la prima volta che le città gemelle di Buda e di Pest furono chiamate ufficialmente Budapest) – è nel 1848 che la città diventò veramente la capitale dell'Ungheria. In terzo luogo, e ancora una volta, fenomeno raro in questa regione dell'Europa, il 1848 aveva al tempo stesso connotazioni nazionali e liberal-democratiche. Benché mi sia sforzato di dimostrare che queste due componenti o forze principali si fossero schierate spesso l’una contro l'altra, una semplice occhiata ai 12 punti o alle Leggi di aprile basta per accorgersi che i due andavano mano nella mano. La constatazione può sembrare strana in molti paesi di questo continente, ma in Europa centrale e orientale, le cose non andavano da sé. In quarto luogo, la rivoluzione ebbe successo? Non è facile rispondere sì o no a tale domanda. Essa fu certamente schiacciata dall'esercito più potente del mondo ma resistette a tutti gli altri tentativi che miravano a soffocarla. A questo riguardo, non solo la rivoluzione ma anche la guerra di indipendenza furono delle quasi vittorie, Neanche l'Austria trionfante ha osato cancellare tutte le conquiste del 1848 dopo la disfatta ungherese del 1849. È anche certo che il famoso Compromesso (Ausgleich) del 1867 non si sarebbe potuto concludere se non ci fosse stato il 1848 perché la rivoluzione aveva dato all'élite politica ungherese un'incontestabile sicurezza, senza contare il sostegno dell'opinione pubblica. Riassumendo, il 1848 fu il momento fondatore nel processo di costruzione della nazione e vide nascere allo stesso tempo il nazionalismo ungherese, anche se non si può ignorare, che questi avvenimenti hanno necessariamente contribuito a ravvivare altri nazionalismi in Europa centrale e orientale. La mia presentazione sarebbe tuttavia incompleta se non menzionassi velocemente il contrasto che esiste tra il XIX e il XX secolo nella storia dell'Ungheria. Diciamo, per andare rapidamente, che l'immagine è più o meno la stessa di quella presentata dalla Germania: un XIX secolo glorioso seguito da un XX secolo disastroso. È per questo contrasto, a mio avviso, che si spiega il posto considerevole che la rivoluzione del 1848 continua ad occupare nella coscienza storica ungherese. Solo i liberali, i rivoluzionari o i nazionalisti hanno trovato ciò che volevano nel 1848 ma anche tutti quelli che hanno cercato di identificare almeno un'epoca gloriosa nella storia moderna dell'Ungheria. Che cosa potevano trovare d’ altro del 1848? - la rivoluzione e il mito che aveva generato permettevano di credere in un futuro migliore. Sarebbe allettante concludere questa comunicazione affermando che dopo i cambiamenti avvenuti nel 1989/90, gli avvenimenti del 1848/49 sono riposti definitivamente nelle segrete della storia, che la politica ogni giorno non può più superare la storia. Ma, come ho già indicato prima, non è sempre il caso. L'anno 1848, le sue coccarde, le sue dichiarazioni e i suoi simboli, conservano il loro potere mobilizzatore e i politici non si ingannano e non perdono mai l'occasione di sfruttare il "potere di marzo", come si è potuto constatare ancora recentemente, nella campagna elettorale del 2002. Di conseguenza, preferisco terminare con una citazione che trovo ammirevole. Per farvela comprendere meglio, mi riferirò a una recente visione della storia dell'Ungheria, recentemente ripresa dallo scrittore austro- ungherese Paul Lendvai secondo la quale la storia ungherese sarebbe "Un millennio di vittorie nella disfatta", (Die Ungarn,: ein Jahrtausend Sieger in Niederlagen). Lendvai non nasconde che egli trae questo titolo dal meraviglioso romanzo di 45 Géza Ottlik, La scuola della frontiera, pubblicato nel 1959. "Ottlik ha reso conto in modo notevole di questo rapporto unico che hanno gli Ungheresi con le loro sconfitte attraverso l'esempio di una classe", scrive Lendvai. E adesso, ascoltiamo Ottlik stesso: "Stava arrivando il 400° anniversario della battaglia di Mohács. Può sembrare inadeguato celebrare una disfatta ma il potente Impero ottomano che avrebbe potuto celebrare la sua vittoria, non esisteva più. Non restava più neanche la minima traccia del passaggio dei Mongoli, sono spariti, davanti ai nostri propri occhi per così dire, quella dell'Impero degli Asburgo, tuttavia così solidamente radicato. È così che abbiamo preso l'abitudine di celebrare da soli le grandi battaglie perse alle quali siamo sopravvissuti. Siamo forse anche arrivati a considerare la sconfitta come un risultato più tangibile della vittoria epiù importante di essa, in ogni caso come qualcosa che ci appartiene realmente." Ottlik aveva evidentemente in mente il grande Impero sovietico quando scrisse il suo romanzo. È morto nel 1990, l'anno delle prime elezioni libere dopo decenni di comunismo. L'Impero sovietico doveva crollare l’anno seguente. 46 Tendenze attuali nella ricerca storica sulla Rivoluzione del 1848/49 in Ungheria I lavori storici dedicati alla rivoluzione del 1848/49 in Ungheria hanno continuato a essere pubblicati in gran numero negli ultimi decenni. Io mi limiterò a rilevare qui cinque grandi campi nei quali la ricerca ha permesso di giungere a nuovi risultati e/o di sollevare nuove domande. Questi campi sono i seguenti: - la rivoluzione ungherese e il contesto internazionale; il problema dei rapporti con l'Austria; la questione delle nazionalità ungheresi; la politica del governo Batthyány e l'organizzazione e la composizione dell'esercito dei "Honvéd." 1. Il contesto internazionale. Esempio di paragone Un certo numero di ricercatori (Domokos Kosáry, András Gergely, Géza Herczeg, Gábor Erdödy, tra gli altri) hanno attirato l'attenzione sull'influenza della rivoluzione tedesca e il progetto di un'unione tra i due movimenti rivoluzionari. I liberali ungheresi – in particolare i membri del governo Batthyány - erano coscienti di questa possibilità e lavoravano ad un'alleanza con Francoforte. Questo legame si rivelò inizialmente promettente, alcuni liberali tedeschi si accorsero anche dei vantaggi che poteva comportare un'alleanza germano-ungherese - soprattutto se era diretta contro certi popoli slavi e la Russia. Solo più tardi, con gli indugi dell'Assemblea di Francoforte e il ritorno in forza delle dinastie, le prospettive di una cooperazione tra Francoforte e Budapest furono annientate. Il professor Gergely ha stabilito un paragone, veloce ma interessante, tra due leader politici liberali del 1848 Heinrich von Gagern e Lajos Kossuth. Questi nuovi elementi mostrano bene che la storia delle rivoluzioni "nazionali" guadagna sempre ad essere situata in un contesto più vasto. 2. L'Austria e gli Asburgo Qui sottolineerò solo un aspetto principale delle ricerche. Fino agli anni 1980, tutti gli storici ungheresi erano d’accordo nel sostenere che i liberali di Budapest dovevano far fronte a una cellula controrivoluzionaria a Vienna, incarnata principalmente dal Conte Latour e più tardi dal generale Windischgrätz e e il duca Schwarzenberg. L'esistenza e l'influenza nefasta di questo "maledetto camarilla" alla Corte degli Asburgo erano chiare. Dopo l’uscita della monografia di István Deák (Università di New York) che apre delle nuove piste, sembra che questa idea fosse non solo semplicistica ma falsa. In realtà, non c'è mai stato complotto contro-rivoluzionario organizzato contro l'Ungheria, e certamente non fin dall'origine, nel 1848. Sarebbe più giusto dire che le forze rivali erano all'opera alla Corte così come nei circoli vicini al potere e il governo Batthyány, che si attivò non senza successo fino a luglio 1848, era una di esse. Questa interpretazione - è un caso se è stata avanzata fuori dall'Ungheria? - è ora accettata dalla maggior parte dei ricercatori (tuttavia, in più versioni differenti,) e contribuì largamente a sdrammatizzare il dibattito sugli avvenimenti dell’anno rivoluzionario: non si vedranno più, quindi, i buoni rivoluzionari (ungheresi) battersi contro i cattivi reazionari (stranieri) ma delle forze di origini diverse evolversi in situazioni sempre fluttuanti. 3. La questione delle nazionalità 47 Altra domanda spinosa, se si può considerare tale, la pretesa questione delle nazionalità. In questo campo ci sono due modi di vedere le cose: dal punto di vista dell'insieme dei popoli riuniti in seno alla monarchia austriaca o da quello del regno ungherese multietnico. ( Nel 1848, il Conte Széchenyi ha parlato dell'Ungheria come di un tessuto - di "nazionalità" - che compone, con altri, un tessuto più vasto). Questa questione delle nazionalità è sempre stata, o lo è, rivelatrice perché faceva risaltare nella storia dei paesi il partito preso nazionale che era stato accuratamente occultato durante gli anni del socialismo dello Stato. Era anche la questione che dava regolarmente luogo, negli storici occidentali, a delle presentazioni errate, essenzialmente a causa della disinformazione. Oggi, è stato pubblicato un certo numero di lavori innovatori i cui autori cercano manifestamente di evitare la trappola dei pregiudizi perché piuttosto che rendere responsabile l'altra (nazione), si sforzano di ricostituire e di comprendere le situazioni dell'epoca.( E qui ritornano in mente i nomi di D. Kosáry, I. Deák, forse Gy. Spira). Anche in questo caso il professor Deák fu il primo a innalzarsi contro le interpretazioni parziali. Non sarebbe forse inutile citarlo qui. La prima citazione ha sfruttato lo sfondo intellettuale sul quale si è sviluppato il pensiero dei liberali ungheresi che non aveva niente di inedito nell'Europa del XIX secolo): "I liberali ungheresi furono semplicemente incapaci di concepire la profondità dei sentimenti che animavano i non magiari. Perché dei cittadini liberi, fuoriusciti di un paese libero dovrebbero improvvisamente beneficiare di uno statuto speciale? Perché dei privilegi collettivi dovrebbero essere concessi a una nazionale in particolare mentre tutti i privilegi di rango e di classe erano stati aboliti? ( Qui egli cita Kossuth...) Né Kossuth né nessun’altro liberale o radicale ungherese hanno voluto mai ammettere che l'agitazione delle minoranze nazionali non poteva essere altro che reazionaria" (Deák, 1979, p. 129). Ed ecco come István Deák rende giustizia ai due campi antagonisti: "Affermare che nella primavera del 1848, gli Ungheresi hanno lasciato passare l'opportunità di un'intesa tra tutte le loro nazionalità, e che quindi potevano solo perdere tutto, sarebbe falso quanto sostenere che una tale possibilità non era mai esistita. Non ci si poteva affatto aspettare che l'Ungheria che aveva appena ottenuto una vittoria, si fosse prodigata a dividere il regno in territori autonomi che sarebbero caduti inevitabilmente nelle mani della maggioranza non magiara. Invece, il governo sarebbe potuto arrivare a un modus vivendi con alcune nazioni. L’eliminazione del movimento slovacco, sebbene immorale, fu un successo; la guerra contro i serbi ed i croati (…) era necessaria, ma tentare di vincere i Rumeni, fu un errore grossolano" (Deák, 1979, p. 129. Non voglio dire con questo che - e nemmeno Deák - che un'interpretazione giusta degli avvenimenti storici implichi necessariamente la ricerca di una via di mezzo, da qualche parte tra due estremità. Ma ciò che Deák cerca di far comprendere, invece di rafforzare il lato manicheo dei miti, converrebbe analizzare e interpretare le situazioni concrete e le mentalità del tempo nel loro contesto. Precisiamo tuttavia che le tesi di Deák riguardanti la questione delle nazionalità non incontrarono la stessa fama, almeno in Ungheria, di quelle che ha avanzato sulla "maledetta camarilla". Ciò non toglie che oggi si ammette volentieri che tutte le nazionali hanno diritto alla loro propria versione del 1848, e che ciascuna di esse è "legittima", anche se queste varianti si basano su delle visioni e dei miti differenti - ogni storico degno di questo nome deve esserne cosciente. Noto che le concezioni datate hanno sempre diritto di essere citate e che si aprono una strada anche nel più breve dei riassunti. Citerò un solo esempio, tedesco,: Immanuel Geiss ha dedicato alcuni passaggi del suo libro, Der Lange Weg in die Katastrophe [La lunga strada verso la catastrofe], Monaco, 1990, al problema ungherese. Egli scrive. "Das Scheitern der Ungarischen Revolution am gross-magyarischen Chauvinismus 1848/49 und der Ausgleich von 1967 schufen wesentliche Bedingungen von 1914" (Geiss, 1990, p. 70). Per cominciare, viene spontaneo 48 chiedersi se la rivoluzione ungherese fu realmente un insuccesso e, in questo caso, se la causa principale o unica di questo fallimento è effettivamente lo "sciovinismo della Grande Ungheria". Geiss stesso sembra confutare in parte una tale interpretazione: "Tatsächlich geriet Österreich durch den Erfolg der Ungarischen Revolution in eine schwere Existenzkrise von der es sich nie wieder erholte" (ibid, p. 80. Senza dubbio Geiss si è ispirato alla brillante monografia di A.J.P Taylor sulla monarchia degli Asburgo, lavoro che ha incontrato molti successi ma di cui oggi si stenta a trovare le tesi superate e il punto di vista falsato. Taylor vi presenta particolarmente lo sciovinista Kossuth come il vero fomentatore delle agitazioni nei Carpazi. Così, è con sollievo che ho accolto l'ultimo libro di Manfred Botzenhart, 1848/49,: Europa im Umbruch [L'Europa in piena mutazione]. Ciò che lo differenzia di primo acchito da tutti gli altri lavori anteriori, è che i nomi ungheresi sono scritti correttamente. Ciò sembra augurare un'intesa reciproca per il futuro. 4. La politica del governo Battyány Altri risultati inediti e importanti sono stati anche pubblicati nel quadro dei lavori dedicati alla persona e alla politica del primo ministro ungherese del 1848, il Conte Lajos Batthyány che doveva anche diventare una vittima della rivoluzione e che era caduto quasi nell'oblio. Se, per caso, ci si ricordava di lui, era per farne il rivale opportunista dell'autentico rivoluzionario che era Kossuth. Tuttavia, il suo governo fu il solo governo rivoluzionario a mantenersi al potere per un anno e mezzo, dall’ aprile 1848 all'ottobre 1849). Oggi, dopo la pubblicazione della voluminosa biografia di Aladár Urbán, appare chiaramente che Batthyány non ha smesso di ricercare un compromesso con gli Asburgo pur mostrandosi sempre pronto a difendere gli interessi sovrani del suo paese. Si rivela anche che la sua visione delle cose e la sua strategia erano vicine a quelle di Kossuth, sebbene ci siano state delle differenze nella loro tattica e i loro rapporti con l'opinione pubblica. ( Contrariamente a Kossuth, oratore senza pari, Batthyány l’arstocratico non giudicava utile spiegare alla popolazione la politica condotta dal suo governo). Oggi si sa che se l'Ungheria ha potuto contare su un esercito di Honvéd ben attrezzato nel 1848, è davvero grazie agli sforzi spiegati da Batthyány. È la sua politica che ha permesso al paese di opporre una spietata resistenza ai suoi nemici per tutto un anno. Egli si è dimesso solamente quando si è reso conto dell'inutilità dei suoi sforzi in favore di un compromesso o di una riconciliazione. Il suo martirio e un giudizio più equilibrato da parte della posterità merita sicuramente’un'attenzione maggiore. 5. L'esercito degli "Honvéd" Infine, grazie ai lavori e agli articoli pubblicati dal professore Urbán, Tamás Katona e Robert Hermann, tra gli altri, oggi sappiamo molto di più sull'esercito ungherese degli Honvéd. Il mito tenace del "tradimento" del generale Görgei è morto e sepolto poiché quest’uomo è ora considerato come il più grande comandante ungherese del XIX secolo. Non si può non essere colpiti dal carattere multietnico dell'esercito ungherese e dei suoi capi. Citerò solamente un esempio tra questi ultimi: sui 13 generali ungheresi fucilati per ordine del generale Haynau al castello di Arad, c’era un duca tedesco non originario dell'Austria, un tedesco dell'Austria, tre tedeschi dell'Ungheria, un croato, un serbo, (ricordiamo che i serbi e i croati erano i nemici più accaniti della rivoluzione ungherese del 1848), due di origine armena (!) e quattro ungheresi "di razza" di cui uno non parlava per così non dire l'ungherese. La stessa constatazione vale per il resto dell'esercito rivoluzionario, e ciò illustra ancora una volta la complessità delle situazioni che prevalevano nel 1848 e la necessità, per tutti gli storici, di trattare con la più grande prudenza le questioni etniche e nazionali. Il nostro rapido esame storico sarebbe incompleto se tacessi sui dibattimenti attuali e le lacune persistenti nella nostra conoscenza degli avvenimenti del 1848. Cominciamo dalle lacune: l'assenza di ogni storia locale, o la negligenza di cui è oggetto, è una costante della nostra storiografia. Occorre forse vederci l'influenza del centralismo ungherese. Trattandosi degli 49 avvenimenti del 1848, ci sono alcuni studi su Budapest (Debrecen, la "seconda" capitale della rivoluzione) e sul territorio della Transilvania ma ce ne sono di meno su Pozsony (Bratislava, Pressburg) e rare sono quelle dedicate ad altre parti del paese. A meno che questi lavori non rimangano nascosti nelle loro località, rendendo ancora più difficile la nostra comprensione degli avvenimenti del 1848/49. Molte questioni suscitano dei dibattiti ma l’argomento che ritorna più frequentemente, è l’interpretazione delle ”Leggi fondamentali di aprile”. Esse hanno potuto avere come effetto l’instaurazione di un’unione personale tra l’Austria e l’Ungheria o il rafforzamento di un’alleanza tra i due paesi? Il sistema così organizzato era produttivo per cominciare? Se così non era, bisogna attribuire il suo insuccesso alla diffidenza reciproca di regola tra le due parti di lunga data o alla piega inaspettata degli avvenimenti, che ha annientato ogni speranza di compromesso duraturo tra esse? Lo si vede, le domande diventano sempre più acute e gli storici restano sulle loro posizioni. Non c’è dubbio che la storia della rivoluzione continuerà a mobilitare gli storici, speriamo che sia per il bene del pubblico. 50 Bibliografia Deák, István, The lawful revolution. Lajos Kossuth and the Hungarians in 1848, New York, 1979. Geiss, Immanuel, Der lange Weg in die Katastroph, Monaco, 1990. 51 6. La Rivoluzione del 1848 nei Principati rumeni: continuità e discontinuità Carol Capita, Alin Ciupala e Maria Ochescu Introduzione Per molte tradizioni storiografiche, la rivoluzione rappresenta il termine di un periodo storico e al tempo stesso il principio di un altro. Avvenimento unico e spettacolare, essa è un fatto storico che difatti si può utilizzare in particolare come "punto-base cronologico" nelle cronologie più o meno scientifiche. Tuttavia, risulta dalle ricerche condotte nel corso degli ultimi decenni che la rivoluzione non segna né la fine né il principio dei periodi storici: i nuovi fattori sono equilibrati dalle evoluzioni a lungo termine, l'eredità può andare di pari passo con l'innovazione - sia in materia culturale (nel senso più ampio del termine) politico o sociale. Questa evoluzione degli studi storici fu messa in secondo piano, addirittura ignorata nei vecchi paesi comunisti. La gogna ideologica dei regimi che hanno segnato l'evoluzione dei paesi dell'Europa dell'est durante la seconda metà del XX secolo è all'origine dell'immagine particolare attribuita alle rivoluzioni, considerate come gli avvenimenti fondatori e come i fatti che attestano senza dubbio l'esistenza e il carattere ineluttabile della lotta delle classi. Si considerava che la rivoluzione apportasse una prova della lotta che oppone la borghesia (una classe che era associata ancora alla nozione di progresso nel XIX secolo, e il proletariato (talvolta ancora nascente) alla classe feudale. Tutta questa costruzione si basava su una lettura piuttosto singolare dei testi marxisti e procedeva meno dalla ricerca scientifica che dalle pressioni ideologiche del momento. La concezione secondo la quale le rivoluzioni del XIX secolo erano dei processi autonomi, senza grande rapporto col progresso e l'affermazione continua della classe operaia, era o un'eresia o una falsa idea. Un'analisi onesta potrà dimostrare facilmente i limiti da questo punto di vista sulla storia. In effetti, i fattori di continuità giocano un ruolo tanto importante quanto gli elementi di innovazione. La rivoluzione del 1848 nella storiografia rumena La storiografia rumena sotto il regime comunista si inserisce bene nel modello prima descritto, poiché la situazione è probabilmente più disastrosa che in altri paesi della regione, e questo per parecchie ragioni. Prima di tutto,molti rivoluzionari del 1848-1849 hanno esercitato, quasi una profonda influenza sulla politica rumena quasi fino alla fine dell'XIX secolo. Questa generazione è di conseguenza sinonimo dell'evoluzione della Romania moderna; in un caso almeno, quello della famiglia Bratianu, la rivoluzione gli avrà permesso di consolidare la sua supremazia sulla politica rumena fino alla presa di potere dei comunisti, poiché i suoi membri avevano dominato il partito liberale dalla sua creazione fino al 1947. In secondo luogo la generazione del 1848 si costituiva principalmente di intellettuali che influenzarono profondamente la cultura rumena. Con Rosenthal, Balcescu, Alecsandri e molti altri, l'arte e la letteratura rumena si sono integrate alla cornice generale della cultura europea moderna. Terzo, la storiografia della fine del XIX secolo - di ispirazione romantica e nazionalista (simile in ciò all'insieme dei testi storici dell'epoca) - ha trasformato questa generazione in un modello di azione politica. Ultimo punto, ma non il minore, da citare: le pressioni esercitate dal regime comunista. La rottura sopraggiunta tra Bucarest e Mosca - sul piano delle dichiarazioni - esercitò un'influenza singolare sugli studi storici. L'indipendenza conquistata sul centro del mondo comunista, (così come sulla sua influenza e il suo "ruolo" di paese guida dello sviluppo socialista) chiedeva in compenso la "scoperta" delle radici locali delle organizzazioni politiche della classe operaia, l’aggiornamento di un contrappeso di natura particolare dal carattere considerato unico dall'URSS e all’ internazionalismo proletario. Ne conseguì che la quasi totalità delle agitazioni sociali fu trasformata in azioni in seno alle quali il proletariato era, se non la punta di diamante, 52 almeno uno dei gruppi che li aveva ispirati. Ciò spiega perché certi testi del periodo anteriore al 1989 considerano che i primi scioperi operai sono accaduti fin dal XVIII secolo in un paese dove, al termine della Seconda Guerra mondiale, la maggior parte della popolazione lavorava ancora nel settore agricolo e dove una proporzione non trascurabile di operai qualificati era straniera. Il risultato è piuttosto scoraggiante quando si attinge ai testi storici tradizionali. Gli avvenimenti, certo importanti, rimangono il centro di interesse principale, le evoluzioni sociali sono trascurate. Succede lo stesso per ciò che riguarda la storia culturale. A nostro parere, le migliori analisi sono state effettuate dagli storici della letteratura rumena e non dagli storici di formazione classica. Tuttavia, una nuova generazione di storici in questi ultimi anni ha cominciato a riferirsi ai nuovi tipi di fonti, a introdurre nel dibattito storico nuovi campi di ricerca (come per esempio lo studio delle questioni legate alle specificità di ogni sesso, la storia della vita privata, delle minoranze, dell’ abbigliamento e del tempo libero, ecc.), e ciò si è tradotto in una considerevole rivalutazione del lavoro già effettuato che si è sforzata di differenziare i risultati positivi da quelli che era meno che accettabili. Le continuità I fattori di continuità sono evidenti. Si osserva innanzitutto una continuità relativa alle persone che presero parte agli avvenimenti del 1848, le associazioni più o meno segrete che miravano a riformare la società rumena essendo stato infatti il luogo privilegiato dell' “esercizio della politica" per tutta una generazione. Per esempio, l'associazione Fratia ("Fraternità"), in attività all'inizio degli anni ‘40, raggruppa la maggior parte dei membri del futuro governo rivoluzionario della Valacchia. Nicolae Balcescu e Christian Tell sono annoverati tra le personalità che hanno già un'esperienza in politica. Questa continuità è tuttavia più profonda. A dire il vero, i dirigenti rivoluzionari provenivano da grandi famiglie rumene, da quelle famiglie aristocratiche che avevano lavorato nella politica locale in passato. I loro membri della giovane generazione consideravano ormai che era giunta l'ora di una nuova politica. Uno stesso ambiente naturale familiare, un'altra politica, ecco quale fu la conseguenza dei contatti con i circoli romantici francesi e italiani. Ma fu anche il corollario di un'evoluzione di natura più strutturale avendo esordito nel XVIII secolo. La borghesia, formata dal raggruppamento di rappresentanti della piccola nobiltà, di negozianti arrivati dai Balcani e da altre regioni del mar Nero (gli Armeni ne sono a questo titolo un buon esempio)così come di intellettuali originari della Transilvania, è anche una forza che partecipa al cambiamento degli orientamenti e delle abitudini. Viene adottata una nuova moda per quanto riguarda l’abbigliamento parallelamente alle nuove attività e nuove forme di divertimento come la stampa e il teatro. È un nuovo mondo. I primi giornali e i primi musei (di oggetti di arte antica e di scienze naturali) sono, come la fondazione degli archivi dello Stato, altrettanti segni di una modernità che offre accesso all’informazione. Questo interesse per la conoscenza dei paesi e degli altri popoli spiegano anche perché certi rivoluzionari consideravano che la rivoluzione del 1848 nei principati rumeni era stata ispirata dagli avvenimenti sopraggiunti in Francia ( ammettendo tuttavia che le rivoluzioni europee offrirono l'opportunità, senza esserne la causa, delle rivoluzioni che scoppiarono nei principati). Ma, lo sottolineiamo di nuovo, queste evoluzioni erano cominciate almeno una generazione prima. Questo modello è riprodotto da un'altra situazione persistente. A prima vista, niente potrebbe sembrare più lontano della nozione di continuità nel 1848 della questione del linguaggio (vale a dire dei concetti e della terminologia) utilizzati per comunicare il messaggio e l’ ideologia rivoluzionari. Osservando più da vicino, si nota che è possibile trattare la questione da un’ altra angolatura. Attraverso tutta l'Europa, l'ideologia del 1848 era essenzialmente liberale. A questa si aggiungevano, in certi casi e particolarmente nei principati rumeni, degli aspetti nazionali. I rivoluzionari rumeni, così come i loro colleghi in altri paesi, usavano un linguaggio che fu 53 creato - a partire dal 1789,si potrebbe dire - per esprimere la nuova ideologia. La necessità di modificare questo linguaggio in funzione di coloro a cui si rivolgeva, del loro livello di istruzione e delle loro convenzioni culturali costituiva il fattore rumeno, di fatto dell'insieme del sud-est. A causa delle difficoltà sollevate dalla relazione tra le fonti del messaggio e i suoi destinatari, la generazione del 1848 ha potuto utilizzare il linguaggio che era disponibile e riconosciuto dai suoi contemporanei. Le idee erano nuove, ma affinché fossero comprensibili nella maggior parte dei principati, il linguaggio con il quale queste novità furono trasmesse era vecchio. Conservata ogni proporzione, si potrebbe affermare che, nel contesto del periodo, la nuova ideologia era tanto straordinaria quanto la malleabilità del linguaggio utilizzato per comunicare dei concetti inediti e i loro significati. Di ciò si troverà l'esempio più esplicito nel ricorso costante al cristianesimo ortodosso e al sentimento religioso, così importante in una società ancora tradizionale. Non è un puro caso se dei preti hanno giocato un ruolo tanto capitale nell'evoluzione degli avvenimenti che segnarono l'anno 1848, sia in Transilvania (nel caso dei cattolici greci e dei rumeni ortodossi) che nei principati rumeni. Il clero fu costretto frequentemente a partecipare suo malgrado agli avvenimenti, a causa della chiamata permanente alla sfera religiosa e dei suoi legami con la nuova società. Nel caso della Valacchia, si invita il prete Radu Sapca a spiegare alla popolazione riunita ad Islaz (il luogo dove esordì la rivoluzione) gli obiettivi della suddetta rivoluzione e il metropolita Neofit fu anche nominato a capo del governo rivoluzionario alcuni giorni più tardi. Una situazione identica si riscontrava in Transilvania, dove i due metropoliti rumeni (ortodosso e cattolico greco) presero parte agli avvenimenti a fianco della popolazione. "La rivoluzione è la volontà di Dio" - questa è l'interpretazione che si potrebbe dare del simbolismo della rivoluzione del 1848 nei principati rumeni, un simbolismo saturo di filosofia cristiana. Di conseguenza, gli avversari della rivoluzione diventavano i nemici di Dio, la croce e il Vangelo degli strumenti della guerra ideologica tanto efficace quanto le barricate e la polvere da sparo. Un altro elemento di continuità era l'idea di trarre profitto dal gioco diplomatico per raggiungere degli obiettivi nazionali. A partire dal XVIII secolo, i rumeni hanno chiesto alle potenze occidentali di intervenire in favore dei principati per controbilanciare l'influenza ottomana. Al tempo delle conferenze di pace che sperano un termine alle guerre regionali che oppongono la Russia, l'Impero degli Asburgo e l'Impero ottomano, delle delegazioni di aristocratici rumeni espressero la speranza che i grandi poteri conferissero ai principati rumeni uno statuto di neutralità o che garantissero la loro autonomia. Poiché l'Impero ottomano rappresentava la minaccia principale (dove il fattore religioso aveva anche un ruolo da giocare), si considerava che le relazioni con i poteri cristiani offrissero una soluzione migliore. Questo orientamento fu percettibile negli sforzi che fecero i rivoluzionario del 1848 per collegare alle loro cause le opinioni pubbliche della Francia o degli Stati tedeschi. Le discontinuità Il primo cambiamento, il più evidente, si è verificato in politica. La rivoluzione del 1848 incarna nella sfera pubblica la prima manifestazione di sostegno attivo dei cittadini (della popolazione in senso largo) alle proposte dei dirigenti politici. È vero che, per la storiografia rumena, l'insurrezione del 1821 capeggiata da Tudor Vladimirescu era una rivoluzione, ma a parte il fatto che il dibattito che portava sulla natura di questo movimento non è chiuso, a nostro avviso essa era troppo legata alla guerra di indipendenza del popolo greco per essere considerata come strettamente rumena. Nel XVIII secolo, la politica rimaneva ancora l'occupazione di piccoli gruppi di aristocratici che rappresentavano l'insieme del paese. Tuttavia, nel 1848, la situazione era differente. A Iasi, la capitale della Moldavia, i rivoluzionari pubblicarono un testo che menzionava le riforme considerate necessarie per garantire il progresso del paese. Questo documento, chiamato Petitiune-Proclamatiune, (“ petizione-proclama"), era l'opera di una commissione eletta all’interno di uno scrutino che riuniva un migliaio di partecipanti; esso fu sottoposto al principe regnante, Mihail Sturdza, da una delegazione che considerava che egli rappresentasse il volere dell'intera popolazione. La situazione era molto simile in Valacchia e in 54 Transilvania. Gli assembramenti che raggruppavano talvolta come in Transilvania decine di migliaia di persone, diventarono l'argomento che legittimava un passo politico che era, dal punto di vista del sistema politico ancora in piedi, fondamentalmente illegale. Nel sud dei Carpazi, in Valacchia, i partecipanti al raduno di Islaz approvarono un documento intitolato "Proclama di Islaz" che diventò il programma del governo rivoluzionario a Bucarest. In Transilvania, i rivoluzionari rumeni agirono conformemente alle decisioni adottate nella riunione di Blaj (uno dei centri religiosi dei Rumeni della Transilvania) che confermavano soprattutto la loro opposizione alla rivoluzione ungherese. Se dei piccoli gruppi conducevano nei fatti la politica rivoluzionaria, è significativo che era con l'assenso di queste riunioni di cittadini. I rumeni scoprivano la "voce del popolo", un dato che avrebbe esercitato un'influenza sulla politica almeno fino alla Prima Guerra mondiale. La rottura probabilmente più significativa col periodo che precedette la rivoluzione del 1848 fu la definizione data al concetto di nazione, idea decisiva che stava per segnare con la sua impronta il periodo successivo, anche se gli sforzi per attribuirgli un contenuto politico rimasero infruttuosi. I giovani intellettuali rumeni ( per la maggior parte provenienti da famiglie almeno agiate se non aristocratiche) membri della corrente romantica, concepivano la nazione come una comunità che doveva riunire tutti i loro compatrioti, gli aristocratici e i plebei, i ricchi e i poveri, gli intellettuali o la gente del popolo. Il nuovo criterio che permetteva di raggiungere questa solidarietà era la cittadinanza e le nuove sottomissioni erano fatte ormai alla nazione, alle sue prerogative e alla sua esistenza politica, e non più a qualche principe, re o imperatore. Lo Stato rumeno moderno che nasce dall'unificazione nel 1859 della Valacchia e della Moldavia, doveva porre la nazione nel suo centro, ma questo modello non era senza limiti né contraddizioni. Già all’inizio del XIX secolo, i rappresentanti della Romania progressista si erano riferiti alla patria e avevano lanciato appelli al patriottismo, ma il significato che davano a questi concetti era molto diverso da quello della generazione del 1848. La vecchia generazione considerava difatti che la patria apparteneva all'aristocrazia, a quelli che formavano l'élite intellettuale ed economica, ai proprietari delle terre e ai detentori di incarichi pubblici, in virtù di una tradizione secolare ancora potente. Le conquiste culturali e intellettuali del secolo delle Luci non furono sufficienti per offrire una nuova prospettiva alla struttura della società, fu così per una generazione dopo. Il patriottismo era una reazione diretta contro i principi greci collocati dall'impero ottomano sui troni rispettivi della Valacchia e della Moldavia a partire dall'inizio del XVIII secolo, e che furono degli strumenti efficaci di assoggettamento di una regione dall'instabilità crescente. Dopo un periodo di coabitazione, l'aristocrazia greca che si era stabilita nei principati entrò in conflitto con la nobiltà rumena per l’esercizio della supremazia su questa regione. Ma questo fenomeno, favorito dall'arrivo delle nuove idee provenienti dall'Europa occidentale, si sviluppò quasi esclusivamente a livello delle élite. Un cambiamento sarebbe sopraggiunto due decenni più tardi. La generazione del 1848 ruppe con questa tradizione e dedicò tutta la sua attività al chiarimento di questo concetto. Per essere compreso da tutti, Nicolae Balcescu, l'ideologo probabilmente più importante della rivoluzione in Valacchia, elaborò anche un "manuale" del cittadino. Dopo il fallimento della rivoluzione nei principati rumeni e in Transilvania, la nazione continuò a rappresentare il principale modello di coordinamento degli sforzi dei rumeni. Un'altra discontinuità significativa si riferiva alle prospettive offerte dalla politica europea. Fino al 1848, una parte considerevole di partecipanti e di responsabili politici aveva intenzione di stringere con la Russia un'alleanza che, sebbene piuttosto costosa, sarebbe stata suscettibile di contrastare l'influenza dell’Impero ottomano. Se è vero che la perdita della Bessarabia nel 1812 fu la conseguenza dell'espansionismo russo verso i Balcani, la decisione degli ottomani di accettare questo indebolimento territoriale fu presa tuttavia sotto l'influenza dei diplomatici rumeni che lavoravano al servizio della Porta Sublime. Inoltre, la perdita dei territori fu percepita come un segno del fallimento degli ottomani. Peraltro, gli interventi più o meno diretti nella vita politica rumena della Russia, anche se questa giocò un ruolo importante mettendo in opera degli elementi riformistici (nella sua capacità di potenza protettrice di forza di occupazione che conseguì al trattato di Adrianopoli) convinsero le élite locali ad adottare un 55 punto di vista differente sull'alleanza con la Russia. L'intervento dell'esercito russo contro le rivoluzioni rumene (nei principati e in Transylvania, confermò le peggiori inquietudini dei Rumeni. A partire da quest’epoca, la vita politica rumena andava a scindersi tra, da una parte, i sostenitori di un'alleanza con la Russia e, dall’altra parte, gli oppositori ad una tale intesa. Solo l'alleanza franco russa conclusa alla fine dell'XIX secolo permise ai rumeni di avere un'opinione appena differente sul loro potente vicino. Tuttavia, la rivoluzione fu all'origine della manifestazione di un'altra discontinuità, quella che esiste tra le generazioni. I giovani aristocratici e intellettuali che, dal 1840, avevano cominciato a farsi conoscere partecipando alle azioni più o meno pacifiche condotte in favore della riforma trovarono nella rivoluzione l'opportunità di affermarsi in quanto generazione. Se per la maggior parte avevano dai venti ai venticinque anni, alcuni di loro (come Ion Heliade Radulescu) avevano superato la quarantina. Ciò che li univa, non erano solamente i loro obiettivi e i loro ideali comuni, ma anche i loro studi, effettuati nelle università francesi, tedesche e italiane dove venivano a contatto con le nuove idee che circolavano in Europa e dove furono iniziati alla franco-massoneria dai loro professori e i loro compagni. L'importanza che davano alle nuove idee era tale che essi ritornarono nel loro paese con il desiderio di modernizzare la società rumena e diventarono, naturalmente, tanti indiziati agli occhi della polizia locale e delle autorità. Tuttavia, chiamati anche ironicamente i "bonjouristes", adottarono senza esitare un nuovo stile di vita che si manifestava in tutti i campi, dai vestiti alle buone maniere, della letteratura alle idee politiche. Conseguenza della loro azione, la politica diventò un'attività quotidiana, perfettamente dissimulata sotto la copertura di associazioni culturali che pubblicavano delle opere dall'orientamento politico marcato. Ben presto, si evidenziarono delle tensioni, non solo nella sfera pubblica, ma anche in seno alle famiglie di questi giovani intellettuali. Un fossato sempre più profondo si scavava tra i figli e i loro padri in un mondo in cui una scissione crescente nasceva in termini di stile di vita, di linguaggio e di inspirazioni. In quanto ai padri, considerevolmente dipendenti dai loro campi agricoli, che vivevano alla moda orientale (conseguenza delle influenze ottomane e greche) e tributari di un sistema politico che garantiva i loro privilegi, non comprendevano i loro figli e deploravano il fatto che abbandonavano le tradizioni. L'origine sociale - questi giovani rivoluzionari erano tutti degli aristocratici) e i legami di sangue non potevano garantire la stabilità di una società che era cambiata. Questa situazione è evocata dal monumento eretto alla memoria della famiglia Golescu, a Bucarest,: il vecchio Dinicu Golescu, grande viaggiatore durante gli anni 1824-1826, è rappresentato nella magnificenza di un abito orientale e porta una lunga barba, segno del suo status sociale. È circondato dai busti dei suoi quattro figli che furono tutti delle figure centrali della rivoluzione del 1848 in Valacchia, vestiti all'occidentale, che portavano favoriti e barbe tagliate corte. In questo "conflitto" intergenerazionale, i padri e i figli cercarono degli alleati nella figura delle donne, delle madri e delle spose. Durante il decennio che precedette la rivoluzione, la giovane generazione aveva scoperto l'influenza che esercitavano le donne in politica e in materia culturale, ruolo che la vecchia generazione dovette ammettere, anche se con reticenza. L'elemento innovatore era che, a differenza del periodo precedente durante il quale le donne erano state totalmente (anche simbolicamente) escluse dalla sfera politica, il messaggio della generazione del 1848 dimostrava che facevano anche loro parte della nazione. Ciò che si produsse dopo la fondazione dello Stato nazionale, cioè che si accordò alle donne solo uno statuto di cittadini passivi (di second’ ordine) è un'altra questione. Nel 1848, le donne facevano parte integrante della nazione e i politici romantici del 1848 avevano molto da dire su questo argomento. Per creare la "Romania rivoluzionaria", il pittore Costantino Rosenthal prese per modello una donna avvolta nella bandiera tricolore (rosso, giallo e blu), che non era altro che la moglie del dirigente rivoluzionario C. A. Rosetti. La rivoluzione si preparò anche nelle sale da ballo e i club letterari dell'aristocrazia, dove la donna occupava una funzione centrale che era lontana dai suoi semplici doveri di padrona di casa, come attestano le memorie e la corrispondenza dei rivoluzionari del 1848. La storiografia rumena che non è prolissa sull'atteggiamento e l'impegno delle spose, delle sorelle e delle madri degli uomini del 1848, si interessa solamente del loro ruolo. Ora, le donne giocarono un ruolo attivo durante la rivoluzione – sia che si tratti di personalità individuali, come Ana Ipătescu che ha quasi salvato 56 il governo rivoluzionario, che delle anonime nate dalla classe media. I loro contemporanei maschili, come J. Michelet e G. Garibaldi, riferirono il loro spirito di sacrificio, ma di numerosi storici non riuscirono a comprendere questo messaggio. Non è esagerato affermare che le donne fecero il loro ingresso nella vita pubblica e in politica durante la rivoluzione del 1848, ma le loro responsabilità furono limitate dopo il 1859 e l'inizio del processo pacifico di modernizzazione. Esse conservarono il loro ruolo di animatrici di salotti letterari e politici, di opere di beneficenza e, ultimo punto ma non il minore, dell'azione sociale, considerata come una componente importante della sfera pubblica durante la seconda metà del XIX secolo. Conclusione Esaminando la rivoluzione del 1848, ci sembra che il significato di questo avvenimento consista precisamente nella combinazione degli elementi innovatori e dei vecchi elementi che compongono la politica rumena nella metà del XIX secolo. Le nuove prospettive che si aprono sull'esercizio della politica sono indissolubili da un nuovo punto di vista sulla società rumena considerata come un tutto - anche se non si tratta di un mondo interamente nuovo. La fusione di questi elementi, il modo di utilizzare il vecchio e il nuovo, costituisce forse il primo segno di modernità nella politica rumena. 57 Bibliografia selettiva Albini, S., 1848 in Principatele Romane ("1848 nei principati rumeni"), Bucarest, Ed. Albatros, 1998. Berindei, D., Revolutia romana din 1848-1849: consideratii si reflexii, ("La rivoluzione rumena del 1848-1849considerazioni e riflessioni"), Cluj-Napoca, Centrul de Studii Transilvane, 1997. Maior, L 1848-1849: romani si unguri in revolutie (“1848-1849: Rumeni e Ungheresi nella rivoluzione"), Bucarest, Ed. Enciclopedica, 1998. Platon, Gh., Geneza revolutiei romane de la 1848 ("La Genesi della rivoluzione rumena del 1848"), lasi, Ed. Universitatii "AI. 1. Cuza", 1999. Stan, Ap., Revolutia romana de la 1848 ("La Rivoluzione rumena del 1848"), Bucarest, Ed. Albatros, 1992. 58 59 7. Libertà e unità: un matrimonio impossibile. Le feste pubbliche del centenario del 1848" in Germania nel 1948 Rainer Riemenschneider Introduzione Il presente contributo si basa su uno studio che ho fatto una quindicina di anni fa. Esso fu pubblicato in una raccolta dedicata alle commemorazioni del Centenario nel 1989 (Riemenschneider, 1989). A quell’ epoca, la ricerca storica tedesca aveva appena scoperto l'interesse scientifico della storia delle commemorazioni, della politica della memoria (Geschichtspolitik), dei luoghi di memoria. I pionieri della ricerca sulla tradizione di commemorare il 1848 sono, insindacabilmente, Dieter Langewiesche e Wolfram Siemann. Al loro seguito, assistiamo alla nascita di tutto un florilegio di pubblicazioni, soprattutto nel contesto del 150° anniversario del 1848 nel 1998 - anniversario che ha visto moltiplicarsi, in tutta l’Europa, i festeggiamenti e le esposizioni che davano luogo a pubblicazioni di librimemorie e di cataloghi che è impossibile citare qui (vedere, per esempio, Siemann, 2000,; Hettling, 2000,; Gildea, 2001,; Tacke, 2001). L'edizione scolastica ha evidentemente approfittato di questa congiuntura favorevole. Per menzionare solamente la produzione tedesca, la bibliografia dei dossiers pedagogici predisposti per il Georg Eckert Istitut in occasione della nostra Conferenza conta decine di titoli (2003). Il nostro studio è basato su una lettura estensiva di periodici quotidiani e settimanali, locali e nazionali, così come di libri-anniversario, pubblicati nel 1948 in Germania, in occasione delle commemorazioni del 1848. Dalla lettura emerge che le condizioni generali dell'anno 1948 non erano propizie alla commemorazione. I molteplici problemi causati dalle distruzioni della guerra e la mancanza di fondi pesavano troppo sulla vita quotidiana per permettere una vista retrospettiva serena in un lontano passato nazionale. La preoccupazione massacrante di sapere cosa ne sarebbe stato del domani, imprimeva tutte le esistenze. I giornali dell'epoca sono pieni di fatti di cronaca che riferiscono il mercato nero, il contrabbando, la ricettazione,: la piccola criminalità pullulava a causa delle restrizioni e del razionamento. Quest’ultimo era piuttosto drastico e fu causa di scioperi molto duri nella primavera del 1948. Ecco ciò che scriveva un giornale locale dal titolo " Uova di Pasqua": "La razione mensile del consumatore adulto sarà costituita in aprile da: 1 350 g di pasta alimentare, 9 000 g di patate, 425 g di carne, 600 g di pesce, 265 g di grasso, 62,5 g di formaggio, tre litri di latte, 1500 g di zucchero, 500 g di frutta secca. [...] Secondo l'amministrazione delle sussistenze, la razione di pane fissata a 7 000 g dovrebbe, per quanto possibile, essere aumentata di 1000 g in Bassa Sassonia", Braunschweiger Zeitung, 18 marzo 1948. Malgrado queste faticose condizioni della vita quotidiana, appena tre anni dopo la fine di una guerra "totale" che si era abbattuta con forza sulla Germania, ci si apprestava a commemorare la Rivoluzione del 1848 - e le attività festive furono ben più numerose in tutto il paese di come si era comunemente pensato (Sieman, 2000, p. 139). Dei tre anniversari del 1948, cioè il terzo centenario della Pace di Westfalia del 1648, comprendendo la Guerra dei Trent’ Anni, e il cinquantenario della morte di Bismarck nel 1898, solo il "1848" incontrò un interesse politico e pubblico notevole, come sottolinea Edgard Wolfrum. nel suo libro magistrale (Wolfrum, 1999, p. 396). Si aveva intenzione di fare una grande dimostrazione in favore dell'unità tedesca, ma in effetti lo svolgimento dei festeggiamenti portò la prova eclatante della divisione sempre più irreversibile delle due Germanie: la Guerra Fredda nascente cominciò a gelare tutto. Wolfrum mostra che era precisamente in occasione dei festeggiamenti commemorativi del 1848, concorrenti nel 1948 a Ovest e a Est che si instaurò il conflitto delle due tradizioni storiografiche germano-tedesche, caratteristica del dopo-guerra. È ciò che aveva già illustrato con forza la lettura dei tre momenti forti dei festeggiamenti: le manifestazioni di Berlino il 18 marzo 1948, ricordando le barricate del 1848; la corsa a staffetta a forma di stella che solca le zone occidentali a metà maggio e che converge su Francoforte- sul-Main; e infine il festival di 60 Francoforte dal 16 al 22 maggio 1948. Nelle pagine che seguono, rivolgeremo la nostra attenzione a questi tre avvenimenti maggiori delle commemorazioni tedesche. Nelle rovine ma nella dignità: La commemorazione del 1848 nel 1948 1. Berlino, 18 marzo 1948, Nella sua seduta del 9 gennaio 1948, il Consiglio comunale della Grande Berlino, rappresentando la popolazione dei quattro settori della vecchia capitale, aveva discusso del progetto di festeggiare il 1848 ma non si era potuto mettere d’ accordo sull'organizzazione di una manifestazione comune. Perciò il 18 marzo 1948, si vissero due manifestazioni distinte che commemoravano lo stesso avvenimento, cioè il centenario dei combattimenti delle strade che iniziarono la rivoluzione berlinese. Da una parte, Socialisti (SPD), Cristiano-democratici (CDU), e Liberali (FDP), avevano scelto di convocare i Berlinesi nella piazza situata davanti all'edificio del vecchio Reichstag, il Parlamento nazionale,; dall'altra parte, il SED, fusione del partito comunista e socialista in zona sovietica, teneva uno spiegamento di Gendarmi sulla piazza. Questa doppia manifestazione fu considerata dai contemporanei come "lo spettacolo più impressionante della lacerazione tedesca dalla fine della guerra", perché essa era stata preceduta da dichiarazioni rivali ed ostili sotto l'occhio complice dellePotenze di occupazione (Spiegel, 20 marzo 1948). Berlino aveva due versioni del Centenario del 1848 perfino nel modo di preparare i luoghi. Per sgombrare le macerie sulla piazza dei Gendarmi, delle squadre della Gioventù organizzate lavorarono per diversi mesi, con l’uso della pala, incoraggiati dal suono dei pifferi. In compenso, sulla piazza della Repubblica, davanti al Reichstag in rovina, "dominava la tecnica". dei bulldozer prestati dall'esercito americano e inglese facevano sparire i frantumi in una stazione di metropolitana disabilitata. Trentamila metri cubi di rovine sparirono così in dieci giorni. Due versioni anche nel modo di recarsi sui luoghi delle manifestazioni: a Ovest, decine di migliaia di persone si recarono individualmente, alla chiamata del posto radio RIAS Berlino, ad ascoltare sotto la pioggia battente i discorsi dei rappresentanti dei tre partiti politici. Ad Est, nello stesso momento, trentamila lavoratori delle fabbriche marciavano al passo, "in lunghe colonne" dietro alla bandiera rossa del SED e al suono della "Internazionale", verso la piazza dei Gendarmi. Secondo Spiegel, "è la paura in marcia", ibid. In queste condizioni, il ricordo del 1848 doveva essere solamente un pallido riflesso, appena un pretesto per uno scontro retorico più attuale. È ciò che si evidenzia almeno nel modo con cui i giornali hanno coperto l’avvenimento. Si ha l’impressione che Berlino diventi la posta in gioco di un conflitto dove si affrontano i due super- grandi: "Dopo il soffocamento delle libertà democratiche a Bucarest, Budapest e Praga, scrive il Sozialdemokrat, giornale berlinese, Berlino resta l’ultimo avanposto e la testa di ponte della democrazia nel mondo". Difatti, Berlino è presentata come il teatro dell'antagonismo Est-Ovest. Il 18 marzo appare come "il giorno del combattimento decisivo tra la Libertà democratica e le barbarie medioevali", e il giornale prosegue: “ sulla piazza della Repubblica si raduneranno le forze che tengono alla cultura e alla civiltà dell'occidente, alla libertà della persona, al progresso sociale e all'uguaglianza dei popoli,; sulla piazza dei Gendarmi, coloro che vogliono liquidare i nostri diritti democratici e la nostra civiltà"( Braunschweiger Zeitung, 18 marzo 1948). Mentre la parola d’ordine nei discorsi ad Ovest era "per la Libertà - contro la democrazia popolare"( ibid) la parola d’ ordine a Est era "per l'Unità e la pace giusta" (Spiegel, 20 marzo 1948). "Democratici occidentali" e "democratici popolari", come lo Spiegel li distingue già, si sono posizionati con l'aiuto dei termini "Libertà" e "Unità". Rivendicando la Libertà, l'Ovest intende opporsi ai tentativi del SED per la riunificazione della Germania occupata. Il SED intende dare una legittimazione storica a questo progetto dichiarando: "Cento anni di lotta per la Repubblica popolare tedesca unita: il Congresso del Popolo dovrà terminare l'opera 61 (Braunschweiger Zeitung, ibid). E Wilhefin Pieck, uno dei capi più in vista del SED, definisce così l'attualità del 1848: "Siamo il completamento della Rivoluzione incompiuta" (Spiegel, ibid). Ma questa concezione dell'unità non è consensuale: "Noi non abbiamo il diritto di realizzare l'unità della nostra patria facendone buon mercato della nostra libertà", dichiarò sulla piazza della Repubblica il liberale Karl Hubert Schwennicke (Spiegel, ibid). Così iniziano, a partire dalle nozioni-chiave ma incompatibili di "Libertà" e di "Unità", due visioni della storia tedesca che daranno adito a interpretazioni inconciliabili del "1848". La divisione politica e ideologica del 1948 dominava le prospettive storiche, e l'effetto del Centenario fu, a mio avviso, rivelatore. Lo Spiegel lo diceva con una chiaroveggenza sorprendente e profetica: "A causa della polemica da una parte e dall’ altra, le barricate del 18 marzo 1848 hanno preso la consistenza di un muro del 18 marzo 1948". (Spiegel, ibid). Questa sottile ironia non era altro che due storiografie sul 1848 stavano nascendo, tutte due comandate dal Magistrato della Grande Berlino. Delle manifestazioni identiche a quelle di Berlino del 18 marzo 1948 si moltiplicarono in tutta la Germania. Numerose città imitarono l'esempio dell'ex capitale. A Braunschweig e a Norimberga, per esempio, furono anche i partiti politici che presero in carica le attività - nelle due versioni, evidentemente. Come a Berlino, partito comunista e partito socialista procedettero a manifestazioni separate ma, a differenza di Berlino, a date diverse ( Braunschweiger Zeitung, ibid). In queste riunioni che talvolta avevano luogo in locali di fortuna - depositi di tram, per Braunschweig, debitamente decorati, come sottolineano i giornali - si sentivano discorsi di celebrità locali, talvolta di deputati del parlamento regionale che riprendevano variandoli i temi che il loro partito aveva sviluppato a Berlino. Tutte queste manifestazioni si sono svolte apparentemente senza disordini, in una calma non priva di una certa solennità. Come se tutti avessero rispettato l'ammonimento di Otto Suhr, presidente del Consiglio comunale di Berlino: "Questa giornata richiede dignità.” 2. La corsa a staffetta Se è difficile valutare il numero delle persone che hanno fatto spostare le manifestazioni nelle varie città nel marzo 1948 - per Berlino, lo Spiegel parla di "decine di migliaia" a Ovest, di trentamila a Est, mentre un'altra testimonianza parla di 50 000 persone da ogni lato - , sappiamo almeno che la corsa a staffetta organizzata la metà di maggio mobilitò 20 000 partecipanti, senza contare i numerosi spettatori che i corridori hanno incontrato sulla loro strada. La corsa era organizzata a forma di stella, chiamata "Stemstaffellauf”. Essa formava sette rami principali che partivano per la maggior parte da una città o da un luogo localizzato ai confini della Germania: Zugspitze, Ulm, Karlsruhe, Kassel, Berlino, Bremerhaven, Flensburg,. Aveva il suo centro a Francoforte dove convergevano i sette rami che avevano ciascuno delle ramificazioni laterali. La corsa partì il 15 maggio dai punti estremi; toccando la quasi totalità delle città, si concluse il 18 a Francoforte, data anniversario della riunione dell'assemblea Nazionale tedesca del 1848. Tra i 20 000 corridori figuravano campioni dello sport, come a Brema la campionessa dei100 m Marga Petersen. Il loro compito era di portare i testimoni sottoforma di tubi che ricevevano, nelle città percorse, dei messaggi che testimoniavano la simpatia delle popolazioni per Francoforte e la sua Assemblea del 1848. Gli organizzatori di questa corsa che, secondo la stampa, superò tutte le manifestazioni di massa del dopoguerra (Hannoversche Presse, 15 maggio 1948) erano le municipalità e le associazioni sportive e di canto. La finalità della corsa sembra essere stata doppia: da un lato, doveva sottolineare il Centenario della riunione dell'Assemblea Nazionale a Francoforte nel 1848 (Overesch, 1998); dell'altro, doveva essere "una grande manifestazione in favore dell'unità tedesca" così fu presentata alla popolazione (Hannoversche Presse, ibid). Il sindaco di Braunschweig, in una dichiarazione alla popolazione, associò i due obiettivi: il ricordo del 1848 doveva produrre lo slancio per la ricostruzione politica della Germania. Il passaggio del testimone nelle città dava luogo a una piccola cerimonia davanti al municipio: allocuzione del sindaco circondato dalle autorità, rappresentazione ginnica eseguita dalle associazioni sportive, canti dei cori. con il concorso di queste associazioni molto frequentate, le autorità speravano di rendere probabilmente la commemorazione del 1848 più popolare. Si ricordava volentieri che il movimento nazionale e 62 unitario del 1848 si basava in parte del movimento associativo. "Cantanti e atleti furono il simbolo dell'ideale di libertà nel 1848” (Hannoversche Presse, ibid). E il presidente di una federazione comunale dello sport esclamò con lo stesso spirito: "Che la democrazia diventi oggigiorno, come allora, per gli sportivi, una faccenda di tutto un popolo"( Hannoversche Presse, 19 maggio 1948). Concludere una corsa di tale portata, includendo ventimila partecipanti e coprendo migliaia di chilometri, implicava un'organizzazione a tutta prova e una disciplina perfetta. Ma i Tedeschi erano forti in questo campo: c’era bisogno di affermare, come faceva un giornale locale, che il testimone arrivò "pünktlich", alle 11 precise, davanti al municipio di Braunschweig la domenica della Pentecoste (Braunschweiger Zeitung, 19 maggio 1948)? E tuttavia, ci furono delle sbavature. A Flensburg, nel nord dello Schleswig-Holstein girato verso la molto democratica Danimarca, la corsa ebbe delle difficoltà a iniziare. Il campione dei 400 m siepi Kohlhoff dovette rinunciare a una grande messa in scena della partenza, una fila di automobili che clacsonavano furiosamente e un tram che suonava con insistenza, richiedendo imperiosamente il diritto di passare. In diverse tappe, i corridori previsti mancavano, facendosi scusare per motivi di lavoro. Si affidò finalmente il testimone a un motociclista che venne obbligato a pranzare in strada affinché non arrivasse a Schleswig troppo presto. Poiché la cattedrale di questa città era chiusa a chiave, si festeggiò la cerimonia della tappa in un altro luogo. Una volta superata Kiel, la corsa continuò a un ritmo regolare verso Francoforte (Spiegel, 22 maggio 1948). La corsa era solo parzialmente una manifestazione per l'unità tedesca: copriva le sole zone americane e britanniche. Nella zona francese, la corsa fu vietata perché le autorità di occupazione francese si opposero per ragioni politiche: "La corsa della Germania miniolimpica, ironizzava lo Spiegel, faceva male al loro occhio sensibile che sorvegliava la suddivisione federalista della Germania. Essi fiutavano delle dimostrazioni unitarie." (Spiegel, ibid) E anche i Sovietici la vietarono. Pertanto il testimone di Berlino non potette attraversare la zona sovietica per via terrestre. Così, dopo aver percorso il settore americano e quello britannico della vecchia capitale, il testimone dovette essere trasportato per via aerea a Francoforte, e il ramo della corsa che passava da Braunschweig esordì solamente a Helrnsledf, sulla linea di demarcazione tra le zone britanniche e sovietiche. Il SED divideva la riprovazione russa: per Wilhelm Pieck, il centenario a Francoforte non era che l’apparenza della formazione di uno Stato occidentale (Spiegel, ibid). Così la versione Ovest del movimento verso l'unità nazionale, nel maggio 1948, era inaccettabile anche per l'Est come era stato il tentativo unitario del SED per l'Ovest nel marzo 1948. 3. Il festival di Francoforte, 16 22 maggio 1948 Il punto culminante della commemorazione del 1848 fu la "settimana della festa e della cultura", come l'aveva intitolata ufficialmente il suo organizzatore, il comune di Francoforte, "capitale provvisoria della Germania occidentale" secondo lo Spiegel (Spiegel, ibid). Questo festival era dovuto all'impegno personale del sindaco di Francoforte, Walter Kolb che, all’improvviso, diventava "il sindaco più in vista di tutta la Germania". Una settimana molto piena di molteplici attività. Menzioniamo qui solo le più importanti: per inaugurarla, l'apertura di un'esposizione sul 1848 presso la Società culturale della città, domenica 16 maggio; la sera, rappresentazione del Flauto magico di Mozart sotto la direzione di Bruno Vondenhoff. Il 17, il sindaco Kolb, Louise Schroeder, sindaco di Berlino e Paul Loebe, ex presidente del Reichstag sotto Weimar, depongono delle corone alla memoria dei morti sulle barricate durante i combattimenti di settembre 1848 a Francoforte. La sera, Adolf Grimme, ministro dell'Educazione della Bassa Sassonia, si rivolge alla gioventù sul Römerberg. Il 18 è il giorno più importante. Dopo un ricevimento, organizzato dall'Università che riunisce rappresentanti del mondo universitario di diversi paesi occidentali così come i rettori delle università tedesche - tranne quelli della zona sovietica (Hannoversche Presse, 19 maggio 19448) si celebrò il Centenario della riunione dell’Assembla nazionale nella chiesa di San Paolo. In una giornata splendida, la folla si accalcava nel centro della città per veder arrivare i 63 corridori rievocati precedentemente. Poi alle 15hl5 precise, il corteo formato degli invitati d’ onore partì dai "Römerhallen" per recarsi, come avevano fatto i deputati nel 1848, al suono di tutte le campane della città, alla chiesa di San Paolo, sede storica dell'Assemblea del 1848. Alla testa del corteo, il sindaco di Francoforte, Walter Kolb,; accanto a lui, lo scrittore Fritz von Unruh che doveva pronunciare il discorso principale e che, a questo scopo, aveva lasciato il suo esilio negli Stati Uniti d'America. Vennero poi i ministri-presidenti e i ministri di tutti i "Länder" seguiti dai rappresentanti delle Chiese e i rettori delle Università in grande pompa. Poi alcune uniformi del governo militare. Nello spirito degli organizzatori, il corteo che attraversava il centro della città in mezzo ad una folla numerosa e la cerimonia a San Paolo dovevano riprodurre un po’ dell'ambiente di festa e di speranza solenne che aveva regnato nel 1848. Ci si era preparati da lungo tempo, soprattutto per la ricostruzione della chiesa di San Paolo distrutta da un raid aereo che, nel marzo 1944, aveva lasciato in piedi solo i muri esterni. Considerata come "la casa e il simbolo della democrazia tedesca", la chiesa doveva essere ricostruita in precedenza. Questo lavoro era presentato dal sindaco come l'opera di tutto il popolo tedesco, "fatto col legno delle foreste di Turingia, dell’Est e del Sud,; con le pietre della Hesse e della Renania; col ferro e l’acciaio della Ruhr; con l'obolo degli operai di Berlino, di Amburgo, di Hannover, di Monaco e di altre città tedesche"( Braunschweiger Zeltung, ibid). Qui sono da rilevare due aspetti essenziali: il carattere religioso di cui si sentiva impregnata la "democrazia tedesca" e l'idea che l'edificazione della Casa comune - nel senso proprio e nel senso figurato - il risultato dello sforzo di tutta la Germania - almeno in principio. I due aspetti erano presentati dai contemporanei come appartenenti a un'attualità vivente, che bisognava ancora sviluppare, e che trovava la sua legittimità nel fatto che riallacciava con l’avvenimento fondatore che era il “1848". Tutto ciò doveva essere simboleggiato da San Paolo ricostruita nel 1948. Il carattere religioso della politica tedesca si esprimeva attraverso la doppia destinazione dell'edificio.Esso era "Volkshaus und Gotteshaus", casa del popolo e casa di Dio: "la croce posta sopra l'edificio ricostruito, apporrà il suo sigillo sia all'azione politica che all'azione religiosa”.per quanto riguarda il secondo aspetto dell'edificio ricostruito, il concorso di tutta la Germania sottolineata dal sindaco, bisogna aggiungere che tra le campane di San Paolo che suonavano fin dalle 8 del mattino il 18 maggio, tre erano state offerte dalla chiesa Evangelica della Turingia. Atto di fede e gesto politico evidente di una provincia incorporata dal 1945 nella zona di occupazione russa. Le tre campane provenienti dalla Turingia arrivarono a Francoforte il 20 marzo 1948, il giorno stesso in cui il Consiglio di Controllo Alleato a Berlino si divise in completo disaccordo. Poteva esserci più grande scarto tra il desideri di unione e la realtà della divisione? Malgrado gli sforzi profusi dagli organizzatori per dare alla giornata un'aria di festa, la recentissima catastrofe si faceva ancora troppo sentire. Il sindaco si sforzava di qualificare il 18 marzo 1848 come la"nascita della democrazia tedesca" alla quale doveva nuovamente protendere tutte le energie. Non potette trattenersi dal constatare, nella sua allocuzione inaugurale della chiesa di San Paolo che invece delle belle case a graticcio del "Römer" che erano state l’orgoglio della città, il corteo costeggiava dei campi di rovine il cui triste aspetto aveva potuto essere solo in parte dissimulato dalle bandiere e dai rami di abete (Braunschweiger Zeitung, ibid). Lo Spiegel rilevava il contrasto tra l’ingranaggio ben oleato della festa e la realtà disastrosa che un'evocazione sdolcinata del passato doveva far dimenticare: "La vista delle rovine del presente fu velata dalla retorica della commemorazione che faceva vedere solo troppo spesso la radice del male tedesco, europeo, mondiale" (Spiegel, 22 maggio 1948). Fritz von Unruh che era andato in fondo alle cose stigmatizzando le responsabilità di quelli che accettano di servire senza contestare sotto i regimi più diversi, fu colpito da un malessere e dovette interrompere il suo discorso ( Braunschweiger Zeitung, 19 maggio 1948). L'indomani, il 19 maggio, il festival proseguì con il Congresso degli scrittori tedeschi che riuniva circa 400 poeti e scrittori e con la Giornata dell’Unione dell'Europa in cui Henri Brugmans, dei Paesi Bassi, pronunciò il discorso principale (Hannoversche Presse, 20 maggio 64 1948). Il venerdì 21, una partita di calcio organizzata dal futuro allenatore della squadra federale, Sepp Herberger, oppose una squadra del Sud a una squadra del Nord (meno la zona francese e la zona russa): questa "mezza competizione nazionale" attirò 50 000 spettatori allo Stadio di Francoforte (Spiegel, ibid). Il 22 maggio un "congresso interzonale delle donne " chiuse il festival, coronato da fuochi d’ artificio al termine di una grande festa dei divertimenti. Conclusione: La festa introvabile Si parlò molto del 1848 nel 1948. Si commemorò il Centenario in moltissimi modi e in numerosi luoghi. La stampa e la radio lo amplificarono. Le iniziative furono prese dai partiti politici e dai comuni. I sindaci delle grandi città, mi sembra, ebbero un ruolo determinante nella preparazione e lo svolgimento dei festeggiamenti, più dei capi di governo dei Länder, spesso ancora mal seduti al potere a causa della creazione recente e largamente astorica di questi nuovi Stati, e in assenza di un potere centrale. La classe politica in ricostituzione vive nelle diverse forme di commemorazione del 1848 un'opportunità di farsi conoscere maggiormente e, attraverso l'evocazione del passato democratico del “1848", un mezzo per contribuire a fare attecchire di nuovo la democrazia nella società tedesca disorientata da un decennio di dittatura e di terrore. Il "1848', aveva la funzione di modello pedagogico, e le attività per commemorarlo somigliarono più a una dimostrazione di psicologia politica che a una festa tradizionale di anniversario. La lezione fu compresa, il messaggio ascoltato? Certo, c'era una grande folla a Berlino in marzo - almeno, ad Ovest la gente era accorsa spontaneamente, ad Est era comandata e non aveva la scelta di restare a casa propria- e a Francoforte in maggio. Ma essa si era spostata per ascoltare degli uomini e delle donne politiche dissertare sulle barricate di un tempo? Niente è meno sicuro, perché il "1848" non sembra essere stato molto popolare. All'università popolare di Norimberga, cinque persone si erano iscritte al corso sulla " Rivoluzione del 1848-1849", mentre quello sul Faust di Goethe attirava 250 auditori. Si è spiegato questo squilibrio tra le infatuazioni per le belle lettere e il disinteresse del 1848 come il segno di una certa apoliticità (Overesch, 1986). La spiegazione mi sembra eccessiva; le ragioni del disinteresse devono essere cercate altrove. Esse consistono piuttosto nel modo in cui si è avvertito il 1848. Mi sembra infatti che il sentimento che prevaleva nel 1948 era quello di una rivoluzione incompiuta, e - più importante – nasceva l’ idea che le conseguenze dell'incompiutezza della rivoluzione erano state nefaste per l' ulteriore evoluzione. Un commento non firmato sulla cerimonia di Francoforte, pubblicato l'indomani su un giornale regionale, è abbastanza rappresentativo di questo sentimento. Sotto il titolo "Libertà indivisibile", afferma: "Che il popolo tedesco abbia mancato la sua rivoluzione decisiva, è il lato tragico della nostra storia." E l'autore anonimo continua che la storia tedesca è, di fatto, una catena di rivoluzioni mancate o fallite che segnano la strada "sulla quale il nostro popolo ha seguito da lontano le orme di nazioni più felici nella conquista della libertà e della democrazia" ( Hannoversche Presse, ibid). Argomento sottoforma di programma già sviluppato in un altro giornale in marzo. Col titolo: "Libertà subito, unità poi", l'autore anonimo constata la lacerazione tedesca causata dalla guerra fredda nascente, e analizza poi le cause, molteplici, del fallimento della rivoluzione del 1848. Successivamente passa alle conseguenze dell'insuccesso che, secondo l’autore, hanno sacrificato la libertà a vantaggio dell'unità, e questo, fatalmente, doveva portare al "precipizio in fondo al quale ci troviamo". In questa prospettiva, la commemorazione del 1848 non era un motivo di gioia: "Sarebbero spostati i festeggiamenti del centenario del 1848 in un sentimento di fierezza e di soddisfazione, come se si trattasse di una tradizione che va da sé ("selbstverständliche Tradizion"), come il 14 luglio in Francia" (Braunschweiger Zeilung, 18 marzo 1948). Non si festeggia una rivoluzione fallita dunque, nemmeno del resto una guerra persa. Il Centenario del 1848 era l'opportunità non tanto di rivisitare la storia tedesca - di ciò, i professionisti della ricerca storica si erano incaricati fin dalla "catastrofe tedesca" del 1945 - ma 65 di portare, attraverso i media, questa revisione davanti a un pubblico molto più ampio di quanto non fosse la cerchia limitata dei professionisti della storia. I commenti pubblicati sulla stampa mostrano a che punto le preoccupazioni del presente determinavano la visione del passato. L'interpretazione storica è funzione del vissuto al presente e del progetto del futuro: questa constatazione, banale per lo storico, trova ancora una volta un'illustrazione sorprendente nel racconto dei festeggiamenti del Centenario del 1848. 66 Bibliografia Georg Eckert Institute, Braunschweig, Germania, Thematische Auswahllisten von Unterrichtsmaterialien, No. 24: Von der Restauration bis zur Revolution 1848, 2° ed, aprile 2003. Gildea, Robert, "1848 in European collective memory" in Dieter Dowe, Heinz-Gerhard Haupt, Dieter Langewiesche et Jonathan Sperber (ed), Europe in 1848. Revolution and Reform, New York e Oxford, 2001, pp. 916-37. Hettling, Manfred, "Shattered mirror. German memory of 1848: From. spectacle to event” in Charlotte Tacke (ed.), 1848 - Memory and oblivion in Europe, Bruxelles, 2000 (Euroclio No. 19), pp. 79-98. Overesch, M., Chronik deutscher Zeitgeschichte, Part 3/II, Düsseldorf, 1986. Riemenschneider, Rainer, '1848 / 1948. Liberté et unité: un mariage impossible. Le centenaire de « 1848» en Allemagne, 1948', tratto da: «Histoires de Centenaires ou le devenir des révolutions. Contributions à l'histoire des centenaires des révolutions de 1830, 1848,1870 et 1871 en France et en Europe», in Bulletin de la Société d'Histoire de la Révolution de 1848, Paris, 1989, pp. 65-75. Siemann, Wolfram, "Der Streit der Erben - deutsche Revolutionserinnerungen" in Dieter Langewiesche (ed.), Die Revolutionen von 1848 in der europäischen Geschichte: Ergebnisse und Nachwirkungen;Beiträge des Symposions in der Paulskirche vom 21. bis 23. Juni 1998, Munich 2000 (Supplemento No. 29, Historische Zeitschrift) , pp. 123-54. Tacke, Charlotte, "1848. Memory and oblivion in Europe" in Charlotte Tacke (ed.), 1848 Memory and oblivion in Europe, Bruxelles, 2000 (Euroclio No. 19), pp. 13-27. Wolfrum, Edgar, Geschichtspolitik in der Bundesrepublik Deutschland. Der Weg zur bundesrepublikanischen Erinnerung 1948-1990, Darmstadt, 1999. 67 PARTE II 1912-13 nella storia europea 68 69 8. Introduzione all'anno 1913 Può sembrare strano, a prima vista, considerare il 1913 piuttosto che il 1914 come cerniera potenziale nella Storia europea recente. Numerosi manuali di Storia contemporanea, in particolare quelli pubblicati in Europa occidentale e negli Stati Uniti, menzionano le guerre balcaniche del 1912 e del 1913 solamente per i fattori e per le forze che hanno contribuito allo scoppio della Prima Guerra mondiale. Tuttavia, la ragione per la quale abbiamo incluso gli eventi del 1912-1913 in questa serie dei momenti chiave della storia recente dell'Europa è che la prima e la seconda guerra balcanica sono un elemento importante di un ciclo di liberazione nazionale nei Balcani, ciclo che si è svolto su due secoli: iniziato nel 1804 con il primo sollevamento serbo contro la dominazione ottomana, si completerà nel sanguinoso conflitto che ha dilaniato l'ex Jugoslavia dal 1991 a 1995. In quanto tali, queste guerre si inscrivono, dunque, nella storia che vede coincidere il desiderio di liberazione nazionale e le ideologie nazionaliste, che hanno alimentato queste aspirazioni sul modello della carta politica dell'Europa del Sud-Est. Nel 1817, la Serbia conquista una certa autonomia. Nel 1832, la Grecia finisce per liberarsi dal giogo ottomano ed accede all'indipendenza. Nel 1848, tutta la regione è in preda a sollevamenti nazionalisti. Al congresso di Berlino, nel 1878, la Serbia e la Romania ottengono l’indipendenza totale, mentre la Bulgaria diventa una provincia auto-amministrata e l’Impero degli Asbourgo assume il controllo della Bosnia, dell'Erzegovina e del sandjak di Novibazar. Da allora, la presenza ottomana nei Balcani si limita all'Albania, alla Macedonia ed alla Tracia, essendo alcune parti di questi territori cedute alla Grecia, nel 1881, ed alla Bulgaria nel 1885. Evidentemente, la crescita demografica rapida e tutta una serie di problemi strutturali interni spingono i dirigenti dei nuovi Stati dei Balcani a voler estendere i loro territori e ad ambire a ciò che resta dei possessi ottomani in Europa. Ma, ogni volta, l'argomentazione avanzata per giustificare l'aggressione e la resistenza interna è la volontà di liberare la nazione dall’oppressione straniera. Il Montenegro, la Serbia, la Grecia e la Bulgaria giustificano la prima guerra balcanica con il desiderio di liberare il Kosovo e la Macedonia dal giogo ottomano. La Bulgaria, insoddisfatta dei risultati della divisione della Macedonia, giustifica la seconda guerra balcanica con la motivazione che la popolazione dei territori macedoni che essa rivendica è bulgara. All'inizio della Prima Guerra mondiale, la Serbia dichiara che il suo primo obiettivo è di liberare le terre degli Slavi del sud dalla dominazione degli Asburgo. Ma non appena quest'obiettivo sembra raggiunto, con la creazione del regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, nel 1918, nuovi disordini si annunciano: gli Albanesi del Kosovo si ribellano, i nazionalisti macedoni creano l'Organizzazione rivoluzionaria macedone interna, numerosi Croati e Sloveni cominciano a percepire i Serbi come nuovi dominatori stranieri e movimenti di liberazione nazionale emergono. Queste divisioni diventano ancora più visibili quando le potenze dell'Asse occupano la Iugoslavia, nel 1941. Se il dopoguerra, con il regime comunista di Tito, soffoca queste aspirazioni nazionali, non è affatto sorprendente che i responsabili politici arrivati al potere in Yugoslavia nel 1990 abbiano adottato programmi nazionalisti. Il problema, proprio come era accaduto per quasi tutto il 19° ed il 20° secolo, era che essi non cercavano soltanto di creare degli Stati-nazione, ma anche di dominare altri gruppi nazionali presenti nei territori che si disputavano. 70 9. Le grandi potenze ed i Balcani: 1878-1914 Ioannis KOLIOPOULOS Le grandi potenze ed i Balcani fino allo scoppio delle guerre L'estremità sud-orientale dell'Europa, che formò per secoli la metà occidentale dell'Impero romano d'Oriente o dell'Impero bizantino, prese il nome di “Balcani” dopo che i Turchi ottomani presero piede sul continente e divenne il limite occidentale del loro impero tentacolare. Dei modi di vita primitivi, un nazionalismo militante, l'instabilità e la guerra costituirono altrettante immagini associate a questa regione; diciamo piuttosto che l'Occidente decise di descriverla così, per soddisfare le sue inclinazioni e necessità intellettuali e politiche (Todorava, 1997). I feroci e turbolenti Albanesi, Serbi, Greci o Bulgari ebbero tuttavia i loro equivalenti in Europa occidentale non molto tempo fa; quanto ai conflitti religiosi o nazionali dei Balcani, essi non ebbero mai la violenza di quelli che sconvolsero l'Occidente nel corso del XVI e XVII secolo o più ancora nel XXe secolo. Gli atti di brutalità tra le comunità e la pratica della pulizia religiosa o nazionale sono stati perpetrati con uguale intensità all'est e all'ovest del continente. Quest'immagine di una punta sudorientale dell'Europa agitata da disordini influenzò i servitori di Clio nella ricerca della verità e della realtà che presiedeva alla loro analisi degli avvenimenti e delle evoluzioni storiche a tal punto che il principio di autodeterminazione nazionale (che l'Occidente aveva accettato come una motivazione principale e legittima per i coloni americani insorti contro il re d'Inghilterra e per le popolazioni italiane o tedesche dell'impero degli Asburgo opposte al loro monarca) non fu ammesso così volentieri riguardo Greci, Serbi, Albanesi o Bulgari del sultano ottomano. Nel 1912, le grandi potenze europee non erano disposte, per ragioni che erano loro proprie, a lasciare gli Stati-nazione della regione, spogliare il sultano ottomano e l'imperatore asburgico di territori come l'Albania, il Kosovo, la Bosnia, l'Epiro, la Macedonia o la Thrace. Questi vecchi imperi in declino furono così mantenuti in vita per paura che la loro scomparsa creasse un vuoto di potere e determinasse dei dissensi tra gli Stati-nazione che sarebbero loro succeduti e le grandi potenze che li sostenevano. Questi timori non erano illegittimi e non preoccupavano soltanto Francesco-Ferdinando ed Abdul Hamid. L'impero multietnico non rappresentava un modello così inutile o superato come sostenevano i partigiani dello Stato-nazione; questo era il punto di vista di individui i cui progetti differivano da quelli dell'imperatore asburgico o del sultano ottomano. I seguaci di questi imperi, benché non fossero esattamente dei rappresentanti de "l’ancien régime" o ammiratori del principe KIement von Metternich, giudicavano gli imperi dell'Europa centrale ed orientale utili e anche indispensabili al mantenimento di una forma di pace e di ordine pubblico in una regione che comportava una moltitudine di popolazioni dalle confessioni, lingue o identità diverse. Quest'idea aveva spinto i due imperi a fare degli sforzi considerevoli per riformare e consolidare le strutture deboli; le riforme in corso rafforzarono ancora la posizione di quelli che difendevano questo punto di vista. Quelle che aveva intrapreso la monarchia austro-ungarica miravano a consolidare i due imperi vacillanti ed a convincere le province non tedesche che la loro adesione all'impero attraeva più della prospettiva di un'appartenenza ad uno Stato degli Slavi del sud, che offrivano loro i Serbi; fu anche il caso delle riforme liberali annunciate dai Giovani Turchi nel 1908. Delle opinioni simili, motivate da altre preoccupazioni e che servivano dei progetti diversi, furono difese in Grecia da sradicati come Ione Dragoumis ed un cénacolo di pari sensibilità. Delusi dai risultati e dal bilancio dello Stato-nazione ellenico, essi erano in cerca di una "soluzione" diversa da quella dello Stato-nazione, sotto la forma di un Impero ottomano rimaneggiato, nel quale il patriarca ecumenico greco ortodosso avrebbe esercitato la sua autorità su tutti i cristiani greci ortodossi dell'impero. Questa posizione a favore del rafforzamento di questi Imperi multietnici dell'Europa centrale ed orientale che erano allora in pieno declino, adottata durante il primo decennio dello XX secolo da diverse parti, sembrava abbastanza moderna agli occhi di quelli che stigmatizzavano lo Stato- 71 nazione, nel quale vedevano la causa di tutte le guerre disastrose che insanguinarono il XX secolo. Per i detrattori postmodernisti dello Stato-nazione, partigiani della formazione di società e di Stati multiculturali e multietnici, questa concezione favorevole agli imperi multinazionali della regione, che era stata avanzata all'inizio del XX secolo, prometteva una ristrutturazione salutare di questi ultimi e delle diverse comunità che essi accoglievano. La Grecia Dal lato greco della frontiera con i territori rivendicati dagli Stati-nazione che esistevano allora, cioè la Grecia, la Serbia, Montenegro e la Bulgaria, quegli stessi che formarono nel 1912 la Lega balcanica e spogliarono il sultano ottomano della maggior parte dei suoi possessi territoriali dell'Europa, non esisteva alcun reale dibattito sulla questione di detti territori; gli ambienti intellettuali e politici provavano piuttosto un certo disagio e qualche timore sul futuro riservato ai Greci. Il disastro e l’umiliazione della guerra del 1897 contro la Turchia avevano rivelato i limiti della capacità della nazione greca di affrontare da sola la Turchia. La guerra prolungata tra le fazioni greche e bulgare o contro le forze di cui disponevano i Turchi in Macedonia contribuì molto poco ad alleviare i timori che suscitava in Grecia il futuro della Macedonia e dei territori adiacenti. Ion Dragoumis ed un certo numero di suoi amici accarezzavano l'idea di un "Impero greco ortodosso" in seno ad un Impero ottomano rimaneggiato e riformato. Nel clima favorevole instaurato dalla sommossa dei Giovani Turchi del 1908, tali progetti non sembravano né stravaganti né ridicoli, benché, in realtà, lo fossero. Questo"Impero", che riuniva i cristiani ortodossi greci sotto l'egida dei Greci dell'Impero ottomano, passava anche per essere stato un sogno accarezzato dall’élite fanariota prima della guerra d'indipendenza greca degli anni 1820. Arnold Toynbee, che associava quest'idea ai Fanarioti, conosceva apparentemente molto poco quest'élite prenazionale greca; sembra tuttavia essere stato influenzato da questi stessi avvenimenti e dalle loro interpretazioni che determinarono precisamente la posizione di Dragoumis e del suo gruppo di greci sradicati. Mentre Dragoumis giudicava il modello dello Stato-nazione greco superato ed inutile, Toynbee considerava lo Stato futuro come un sogno inaccessibile dei liberali occidentali, assolutamente incapace di integrare le istituzioni liberali occidentali (Dragoumis, 1985; Toynbee 1922,1981). Un uomo molto diverso da Dragoumis si situava all'opposto di quest'ultimo: Eleutherios Venizelos, un grande uomo di Stato cretese che cominciava allora una brillante e tumultuosa carriera politica in Grecia. Venizelos non aveva alcun dubbio né alcuna illusione su ciò che il futuro riservava alla Grecia, purché i servitori dello Stato gli affidassero il potere indispensabile alla guida del paese. Egli credeva fermamente che il regno un tempo instabile, che Dragoumis scherniva e disprezzava, rappresentava un formidabile strumento nelle mani degli individui capaci, posti sotto la sua autorità. In realtà, egli era convinto che lo Stato greco costituisse il solo mezzo suscettibile di garantire il futuro dei Greci. La "grande idea", che in passato era spesso sembrata favorire i disegni di quelli che progettavano una insurrezione panellenica dei Greci dell'Impero ottomano e la loro unione in seno ad un Impero greco, non aveva altro scopo, nello spirito di Venizelos, che di permettere l’annessione, attraverso il regno della Grecia, di tanti territori limitrofi di quanti gli sarebbe stato possibile impadronirsi e ciò, egli sperava, con la collaborazione degli altri Regni della regione, per meglio salvaguardare queste conquiste territoriali (Veremis, 1980,1989). Venizelos che era stato favorevole alla rivoluzione contro l'ordine stabilito prima di riversare le sue ambizioni sul regno della Grecia, non credeva più nelle insurrezioni dei Greci dell'Impero ottomano del tipo di quelle che il regno aveva fomentato, presso gli irredentisti dei dominions europei del sultano, nel corso di tutto il diciannovesimo secolo. Egli era in grado di misurare la debolezza essenziale: erano condannate al fallimento, poiché non si basavano su un esercito nazionale regolare, ma piuttosto su uomini in armi di ogni risma arruolati sul posto, tra cui briganti, e perché le grandi potenze europee non avrebbero permesso lo smembramento dell'Impero ottomano. 72 Le potenze protettive della Grecia, cioè l'Inghilterra, la Francia e la Russia, si opponevano, in particolare le prime due, che i greci turbassero la pace nella regione. Questo atteggiamento aveva condotto i governi greci successivi a privilegiare il ricorso a fazioni irregolari per favorire i disegni irredentisti del regno, provocando il sollevamento dei territori greci sotto la dominazione straniera, cosa che aveva avuto per effetto di mettere in piedi un formidabile contingente di uomini in armi che si presentavano come il vero esercito della nazione e depredavano quasi sempre impunemente i contadini (Koliopoulos, 1987). Venizelos non intendeva proseguire su questa via, poiché era deciso a costituire un esercito regolare potente e credibile, ciò che riuscì a fare con l'aiuto di ufficiali francesi quando arrivò al potere. L'uso di metodi irredentisti simili in Bulgaria e negli altri paesi della regione favorì l'ascesa di uomini come Venizelos, che desideravano mettere un termine a vecchie abitudini che avevano la vita dura. L'abbandono delle pratiche e degli obiettivi deludenti del passato dovette molto ad alcune modifiche profonde del sistema di sicurezza europeo. Le due alleanze di grandi potenze europee, la Triplice Alleanza stabilita tra la Germania, l'Austria-Ungheria e l'Italia, così come la Triplice Intesa, che riuniva l’Inghilterra, la Francia e la Russia, si erano unite in due campi militari opposti che, per timore di una guerra che avrebbe infiammato tutto il continente, avevano costretto le potenze ad evitare ogni provocazione. La pace era così garantita dalla minaccia imminente di una deflagrazione generale. La moderazione di cui davano prova le grandi potenze indusse i piccoli Stati a mantenere i loro schieramenti regionali, con l'intenzione di prendersi la rivincita ed iniziare le ostilità localmente. La Lega balcanica La Lega balcanica del 1912 vide la luce nel quadro di questa moderazione che le grandi potenze europee si imposero. Il tradimento dello zar russo da parte dell'imperatore austro-ungarico nel 1908, quando l'Austria-Ungheria annesse la Bosnia-Herzegovina, senza informare prima la Russia contrariamente al passato accordo, provocò l’umiliazione di quest’ultima privandola dell’ occasione di impadronirsi dei distretti. Desideroso di trovare una sorta di compensazione nella regione alla quale riteneva di avere diritto, il governo russo assicurò agli Stati slavi dell'Europa del Sud-Est il suo sostegno nella comune azione contro l'Impero ottomano. La guerra italo-turca del 1911-1912 agì come un catalizzatore: un membro della Triplice Alleanza era in guerra con l'Impero ottomano e "le grandi potenze europee erano ancora una volta chiamate a confrontarsi su una crisi riguardante la Questione orientale (v. Helmreich, 1938, Tricha et Gardika-Katsiadaki, 1993). Gli incoraggiamenti insistenti della Russia portarono all'alleanza della Serbia e della Bulgaria e costrinsero i due Stati a mettere a punto un’azione comune contro la Porta. Gli obiettivi militari non furono precisati; la parte dela torta che sarebbe spettata a ciascuno doveva dipendere dalla fortuna delle armi, mentre la mediazione dello zar, prevista in caso di disaccordo sulla spartizione, tradiva il protettore interessato di questa alleanza. Si trattava così di un'alleanza slava motivata dal desiderio della Russia di prendere il sopravvento sulla sua rivale, l’AustriaUngheria, come pure dal desiderio della Serbia e della Bulgaria di soddisfare le loro revendicazioni territoriali a spese dell'Impero ottomano e, all’occorrenza, delle pretese territoriali greche che sarebbero andate nello stesso senso. Il tempo della guerra di Crimea, dove l'azione comune di tutti i cristiani ortodossi della regione sotto l'egida della Russia appariva come una missione sacra assegnata da Dio agli ortodossi dell’ Europa dell'Est, era passato. Gli Stati della regione giungevano a una certa maturità ed assimilavano i mezzi messi in atto dai Paesi occidentali a cui si ispiravano. Uomini nuovi respingevano la retorica e le suscettibilità di un tempo e raccoglievano le loro forze per agire alla maniera di Camillo di Cavour, Otto von Bismarck e Napoleone III. L'alleanza slava 73 L'alleanza slava del 1912 fu per la Grecia fonte di nervosismo e di preoccupazione, giustamente del resto. Molto più dell'accordo di Bled del 1947, tra il maresciallo Tito e Georgy Dimitrof in vista della creazione di una federazione yougoslavo-bulgara e dell'unione della Macedonia bulgara del Pirin e della Repubblica popolare di Macedonia di allora, l'alleanza serbo-bulgara del 1912 rappresentava per la Grecia una minaccia senza precedenti. E’ opportuno notare che nel 1912, contrariamente al 1947 in cui la Grecia poté contare sulla protezione dell'Inghilterra e degli Stati Uniti per contrastare il pericolo che rappresentavano la Iugoslavia e la Bulgaria comuniste, il paese si trovava praticamente isolato in una nuova serie di azioni militari che sembravano sul punto di essere intraprese nella regione per privare il sultano ottomano di un certo numero di territori. Venizelos era in grado di distinguere la grave minaccia che la Serbia e la Bulgaria facevano pesare, alleate sugli interessi della Grecia; non esitò un secondo a fare entrare il suo Paese nell'alleanza slava. Venizelos non fu sorpreso di constatare che la Bulgaria era sensibile alla proposta greca: essa era abbastanza forte per accettare un socio la cui sola carta era la marina. La Bulgaria possedeva infatti di gran lunga l'esercito più potente della regione ed il suo ruolo sulla terraferma sarebbe certamente risultato determinante. Inoltre essa beneficiava del sostegno incondizionato della Russia, di cui era considerata l'artefice nel conflitto che si annunciava nella regione. In questo senso, il ravvicinamento della Grecia di fronte alla Turchia costituiva tanto una misura difensiva riguardo alla Bulgaria che una manovra offensiva nei confronti della Turchia. Gli eventi della regione precipitavano troppo rapidamente perché la Grecia vi potesse fare fronte da sola. L'intesa fragile che esisteva un tempo tra la Grecia e la Turchia per evitare la spartizione dei possedimenti europei del sultano, di cui sapevano entrambe che sarebbe avvenuta a proprie spese, era sminuita e minata dal sentimento di potenza infuso all'Impero ottomano dai Giovani Turchi dopo il 1908 e la nuova missione che essi avevano loro assegnato. Inoltre, questi ultimi non dissimulavano la loro intenzione di ristrutturare il vecchio apparato e trasformarlo in uno Stato-nazione moderno simile a quelli che gli erano succeduti nella regione. La concezione che avevano i Giovani Turchi del futuro non lasciava alcun posto alla Grecia. La guerra La guerra fu iniziata nella regione nell'ottobre 1912 ed imposta alla Turchia, come ci si poteva aspettare, da parte degli Stati che l'avevano sostituita. La Serbia, il Montenegro, la Bulgaria e la Grecia piombarono sull'Impero ottomano e si impadronirono di tanti territori quanti permise loro l’avanzata delle loro proprie forze sulla terraferma. Il conflitto conobbe un certo numero di risultati e di fallimenti inattesi, in particolare lo sfondamento delle truppe greche che, dal sud, si addentrarono in profondità nelle zone franche slavofone di Macedonia rivendicate dalla Bulgaria, l'avanzata rapidissima della Serbia in questa stessa Macedonia che era oggetto delle rivendicazioni bulgare, ma in direzione della quale l’ avanzata della Bulgaria fu rallentata dall’incontro con il grosso delle forze ottomane in Tracia, come pure l’intervento dell'Italia e dell'Austria in nome dello Stato-nazione albanese da poco tempo creato. Questa piega imprevista presa dalla guerra produsse una situazione radicalmente diversa nella regione. La vittoria della Serbia e del Montenegro permise loro di estendersi in profondità nel territorio macedone sul quale portavano le mire bulgare e respingere il nuovo Stato albanese più al sud, in Epiro, che la Grecia desiderava annettere. Con l'estensione territoriale serba al Kosovo, l'Epiro settentrionale sfuggì alla Grecia e diventò l'Albania meridionale. La Grecia si rifece facendo la parte del leone in Macedonia. Dopo il fallimento della conferenza di Londra, la Bulgaria si impegnò in una seconda campagna militare, questa volta contro la Grecia e la Serbia. Oltre ai suoi vecchi alleati, ora affrontava anche la Romania e la Turchia. La Bulgaria correva incontro al disastro che non mancò di verificarsi. In materia territoriale, l'estensione di uno Stato significava il restringimento di un altro. La Turchia fu la principale vittima di questo rimaneggiamento delle frontiere. Ci si poteva 74 certamente attendere che subisse perdite territoriali, ma non di tale ampiezza. La Bulgaria ne uscì anche perdente, ed in modo del tutto inatteso. La disposizione dell'Albania assunse un aspetto imprevisto, in particolare perché si spostò verso il sud sotto la spinta serba. Il Trattato di Bucarest dell'agosto 1913, che mise fine al conflitto militare nella regione, contribuì molto poco ad attenuare i risentimenti turchi e bulgari e lasciò una considerevole mole di rivendicazioni e contro-rivendicazioni insoddisfatte. La situazione del dopo-guerra Le due campagne militari ed il trattato che mise termine a queste ultime rappresentarono il trionfo dello Stato-nazione sul vecchio ordine che prevaleva in questa parte del continente. Nello spazio di meno di un anno, la carta politica della regione era diventata irriconoscibile: dal Danubio a Creta e dall'Adriatico al Mar Nero, profondi cambiamenti avevano avuto luogo o erano sul punto di verificarsi. Gli uomini di Stato fecero il conto delle espansioni o delle perdite territoriali, mentre i giornalisti e gli altri osservatori cercarono di fare il punto della nuova situazione (v., ad esempio, la tesimonianza vivente di Crawford Price, 1915). Essa presentava una realtà singolare e di cattivo auspicio: le Comunità formate nell’insieme degli Stati della regione da popolazioni "diverse", che furono definite "minoranze". Numerosi secoli di spostamenti e di insediamenti più o meno pacifici di popolazioni in questa parte d'Europa avevano derminato la loro relativa mescolanza, che metteva alla prova le attitudini e l'immaginazione dei pubblici poteri (Rapporto Carnegie, 1914r). Le autorità non erano a conoscenza dell'esistenza di queste popolazioni "diverse" sul loro territorio o, almeno, i pubblici poteri non sembravano giudicare che la questione dell’eterolinguismo meritava la loro attenzione. La lotta per la preminenza educativa ed ecclesiastica che fu impegnata in Macedonia nel periodo che precede la rivoluzione giovane-turca attesta dei primi atti di discriminazione gravi perpetrati contro i locutori di una lingua straniera: i Greci, in particolare in Bulgaria ed in misura inferiore in Romania, subirono, in ritorsione all'azione condotta da una fazione greca in Macedonia, ciò che fu chiamata più tardi una pulizia etnica, nel corso della quale i Bulgari ed i Rumeni definirono fratelli rispettivamente gli Slavi ed i Valacchi. L'omogeneità dello Stato-nazione non era affatto diffusa nella regione, contrariamente a ciò che potrebbero lasciare credere le critiche recentemente formulate in occidente sulla pulizia etnica praticata negli anni 1990. Gli Stati nazioni di questa parte dell'Europa iniziarono soltanto ad applicare a casa propria pratiche in uso da moltissimo tempo all'ovest del continente. Inoltre, durante il periodo che ci interessa qui e prima che la società multiculturale diventasse una forma di composizione sociale accettabile in Occidente, la società linguisticamente e religiosamente omogenea di uno Stato era considerata come la norma, e non come un'eccezione. L'omogeneità rappresentava una fonte di potere e di sicurezza ed ogni misura volta a realizzarla non sembrava né straordinaria né inaccettabile. Due ragioni almeno, che si ha tendenza a dimenticare, portarono il movimento che mira a garantire questa cara omogeneità nazionale a prendere l'aspetto sinistro che gli conosciamo: l'assenza in quel tempo di un'organizzazione di regolazione internazionale suscettibile di preoccuparsi della protezione delle minoranze minacciate o d’intervenire in loro favore e la localizzazione della maggior parte di queste minoranze locali in zone frontaliere, limitrofi degli stati che consideravano i loro membri come i fratelli dei propri cittadini. Il diritto internazionale era lungi dal comportare la regolamentazione e gli strumenti indispensabili ad una protezione efficace delle minoranze. Sembra che occorresse alla comunità internazionale sopportare due guerre mondiali spaventose perché pensasse, finalmente, a stabilire norme ed organi destinati a proteggere le minoranze vulnerabili. Gli eventi recenti sopraggiunti in questa stessa regione ed in altre parti del globo mostrano quanto cammino rimane da percorrere in materia. 75 Le guerre balcaniche del 1912-1913 generarono molte minoranze frontaliere di questo tipo nella regione. Esse furono spesso le vittime di autorità statali ostili, non tanto perché i loro membri differivano dalla popolazione maggioritaria dello Stato, quanto perché rappresentavano soprattutto una minaccia per la sicurezza di quest'ultimo o erano percepite come tali. Le rivendicazioni sollevate dai paesi limitrofi, la cui popolazione maggioritaria era simile ad una minoranza linguistica o religiosa stabilita dall'altro lato della frontiera, minavano la posizione di quest'ultimo e, nello stesso tempo, ritardavano la sua incorporazione e la sua assimilazione sociale in seno allo Stato-nazione. Conclusioni Le terribili sofferenze ed umiliazioni sopportate dalle minoranze degli Stati-nazione, seguite all'Impero ottomano nella regione, non possono costituire un'argomentazione a favore del regime precedente. Gli Stati-nazione della regione, che uscirono rafforzati dalle guerre balcaniche, praticarono a più riprese una cattiva gestione delle minoranze che avevano ereditato; ma liberarono nello stesso tempo popolazioni molto più numerose dal giogo dispotico e tirannico di un potere autocratico che si era rivelato incapace di riformarsi e fecero nascere in esse un sentimento raro, o inaccessibile: l'orgoglio di cittadini liberi di praticare la propria lingua, usufruire della propria cultura e mantenere la propria identità. I politologi, ed a volte gli storici si impegnano spesso sul terreno scivoloso degli insegnamenti tratti dal passato. Ma lo storico che studiasse in modo retrospettivo gli obiettivi, le politiche, come pure le azioni degli stati e dei loro rappresentanti, che presero parte alle guerre balcaniche quasi un secolo fa, si troverebbe molto imbarazzato a trarne un insegnamento. Una prima osservazione si impone tuttavia: i calcoli e le aspettative dei diversi protagonisti furono sventati dalla sorte mutevole delle armi e dal risultato dei due confronti successivi. E’ anche il caso di constatare che se questi stessi protagonisti fossero inizialmente preoccupati a garantire la loro sicurezza, quest’ ultima e la pace risultarono difficili da realizzare dopo il conflitto, come lo erano state prima. Inoltre, malgrado le assicurazioni contrarie date spesso da più parti, l’annessione dagli Stati interessati,di qualsiasi territorio che si trovava alla loro portata, dimostra ciò che era il loro obiettivo primo, tanto è vero che i conflitti tra Stati sono stati sempre motivati soprattutto dalla sete di nuove conquiste territoriali. Osserviamo a questo proposito che le intese e gli accordi precedenti furono spazzati via dalla tempesta guerriera fin dall'entrata in guerra; gli Stati alleati della regione appresero così ciò che l'Occidente sapeva per esperienza già da molto tempo: gli accordi stabiliti potevano essere violati non appena l’interesse nazionale lo richiedesse. La Lega balcanica del 1912 fu la prima lega di questo tipo, nel senso che riuniva i tre principali Paesi che contestavano al sultano ottomano i possedimenti che conservava ancora nella regione, cioè la Grecia, la Serbia e la Bulgaria. Subito dopo il 1912, questi tre Stati non hanno mai fatto parte insieme ed nello stesso momento di una stessa alleanza. Speriamo che la Serbia e la Bulgaria raggiungeranno il più presto possibile la Grecia in qualità di membri di una Unione europea preoccupata di raccogliere in modo uguale le sfide sulle quali si sono confrontati gli Europei e condotte da uomini la cui concezione dell'Europa differisce da quella che alimentò i conflitti del tipo delle guerre balcaniche. 76 Riferimenti bibliografici Camegie Endowment for international Peace, Report of the Intemational Commission to Inquire into the causes and the Conduct of the Balkan Wars, washington DC, 1914. Dragoumis, ion, Phylla hemerologiou ('Diary leaves'), ed. Thanos Veremis et J. S. Koliopoulos, Atene, 1985. Helmreich, C., The diplomacy of the Balkan wars, 1912-1913, Cambridge MA, 1938. Koliopoulos John S., Brigands with a cause: Brigandage and irredentism in modern Greece. 1821-1912, Oxford, 1987. Price, Crawford, The Balkan cockpit, Londra, 1915. Todorov Maria, Imagining the Balkans, New York, 1997. Toynbee, Arnold, The western question in Greece and Turkey, Boston, 1922. Toynbee, Arnold, The Greeks and their heritages, Oxford, 1981. Trcha, Lydia e Gardika-Katsiadaki,Eleni (ed), E Hellada ton Valkanikon Polemon,1910-1914 (La Grecia nelle guerre balcaniche 1910-1914), Atene, 1993. Veremis, Thanos (ed.), Meletemata gyro apo ton Venizelo kai tin epochi tou (Studi su Venizelos e la sua epoca), Atene, 1980. Veremis, Thanos (ed.), Eleutherios Venizelos: Koinonia - oikonomia - politike stin epoche tou (Eleutherlos Venizelos: Società, economia e politica nel suo tempo), Atene, 1989. 77 78 10 Le ripercussioni delle guerre balcaniche del 1912-1913 sulla vita quotidiana dei civili Helen GARDlKAS-KATSIADAKIS Ricerche sull'argomento Non esiste a mia conoscenza alcuno studio dedicato alle ripercussioni economiche e sociali delle guerre balcaniche in Grecia, ancora meno riguardo la loro incidenza sulla vita quotidiana, ad eccezione di alcuni capitoli delle opere del professore greco di finanze pubbliche Andreas Andreadis. Il volume che si avvicina di più è quello che si intitola Gli effetti economici e sociali della guerra in Grecia, nella serie Storia economica e sociale della guerra mondiale pubblicata nel 1928 dalla Fondazione Carnegie per la pace internazionale. Questo compito infatti si sarebbe rivelato praticamente impossibile per il periodo limitato alle guerre balcaniche. Cme fa osservare il delegato greco della Commissione dei profughi della Società delle Nazioni, Alexander Pallis, nel suo studio dedicato agli effetti della guerra sulla popolazione greca inserita in quest'opera collettiva: “la Grecia ha conosciuto, dal 1912 al 1923, un periodo di guerra quasi ininterrotta." Nel corso di questi dodici anni, infatti ha preso parte a cinque campagne militari, cioè la prima guerra baIcanica contro la Turchia nel 1912-1913, la seconda guerra baIcanica contro la Bulgaria nel 1913, la guerra europea alla quale ha partecipato a partire dal 1917 a fianco dell'intesa, la spedizione di Ucraina intrapresa su richiesta degli alleati contro i Bolscevichi nel 1919 e, infine, la guerra greco-turca del 1919-1923 "(Pallis, 1928, p. 131)." Queste guerre, che siano vittoriose come le prime tre o disastrose come l'ultima, determinarono delle modifiche territoriali considerevoli e lo spostamento di milioni di persone, che ebbero ripercussioni sulla vita quotidiana della gente comune e trasformarono le carte demografiche ed etnologiche della regione. Tuttavia, per quanto riguarda in particolare i cambiamenti sociali, risulta estremamente difficile distinguere tra gli effetti a breve termine delle guerre balcaniche ed i cambiamenti a lungo termine dell'insieme di questo periodo. Il presente esposto non riguarderà le questioni demografiche e tecnologiche. Basti precisare che le guerre balcaniche causarono in Grecia uno sconvolgimento sociale o economico rilevante. Le conseguenze furono spettacolari dal punto di vista dell'espansione tanto geografica quanto demografica: la Grecia raddoppiò praticamente di superficie e di popolazione. Superficie in km Popolazione 1907 65029 2.631.952 1914 118784 4.881.052 % 82,66 85,45 Più importante ancora, il paese cambiò natura, poiché per la prima volta dalla sua adesione all'indipendenza includeva gruppi etnici abbastanza importanti diversi dalla popolazione cristiana ortodossa ellenofona predominante. In realtà, in alcune regioni, le Comunità cristiane ellenofone ortodosse formarono una minoranza. Per misurare le ripercussioni delle guerre sulla vita quotidiana in Grecia, mi baserò, per mancanza di documentazione di prima mano, su fonti narrative (memorie, lettere, ecc.). Due guerre 79 Gli effetti socioeconomici delle guerre sulla popolazione civile media non furono spettacolari nelle regioni che componevano il regno prima del 1912, quelle che furono chiamate allora le "vecchie province". La situazione del cittadino greco comune, del regno precedente al 1912, non conobbe alcun miglioramento né deterioramento nel corso dell'immediato dopo-guerra. Il lungo periodo di guerra che rappresentò la prima guerra mondiale, le conseguenze che seguirono e le sue ripercussioni nazionali drammatiche tendono ad influenzare il nostro giudizio ed a lasciarci credere che le guerre balcaniche, da cui il paese uscì tuttavia vincitore, ebbero un effetto pregiudizievole sulla vita quotidiana. Le due guerre del 1912 ed il 1913 formarono due conflitti distinti, relativamente brevi. Inoltre, benché la popolazione maschile restasse sotto le armi per poco più di tredici mesi (da settembre 1912 a dicembre 1913), i periodi di reali combattimenti sui diversi fronti ed in mare coprirono appena sette mesi in totale. L'insoddisfazione sociale causata dai lunghi periodi di mobilitazione e da campagne militari prolungate, estenuanti ed infelici, sopraggiunse successivamente. Si tratta di una valutazione generale. Esaminiamo ora in modo dettagliato, nella misura in cui ce lo consentono gli elementi di cui disponiamo , gli effetti delle guerre: ● ● sul fronte, fra le truppe mobilitate e la popolazione dei territori occupati sulla popolazione delle retrovie, nelle zone rurali e nelle città. Nel 1912, la popolazione maschile della Grecia reagì al decreto di mobilitazione generale del 19 settembre con un sentimento di orgoglio nazionale e di apprensione. I brutti ricordi del conflitto precedente del 1897 erano ancora vivi, benché quella sconfitta umiliante non fosse stata subita dai conscritti del 1912, ma dai loro padri. Secondo le stime, 282000 uomini in totale furono chiamati sotto le armi per tutto il periodo del 1912-1913. La mobilitazione colpì in larga misura la manodopera del Paese. Per le necessità della seconda campagna, in particolare, le risorse umane erano diminuite a tal punto che si fece perfino appello agli orfani ed agli emigrati e che gli uomini in servizio nelle retrovie, posti, per esempio a guardia degli edifici pubblici o degli istituti bancari, furono inviati al fronte. Perfino gli emigrati che si erano stabiliti negli Stati Uniti risposero al primo appello alla mobilitazione e rientrarono per servire il loro Paese. Secondo alcuni studi, 57.000 emigrati ritornarono, così, nella loro terra natale (Andreades, 1928). Una parte di loro non rivide mai più gli Stati Uniti. Altri vi ritornarono dopo la guerra. Nonostante la censura messa in atto e l'assenza di malcontento, espresso pubblicamente durante queste campagne, si può dire, senza troppo esagerare, che la durata dei conflitti fu troppo breve per permettere la nascita di un movimento di opposizione alla guerra o di qualsiasi situazione di massiccia diserzione. L'opinione pubblica sosteneva nell'insieme le scelte del Paese e le sole critiche rivolte al governo provennero da cerchie eccessivamente nazionaliste. Nelle loro lettere, i semplici soldati e gli ufficiali si lamentavano, cosa che non sorprenderà, dello stato dell'esercito, dei rigori della campagna e del clima, come pure delle condizioni sanitarie, ma non vi si percepisce alcun sentimento di ostilità alla guerra o di antinazionalismo (V. per ex. Gardikas - Katsiadakis, 1998; Tricha, il 1993). La seconda guerra balcanica, condotta contro la Bulgaria, fu più breve, ma molto più violenta della prima. Le truppe nemiche ed alleate erano molto più disperse lungo un fronte non ben definito. Inoltre, i combattimenti iniziarono in piena estate. Molti diari dedicano passaggi alla natura dei combattimenti; ne descrivono la crudeltà e lo sfinimento dei soldati. I racconti parlano soprattutto del calore soffocante, della sete di cui soffrono i combattenti e delle devastazioni di un nemico fatale: il colera. Alcuni giorni prima della firma dell'armistizio a Bucarest, la metà degli effettivi di ogni unità era stata contaminata. I racconti pervenuti sono drammatici. La citazione seguente è estratta dal diario di un giovane greco, Vasilios Sourrapas, che aveva lasciato il suo villaggio del Peloponneso all'età di otto anni in compagnia dei suoi due fratelli maggiori e che in seguito si stabilì definitivamente ad Atene, dove fondò il primo caseificio industriale, EVGA: 80 “Ci alzammo alle cinque del mattino." Molti dei nostri camerati erano stesi al suolo. Si torcevano ed agitavano le gambe come rane. Furono portati ai margini del campo sotto la sorveglianza di un medico e di una infermiera. Molti di loro morirono e le infermiere ritornarono a più riprese a cercarne altri che avevano contratto questa malattia mortale e terribile che è il colera Alle otto, un nostro cacciatorpediniere venne ad ormeggiare in prossimità ed i medici di bordo si recarono al campo per visitare i pazienti e individuare la natura del loro male: diagnosticarono il colera. [... ] Attraversammo tutto il giorno la pianura di Nigrita. Camminammo sotto un calore insopportabile ed in una nuvola di polvere. Soffrimmo di disidratazione per tutto il giorno . Eravamo logorati dalla stanchezza e sfiniti dalla diarrea che causava la malattia. Due di noi morirono sulla strada ed una buona parte degli uomini era allo stremo. Il medico testimone di tale situazione venne ad informare il comandante che i soldati erano in un tale stato di debolezza e di sfinimento che sarebbe stato loro impossibile continuare, ma questi gli rispose: "Andrò a Nigrita, dovessi giungervi con soli tre uomini!". Il rombo dell'artiglieria si avvicinava e raggiungeva i nostri orecchi, la terra tremava e noi scoprivamo i villaggi incendiati ai quali il nemico, che batteva in ritirata, aveva messo il fuoco dopo averli saccheggiati. Finalmente raggiungemmo Nigrita alle otto della sera, ma vi trovammo soltanto rovine fumanti. L'odore del fumo e la vista di questa città offrivano uno spettacolo orribile. Tutto era distrutto. Gli splendidi edifici e i palazzi eleganti erano crollati. Attraversammo questo campo di rovine e stabilimmo il nostro bivacco fuori dalla città devastata. Vi trovammo soltanto alcuni vecchi, donne ed uomini, che rimanevano là all’aperto. Il posto era estremamente fertile, piantato ad alberi da frutta, a viti e ad altre colture. Nella vigna situata sulla sinistra, un battaglione del 21° fece prigioniero il 19° reggimento bulgaro e ne massacrò la maggior parte. Solo 7.000 prigionieri furono consegnati alla Croce-Blu. Furono trasferiti su navi "(Tricha, 1993, p. 187). La crudeltà della guerra aveva così trasformato un civile pacifico e intraprendente in un individuo che ne osservava le atrocità con distacco. Le due guerre si caratterizzano per le atrocità alle quali diedero luogo. Il sentimento di disagio e di sospetto che aveva alimentato per decenni il conflitto, che oppone le Comunità nelle regioni disputate, deve essere attribuito al carattere esclusivo del processo di costruzione della nazione, apparso nei Balcani nel xix° secolo. Vasilis Gounaris ritiene in modo convincente che queste rivalità fossero precedenti alla comparsa di una differenziazione etnica nella regione e che prendano generalmente la loro origine nelle dispute partigiane sorte in seno alla collettività. Cita a questo proposito un dispaccio redatto nel 1904 dal Console generale Lambros Koromilas: "Ma come abitualmente accade in Macedonia, i villaggi sono innanzitutto teatro di conflitti di interesse, che poi degenerano, inevitabilmente, in rivalità nazionali" (Gounaris, 1993, pp 200-201). Nelle regioni che si disputano molti gruppi etnici, l'intensificazione di questo processo aveva, un tempo, provocato esplosioni di violenza. Questa situazione si riprodusse quando gli eserciti di liberazione degli Stati balcanici vicini all'Impero ottomano espulsero le autorità turche. Il nuovo potere locaIe e militare riuscì a mantenere l'ordine fino all’insediamento delle autorità civili nelle zone liberate. “I soldati avevano fatto aprire i commerci turchi ed ebbero luogo dei saccheggi, che non furono tanto opera dell’esercito, quanto della popolazione locale, che prese così la sua rivalsa sui Turchi", nota un soldato nel suo giornale a Elassona, all'inizio della guerra (Tricha, 1993, p. 42). Nonostante l’atmosfera di sospetto reciproco che regnava in occasione della prima campagna, non esiste alcuna prova di violenze etniche generalizzate. 81 "Sono malato ed ho ottenuto questo pomeriggio il permesso di recarmi al villaggio. I suoi abitanti parlano il bulgaro e sono finalmente riuscito dopo molti sforzi a comperare due oche da uno del villaggio "(ibid, p. 49). Durante la seconda guerra balcanica, la violenza etnica prese tuttavia proporzioni incontrollabili. La distruzione delle città e dei ponti con le truppe che battevano in ritirata era una pratica corrente, sulla quale il comando militare chiudeva gli occhi e che incoraggiava spesso; in alcuni casi, l'esercito regolare prese parte ad atti di violenza pura perpetrati nei confronti di abitanti che sospettava di essere dei franchi-tiratori o degli informatori. Il comandante in capo delle forze greche, lo stesso re Constantino , non fu esente dal generale spirito di crudeltà. Egli concepiva il conflitto contro la Bulgaria come una guerra di annientamento e telegrafò al governo: "delenda est Bulgaria!". Era quello stesso personaggio, che, all'inizio della prima guerra, aveva fatto frustare in pubblico un civile ellefono che non aveva rispettato il divieto di porto d’ armi decretato dalle autorità nella città appena occupata di Servia (ibid, p. 47). Si tratta della pagina più buia della guerra, che procede di pari passo con la distruzione delle infrastrutture praticata dagli eserciti in ritirata ed il flusso costante dei profughi venuti a mettersi al riparo dietro la linea mobile delle frontiere provvisorie. Tutti conoscono queste immagini di profughi in miseria, gettati sulle strade con pochi effetti personali, delle atrocità commesse e della distruzione generale del teatro delle ostilità. Nuovi territori L'acquisizione di nuovi territori impose alla Grecia costrizioni supplementari, poiché non aveva ancora interamente integrato al suo ordinamento sociale e giuridico le province ottenute nel 1864 e nel 1881, le isole Ioniche e la Tessaglia. Esse presentavano importanti antagonismi in materia socioprofessionale e giuridica, di cui il cui principale riguardava la proprietà fondiaria, che non erano stati risolti in occasione della loro presa di possesso da parte della Grecia. Infatti, la questione agraria era peggiorata con l'acquisizione di territori in Macedonia ed in Epiro. I problemi erano simili, ma non identici. In Macedonia, grandi estensioni di terre sotto-popolate rimanevano incolte, mentre i loro mezzadri rimanevano nei piccoli villaggi delle colline circostanti. Questa situazione pregiudizievole all'esistenza degli abitanti, alla proprietà ed alle infrastrutture del paese era aggravata da un'importante ondata di emigrazione. La campagna in favore di riforme profonde che era stata lanciata dopo il 1910 sulla parte vecchia del territorio greco trovò nelle regioni recentemente acquisite un vasto campo d'applicazione, poiché lo Stato si era impegnato ad integrare queste zone quanto più rapidamente possibile. L'esperienza acquisita in Tessaglia si rivelò inestimabile. Grazie ad essa, lo Stato adottò misure volte a migliorare la situazione e trasformare l'economia e l'amministrazione delle nuove province. Immediatamente dopo la conquista, proprio all’ inizio del mese di novembre 1912, non appena le autorità amministrative si furono sistemate nelle grandi città, gruppi di esperti finanziari ed amministrativi furono inviati di Atene per fare il bilancio della situazione sul posto, come pure del regime fiscale e giuridico, e proporre misure di assimilazione delle nuove province (Demakopoulos, 1993). Queste missioni generarono molti e notevoli studi pubblicati nel 1914. Il governo adottò, inoltre, una legislazione che proibiva il passaggio di proprietà e progettò un vasto programma di riforma agraria, che fu tuttavia rinviato a causa della prima guerra mondiale (Petmezas, 1993, pp. 210-214). Le città subivano anche le conseguenze dei conflitti. Non soltanto alcune erano completamente distrutte, ma le principali agglomerazioni dovettero accogliere un flusso di profughi in situazione di miseria. Per rimediare a queste necessità, il governo creò nel 1914 un ministero supplementare, il Ministero della Comunicazione, la cui missione principale consistette nel commissionare nuovi progetti d'urbanistica. 82 Questa nuova "patria" presentava delle caratteristiche sconosciute dalla vecchia amministrazione e dai suoi amministrati. Lo Stato multinazionale precedente, nel quale le comunità erano definite e dirette secondo la loro confessione religiosa, fu sostituito da uno Stato nazionale "moderno", centralizzato e desideroso di rendere omogenea la sua popolazione. Una legge del 1914 (350/1914), relativa "all’insediamento dei concittadini rifugiati in Macedonia ed altrove", inaugurò un nuovo sistema di gestione concertata della terra detenuta dai membri della Comunità, che rappresentò il punto di partenza di una legislazione arricchita successivamente. Ma questo piano d'omogeneizzazione non fu in alcun settore così pronunciato come in quello urbanistico. Le autorità locali delle grandi città che accolsero ondate di profughi provenienti dai territori annessi da altri Stati balcanici commissionarono ad architetti stranieri i piani di nuove agglomerazioni. Molte città medie e di piccola dimensione, come serre, Kilkis, Amyntaio (Sorovitz) e Doxato, distrutte nel corso della seconda guerra mondiale, furono fra le prime a beneficiare di questo nuovo slancio di urbanistica (Karadimou-Gerolymbou, 1993). La situazione delle isole occupate era diversa. L'incertezza non era così segnata e i sentimenti che vi dominavano non erano gli stessi. La loro popolazione ellenofona si rallegrava della sconfitta e della partenza dei Turchi e la gioia era generale. La loro gioia fu attenuata unicamente dall' elevato aumento del prezzo delle derrate. "Non chiederci quello che viviamo in questo momento", scrive un abitante di Chios, Stefanos Kynigos, a suo fratello stabilito negli Stati Uniti. "Abbiamo assistito da un lato all'arrivo dei Greci e dall'altro ad un aumento dei prezzi che supera ogni immaginazione." La doppia pagnotta di pane si compera a 18 metalikia, tutto è costoso, il bidone di benzina è a 28 grossia. Non abbiamo più un soldo per finire questo mese. Nove giorni più tardi, la loro madre gli indica: "Qui, mio caro Giorgio, i prezzi sono terribilmente aumentati. Il pane costa oggi 24 metalikia. Per gli altri prodotti, è meglio non chiedere. " I prezzi si abbassarono leggermente dopo Natale, ma un ritorno alla normalità era impossibile per la vita quotidiana ed il commercio finché durava la guerra. Precisa nuovamente il 24 febbraio: "Gli affari sono ripresi un po’, ma non riescono a ritrovare il loro ritmo normale a causa dei prezzi elevati […]. Speriamo che quando la pace sarà firmata e la situazione migliorerà, i prezzi si abbasseranno ". La loro principale preoccupazione era di ritornare ad una vita normale, in modo da evitare la coscrizione. Quando scoppiò la Seconda Guerra Balcanica, la signora Kynigos, sul cui patriottismo non c’era alcun dubbio, scrisse a suo figlio: "Tu stai per partire soldato e ciò mi fa disperare fino all’inverosimile, mio caro Giorgio [...]. Ieri l’altro Stefanos è andato in Prefettura ed ha trovato il sig. George Bitsas, che una volta lavorava al Consolato; gli ha chiesto se esistesse un mezzo per esentarti e gli ha risposto che a causa della guerra era molto difficile. Bisogna avere molti appoggi. La sola cosa che si possa fare, ha aggiunto, è, quando ti presenterai per prestare servizio, di depositare una domanda, così sarà possibile fare qualcosa "(Tricha, 1993, pp. 251-265). Per ritornare alla popolazione rurale delle "vecchie province", precisiamo che non esiste alcuna cifra capace di illustrare le conseguenze delle guerre baIcaniche. Ma la contabilità presentata nelle fonti descrittive offre un certo numero di indicazioni. La mobilitazione e il successivo accorpamento, degli uomini disponibili, alle retrovie hanno privato la campagna di manodopera, mentre la requisizione delle bestie e dei veicoli per i bisogni delle operazioni militari ha imposto 83 un carico supplementare alla popolazione rimasta sul posto. Il costo in vite umane delle due guerre non è stato molto elevato, confrontato con le perdite subite dagli eserciti bulgaro e serbo: Morti Feriti Soldati 7428 42191 Ufficiali 304 628 Totale 7732 42819 (Fonte: Adreades, 1928) L'aumento dei prezzi che colpì le province occupate non sembra avere influito sulla vita quotidiana dell'”ex" Grecia in modo così spettacolare come nella zona dei combattimenti. Contrariamente a ciò che si verificò in Bulgaria ed in Romania, la dracma conservò il suo valore alla pari, grazie alla legislazione di riforma fiscale del 1910, ai prestiti nazionali e stranieri provvisori contratti con la mediazione della Banca nazionale della Grecia, come pure grazie alla stabilità generale dell'economia. I depositi bancari e le riserve auree della banca nazionale aumentarono durante la guerra, mentre il commercio estero e le entrate pubbliche rimasero stabili (Andreades, 1928, p. 11). Condizioni economiche e sociali Andreadis attribuisce la stabilità dell'economia, tra altre ragioni, ad un certo numero di fattori sociali: il numero esorbitante di Greci emigrati negli Stati Uniti che ritornarono nel loro paese in occasione della guerra, come pure l'aiuto finanziario considerevole fornito dai Greci di tutto il mondo, l’ afflusso di regali e la premura delle contadine di sostituirsi agli uomini partiti in guerra, cosa che permise di mantenere la produzione agricola (ibid, p. 12). Non disponiamo di alcuna cifra che permette di misurare le ripercussioni immediate della guerra sulla produttività agricola, poiché l'ultimo studio realizzato prima della guerra risale al 1911, mentre lo studio seguente è stato pubblicato nel 1929. Tuttavia, poiché la popolazione del paese era praticamente raddoppiata, mentre la produttività era diminuita nella zona dei combattimenti, i conflitti ebbero a breve termine un effetto globalmente negativo sulla bilancia commerciale greca, come mostra la tabella seguente: (Fonte:Andreades, 1928) Anno 1911 1912 914 Importazioni 173510 157653 319000 Esportazioni 140902 149162 179000 Le conseguenze delle guerre furono relativamente moderate sui centri % urbani delle "vecchie province". I aumento 102,34 20 conflitti provocarono in genere un 1912-14 esodo rurale verso i centri urbani, dovuto a un certo numero di ragioni (Kalitsounakis, 1928, p. 216). La popolazione delle città dell'”ex Grecia" aumentò. Il primo censimento disponibile per il periodo del dopo-guerra, realizzato nel 1918, include le migrazioni sopraggiunte durante tutta la prima guerra mondiale. Le cifre rilevate per Atene ed il complesso del Pireo ne danno una vaga idea: 1907: 240.000 1918: 310.00 L'aumento della popolazione determinò naturalmente una penuria di alloggi. Questo problema era diventato minaccioso nel 1916, tanto che risultò necessaria una legislazione che imponesse il 84 blocco degli affitti. Una legge di emergenza aveva, tuttavia, impedito fin dal 1912 l'espulsione degli inquilini (Kalitsounakis, 1928, p. 216). Una delle particolarità della guerra fu di causare uno slancio di patriottismo che conquistò tutto il paese e trovò la sua espressione più manifesta negli ambienti urbani. La guerra offrì alla popolazione femminile delle famiglie dell'alta società ateniese l'occasione di manifestare il proprio patriottismo e condurre una vita sociale lavorando come infermiere negli ospedali di campagna. Così annota Aspasia Mavromichali nel suo giornale: "Volevo rendermi utile in questo momento e non mi preoccupavo per nulla di me stessa [...]. Subito dopo il nostro arrivo ad Atene, mia sorella ed io ci arruolammo nella Croce-Blu, un'associazione creata dal direttore del Polykliniki, il sig. Alivizatos, e presieduta dalla principessa Elena. Mamma era la vicepresidente. Fummo inviate in una piccola unità operativa all’aperto [...] e iniziammo nello stesso tempo i corsi e la pratica. Quanto questa prima giornata nel tentare di abituarmi a quest'ambiente mi ha esaurita! La disgrazia, lo strazio e la miseria più nera componevano un quadro dipinto nei colori più accesi. Emanava dai pazienti che arrivavano, tutta gente del popolo, sporchi come sono e cenciosi, un tale odore da provocare il vomito ". In occasione dell'ispezione di altri ospedali di campagna in compagnia della principessa, scrive nel suo giornale: "La situazione era spaventosa. Tutti questi ospedali di fortuna mancavano di letti ed erano sprovvisti di infermiere, di tutto. Si sentivano solo gemiti, sospiri e pianti. Nessuno accorreva in aiuto di questi infelici [...]. Chiesi il permesso di salire nella camera della principessa a rinfrescarmi un po'. Mi lavai abbondantemente con acqua fredda e, rinfrancata, scesi con premura; cominciammo allora a sistemare i feriti nelle automobili. In quel periodo, molte signore di Larissa erano arrivate, la maggior parte tutte incipriate e vestite a festa. Ci guardarono con stupore, come se fossimo cadute da Saturno ". Una di esse, l’infaticabile Anna Papadopoulou, diventò una eroina nazionale. Ma non tutte le donne erano così resistenti come lei per sopportare tali condizioni difficili: "Apprendemmo, durante una fermata alla stazione, che la principessa, che soffriva di cuore, aveva avuto un attacco dovuto alla gravosità del lavoro e che il sig. Alivizatos aveva fatto tutto il possibile per darle sollievo. Il treno era lanciato a piena velocità quando nel bel mezzo del silenzio della notte udimmo il segnale di allarme. Il treno si immobilizzò di colpo. Ci precipitammo tutti fuori [...]. Che cosa era successo? La sig.ra Katsara aveva avuto una violenta crisi di nervi ed era stato necessario chiamare urgentemente il medico "(Tricha, 1993, pp 31-6). L'impatto della guerra Quando la notizia delle prime vittorie riportate dall'esercito greco raggiunse Atene, la popolazione fu presa da un sentimento di euforia nazionale che impregnò la vita quotidiana della città. I giornali aumentarono le loro tirature e pubblicarono edizioni speciali quando eventi straordinari, come la battaglia di Limnos, si verificarono. Si mancava di carta, di stampanti e di corrispondenti di guerra. La sete dei lettori per le storie palpitanti fu soddisfatta dalla comparsa di un grande numero di pubblicazioni popolari, che illustravano argomenti patriottici e sfoggiavano titoli come "I Mangiatori di Turchi del 1912", "I Nostri Delfini del 1912" ed "I Combattenti giganti di Jannina" (Demakopolous, 1993, p. 209n). 85 La gerarchia amministrativa assisteva alle celebrazioni religiose ufficiali della vittoria. La popolazione manifestava la sua febbre frequentando le produzioni teatrali popolari, vaudevilles, commedie e drammi che affluivano per celebrare le vittorie militari. La loro popolarità fu tale che gli stessi teatri "seri" furono obbligati a seguire il movimento per sopravvivere (Delveroudi, 1993, pp. 377-8). Tentare di valutare l’incidenza del conflitto sulla vita dei cittadini comuni non è cosa facile, sia perché difettano le ricerche approfondite sulla questione, sia perché le ripercussioni delle guerre balcaniche sono state spazzate via dagli eventi che sono seguiti: la mobilitazione, la crisi politica interna, gli anni di guerra dal 1917 al 1922 ed il disastro sociale dello sdradicamento e del nuovo insediamento di un milione e mezzo di rifugiati dell’ Asia minore. Prenderò in prestito piuttosto le parole di un importante autore greco progressista, Giorgio Drosinis, che evoca nelle sue memorie il destino di un istituto privato dell'insegnamento secondario tecnico; egli aveva svolto un ruolo determinante nella sua installazione, poco tempo prima delle guerre balcaniche, su un grande terreno di Ambelokipi, che formava allora un sobborgo verde situato ai piedi della collina di Lykabettus, con un giardino curato che adorava: "Nella primavera del 1913 il giardino era al suo massimo. Ogni visitatore ripartiva dalla casetta con le braccia cariche di rose, di gelsomino e di caprifoglio e gli amici vi raccoglievano fiori per intrecciare le ghirlande del 1° maggio. Ma con le guerre balcaniche inizialmente, quindi la guerra in Europa ed infine la sfortunata campagna dell’ Asia minore, la scuola, il giardino, la casetta, tutto passò da requisizione in requisizione. Gli strumenti e le illustrazioni della scuola furono ammassati nelle due grandi stanze della casa; io conservavo soltanto un angolo della piccola stanza dove era disposto il mio letto, in modo da poter continuare a passare occasionalmente la notte. Non avevo più alcuna compagnia. La mia presenza a scuola era inutile ed era per me soltanto fonte di pena, nulla a che vedere il modo in cui le altre persone trattavano le piante che avevo riunito ed assemblato così amorevolmente. Giacevano spezzate, strappate, sparse sul terreno circostante, come scheletri di animali morti. Recandomi a scuola camminai su di esse e feci fatica a riconoscerle. Il giardino non esisteva più, esistevano solo gli alberi, che la loro robustezza aveva preservato. Il resto della vegetazione era stato distrutto [...]. Ciò che era sopravvissuto al saccheggio degli uomini era stato mangiata o calpestato dai cavalli e dai carri che andavano e venivano liberamente. La povera scuola conobbe tante trasformazioni: servì da caserma a un migliaio di soldati, da deposito per le divise dei conscritti, da carcere per gli ufficiali e, infine, da ospizio per le vittime della guerra, che battezzai "rifugio della madre patria" [...]. Il "rifugio della madre patria" modificò considerevolmente nello stesso tempo l'aspetto della scuola e lo stato del giardino. Noi cominciammo a coltivarlo nuovamente con l'aiuto di alcuni pensionanti volontari. Benché non mi fosse più possibile installarmi confortevolmente nella piccola casa, ci passavo delle ore felici, al punto che vi passavo a volte la notte "(Drosinis, 1982, pp. 209-211). La vita quotidiana nell’entroterra fu, in realtà, appena turbata durante le guerre balcaniche. Nel 1914, dopo due guerre vittoriose, tre trattati di pace vantaggiosi e l'accoglienza calorosa riservata agli uomini smobilitati, la società considerava il futuro con ottimismo, persuasa non soltanto che la ripresa del paese fosse a portata di mano, ma ancora che la sua estensione territoriale promettesse nuove possibilità. Fu un periodo d'euforia, durante il quale i responsabili politici condividevano con la società la convinzione che la pace era indispensabile perché la Grecia si rialzasse dallo sforzo della guerra (un prestito di 500 milioni fu firmato a Parigi a tale scopo), che essa utilizzasse al meglio le sue risorse supplementari e che questa pace 86 fosse possibile. "il felice anno 1914" durò soltanto un breve momento di otto mesi, tra la smobilitazione e lo scoppio della grande guerra. Il 1914 celebrò anche il 50° anniversario della prima estensione importante del territorio greco: l'acquisizione delle isole Ioniche. La conferenza tenuta per segnare l’evento si concentrò sulle questioni relative allo sviluppo della regione e il sentimento di euforia che regnava dopo le guerre balcaniche impregnò i suoi lavori. Ma le cose non avvennero come previsto. Il seguito della storia dell’istituto tecnico di Drosinis è a questo titolo istruttivo. Riaprì un breve momento nel 1930, ma non trovò la sua piena attività prima degli anni 1950, grazie al finanziamento del piano Marshall ed al boom generale dell'economia greca del dopoguerra (Belia, 1999, p. 236). 87 Riferimenti Andreades A., "Le finanze pubbliche" in Storia economica e sociale della guerra mondiale, Parigi, 1928, p.11. Belia, Eleni D., Society for the Diffusion of Useful Books: A hundred-year course, 1899-1999, Atene, 1999 (in greco). Delveroudi, Eliza-Anna, "Théatre" in History of 20th-century Greece: The beginnings 19001922 ed. Christos Chadziiosif, volume Iii, pp 377-8 (in greco). Demakopoulos Georgios D., "The amministrativa organization of the occupied territories (1912-1914): A generale overview "in Greece during the Balkan wars, 1910-1914, Atene, 1993." Drosinis G. Loose pages of my life, Vol. II, Atene, 1982 (in greco). Gardikas-Katsiadakis, Helen (ed.), Leonidas Paraskevopoulos, Balkan wars (1912-1913): Letters to his wife Koula, Atene, 1998. Gounaris, Vasilis C., "Ethnic groups and party factions in Macedonia during the Balkan wars" en Greece during the Balkan wars, 1910-1914, Atene, 1993, pp. 200-1. Kalitsounakis D., "Legislazione operaia e sociale greca durante e dopo la guerra" in Storia economica e sociale della guerra mondiale, Parigi, 1928, p. 216. Karadimou-Gerolymbou, Aleka, "Towns and town planning" dans History of 20th-century Greece: The beginnings, 1900-1922, ed. Christos Chadziiosif, Athens, 1993, vol. Ii, pp. 242-6 (in greco). Pallis, A. A. "Gli effetti della guerra sulla popolazione della Grecia" in Storia economica e sociale della guerra mondiale, Parigi, 1928, p. 131. Petmezas, Sokratis D., "Agrarian economy" dans History of 20th-century Greece: The beginnings, 1900-1922, ed. Christos Chadziiosif, Atene, 1993, vol. Ii, p. 82 (in greco). Tricha, Lydia (ed.), Diaries and letters from the front: Balkan wars, 1912-1913, Atene, 1993. 88 11 Le guerre balcaniche: valutazioni e previsioni dal servizio di informazioni dell’armata russa. (Nuovo quadro della situazione stabilito a partire dalle varianti delle opinioni antiche). Arutyun Ulunyan Durante il periodo che precedette la prima guerra mondiale l’Europa fu testimone di gravi conflitti militari e politici conosciuti sotto il nome di guerre balcaniche. Esse sono considerate come un catalizzatore, che scatenò lo scontro internazionale e diede dimostrazione del carattere esplosivo della regione dei Balcani. N. M. Butler, direttore ad interim della Fondazione Carnegie per la pace internazionale, scrisse nel febbraio 1914 nella prefazione del rapporto della commissione internazionale d’inchiesta sulle cause e lo svolgimento delle guerre balcaniche: “ Le circostanze che furono alla base delle guerre balcaniche dal 1912 al 1913 presentavano un carattere proprio da fissare su di esse l’attenzione del mondo civilizzato” (Rapporto Carnegie, 1914, p. iii). Alla vigilia degli avvenimenti, diversi Stati aldilà dei Balcani, e principalmente quelli che si definivano le grandi potenze, osservavano con una vigilanza costante la situazione della penisola. La Russia giocò nella fattispecie un ruolo importante, proprio per i suoi legami storici con i Balcani e della sua partecipazione attiva negli affari regionali di questa parte del continente. La burocrazia imperiale russa si suddivideva in due rami, l’una civile e l’altra militare; essa tentò di avere un peso sulle decisioni relative ai Balcani e prese attivamente parte sia all’elaborazione delle valutazioni politiche della situazione, che alla stesura di previsioni analitiche sulla possibile evoluzione dei Balcani. Agli inizi del XX° secolo, il servizio di informazioni dell’armata russa aveva consolidato la sua posizione all’interno del dispositivo di informazione fornendo all’apparato governamentale dei dati sensibili e importanti. La struttura degli addetti militari faceva integralmente parte dell’insieme dei servizi di informazioni ed era subordinata allo stato maggiore. Secondo il loro statuto e le loro funzioni, essi assolvevano delle missioni all’estero ed erano assegnati presso i governi stranieri. Essi erano incaricati di mettere insieme delle informazioni militari e politiche e di eseguire delle missioni di informazioni clandestine all’estero ( vedi Sergeyev e Ulunay, 1999). Per tutto il 1911, gli agenti del servizio di informazioni dell’armata russa presenti negli Stati Balcanici lavorarono su diversi livelli, determinati in funzione delle particolarità e delle caratteristiche dei paesi nei quali essi erano assegnati. In tal modo, principalmente in Romania, le riforme e l’equipaggiamento tecnico dell’armata nazionale suscitarono molto particolarmente l’interesse dell’addetto militare russo locale. L’addetto militare in Bulgaria fu incaricato di seguire attentamente “ le relazioni politiche tra la Bulgaria e la Turchia, ivi compresi i suoi rapporti con l’Austria-Ungheria” e di mettere insieme delle informazioni “sulle attività militari condotte dalla Turchia sia sulla frontiera bulgara e nel Bosforo in rapporto con la guerra turcoitaliana”. L’addetto militare presso la Serbia ricevette l’ordine di ottenere delle informazioni e di procedere per una ricerca analitica al fine di chiarire “ l’attitudine politica adottata verso la Turchia e l’Austria-Ungheria in seguito all’azione di quest’ultima in Bosnia-Erzegovnia”. Il ruolo affidato all’addetto militare presso il Montenegro inglobò (così come lo definì la Direzione principale dello stato maggiore) il seguito della “situazione politica legata all’insurrezione albanese e ai piani offensivi dell’Austria-Ungheria”, la supervisione della riorganizzazione dell’armata montenegrina e il controllo dell’impiego dei sussidi versati dal governo russo al Montenegro. L’addetto militare presso la Grecia ebbe come ordine di osservare lo stato dell’armata greca e di seguire le attività degli istruttori stranieri destinati alle forze armate greche. In Turchia, l’addetto militare si concentrò sull’attitudine di quest’ultima rispetto all’insurrezione in Albania, sui preparativi militari impegnati dalle autorità turche nella parte europea dell’Impero e sulle relazioni italo-turche (da ANRHM, F2000, In. I, Dossier 7335). Gli agenti militari russi dell’insieme dei Balcani seguirono con molta attenzione la questione 89 maggiore della presunta firma di un trattato tra la Romania e la Turchia, poiché quest’alleanza militare era ritenuta pregiudizievole a San Pietroburgo. Il progetto di costruzione di una linea ferroviaria, conosciuto sotto il nome di progetto DanubioAdriatico, così come le imprese simili previste per le regioni dell’Asia minore dell’Impero ottomano, rappresentarono uno dei problemi maggiori per i quali furono messi a confronto gli addetti militari dei Balcani. Per il fatto dei disegni contrari delle autorità di Belgrado, partigiane di un “ progetto Danubio” in direzione del sud, e di quelle di San Pietroburgo, desiderose di vedere questa linea ferroviaria pianificata per il nord, il bilancio della situazione fatto dall’armata russa entrava nel quadro delle intenzioni strategiche definite a partire dalle proposte analitiche formulate dagli addetti militari russi nei Balcani. Si ritenne che il progetto della ferrovia “congiungerebbe i paesi slavi della penisola balcanica e i paesi slavi alla Russia”, per cui si esigeva “una preparazione politica seria, in vista della definizione da parte di questi Stati di una soluzione comune per i loro obiettivi strategici nei Balcani. Se mai la politica ci ha assegnato l’obiettivo strategico “di impedire l’invasione della penisola balcanica dal mondo germanico”, notoriamente la conquista da parte dei tedeschi di Tessalonica e di Costantinopoli, l’esistenza di una ferrovia“panslava “ collegando il Mar Nero all’Adriatico, la Bulgaria, la Serbia, la parte della Turchia che accoglie una popolazione serba e il Montenegro, facilita una tale missione” (ANRHM, F2000, In. I, Dossier 7337). Per ciò che atteneva al secondo progetto, ogni costruzione ferroviaria nelle regioni asiatiche dell’Impero ottomano era giudicata, potenzialmente pericolosa per la Russia, dal punto di vista strategico. I servizi di informazione russi accordavano anche tutta la loro attenzione alla minima evoluzione politica e militare nei Balcani. I sopraggiunti avvenimenti politici negli Stati della regione potevano far precipitare i calcoli analitici. Il cambiamento di governo che si produsse in Romania agli inizi di Gennaio del 1911 aggiunse nuovi elementi alle considerazioni russe. Il colonnello M. Marchenko, che occupava il posto di addetto militare russo a Vienna, ritenne che in seguito al fallimento del governo liberale diretto da Bratiano, la situazione in Romania era cambiata: egli qualificò il Primo Ministro Carp “ uomo di Stato pro- tedesco che nutre apertamente dei sentimenti ostili verso la Russia e gli Slavi “ ( ANRHM, F2000, In. I, Dossier 3093). La situazione in Montenegro e gli avvenimenti sopraggiunti alle sue frontiere, dove il movimento di liberazione nazionale albanese si mostrava più attivo, suscitarono tanto interesse quanto preoccupazioni, Il colonnello N. Potapov, addetto militare in Montenegro, indicò nel rapporto speciale che indirizzò allo stato maggiore che il principe regnante montenegrino Nicola “lui stesso vuole la guerra contro la Turchia per non “perdere la faccia” di fronte agli Albanesi a fianco dei quali il principe e i suoi consiglieri piuttosto imprudenti si sono, in maniera sconsiderata, impegnati in un combattimento contro i Turchi. Ci sono delle ragioni per credere che sono i Montenegrini, e non i Turchi, che si sforzino per scatenare la guerra “ (Mezhdunarodnye otnosheniya, MO, p.117) I fattori summenzionati austriaco e turco della situazione dei Balcani risvegliarono l’interesse degli addetti militari russi in servizio nella regione e li incitavano a ottenere delle informazioni sicure sugli eventuali progetti dei due imperi.Una pubblicazione speciale regolare e segreta, intitolata “Collezione dei documenti della Direzione principale dello Stato maggiore”, pubblicata nell’estate del 1911, concluse che l’Austria-Ungheria segnava una pausa, non tanto per risolvere le sue difficoltà finanziarie, quanto per rinforzare la sua armata in maniera che potesse far fronte ad ogni aggressione futura (giugno1911, p.16). Le informazioni trasmesse al 90 servizio di informazioni dell’armata russa dai diversi canali condussero alcuni esperti analitici del quartiere generale regionale a concludere che le misure prese dalle autorità austro-ungariche non miravano “direttamente alla Russia” (ANRHM, F 1859, In. 6, Dossier 139). Il servizio di informazioni dell’armata russa prendeva d’altronde molto seriamente i progetti della Turchia. L’addetto militare russo a Sofia, il colonnello G. Romanovsky, ottenne nella metà dell’anno 1911 delle informazioni confidenziali dallo zar di Bulgaria Ferdinando, che aveva in verità fatto conoscere la sua posizione evocando l’instabilità della situazione nei Balcani. Questo punto di vista s’articolava in due argomenti correlati: da una parte, i preparativi della guerra della Turchia nel mar Nero e, dall’altra parte, l’eventualità di una guerra nei Balcani che egli prevedeva in un prossimo avvenire (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 3067). La presunta minaccia turca era insomma maggiormente presa sul serio dal servizio di informazioni dell’armata russa che non quella Austria-Ungheria. La costante rivalità che opponeva i due imperi su un ampio ventaglio di soggetti, ivi compresi la questione degli stretti, la politica balcanica, le regioni del Caucaso e anche dell’Asia centrale, influenzava la logica e il contenuto dell’approccio analitico del problema del servizio di informazioni. E’ quello che dimostrano i dispacci dell’addetto militare presso l’impero ottomano, il generale di divisione I. Kholmsen. Il rapporto speciale altamente confidenziale che egli indirizzò al capo di stato maggiore poggiava sui 1) “ piani turchi di conquista del Caucaso e del nord della Persia e 2) il desiderio della Turchia di beneficiare del sostegno della Triplice Alleanza (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 3819). La guerra italo-turca fu scatenata il 16 settembre 1911 e servì di ripetizione ad un eventuale conflitto nei Balcani, se per avventura una grande potenza europea avesse l’intenzione di modificare l’insieme della carta geopolitica della regione. Alla fine del mese di settembre del 1911, alcuni addetti militari russi presentarono la loro analisi della possibile evoluzione dei Balcani nell’avvenire. Essi constatarono molte conseguenze della disfatta della Turchia nella guerra che essa avesse condotto contro l’Italia. Secondo loro, i seguenti eventi erano da prevedere: 1) la costituzione di una coalizione anti-turca composta da piccoli stati balcanici; 2) le velleità della Turchia di ottenere dei suscettibili risultati di compensazione nei Balcani rispetto alla disfatta militare contro l’Italia; 3) le intenzioni dei Giovani Turchi di conservare il potere attraverso una attacco contro la Grecia e del regolamento della questione cretese in favore della Turchia (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 7382). In occasione della guerra italoturca, gli agenti del servizio dell’armata russa in servizio nei Balcani indicarono che “ l’atmosfera di agitazione nata dalla disfatta militare dell’Impero ottomano è sempre carica di una nuova rivoluzione, ed è ciò che potrebbe dare il segnale di un movimento disorganizzato intrapreso contro la Turchia dai suoi vicini della penisola balcanica e condurrà inevitabilmente allo smantellamento dei possedimenti territoriali turchi in Europa “ (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 7382). L’autunno del 1911 fu un periodo critico della storia dei Balcani. Le negoziazioni segrete intraprese dalla Bulgaria e dalla Serbia, considerate come una tappa importante verso la conclusione di un accordo militare segreto, sollevarono la questione estremamente sensibile sul modo di come la Russia dovesse reagire ad una alleanza intrabalcanica di questo tipo. L’addetto militare russo in Bulgaria, il colonnello G. Romanovsky, fornì un’analisi dettagliata della possibile evoluzione della regione e sottopose diverse raccomandazioni ai suoi superiori. Egli sottolineò la reticenza marcata dalla Bulgaria a cedere alla Romania Sinistra e Balchik, le quali annoveravano una “popolazione in maggioranza bulgara”, come compensazione in caso di estensione del territorio bulgaro in Macedonia. Tenuto conto di questi elementi, Romanovsky era giunto alla conclusione che “ in queste circostanze, il nostro sostegno alle aspirazioni rumene potrebbe compromettere il nostro prestigio, e persino portare alle dimissioni del governo (bulgaro) attuale. Quest’ultima situazione nuocerebbe gravemente e senza equivoco i nostri interessi nel paese. Il governo attuale si compone in effetti dei più sicuri e più 91 fedeli della Russia. Se il gabinetto fosse dimissionario, sarebbe immancabilmente rimpiazzato dagli eredi di Stambolov, ai quali si unirebbe un gruppo di avventurieri e di truffatori. Se si pensa che la situazione politica bulgara entra in una fase nuova, non sarebbe salutare per noi che gli eventi prendano un tale risvolto”(ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 3002). Oltre alle già esistenti contraddizioni bulgaro-rumene, l’addetto militare prevedeva un deterioramento delle relazioni tra la Bulgaria e la Grecia, che porterebbe i due Stati all’auspicio di ottenere Tessalonica. Al fine di mantenere o le relazioni bulgaro-serbe, o l’influenza della Russia in Bulgaria, e di promuovere un’alleanza tra la Grecia e la Serbia, fu ritenuto prudente per la Russia l’astensione da qualsiasi conflitto, che potesse opporre Sofia e Bucarest o Sofia e Atene. La formazione di un’alleanza militare nei Balcani, dove i piccoli Stati avevano considerato l’Impero ottomano come loro comune nemico, riguardava altre potenze che avevano i loro propri interessi nella regione e ne erano confinanti. Era il caso dell’Impero austro-ungarico, che aveva tradizionalmente un ruolo attivo nei Balcani tentando di dominarne i settori più sensibili. Anche l’addetto militare russo presso la doppia monarchia, il colonnello M. Zanchevich, predisse in un rapporto indirizzato ai suoi superiori che l’obiettivo primario di Vienna nei Balcani comportava l’occupazione austriaca del Sandjak di Novi Pazar, in funzione di aprire la via verso la Serbia e Tessalonica. Secondo i calcoli dell’addetto militare, se gli eventi avessero preso una svolta, avrebbero trascinato un certo numero di conseguenze, come lo scatenamento di una guerra contro la Turchia, la Serbia, il Montenegro così come contro la Russia, che sosteneva Belgrado e Podgoritsa ( ANRHM, F 2000, In. 6, Dossier 139). Dopo la firma d’una serie di accordi segreti tra la Bulgaria, la Grecia, la Serbia e il Montenegro, durante l’inverno e la primavera del 1912, i piccoli Stati balcanici (per la prima volta nella storia) formarono un’alleanza motivata da una forte comune ostilità nei confronti dell’impero ottomano, ma i cui principi erano estramamente fragili e incerti. Alla fine dell’estate ed agli inizi dell’autunno 1912, l’attività della direzione bulgara del servizio di informazioni dell’armata russa si era intensificata. La politica regionale condotta da Sofia era considerata come un annuncio degli eventi futuri e degli eventuali cambiamenti. Gli ufficiali del servizio di informazioni dell’armata russa percepivano le realtà della politica bulgara attraverso la loro comprensione della situazione del paese. Essi constatavano gli importanti sforzi che metteva in campo un “governo ragionevole” affinché il paese si astenesse “ad indirizzare una dichiarazione di guerra ufficiale vero la Turchia” (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 7392). Tuttavia, tutti questi interventi apparivano molto inutili, poiché lo stesso servizio di informazioni russo ottenne delle informazioni degne di credibilità sulla decisione bulgara di cogliere l’occasione che gli offriva “la situazione critica della Turchia e di intraprendere un’azione militare contro l’Impero ottomano insieme ai Serbi e ai Greci nella seconda quindicina del mese di settembre [ 1912 ]” (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 2987). Il grave conflitto militare al quale bisognava aspettarsi nei Balcani giocò un ruolo importante nelle previsioni analitiche fatta dagli ufficiali d’informazioni dell’armata russa in servizio nella regione e influenzò il loro giudizio della realtà della situazione.In tal modo, l’addetto militare russo in Grecia, il colonnello P. GudimLevkovich, commenta l’offerta ufficiosa fatta dall’ambasciatore tedesco in Turchia al suo omologo russo, sull’argomento dell’eventuale occupazione di Belgrado dall’Austria-Ungheria e della presa di Varna dalla Russia , in funzione di prevenire una futura guerra nei Balcani, facendo partecipi i suoi superiori del suo timore che “ la nostra politica attuale ci trascini su questa strada” (ANRHM, F 2000, In. I; Dossier 2994). Malgrado tutte le informazioni ottenute da fonti pubbliche e dai canali confidenziali, il servizio d’informazioni dell’armata russa restò nell’incapacità di rispondere a due maggiori questioni fino alla metà di settembre del 1912: da una parte, da chi le operazioni militari sarebbero intraprese,e quale sarebbe il piano di coordinamento tra gli alleati balcanici ? Dall’altra, in quale data questo eventuale conflitto si sarebbe scatenato? La prima e la più importante avanzata permettendo di rispondere a queste domande fu l’opera dell’addetto presso il Montenegro, il 92 colonnello N. Potapov. Il 15 settembre 1912, egli inviò al quartiere generale del servizio di informazioni dell’armata un missiva segreta che conteneva delle informazioni ultra sensibili e apportava una risposta a queste due domande. Secondo lui, la situazione avrebbe conosciuto la seguente evoluzione: “Innanzitutto, le operazioni militari contro la Turchia dovrebbero essere impegnate simultaneamente dagli alleati in un lasso di tempo di cinque giorni secondo la ratifica dell’accordo; secondariamente, le due parti [ la Serbia e il Montenegro] dovrebbero concentrare al massimo il loro potenziale militare; in terzo luogo, i distaccamenti alleati si dovrebbero fornire in mutuo soccorso un appoggio sulla frontiera dove si svolgerebbero le operazioni militari, cioè lungo il Sandjak del Novi Pazar e attraverso questo , ivi compresi al nord dell’Albania e nella regione di Scutari, sulla quale il Montenegro ha delle mire; in quarto luogo nessuna delle due parti [la Serbia e il Montenegro] non è autorizzata a firmare un trattato di pace senza il consenso dell’altro; in quinto luogo, infine, in caso di intrusione austriaca nel Sandjak, le due parti sono tenute ad inviare le loro forze per respingerle (ANRHM, F 2000. In.I, Dossier 2989). Secondo gli ufficiali di informazione russi in posta nell’insieme degli Stati balcanici, tranne la Turchia, lo scatenamento della guerra doveva avvenire in un prossimo avvenire e la data precisa del 1° ottobre fu anche avanzata per l’inizio delle ostilità. Esistevano, tuttavia, delle evidenti contraddizioni tra le informazioni fornite, da una parte, dagli ufficiali del servizio di informazioni dell’armata russa stanziato in Bulgaria, in Montenegro, in Serbia e in Grecia e , dall’altra parte, dagli addetti militari in Turchia, che impedirono i superiori del detto servizio di abbozzare un quadro generale di un possibile risvolto degli avvenimenti. La dichiarazione di guerra indirizzata alla Turchia dal Montenegro il 9 ottobre 1912, e la partecipazione degli altri piccoli stati dei Balcani a delle operazioni militari nei Balcani, solamente nove giorni più tardi, presero San Pietroburgo alla sprovvista. I piani militari degli alleati balcanici e loro eventuali acquisizioni territoriali divennero allora la principale preoccupazione del servizio di informazioni dell’armata russa. I nomi di Costantinopoli e di Adrianopoli furono avanzati a titolo delle possibili esigenze territoriali bulgare (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 7400). Questa questione risvegliò l’interesse degli esperti civili e militari russi; essa riguardava i piani a lungo termine stabiliti dalla Russia a proposito della regione dei distretti e della stessa Costantinopoli. Il ministro dell’Armata, V. A. Sukholminov, ebbe tra le sue più profonde preoccupazioni la reazione che avrebbe potuto avere la Bulgaria e alcuni dei suoi alleati se la Russia si fosse mostrata ostile a tali rivendicazioni. Egli indicò che in caso di risposta sfavorevole della Russia alle aspirazioni della Bulgaria, “gli Stati slavi dei Balcani rappresenteranno un elemento particolare, mal disposto nei nostri confronti, ciò che ci permetterebbe difficilmente di includerli tra i nostri alleati in caso di confronto armato con la Germania e l’Austria-Ungaria” (ANHM, F 2000, In. I, Dossier 3002). Le operazioni militari della coalizione balcanica si protrassero fino a dicembre1912 e dimostrarono ad un tempo la forza degli alleati e la loro dipendenza rispetto alle grandi potenze. Secondo le valutazioni militari realizzate dallo stato maggiore russo, la disfatta turca in Europa poteva modificare l’equilibrio nei poteri in Asia e nel Caucaso, ma non in favore della Russia. Quest’ultima ritenne che il cessate il fuoco concluso il 20 novembre 1912 potesse aprire la strada ad un trattato di pace generale. Nel frattempo, la situazione nella quale si trovavano i paesi balcanici influenzò molto la loro posizione alla conclusione della firma del trattato di pace. Questo punto fu l’oggetto di tutta l’attenzione del servizio di informazioni dell’armata russa nella regione.Trattandosi della Bulgaria, l’addetto militare di Sofia era giunto alla conclusione che, malgrado l’attitudine favorevole dello zar Ferdinando rispetto al “ partito della guerra”, il suo paese non era pronto a condurre lunghe operazioni militari e dipendeva ampiamente dall’aiuto finanziario e alimentare straniero in caso di prosieguo del conflitto (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 2997). Il suo collega in servizio in Serbia sottolineò d’altronde che il paese 93 includeva ugualmente ardenti una politica di chiusura verso la Turchia, favorevoli di marciare contro Andrinopoli e Chataldja (ibid). Tutte queste osservazioni e valutazioni Questo punto fu l’oggetto di tutta l’attenzione del servizio di informazioni dell’armata russa della regione. Trattandosi della Bulgaria, l’addetto militare di Sofia era giunto alla conclusione che nonostante l’atteggiamento favorevole dello zar Ferdinando verso il “partito della guerra”, il suo paese non era pronto a condurre delle lunghe operazioni militari e dipendeva molto dall’aiuto finanziario e alimentare straniero nel caso di proseguimento del conflitto (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 2997). Il suo collega in posta in Serbia sottolineò d’altronde che il paese comprendeva ugualmente partigiani ardenti di una politica di chiusura verso la Turchia , ma favorevoli all’idea di marciare contro Adrianopoli e Chataldja (ibidem). Tutte queste osservazioni e valutazioni dagli agenti del servizio di informazioni dell’armata inglobavano ugualmente nuove questioni che non erano sfuggite alla loro attenzione. In tal modo, alla fine del 1912, alcuni addetti militari avvertirono lo stato maggiore dell’imminenza di un conflitto tra i paesi balcanici. Le relazioni tra la Bulgaria e la Romania si erano deteriorati, per il fatto della rivalità che opponeva i due Stati balcanici nel loro desiderio di dominio della penisola. L’ufficiale di informazioni in posta in Romania, il colonnello E. Iskritsky, analizzò la situazione della regione e indicò, nei rapporti che egli indirizzò alla direzione principale, che “uno dei grandi principi della politica estera rumena, dalla sua indipendenza nel 1878, consiste nel preservare l’equilibrio esistente tra la Romania e la Bulgaria, cioè di impedire ogni rafforzamento di quest’ultima senza un rafforzamento simultaneo della Romania” (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 2988). Iskritsky prevedeva anche che, se delle potenze come la Russia, l’Austria-Ungheria e la Bulgaria restringessero nella loro morsa la Romania, quest’ultima potrebbe sentirsi in posizione di debolezza e rischierebbe di essere una minaccia imminente per esse. Mentre la conferenza degli ambasciatori di Londra, che durò da dicembre 1912 agli inizi del mese di gennaio 1913, si immortalava sulla conclusione di un trattato di pace tra gli Stati belligeranti,ogni deterioramento della situazione nella penisola comportava il rischio di vedere fallire un tale accordo. Le informazioni trasmesse dal servizio di informazioni dell’armata russa al comando militare del paese conducevano quest’ultimo a temere un possibile conflitto nei Balcani. La Bulgaria e la Romania erano considerate come le prime istigatrici di ogni scaramuccia regionale che si sarebbe potuta verificare. Nel frattempo, la lotta politica che opponeva in Turchia i partigiani dell’organizzazione dei Giovani Turchi “Ittihad ve taraki” e quelli del “Hürriyet ve ittilaf”, giunti al potere il 1 luglio 1912, si era intensificata. La decisione del governo turco di acconsentire alla richiesta fatta dalle grandi potenze di cedere Andrinopoli alla Bulgaria fu considerata dai Giovani Turchi come un tradimento, di cui si era reso colpevole il regime in carica. Il 10 gennaio 1913, i dirigenti dell’ “Ittihad ve taraki” fecero un colpo di stato, destituirono il governo precedente e, dopo aver denunciato gli accordi precedenti, ripresero le ostilità. Gli addetti militari russi della regione proseguirono le loro inchieste al fine di determinare il risvolto che gli avvenimenti avrebbero preso nei Balcani. Le informazioni iniziali sullo scatenamento di un eventuale conflito tra gli Stati balcanici alleati, principalmente tra la Bulgaria e la Serbia, giunsero dal colonnello F. Boulganine in servizio a Roma. Alla fine di marzo del 1913, egli informò i suoi superiori, in una lettera ultra confidenziale inviata d’urgenza a San Pietroburgo, dell’”esistenza di un accordo segreto tra la Serbia e il Montenegro, rivolta verso la Bulgaria”( ANHRM, F 2000, In. I, Dossier 7400). Nell’intervallo, il litigio che opponeva la Romania alla Bulgaria, che alcuni ufficiali di informazioni russe aveva analizzato nei loro precedenti rapporti, fu considerato come un anello di una catena di disaccordi che divideva i Balcani. E’ la ragione per la quale essi prevedevano l’arrivo di un nuovo conflitto che farebbe seguito al precedente, nel quale la Bulgaria e la Grecia si disputerebbero il controllo di Tessalonica (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 3002). Man mano che si avviava il completamento della redazione delle disposizioni del trattato di pace tra l’alleanza balcanica e l’Impero ottomano, le relazioni tra la Bulgaria, da una parte, e la 94 Serbia e la Grecia, dall’altra si deterioravano. L’accordo di pace sottoscritto a Londra il 17 marzo 1913 modificò profondamente la carta della penisola balcanica. L’Albania aveva chiesto l’indipendenza e Creta era stata annessa alla Grecia. L’Impero ottomano perse l’insieme dei suoi possedimenti territoriali nei Balcani a beneficio degli Stati membri dell’unione balcanica, tranne una porzione della Tracia orientale e di Costantinopoli. La Bulgaria, la Grecia e la Serbia ottennero diverse parti della Macedonia e della Tracia. La divisione di questi territori tra questi tre alleati fu apprezzata in maniera diversa da Atene, Belgrado e Sofia, ma condivisero tutti la stessa insoddisfazione in quanto all’ampliamento delle loro nuove acquisizioni territoriali. Inoltre, la Romania, che non aveva preso parte alla guerra, giudicava indispensabile ottenere la Dobroudja come compensazione della sua neutralità. L’addetto militare russo in Bulgaria, il colonnello G. Romanovsky, mentre osservava le possibili conseguenze dell’animosità che opponeva i vecchi alleati, si sforzò di formulare delle raccomandazioni sul modo di regolamentare i disaccordi che li dividevano. Il piano che espose nel dispaccio indirizzato allo stato maggiore preconizzava di fare una pressione sulla Serbia, al fine di convincere Belgrado di rinunciare ai suoi progetti bellici. Secondo le spiegazioni dell’addetto militare, lo smantellamento simultaneo delle armate serbe e bulgare avrebbe dovuto concorrere al raggiungimento di questo obiettivo ( ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 7407). Il collega di Romanovsky in Serbia, il colonnello Artamonov, difendeva un punto di vista radicalmente opposto su questa situazione. Nel cablogramma codificato che egli inviò a San Pietroburgo, l’addetto militare russo evocò la posizione inflessibile della Bulgaria sulla questione territoriale, che giudicava contraria agli interessi della Russia imperiale (ibid). Nel frattempo, la Grecia e la Serbia avevano firmato il 1° giugno 1913 un patto segreto contro la Bulgaria; quindici giorni più tardi, le truppe bulgare attaccarono le posizioni greche e serbe. Era evidente per tutti gli osservatori stranieri e locali che la Bulgaria era nell’incapacità di condurre la guerra su due, vedi tre fronti, contro i suoi antichi alleati balcanici, così come contro la Romania e la Turchia. A Belgrado, il colonnello V. Artamonov condivise questa valutazione con i suoi superiori di San Pietroburgo e credette nella possibilità di una rinascita dell’Unione balcanica ( con la partecipazione attiva della Romania, sotto gli auspici dell’Intesa) alla conclusione della disfatta della Bulgaria e del ripristino dell’equilibrio dei poteri nei Balcani (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 3151). Queste valutazioni utopiche contraddicevano, pertanto, molto le valutazioni realizzate dall’addetto militare in servizio in Grecia, il colonnello P. Gudim-Levkovich, che ricorse a degli argomenti etnici e confessionali per tentare di convincere i suoi superiori dell’esistenza di un rischio di disfatta della Bulgaria dovuta, supponeva, alla vittoria di una “coalizione non slava”, nella quale la Serbia non aveva un ruolo maggiore e che rappresentava secondo la Grecia “il fallimento della politica russa” ( ibid ). L’accordo di pace di Bucarest sottoscritto il 28 luglio 1913 dalla Bulgaria, da una parte, e la Grecia, la Romania, la Serbia e il Montenegro dall’altra, comportò delle profonde modifiche territoriali nei Balcani, che perseguirono dopo la conclusione del trattato di pace tra la Bulgaria e la Turchia. La fine della seconda guerra balcanica, o guerra interalleata, conferirà nuove caratteristiche alle valutazioni della situazione dei Balcani dagli addetti militari russi. Le loro conclusioni, fondate sull’evoluzione che fece seguito alla seconda guerra balcanica, rinchiuse un largo ventaglio di ipotesi e di valutazioni. L’addetto russo a Bucarest, il colonnello Iskritsky, predisse un possibile riavvicinamento rumeno-serbo, che egli giudicava benefico per la Russia (ANRHM, F 2000, In. I, Dossier 7410). Malgrado tutte le contraddizioni che presentavano le loro valutazioni della situazione attuale e le loro inclinazioni personali a favore di un modo d’azione particolare, gli agenti del servizio di informazioni dell’armata russa in posta nei Balcani condividevano un punto di vista unanime sulle guerre balcaniche, nelle quali esse vedevano una prefigurazione di un conflitto molto più grave a cui potrebbero prendere parte le grandi potenze e l’insieme dell’Europa. Per tutti gli anni 1912-1913, le informazioni trasmesse dagli agenti del servizio di informazione russa nella regione dei Balcani furono accuratamente raccolte negli uffici del Ministero dell’Armata e del 95 Ministero degli Affari Esteri. Alcuni documenti furono comunicati allo zar Nicola II°. Ma in molti casi, gli argomenti politici invocati dissimulavano altri motivi. 96 Riferimenti Carnagie Endowement for International Peace, Report of the International Commision Inquire into Causes and Conduct of the Balkan Wars, Londra, 1914. Mezhdunarodnye otnosheniya (“ Affari Esteri”), Serie N2, Volume XVIII, Parte 1, p. 117 ( N. Potapov a Ya. Zhilinsky, 3 giugno 1911). Archivi nazionali russi di storia militare, (ANRHM), Fond 2000, Inventario 1, Informazioni del dipartimento “Balcani” sulle attività degli agenti militari e Quartieri generali del distretto militare di Odessa nel 1911. Archivi militari russi di storia militare (ANRHM), Fond 1859, Inventario 6. Sergeyev, E. Y., e Ulunyan, A., Military attaché of the Russian Empire in Europe and in the Balkans, 1900- 1914, Mosca 1999 97 98 12 Le guerre balcaniche nella storiografia e i manuali bulgari recenti. Ivan Ilchev Nella storiografia bulgara, esiste un luogo comune nei riguardi delle guerre balcaniche. In generale, ciò si presenta come segue: Le guerre balcaniche del 1912-1913 rappresentano uno dei punti culminanti dell’evoluzione nazionale bulgara. La nazione e l’armata bulgare, unite nella nobile ambizione di liberare i loro fratelli dal giogo turco, brandirono la bandiera della libertà nell’ottobre 1912. Le indistruttibili atrocità commesse durante un’oppressione quotidiana, lo sfruttamento economico, gli omicidi, lo stupro delle ragazze così come delle donne, l’arbitrario e la corruzione dei Turchi, così come l’incapacità dello Stato ottomano a riformarsi a dispetto degli sforzi dispiegati da quasi un secolo, fecero sembrare evidente che il momento arrivasse per buttare fuori gli invasori turchi dalla penisola. L’armata bulgara subì il più forte dei combattimenti infliggendo una disfatta al grosso delle forze turche in Tracia orientale e nella catena montuosa del Rodope. I suoi alleati non incontrarono che una debole resistenza da parte dei Turchi che preferirono arrendersi ai Serbi e ai Greci piuttosto che ai valorosi Bulgari. L’armata bulgara conquistò da sola le fortezze di Lozengrad e di Adrianopoli, reputate imprendibili da tutti gli eminenti esperti militari dell’epoca. Durante le guerre balcaniche, l’armata bulgara era di gran lunga la più moderna: essa fu la prima ad utilizzare gli aerei e i bombardamenti aerei nel corso delle ostilità e inaugurò gli attacchi notturni nei quali gli assalti lanciati dalla fanteria alla luce dei proiettori erano sostenuti dalla tattica del bombardamento a tappeto dell’artiglieria. Mentre la Bulgaria combatteva i Turchi, la Serbia e la Grecia complottavano alle sue spalle. I governi dei due paesi, divorati da un sinistro nazionalismo non avevano alcuna intenzione di rispettare gli obblighi per cui avevano sottoscritto in virtù di trattati bilaterali. Dall’ingresso delle loro truppe in Macedonia nell’autunno 1912, essi iniziarono immediatamente a reprimere ogni manifestazione di sentimento nazionale bulgaro, perfino nelle parti del territorio si presumesse ritornare alla Bulgaria. I preti e gli insegnanti furono maltrattati, poiché essi impersonavano ai loro occhi il patriottismo bulgaro. Le bandiere nazionali bulgare furono ammainate e strappate da soldati ubriachi e i consigli delle città e dei villaggi bulgari furono immediatamente disciolti, mentre le autorità militari dirigevano con un pugno di ferro tutti gli aspetti della vita quotidiana. La Serbia e la Grecia, senza nessuna provocazione da parte della Bulgaria, spinte dalla cupidigia, conclusero un trattato bilaterale segreto al fine di conservare a loro profitto esclusivo le spoglie della guerra. Nello stesso tempo, una Romania invidiosa, che ambiva dei territori che non contavano nemmeno il più piccolo abitante rumeno, s’apprestava a lanciare a tradimento la sua offensiva. I Serbi e i Greci colsero la loro opportunità e attaccarono la Bulgaria nell’estate 1913, nel corso di una delle loro innumerevoli scaramucce senza importanza. L’armata rumena invase quasi simultaneamente la Bulgaria, mentre i Turchi, approfittando dell’occasione che si offriva a loro, rioccuparono la Tracia orientale, che era stata attribuita alla Bulgaria nell’ambito del trattato di pace di Londra del 1913, e si sbarazzarono in pratica di tutti i cristiani della regione, bulgari e greci. 99 Gli antichi alleati della Bulgaria cominciarono allora a diffondere attraverso il mondo delle menzogne sul comportamento dell’armata bulgara, accusandola di aver commesso delle atrocità all’incontro con la popolazione civile e i prigionieri di guerra. Circondati da tutte le parti, i Bulgari combatterono perfino con coraggio. Essi giunsero a superare l’offensiva lanciata dalla Serbia e penetrarono anche in territorio serbo. Nello stesso tempo, le truppe bulgare giunsero a circondare l’armata greca condotta dal re Costantino e solo la firma del trattato di pace di Bucarest salvò i Greci da una confusione totale. Il trattato di pace di Bucarest sottrasse alla Bulgaria i frutti delle sue vittorie e i bulgari de Macedonia furono la preda di una repressione ancora peggiore di quella che aveva condotto i Turchi. La Tracia orientale fu violentemente debulgarizzata e la Romania annesse la Dobroudja meridionale. Ciò fu un disastro nazionale, una tragedia che sprofondò nelle tenebre le prospettive d’avvenire della Bulgaria. Ecco, in mancanza del racconto completo, a dir poco a cosa rassomigliavano in buona sostanza le tendenze più marcate della storiografia bulgara delle guerre balcaniche. Un quadro simile e ancora più appassionante è stato tracciato nelle emissioni televisive che proponevano una versione molto popolare della storia, raccontata o suggerita da personalità molto in vista del piccolo schermo, di cui una parte almeno era storica di formazione o di professione. I manuali di storia, notoriamente quelli delle classi superiori, presentano i fatti in un modo che, per non essere troppo radicali, non sempre risultano identici. Le guerre balcaniche sono state e rappresentano un centro di interesse della storiografia bulgara. Le prime opere che si sforzarono d’analizzare gli avvenimenti fecero la loro apparizione dal 1913. Esse non erano tanto il frutto di un lavoro specializzato, quanto di mettere a frutto delle circostanze per rilanciare degli attacchi contro un nemico politico. Uno degli artigiani dell’Unione balcanica, il Primo ministro bulgaro Ivan Evstratiev Geshov, pubblicò nel 19141915 due opere, che contenevano le sue memorie, le sue analisi e un certo numero di documenti sulla storia della guerra. Sopraggiunse la prima guerra mondiale, che portò in maniera provvisoria una battuta di arresto ad ogni schizzo serio di studio dei due conflitti. Gli anni tra le due guerre furono l’occasione di un ripristino di interesse per gli avvenimenti delle guerre balcaniche. Un certo numero di circostanze di circostanze spiega quest’evoluzione. In primo luogo, il re Ferdinando, che trascinato la Bulgaria nei due disastrosi conflitti, fu costretto a rinunciare al trono. In quanto principale colpevole non era più al potere e che la sua influenza non bastava ormai più a occultare il soggetto, risultò più facile estendersi sugli errori della politica straniera. D’altra parte, queste due guerre divennero una delle rare sorgenti di orgoglio nazionale. La loro popolarità d’allora in poi non si è smentita. Esse rappresentavano uno dei rari esempi della storia recente della Bulgaria in cui i dirigenti e la popolazione del paese unirono i loro sforzi per uno scopo comune. In effetti, ciò non fu il caso nel caso della prima guerra e meno ancora intorno alla seconda guerra mondiale. In seno ad una società in preda alla disillusione, che tentava in maniera penosa di riaffermare i valori che erano i propri all’indomani della schiacciante e umiliante disfatta del 1918, il ricordo delle vittorie dell’autunno 1912 procurava una certa stabilità. Una pletora di opere e di articoli furono pubblicati, di cui gli autori erano sia degli storici civili di professione, degli storici militari e dei teorici militari. Un certo numero di persone che avevano preso parte alla guerra, dai membri di gabinetto, i diplomatici, i generali, fino ai soldati semplici, agli infermieri e perfino ai becchini militari pubblicarono le loro memorie sui fatidici dieci mesi dall’ottobre 1912 all’agosto 1913. Il Giornale della storia militare, vera miniera d’oro sui conflitti, pubblicava regolarmente degli articoli sui movimenti, i combattimenti e persino le scaramucce dell’armata bulgara, dai corpi armati fino alle semplici sezioni. La realizzazione maggiore della storiografia militare de questi anni fu la storia ufficiale delle due guerre pubblicata dal Ministero della Guerra. I due volumi di storia e di memoria personali 100 di Andrei Toshev, antico ministro plenipotenziario a Belgrado, rappresentano la migliore opera di storia diplomatica. Molti soggetti principali di ricerca furono definiti nel corso degli anni tra le due guerre, che non conobbero nessuna modifica sostanziale nei decenni successivi. La prima guerra balcanica fu quasi unanimemente considerata come una conseguenza del movimento di liberazione nazionale apparso in Macedonia e nella regione di Adrianopoli, in Tracia, di natura bulgara e di cui lo scopo ultimo era l’unificazione con la Bulgaria o l’ottenimento di uno statuto autonomo concepito come un trampolino di lancio verso un’unificazione futura. Essa fu il risultato del comportamento inopportuno dei medi dirigenti turchi, incapaci di conciliare la loro concezione dell’impero con le realtà dell’Europa agli inizi del XX° secolo. Essa fu una conseguenza della lotta nella quale si liberarono le grandi potenze per la supremazia della regione. Essa fu il frutto del convincimento, condiviso dalle élite al potere negli stati cristiani dei Balcani, che nel caso in cui il conflitto si fosse protratto in un periodo successivo, la situazione critica dei cristiani della penisola rischiava di peggiorare. Era unanimemente ammesso che la costituzione dell’alleanza balcanica era stata un errore. Per la prima volta la Bulgaria dovette rinunciare ad un principio fondamentale della politica: il rifiuto di intraprendere ogni discussione sulla divisione della Macedonia. Le modalità dell’alleanza militare costituirono un ennesimo errore. Si presumeva che la Bulgaria dovesse concentrare la sua azione militare sulla Tracia orientale, allorquando essa suggeriva come obiettivo strategico la Macedonia, alla Grecia e alla Serbia. La Bulgaria si era fidata fino all’eccesso della buona volontà dell’imperatore russo e dipendeva interamente dalla Russia nei Balcani per mantenere la pace in Romania. I Bulgari tentarono di tranquillizzare i loro alleati fino a che la cosa divenne in sostanza impossibile. L’offensiva lanciata contro la Grecia e la Serbia nel luglio 1913 fu decisa dal re Ferdinando e il suo seguace militare, il generale Mihail Savov, senza consultare le élite politiche. La guerra essa stessa, prima dell’offensiva di Chataldja, fu una successione di vittorie che stupirono il mondo. Anche dopo Chataldja, l’azione della Bulgaria e la sua supremazia nei combattimenti furono senza paragoni con quelle della Serbia e della Grecia. Come si può costatare, nonostante la brevità di queste enumerazioni di conclusioni, l’attenzione fu essenzialmente riposta su due aspetti maggiori della guerra ( militare e diplomatico), con talvolta un’allusione ai conflitti etnici. Per quanto strano ciò poté apparire, la situazione non cambiò dopo la presa del potere da parte dei comunisti alla fine degli anni 1940. Una buona parte della storiografia antica fu preservata, ma la spiegazione dei fatti storici appurati divenne radicalmente diversa. Alcune variazioni si sono potute produrre nel corso di questi anni, principalmente in funzione dello stato delle relazioni con la Jugoslavia, ma nella regola generale i nuovi storici comunisti continuarono a seguire i sentieri già battuti. Pertanto oramai, il monarca e l’élite dirigente furono accusati di aver fatto prova di irresponsabilità, mancanza di vigilanza e rovinati gli ideali della nazione. La storia delle due guerre fu compresa in maniera più responsabile agli inizi degli anni ottanta. La documentazione storica sui due conflitti fu prolifica, in particolare nelle date dei loro anniversari (1972, 1982, 1987), benché il grado di interesse erudito per questa questione non cambiò affatto. Solo un certo numero di raccolte di ricordi sui combattimenti che si svolsero nei dintorni di Edirne e sulla situazione nel massiccio di Rodope o in altri posti meritano di essere ricordati. 101 Una breve opera consacrata ai paesi balcanici durante le guerre del 1912-1918 da Siméon Damianov quasi permise un avanzamento su questa questione (che non si concretizzò mai). Ciò fu il primo tentativo bulgaro di studio della dimensione balcanica del conflitto, secondo un punto di vista balcanico. E’ vero anche che questa prospettiva fu un po’ falsata dal patriottismo in un senso troppo esaltato dall’autore, ma quest’opera non resta meno innovatrice. Fu pubblicata nel 1982 in un numero limitati di esemplari, dal ministero della Difesa. Essa non fu messa in vendita da nessuna parte, poiché la si giudicò abbastanza pericolosa. Questa diffusione limitata, associata alla morte dell’autore prima della sua pubblicazione, spiegano come l’opera passò quasi inosservata. Dopo il 1990, durante l’agitazione che la caduta del muro di Berlino e la caduta del comunismo, la storia diventa in Bulgaria un mezzo per sfuggire ai problemi quotidiani. Un certo numero di storici professionisti e di estimatori considerarono la storia come una sorgente possibile di conforto e le vittorie del passato come un balsamo per il sentimento di orgoglio nazionale duramente provato dalla crisi che attraversava la società. Secondo l’adagio, la storia è spesso la schiava obbediente, a scapito di mostrarsi zelante, della politica e la posizione della storiografia bulgara contemporanea sulla questione riflette i problemi verso i quali essa stessa si trova essa stessa si trova confrontata. Secondo i dati incompleti di cui noi disponiamo per gli anni 1989-2004, undici opere, quarantasei articoli, sedici memorie e sette raccolti di documenti sono stati pubblicati sulla storia dei Balcani. I temi delle opere e degli articoli summenzionati possono essere raggruppati nelle seguenti categorie: 30 25 20 15 10 5 0 1 1. Opere generali 2. Arte della guerra 3. Macedonia 4. Giornalismo 2 3 4 5 5. 6. 7. 8. 6 7 8 Operazioni precise Storia diplomatica Storia sociale Donne Riassumendo, l’interesse per il tema non si è mai smentito. La migliore opera sulla storia delle guerre balcaniche fu probabilmente la monografia solidamente documentata e ben concepita da Georgi Markov, il quale sintetizzò le migliori opere della storiografia bulgara miscelandole alle sue ricerche. Il libro di Georgi Markov rappresenta al momento il solo tentativo di redazione di una storia concisa della grande strategia della guerra. Gli storici bulgari che si sono inclinati sulla storia delle guerre balcaniche hanno avuto la tendenza a concepirli in un modo molto tradizionale, limitandosi al confronto militare. Tutti gli altri aspetti del conflitto erano giudicati, molto recentemente ancora, secondari e privi di interesse. Si può affermare, ritengo, che il tema della storia militare pura della pura guerra militare è in sostanza esaurito. Al contrario, un mucchio di questioni che sono tratte dagli aspetti 102 sociali dei conflitti sono appena accennate dalle generazioni più recenti di storici, e per più recente non intendo naturalmente la nuova generazione. Tra i migliori accenni di studio della guerra sotto un’angolatura differente, troviamo i seguenti lavori: due monografie di Sv. Eldurov consacrate alla chiesa bulgara durante il corso delle guerre balcaniche ed alla situazione critica della popolazione bulgarofona in Albania durante questo periodo. Eldurov si rivela particolarmente dotato per gli elementi fattivi e le sue opere si fondano su delle ricerche approfondite. Una monografia e molti articoli di R. Koneva sulla sorte riservata alla cultura durante i conflitti meritano di essere menzionati. Questi lavori privilegiano piuttosto la gestione pubblica della cultura. Ivan Ilchev ha consacrato un certo numero di articoli e una monografia al posto della propaganda durante i conflitti. Molti articoli riguardano l’organizzazione del servizio medico dell’armata, il cui fiore all’occhiello è un articolo sul ruolo delle donne. Uno degli aspetti economici delle due guerre, il ruolo della marina bulgara e lo sviluppo d’Alexandrupolis (Dedeagach) durante questo periodo, è stato d’altronde abbozzato. La storia sociale dei due conflitti non è stata tuttavia in sostanza considerata e resta molto poco tempo per dibattere dei temi sui quali mi sono sforzato per anni di convincere i miei studenti per fare delle ricerche: La storia delle idee che hanno condotto alle guerre balcaniche e i tentativi fatti dai governi e i gruppi di pressione, di modellare le menti della popolazione secondo i loro punti di vista: Il ruolo giocato dallo Stato moderno nella generazione di un nazionalismo moderno, fondato sulla concezione di uno Stato-nazione che possiede i propri giorni feriali, il suo martirologio, i suoi propri santi, le sue credenze ben stabilite ecc. Le guerre balcaniche viste sotto l’angolatura della creazione del mito individuale e collettivo. La storia e le difficoltà del giornalismo bulgaro nel corso di questo periodo. La rappresentazione visiva “dell’altro”, il vicino balcanico, esaminata privilegiando i disegni satirici politici. Intendiamo da quì la visualizzazione della guerra: le cartoline che rappresentano delle battaglie reali e immaginarie, degli eroi più veri di natura e di infami nemici, così come l’arte militare, le illustrazioni delle battaglie, ecc… Niente è stato intrapreso per trarre qualcosa dall’impressionante risorsa che rappresenta la letteratura popolare, giudicata di poco interesse per alcuni storici, in altre parole le raccolte di canzoni, gli annuari, le collezioni di poesie poco elaborate e pieni di sciovinismo, che colpiscono, talvolta, di più l’immaginario del pubblico che colpiscono, talvolta, di più l’immaginario del pubblico della letteratura detta di qualità. Nonostante la paranoia di cui fanno prova gli storici a riguardo dei problemi strategici del conflitto, di cui un certo numero di errori di decisione, molte questioni restano sconosciute. L’analisi dell’ossessione dei responsabili politici bulgari per la Macedonia. Il peso dei rifugiati macedoni nella definizione dell’orientamento generale della politica bulgara. Il posto preponderante della capitale, in cui vive un gran numero di rifugiati originari della Macedonia ( i quali rappresentano quasi il 50% del totale della popolazione nei decenni che precedono le guerre balcaniche), nella proporzione città- campagna. L’analisi dell’assenza totale di un reale interesse per la Tracia e uno sbocco sul mare Egeo. Nessuno studio serio è stato condotto sui motivi delle decisioni importanti prese nell’incontro dei responsabili politici dei paesi vicini. La storiografia bulgara non arriva sempre ad ammettere il semplice fatto che i Turchi vivono ormai da un mezzo millennio nei Balcani e che essi sono trattati come invasori o come una componente straniera della regione. Noi non disponiamo sempre, benché degli sbocchi siano stati realizzati in questo senso, di una vera analisi del fattore detto russofilo e russofobo della politica bulgara. Nessuno studio realmente sostanziale è stato consacrato alle donne e al ruolo che esse hanno avuto durante la guerra, non solamente al fronte (esistono uno o due articoli a riguardo), ma 103 ancora all’indietro. Il posto preponderante delle donne nel mantenimento dell’economia è stabilito dai documenti, ma ciò non è stato ancora dimostrato. Noi non disponiamo ancora della minima pubblicazione sui problemi dell’infanzia durante la guerra, la difficoltà di crescere durante gli anni della guerra e la difficoltà di socializzazione in tempo di guerra. Si osserva un interesse incoraggiante per lo stato dell’economia durante gli anni di guerra da uno o due giovani storici. Essi preferiscono sfortunatamente essenzialmente il modo in cui lo Stato gestisce l’economia durante la guerra, omettendo di trattare gli aspetti psicologici dell’evoluzione economica indotta dalla guerra e dai disordini che ne seguirono. Non esiste nessuno studio sui progetti bulgari di sistemazione di Porto Lagos, sul Mare Egeo, che miravano a farne un porto importante. I sopraggiunti cambiamenti nei sistemi di comunicazione non sono stati studiati. Nessuna ricerca è stata condotta sulle richieste che hanno alimentato lo sforzo di guerra e l’effetto paralizzante che esse produssero su un’economia indebolita, né sull’aspetto psicologico della diffidenza che ha fatto nascere presso i contadini i prelevamenti importanti dello Stato sul frutto del loro lavoro. Gli aspetti umanitari della guerra non sono mai stati studiati: Nessuno studio è stato consacrato alla situazione precaria dei Turchi e dei musulmani di Bulgaria nel corso degli anni della guerra, al timore che essi vivevano e all’atmosfera psicologica che li circondava. Non esiste nessuna documentazione sul modo in cui i Turchi della Bulgaria (che rappresentavano nel 1912 il 18% della popolazione bulgara) hanno reagito all’annuncio della guerra né sulle misure prese dallo Stato per sorvegliarli direttamente, ecc. Nessuna ricerca è stata condotta sui prigionieri di guerra e le loro condizioni di detenzione, la loro alimentazione, il trattamento che era loro riservato, ec…Tuttavia, un punto incoraggiante: un giovane collega lavora già da qualche anno sulle lettere indirizzate dai soldati alle loro famiglie, ma esse non sono state ancora pubblicate. La condotta delle truppe bulgare verso i loro avversari e le popolazioni pacifiche dei territori acquisiti, non è stato l’oggetto di alcuno studio. Non esiste la minima ricerca sul servizio giuridico dell’armata, in altre parole sul numero di disertori bulgari, le eventuali persecuzioni intraprese all’incontro di soldati bulgari per furti, stupri, atrocità, ecc.. Un’eccezione incoraggiante: un’importante raccolta di documenti e un certo numero di articoli sono stati pubblicati sulla conversione dei musulmani bulgarofoni del massiccio del Rodope nel 1912-1913. I rifugiati in Bulgaria e di Bulgaria rappresentano un problema particolare, di cui gli aspetti giuridici ne sono stati l’oggetto di studi seri. La questione dei rifugiati esaminata nel quadro delle relazioni internazionali del paese durante le due guerre dimora in parte sconosciuta. Altri aspetti importanti non sono stati ancora affrontati: è il caso per esempio dell’adattamento dei rifugiati al loro nuovo ambiente. Contrariamente ad un’idea molto diffusa e pregna di sufficienza, l’accoglienza che si riservò a loro fu raramente calorosa o, più precisamente di breve durata. Noi non abbiamo che una vaga idea delle questioni relative all’installazione dei rifugiati. Alcune ricerche sono state condotte sulla loro ripartizione nella campagna, ma nessuna è stata consacrata alla situazione critica di quelli che hanno scelto di stabilirsi finalmente nelle città e di cerarvi lavoro. Noi non sappiamo neanche quanti di loro si stabilirono per sempre nei villaggi né quanti andarono ad accrescere la popolazione urbana del paese. Si tratta solo d’alcuni punti essenziali. Nessuno non ha tentato mai di studiare le ripercussioni che ha avuto il cambiamento dei modelli educativi negli adolescenti. La politica bulgara si cullava in una cecità ( di cui la storiografia bulgara è molto pregna) che consisteva nel ritenere che tutti i bulgari, secondo il posto dove avevano vissuto, parlavano la stessa lingua con infinitesime particolarità regionali. Ma alla fine delle guerre balcaniche , ma la 104 lingua bulgara letteraria ufficiale era stata codificata e i bambini dei rifugiati, che iniziavano la loro scolarizzazione impiegando un lingua differente, conobbero delle serie difficoltà di adattamento. Nessuna è stata condotta sui Greci che scelsero di lasciare il loro paese dopo le guerre balcaniche né, soprattutto sui Turchi e i musulmani in generale che iniziarono un nuovo esodo, il secondo dopo quello del 1878, intorno alla nascita della Bulgaria moderna. Riassumendo, la storiografia bulgara si dimostra generalmente incapace di abbandonare la retorica classica e pomposa quando parla delle guerre balcaniche. Gli storici bulgari si sono nutriti della tradizione storica positivista e non hanno mai preso coscienza delle implicazioni della sociale. Persino gli storici seri trascurano l’interesse che rappresentano i diari e le memorie dei soldati, con il loro sforzo assiduo di mettere su carta i loro pensieri, discussioni ed attività quotidiane, giudicati senza importanza e lontano dei grandi assi della storia Mentre si tratta di guerre balcaniche, il loro trattamento rimane bulgaro. Questa miopia si spiega principalmente per l’assenza di documentazione proveniente dai paesi vicini. Gli storici bulgari, per esempio, non sono mai stati in grado di sfogliare gli archivi della Turchia, della Grecia o della Romania su questo temi, anche se la situazione migliora un po’ per ciò che attiene la Serbia. In una parola, noi disponiamo di una storia del conflitto stesso, ma ci manca la storia dell’uomo in questo conflitto: quali furono le sue idee, i suoi sogni, le sue speranze e le sue disillusioni? Gli storici dovrebbero astenersi dall’accettare stupidamente e di avallare un certo numero di asserzioni stereotipate, come quella che consiste nel pretendere che l’armata bulgara non abbia mai perso una guerra e che i responsabili bulgari non siano mai giunti a vincerne una. Come se le guerre fossero condotte in laboratorio, in un ambiente sterile. Ciò significa che gli storici non dovranno in avvenire temere di perdere il loro guadagno, quale che sia la modicità della loro razione. Poiché ciò che importa veramente , è di convincere i nostri studenti che la storia non si riduce a semplici scontri armati, a dei sottili balletti politici , né all’adozione di decisioni apparentemente illogiche da un ‘elite di potere. 105 13. Le guerre balcaniche del 1912-1913: il punto di vista turco Halil BERKTAY L’aspetto di continuità Innanzitutto mi piacerebbe far osservare che “il punto di vista turco” sulle guerre balcaniche dell’inizio del XX° secolo può essere esaminato, almeno, in due modi molto diversi. Può significare, in primo luogo, un esame retrospettivo del passato, destinato a tentare di misurare ciò che esse hanno rappresentato per l’Impero ottomano e/o per la società turca: le loro ripercussioni politiche dirette e, di conseguenza, ugualmente le incidenze sociali, culturali e ideologiche più complesse di quanto loro ebbero all’epoca, di cui è permesso di dire che esse esercitarono un’influenza costante senza essere lineare, dalle pulsazioni irregolari, simile ad un’alta e bassa mare, durante i circa novant’anni che seguirono. Si può ugualmente intendere da lì, oggi come allora, ciò che d’altronde significò: una concezione specificatamente “turca” degli avvenimenti, in opposizione ad altre prospettive molto soggettive, così come i punti di vista “greci”, “bulgari” o “serbi” sulle terre finitime del 1912-1913. Conviene, allora, secondo questa seconda accezione, parlare no di una prospettiva turca, ma da un punto di vista nazionalista turco. Mi piacerebbe conservare e sviluppare questa distinzione nelle pagine che seguiranno, iniziando dalla prima dimensione, cioè da una mia considerazione delle guerre balcaniche, formulata nella mia qualità di specialista della storia moderna della Turchia (che nella fattispecie è Turco, conferendogli, in tal modo, una conoscenza e una comprensione interiori del suo paese, senza che possa essere definito nazionalista); affronterà in seguito inevitabilmente la seconda dimensione poiché, come mi piacerebbe dimostrare, il nazionalismo turco non solamente si elaborò e si mescolò nella maggior parte nel calderone delle guerre balcaniche, ma si rivelò, d’altronde, senza dubbio la loro più durevole eredità. Le guerre balcaniche del 1912-1913 hanno avuto un ruolo cruciale nella storia turca moderna di quanto spesso si possa immaginare, tanto per loro stesse quanto nella loro qualità d’anello di congiunzione essenziale tra “le ultime due guerre dell’Impero ottomano e le prime guerre della Turchia moderna”. Intendiamo, da questa perifrasi abbastanza lunga e poco comoda: a) La guerra del 1911 che fece seguito all’invasione di Tripoli da parte dell’Italia; b) Le guerre balcaniche del 1912-1913; c) La prima guerra mondiale del 1914-1918 essa stessa, che fu per gli Europei la prima Grande Guerra e rappresenta nella coscienza collettiva turca la mobilitazione generale (Seferberlik ), ben inteso l’offensiva di Gallipoli, geograficamente molto vicina, così come le campagne più lontane (e ormai distanziate dal punto di vista ideologico) del Caucaso, di Suez, della Galizia e Mesopotamia: infine, d) 1919-1922, conosciuta all’esterno come una guerra greco-turca supplementare ( relativamente minore) (vedi ad esempio, Overy, 1999), ma che rappresenta per i Turchi la loro guerra d’Indipendenza (İstiklâl Harbĭ ) , che permise loro infine di allontanare lo spettro della colonializzazione e di riaffermare il loro diritto alla sovranità, ben presto consacrato dalla proclamazione il 29 ottobre 1923 dalla Repubblica Turca. Questa guerra di indipendenza, di conseguenza e sotto l’azione storiografica, ha finito con l’eclissare tutti gli altri conflitti che l’avevano preceduta e per intrattenere una relazione unica nel suo genere con l’era Atatürk. Transizione. 106 Tuttavia, secondo una veduta d’insieme, ognuno di questi conflitti forma l’anello di una lunga catena d’avvenimenti: presi collettivamente, fanno parte integrante dell’ultima fase della questione detta d’Oriente, nel corso della quale l’ultima agonia dell’uomo malato dell’Europa cambiò o si mutò in un parto difficile di un nuovo Stato-nazione. In altri termini, l’Impero ottomano fu colpito all’inizio del XX° secolo da una crisi profonda e prolungata, che si protrasse dal 1908 al 1922, durante la quale le guerre balcaniche occuparono un posto centrale da più punti di vista, e che formò lo zoccolo sul quale fu eretta la memoria nazionale turca. Le testimonianze letterarie di questo di fatto abbondano. Il poema epico della primavera del 1941, “ I paesaggi umani del mio paese” (Memleketimden İnsan Manzaralari), del celebre poeta comunista turco Nâzim Hikmet, si apre con una scena nella quale si rappresenta un certo caporale Ahmet, che è stato “ chiamato [sotto le bandiere] per le guerre balcaniche/ chiamato per la mobilitazione generale/ chiamato per la guerra contro la Grecia” e la cui manfrina “coraggio vecchio mio, ci siamo quasi” è diventata celebre (Hikmet, 1987, p.14). Una sessantina di pagine dopo, vi incrociamo uno studente di sinistra che, dopo aver sentito il suo compagno di viaggio declamargli una lunga storia a proposito di Gallipoli nel treno che li conduceva a Ankara, pensa che: “Così come esiste una varietà di pesci, Una varietà d’alberi, O una varietà di rocce, Esiste ugualmente una varietà di esseri umani che vive in questo paese, E per la quale le battaglie rappresentano Il solo ricordo Degno di interesse e indimenticabile.” (ibid, p. 79) Nel romanzo di Yakup Kadri Karaosmanoğlu, lo “Lo straniero” (Yaban), un ufficiale di riserva in convalescenza in un villaggio ritirato, in cui soggiorna dopo essere stato ferito nel corso della guerra di indipendenza, incarna sia l’alienazione intellettuale che la stanchezza della guerra. La letteratura scientifica offre almeno un esempio nel quale i diversi conflitti militari dal 1912 al 1922 sono prospettati come una sola e stessa “guerra dei dieci anni”, per il fatto delle mezze generazioni implicate di soldati che essa ingloba (Görgülü, 1993). Ecco per la continuità; ma che ne è dell’altro aspetto? Come questo aspetto si è operato, cioè in quale momento, se ve ne è stato uno, si è passati dalle “ultime guerre dell’Impero ottomano” alle “prime guerre della Turchia moderna?” In che modo le prime si sono fuse nelle ultime o come una coscienza imperiale si è mutata in una coscienza nazionale? Inoltre, se è permesso in un senso di qualificare “ ingiuste” le guerre condotte per la conservazione dell’impero mentre, in opposizione, le guerre di liberazione o quelle condotte per respingere un’aggressione sarebbero giudicate “giuste”, quale fu l’ultimo conflitto ottomano “ingiusto” e la prima guerra turca “giusta”? E’ senza dubbio più facile porsi queste domande che rispondervi. Formularle può aiutare a mettere il dito su certi problemi spinosi, rilevando quanto è in generale indispensabile sostituire la multiprospettiva di un’analisi all’egocentrismo obsoleto di un racconto nazionale degno del XIX° secolo.Tuttavia, tranne ricorrere all’apriorismo logico (o alla dottrina esistenzialista) per tentare di imporre una definizione categorica delle zone grigie o delle zone d’ombra e dei contorni fluidi della storia, può rivelarsi in sostanza impossibile definire dei contorni precisi di quale che sia la natura. La nostra azione si riduce molto spesso a seguire l’evoluzione del processo: la rivoluzione giovane-turca del 1908 portò il Comitato Unione e Progresso ( CUP) al potere ( o almeno ad una divisione del potere). In opposizione al “dispotismo” (in turco: istbdat ) dell’era hamidiana, il CUP proclamò la libertà ( Hürriyet ) per tutti. Esso intraprese ugualmente una politica che mirava a “unire i diversi elementi “ (ittihad-i anâsir ) dell’impero intorno ad un’identità 107 “ottomana” comune ( che esso sperava vedere realizzata). Invece, esso fu messo a confronto con una successione di sconfitte interne ed esterne, di fronte alle quali scivolò progressivamente, e forse anche inconsciamente, verso un comportamento di difesa e combattivo destinato a mantenere l’impero per il quale qualche anno prima aveva proclamato la libertà. Che cosa bisognava scegliere: L’impero o la rivoluzione? L’impero o la riforma? L’impero o la democrazia? Si può dire che tra febbraio e ottobre 1917 almeno, Kerenski scelse l’impero, mentre Lenin preferì la rivoluzione, Nel 1956, lo stesso dilemma si presentò a Krouchov quando, di fronte alle pressioni dei partigiani della linea dura del Politburo, inviò i carri armati sovietici per reprimere la rivoluzione ungherese, segnando la fine della sua politica di destalinizzazione. Verso la metà degli anni ottanta, al contrario, Gorbachov sacrificò la sua posizione e il suo potere optando per la glasnost e la perestroika a discapito dell’impero. Si può così ritenere che i Giovani Turchi preannuncino la scelta che Kerenski e Krouchov preferiscano a quella di Gorbachov, che costò loro, come ai primi due, la loro rivoluzione. Alcuni storici nazionalisti dei Balcani, piuttosto ostili ai Giovani Turchi, ritengono che questi ultimi siano, dall’inizio, dei convinti nazionalisti turchi, che ricorrevano semplicemente all’inganno e alla dissimulazione verso le comunità non musulmane e non turche dell’Impero ottomano, prima di rivelare il loro vero volto di lupi travestiti d’agnello, che corrispondevano dall’origine alla loro vera natura. Questa interpretazione è determinista e fa la sua bella parte nella teoria del complotto, senza lasciare nessun posto agli incidenti della storia, ai processi di “apprendimento “ reciproco e interattivo o alle contingenze e alla mutevolezza delle piattaforme e dei programmi “iniziali”. Da un punto di vista empirico, al di là della loro intenzione di restaurare la Costituzione del 1876, si può dire che gli Unionisti non avevano affatto progetti nel 1908. Sarebbe difficile trovare un gruppo di rivoluzionari del XX° secolo così improvvisati come questi ultimi. E’ al contrario quando essi furono messi a confronto con l’imperialismo delle grandi potenze e con il nazionalismo degli altri paesi balcanici che ritrasformarono a loro volta in nazionalisti turchi ( dagli accenti imperialisti). Questa trasformazione si operò in gran parte in seguito alle successive disfatte e non sotto l’effetto di una qualsiasi simil vittoria, giacché essi persero la guerra del 1911 e subirono una scottante disfatta del 1912-1913 e la seconda guerra balcanica aveva appena permesso loro di recuperare solo una porzione dei territori persi. Tra il 1914 e il 1918, la sconfitta fu in pratica totale, ad eccezione di Gallipoli, e solamente la guerra d’indipendenza del 1919-1922 permise di mettere fine a questa successione di catastrofi. La disfatta fu sia, totale nel senso che ( a discapito del gran numero di crudeltà e di massacri che furono commessi da più parti nel corso di questo periodo) furono i Turchi musulmani dell’Impero Ottomano che risultarono i grandi perdenti di questo lungo XIX° secolo ( vedi per esempio, McCarthy, 1995, 2001) che dettagliata, infatti, ogni disastro particolare ha aggiunto la propria “goccia d’amarezza” ad una coppa già troppo piena. D’altronde, le guerre balcaniche si rivelarono particolarmente amare: questa disfatta non fu solamente inflitta dalle grandi potenze, ma, ciò che fu peggio è che fu inflitta da un certo numero di piccoli Stati balcanici, “nostri antichi vassalli” per di più. Così questa situazione, in un certo qual modo, è paragonabile all’insuccesso della repressione greca del 1821 da parte di Porta, anche se le conseguenze sono state questa volta ancora più drammatiche. All’epoca della prima guerra balcanica, il disordine ottomano innescò uno sradicamento di popolazioni nate sul posto quasi equivalente all’esodo provocato dalla guerra russo-turca del 1877-1878; si verificò, in tal modo, ancora una volta un’enorme affluenza di rifugiati, di cui la povertà e la miseria nera si trasformarono in un’epidemia di colera, che attraversò la Tracia fino alle imbarcazioni della riva europea di Istanbul e che attraversavano il Bosforo per raggiungere l’Anatolia. La disfatta subita nei Balcani segnò di conseguenza una nuova tappa nella formazione della Turchia moderna poiché nazione d’immigrati espulsi dalla Crimea, dal Caucaso, dalla Grecia continentale, da Creta, dai Balcani o (in minor misura) dalle antiche province arabe dell’impero. Questo disastro generò ugualmente l’avventò degli Unionisti, il colpo di stato del 1913 (Babiâli Baskini), ed anche la venuta al potere di un 108 triumvirato di giovani capi militari ( Enver, Talat, Cemal) che aveva una totale irresponsabilità politica. Nello stesso tempo, la disfatta portò alle riforme militari del 1913-1914, nel corso delle quali la vecchia generazione di colonnelli e di generali ottomani fu rimpiazzata da una nuova generazione d’ufficiali unionisti, più giovani e più determinati. Furono precisamente queste riforme che permisero all’armata ottomana di combattere in un modo piuttosto inconsueto quattro o cinque anni dopo durante la Grande Guerra, al punto di sorprendere l’Intesa per l’ostinata resistenza che essa contrappose soprattutto a Gallipoli. Mentre la passeggiata militare alla quale si aspettavano i Britannici nel marzo-aprile 1915 sembra essere strettamente legata agli impressionanti risultati delle forze ottomane nel 1912-1913, quest’associazione prevalse in senso inverso, in seno al comando turco. Dopo una settimana appena d’intensi combattimenti che avevano fatto seguito agli sbarchi del 24-25 aprile sulla penisola, Mustafà Kemal si rivolse ai suoi subordinati nei termini seguenti, dando loro l’ordine di lanciare il 1° maggio 1915 un contrattacco sulle forze dell’Anzac: “Non posso assolutamente accettare che ci sia tra noi e tra le nostre truppe che noi comandiamo degli uomini che preferirebbero vivere una decina di volte il disonore subito nei Balcani piuttosto che morire qui. Se voi pensate che tali uomini esistono, abbattiamoli immediatamente. “ (Steel e Hart, 1995, pp. 137-8) Gli esempi di tali associazioni possono essere moltiplicati all’infinito. Dopo Mudros, mentre Istanbul era occupata dai Britannici, ciò che restava della gerarchia unionista scelse Mustafà Kemal per condurre una nuova resistenza nazionalista in Asia minore, che divenne così la “Valley Forge” e lo “Yenan” della rivoluzione chemalista. Tuttavia, si può dire che l’idea di liberare un ultimo combattimento in Anatolia non nacque nel 1918-1919, ma almeno cinque anni prima, poiché l’estrema vulnerabilità di Istanbul era stata dimostrata perfino prima del tentativo di penetrazione fatto dall’Intesa a Gallipoli, quando la prima guerra balcanica spogliò l’Impero dei suoi possedimenti in Romalia e l’armata bulgara arrivò sulla linea di Satalca. In essa stessa, quest’idea di ultimo combattimento, di ultima resistenza o, in altri termini, questo sentimento per i Turchi di essere giunti in fondo alla corsa, non aveva niente che rassomigliasse ad una caratteristica turca. Queste furono le conseguenze delle guerre balcaniche che ne fecero una nozione comunemente condivisa. Aubrey Herbert all’epoca si trovava ad Istanbul; ecco ciò che gli ispirarono le calamità umane e naturali durante l’inverno 1912-1913 “ Nevica senza tregua su una pianura desolata e nell’alba nascente satura di fiocchi, la terra immacolata s’unisce al cielo Cupo come un lupo famelico e ferito, la sua nuca scarnita presa in una catena, Il Turco affronta la morte.” ( op. cit. da Moorehead, 1985, p.82) Per lo più, non si trattava di disfatte comuni che sopraggiungevano nelle situazioni classiche di conflitto tra degli Stati-nazioni dalle frontiere chiaramente delineate e dalle popolazioni etnicamente e politicamente consolidate, in cui “noi” ci ritroviamo all’interno, mentre il “nemico” risiede all’esterno e il vincitore e il perdente si delimitano l’uno dall’altro ( o non si confondono e s’osservano reciprocamente). Ora, nel 1912, l’Impero ottomano incominciava appena il suo processo di separazione, anche se dal punto di vista turco, il “nemico” era tanto all’interno quanto all’esterno. Aubrey Herbert, infatti, costatò “Nel 1913, quando i Balcani riportarono una schiacciante vittoria dopo l’altra sulle forze turche equipaggiate male e disorganizzate, tutti i bar greci di Pera risuonavano di canti trionfanti (ibid ) Si indovina appena il sentimento di estrema umiliazione, l’umore cupo e teso, così come l’accumulo di odio che fecero nascere queste reazioni nei Turchi che li osservavano. 109 Nazionalismo In tal modo, dalla disfatta risorge, prima di tutto forse, da una parte, un immenso sussulto nazionalista che niente lasciava presagire, che non rappresentò né più né meno le prime mobilizzazioni di massa della storia della Turchia moderna, traboccante d’assembramenti, di interventi, di volontari e di lirici richiami alle armi, nato, notiamolo, non da problemi civili nazionali che implicavano una lotta delle classi o altre forme di dissensi interni, ma una guerra e l’urgenza della difesa nazionale, con tutto ciò che questo comporta in termini di autorità e di solidarietà; ma questa disfatta generò ugualmente, d’altra parte, una forma di ideologia nazionalista turca, dura, determinata, vendicativa e vendicatrice, che prese forma con il tempo sotto l’effetto dell’insieme di questi fattori. Ben inteso, non si trattava ancora in questa epoca della variante chemalista del nazionalismo turco, al quale tutti si sono abituati dopo la fine degli anni 1920, ma in grandi linee e mal partorita esso presentava la sua versione iniziale. Per collocare tutto ciò molto più aggiornato a tutt’oggi nelle prospettive teoriche usate nello studio del nazionalismo contemporaneo, si potrebbe dire che questo nazionalismo unionista (Ĭttihatçi, Ĭttihadist) o gli inizi del nazionalismo turco si situavano da qualche parte tra la terza via, definita da Hroch, dello Stato-nazione europeo e i nazionalismi che stavano per apparire più tardi nel contest coloniale dell’Asia o del terzo mondo. Miroslav Hroch , e dopo di lui una vecchia studentessa Jitka Maleckova, hanno messo entrambi in evidenza tre modelli fondamentali di costituzione dello Stato-nazione in ambito europeo: (1) la traiettoria (britannica e francese) di rivoluzione o di modernizzazione, seguita da una demografia relativamente stabili, già alla fine del medio Evo o agli inizi dei tempi moderni; (2) un modello (tedesco ed italiano) di unificazione, che prevalse in Europa centrale e meridionale; (3) un modello di deflagrazione degli imperi, molto più consono all’Europa orientale o al SudEst. Mettiamo da parte gli Asburgo per il momento; è indubitabile che nella sua fase di ripiego e di disintegrazione, l’Impero ottomano fosse diviso sia all’esterno che all’interno; in altre parole, questa separazione non fu soltanto l’opera delle grandi potenze, ma anche quella dei nazionalismi serbi, greci, bulgari, rumeni, albanesi, montenegrini comparirono poco dopo e, in definitiva, il nazionalismo turco, i quali si scatenarono in un combattimento accanito per il possesso del territorio. Questa fu la stessa lotta che attenuò la sua acme intorno alle guerre balcaniche ma, che modificò profondamente i loro molteplici e reciproci antagonismi, di cui restano traccia ancora oggi. Ma questa situazione presentò ugualmente un certo numero di squilibri; è la ragione per la quale mi sembra indispensabile tentare di completare o di apportare delle modifiche alla terza ipotesi definita da Hroch e Maleckova. Tutti questi squilibri sono in definitiva legati all’aspetto che costituì l’insieme degli altri nazionalismi balcanici contro il potere imperiale, mentre il nazionalismo turco si poneva per, a fianco di quest’ultimo. Soprattutto perché gli Unionisti si trovavano essi stessi ai comandi, per così dire, e che il nazionalismo turco acquistò nell’occasione di un suo confronto aperto e diretto con le grandi potenze, una dimensione proto terzo-mondista di anticolonialismo generalizzato, relativamente assente dalle altre ideologie nazionaliste dei Balcani. In secondo luogo, come i Giovani Turchi ebbero a battersi per conservare l’impero, in opposizione ai discorsi di liberazione degli altri nazionalismi balcanici, il nazionalismo turco prese un accento fortemente imperiale e nazionale. In origine, l’aspetto imperiale dava inizio al discorso nazionale in embrione. Paragonando i diversi decreti di mobilità del 1912, Fikret Adanir ha dimostrato come tutti gli Stati balcanici hanno potuto fare appello direttamente e istantaneamente alla “fede e alla nazione”, mentre il sultano ottomano era unicamente in grado di invocare, debolmente e senza convinzione, la lealtà alla dinastia, i benefici della rivoluzione del 1908, le riforme dei Giovani Turchi e l’ordine pubblico. A questa epoca e in queste circostanze, una tale posizione non era molto semplice da sostenere e quando l’impero scomparse, il nazionalismo turco si sviluppò in maniera repentina. In terzo 110 luogo, mentre esso agiva in tal modo, questa stessa situazione messa in evidenza dalle acclamazioni dei Greci nel quartiere di Pera nel 1913 generò la sindrome del “nemico dell’interno” e presentò, così, il nazionalismo turco, ossessionato dal tradimento e di essere stato pugnalato alle spalle, come lo hanno dimostrato i recenti avvenimenti. In quarto luogo, e ancora una volta in opposizione rispetto al potere imperiale ottomano, il nazionalismo turco apparve e si sviluppò più tardi della maggior parte dei nazionalismi balcanici, che divennero in conseguenza di ciò i suoi rivali e, paradossalmente, le sue guide e i suoi maestri nell’oscura arte della creazione e dell’omogeneizzazione dello Stato-nazione. Alla fine del XVIII° secolo e agli inizi del XIX° secolo, l’élite ottomana sembrava aver deciso di “ fare come gli Europei”, per essere in grado di tener testa all’Europa. Oggi, dopo quasi un secolo di lancio del Tanzimat, accade quello che gli Unionisti avevano ipotizzato a loro volta “ di fare come i Greci e i Bulgari”, per poter far fronte a questi nuovi demoni supplementari degli inizi del nazionalismo turco. W. H. Auden scrisse nel “Il 1° settembre 1939”: “La gente ed io stesso sappiamo bene ciò che imparano tutti gli alunni: Quelli a cui si fa del male Fanno del male di rimando.” Non esiste forse nessun legame di causalità diretta, ma un processo di interazione e di scalata ideologiche che va dalle guerre balcaniche del 1912-1913 fino alle atrocità armene del 19151916. In fin dei conti, come in ogni vendetta, si riproduceva ciò che era stato già fatto. Il rapporto con questa percezione da nessuna parte era espresso molto bene come nella letteratura. Ömer Seyffedin (1884- 1920) fu uno dei pionieri degli inizi del nazionalismo turco. Figlio di un capitano dell’armata la cui famiglia era stata costretta a fuggire dal Caucaso di fronte all’espansione della Russia zarista, prese parte a sua volta personalmente ai conflitti e alle tensioni di quest’ultimo disastroso decennio ottomano, durante il quale il nazionalismo esplose in un modo così violento e repentino che la vita e la carriera di Ömer Seyffedin ricopre sia la prima che la seconda fase della teoria dell’evoluzione del nazionalismo turco per tappe, avanzata da Miroslav Hroch. Diplomato all’accademia militare (Mekteb-i Harbiye) nel 1903, fece parte dell’armata con il grado di luogotenente e occupò un posto d’istruttore nella scuola ufficiali della gendarmeria d’Izmir (1906-1907) – questa stessa nuova gendarmeria che ha ricordato Ivan Ilchev nella sua esposizione sul punto di vista bulgaro presentata in questo simposio. Nel 1908, l’anno della rivoluzione dei Giovani Turchi, fu trasferito nella terza armata, accampata nella città ottomana di Selanik ( o Salonicco, oggi Tessalonica); testimone delle operazioni condotte nel corso delle guerre balcaniche, egli si arrese alle unità dell’armata greca durante l’assedio di Jannina. Liberato e inviato ad Istanbul dopo un anno di prigionia, egli lasciò l’esercito definitivamente e consacrò il resto della sua vita alla letteratura. In qualità di giornalista e di saggista, Ömer Seyfeddin militò per un nazionalismo di natura e a carattere esistenzialista, affermando che “essere Turco ci induce a pensare, a sentire e ad agire come un Turco”: Era ben inteso il contrario nella realtà: a forza di scrivere e di proclamare senza tregua quale dovrebbe essere il modo di pensare, di sentire e di agire dei Turchi, lui stesso e gli altri membri della sua generazione erano interamente occupati a costruire o ad inventare l’identità turca (moderna). Per Ömer Seyfeddin e gli altri, tutto ciò andava di pari passo con la trasmissione, di quest’embrione iniziale di nazione turca, di una “memoria nazionale”, cioè un certo numero di criteri sul modo di coltivare il “ricordo” di questa nazione, il suo passato e al di sopra di tutto, i suoi nemici. Nelle definizioni della nazione proposte verso la fine del XIX° secolo, parallelamente alla lingua, al territorio e all’economia, “un passato comune” in parte ispirato ad Ernest Renan figura tra gli elementi più importanti. Questo elemento decisivo, intrinsecamente soggettivo è associato ad altri elementi più materialisti o almeno poco soggettive, cosicché, mentre l’aspetto innovatore dal punto di vista storico della nazione può essere generalmente 111 ammesso, la natura fantastica, inventata o virtuale del “passato comune” in questione e molto ampiamente sottostimata o dimenticata. Come mi sono sforzato di dimostrare a mia volta in altri scritti, succede che un gran numero di letterati e di dilettanti che compongono “la stretta minoranza intellettuale” della prima fase del nazionalismo definito da Hroch mettono in atto un riciclaggio selettivo degli elementi di una “memoria sociale” pre-moderna, frammentata o eterogenea, in una “memoria nazionale”, ormai incomparabilmente più densa e più omogenea; questa ultima è modellata, poi diffusa e acquista una statura egemonica grazie allo “spazio-memoria” del capitalismo della stampa. Inoltre, quando questo riciclaggio selettivo, fantastico e che richiama i sentimenti per convincere è praticato su una larga scala, veramente popolare la finzione e la poesia sono immancabilmente i media ideali. Nel caso di Ömer Seyfeddin ugualmente, questo tipo di costruzione di memoria nazionale fu realizzato non attraverso l’intermediazione dei saggi teorici, che egli indirizzava agli intellettuali suoi pari, ma prima di tutto dalla sua finzione popolare, attraverso un numero considerevole di novelle eccezionali, che non sono state mai superate dalla letteratura turca successiva e che la loro sete di rinomate non fu mai spenta. Da questo punto di vista, un certo numero di racconti particolarmente importanti trattano episodi dell’odiosa persecuzione subita dai Turchi o i musulmani in seguito alle disfatte ottomano-turche e dal ritratto dell’impero dal 1908 al 1918, durante i quali “noi” siamo le vittime e “loro”, gli scellerati, sono immancabilmente i Greci, i Bulgari e gli Armeni. Questi racconti, che parlano globalmente di odio, sono tanto più significativi se non sono pure invenzioni dell’immaginazione dell’autore ma che hanno le radici (in parte) nella realtà della situazione sul terreno; poiché in questo affare abbastanza classico di statuto di vittimismo volontariamente scelto e contestato, la scelta di Ömer Seyfeddin consiste nel mettere l’accento su tutte le atrocità perpetrate dagli “altri” al “nostro” incontro, senza mai andare ad indicare quello che nella stessa epoca “noi” facciamo, facevamo potremmo aver fatto agli “altri”. In ognuna di queste storie, ciò che risalta di più è che Ömer Seyfeddin non si accontenta di colmare di ingiurie “i nostri nemici”, ma egli esorta ugualmente i Turchi a agire e a non comportarsi peggio dei loro vicini. Dovrebbe sembrare che la prospettiva di Seyfeddin sia unica. Permettetemi di far osservare che alcuni dei primi poemi di Nazim Hikmet, scritti durante o in seguito di questo stesso sussulto nazionalista provocato dalle guerre balcaniche traboccano tutto così violentemente di formule vendicative, come “la mia eroica razza”, “i nostri nonni dalla barba bianca” o “le moschee ormai coronate di croci”, e che ne rendono la lettura molto difficile oggi (vedi, per esempio, Hikmet, 1987, pp.14,19). In seguito Nazim Hikmet, ben inteso, divenne non solamente comunista, ma ugualmente un grandissimo poeta, uno dei più grandi che il XX° secolo abbia avuto, e considerato da molti come l’equivalente di Pablo Neruda. Più di un quarto di secolo più tardi, egli scrisse nella prigione di Bursa mentre era incarcerato, un’opera notevole, I paesaggi umani del mio Paese. In questo gigantesco affresco epico appare un personaggio simpatico, Kartalli Kâzim, uomo onesto ardente comunista, di cui si è appreso che egli servì come giardiniere prima e dopo la guerra di indipendenza, durante la quale egli ha combattuto dignitosamente e coraggiosamente. Pertanto,questo stesso Kâzim ci è presentato con affetto e compassione da Nazim Hikmet come un uomo che possiede due grandi debolezze che non riesce a superarle: egli continua a credere in Dio e ad odiare i Bulgari, fino al punto che ogni volta che ascoltava un racconto infuocato da agitamenti dei rivoluzionari bulgari, egli litigava con tutti. Ma ritrovava subito un sano conforto: “ Siamo stati ingannati sia per gli atti commessi da questa nazione all’incontro delle donne incinte durante la guerra dei Balcani, diceva- Sia questi rivoluzionari devono appartenere ad un’altra tribù bulgara (op.cit.). E’ per Kazim un solo modo per farsi l’idea dell’internalizzazione proletaria e di vedersi spiegare dal suo partito che fino ad oggi gli basta considerare come suoi fratelli: E’ proprio lì il segno estremamente rivelatore dell’incidenza 112 degli anni 1912-1913 all’epoca e del modo in cui la demonologia iniziale del nazionalismo turco si era ampiamente diffusa. Arrivò, in seguito, la linea di rottura e il deliberato oblio ( o forse il semi-oblio o lo pseudooblio). Dopo la disfatta finale del corpo spedizioniere greco che aveva occupato l’Anatolia occidentale, si giunse alla proclamazione della Repubblica Turca, preceduta dall’abolizione del sultanato e seguita da quella del califfato, che aprì la via alla laicità. Considerata come il punto principale di un nuovo programma d’occidentalizzazione totale. E’ interessante costatare come la formula “raggiungere la civiltà contemporanea” ( muasir medeniyyet seviyesine ulaşmak) divenne uno slogan principale di questa campagna di modernizzazione chemalista. L’orientamento riaffermato dai chemalisti a partire della fine degli anni 1920 non mirava unicamente a colmare il ritardo del paese sul cerchio o la famiglia, un tempo odiato e invidiato contemporaneamente, delle nazioni “avanzate” o “civilizzate”,ma quant’anche a farne parte. Questo desiderio di esservi ammessi apparve nella sfera della diplomazia nazionale sotto la forma di uno slogan parallelo, “ Pace nel paese, pace nel mondo intero”, così come nel sostegno energico accordato alla Società delle nazioni e nel ruolo attivo che vi giocò la Turchia. Esso andò ugualmente di pari con la condanna esplicita del panturchismo e del turanismo degli unionisti, o d’altronde da ogni altra varietà d’irredentismo turco. Ankara s’adoperò a sconfessare tutte le rivendicazioni storiche possibili aldilà delle frontiere del Patto nazionale del 1920, preoccupata per impegnarsi in una politica precoce di non-allineamento, tentarono con cupidigia di stabilire un’Intesa balcanica fondata sul riconoscimento multilaterale della legittimità e dell’inviolabilità territoriale dell’insieme degli Stati esistenti della regione. In questo contesto, i Balcani divennero il regno dimenticato dalla memoria del nazionalismo (chemalista) turco a partire del 1930. Tuttavia, rimase una base d’appoggio, uno strato sedimentario tossico depositato nel corso di questo decennio micidiale delle “ultime guerre” del 1911-1922, che si estese come una placca tettonica dall’unionismo al chemalismo e trascinò al suo seguito, in un lento movimento sotterraneo, la demonologia iniziale del nazionalismo turco, quella dei “nostri nemici decretati i Greci, i Bulgari e gli Armeni” ( con l’aiuto e la complicità delle grandi potenze). In che modo questa epoca storica si sia evoluta, questo sostrato di memoria nazionale non è più tanto immortalato dalla letteratura, la quale sarebbe oggi incapace di riprodurre la vivacità brutale dell’odio di Ömer Seyfeddin, se non dalla storiografia e dai manuali. Dalla storiografia, non penso naturalmente in questo contesto alla sottigliezza moderata di un certo numero di universitari turchi, come Fikret Adanir (Bouchom), Engin Akarli (Brown), Şükrü Hanioğlu (Princeton ) o Stefan Yerasimos ( Paris), che si sono schierati essi stessi con la corrente dominante dell’erudizione storica così come, la si intende universalmente, ma alla storiografia nazionalista, di cui si può rapidamente constatare tre caratteristiche principali. In primo luogo, essa non è per niente diffusa, per il fatto che, da una parte, il riassetto dei Balcani in un dominio dimenticato della memoria e, dall’altra, la valorizzazione chemalista contemporaneamente all’episodio di Gallipoli, sopraggiunto all’epoca della prima guerra mondiale e della prima guerra di indipendenza del 1919-1922, a discapito di tutte le altre. In secondo luogo, degli scritti disponibili non trattano specificatamente il periodo 1912-1913, ma privilegiano generalmente un continuum diluito “lungo il XIX° secolo”, in cui le inattese aggressioni e senza un preavviso di dichiarazione di guerra ( come a Navarin nel 1827), il tradimento e l’abbandono (come nel 1877-1878 ) o la perdita di territori persino in caso di vittoria ( come si verificò il caso con la perdita di Creta dal 1896 al 1900) tendono a mischiarsi con gli anni 1911 e 1912-1913 in un’unica successione di disgrazie interminabili e di persecuzioni ingiuste, mentre le diverse clausole dei trattati di Londra (1830 ) Santo Stefano ( 1878), di nuovo Londra ( 1913), Moudros (1918), e Sèvres (1920) si fondono ugualmente in un solo ed unico metatesto del destino per tappe, ma pianificato prima, dell’uomo malato dell’Europa. 113 In terzo luogo, questa narrazione si rivela estremamente minuta, lineare e schematica; e trattata secondo un piano semplificato all’estremo, che si articola in un’opposizione tra, da una parte, le “loro” ambizioni, cupidigie, tradimenti e aggressioni, e, dall’altra parte, la “nostra” innocenza, le nostre buone intenzioni, i tradimenti che abbiamo subito e la nostra qualità di vittime. La storiografia nazionalista turca ipotizza dapprima l’epoca detta classica dei secoli XV° e XVI°, presentati come un periodo esente da conflitti dove l’armonia regnava tra lo Stato, i feudatari e i contadini; essa ci ha fornito in seguito una versione espurgata della fine dell’antico regime ottomano, che incarna secondo essa il trattamento giusto ed equo dell’insieme delle comunità etniche e religiose (millets) da parte di Porta. Tutte le diverse rivolte nazionali e sociale che scossero i Balcani sono giudicate talmente infondate e si ridussero a semplici banditismi o brigantaggi. I Turchi erano, sembra, perfettamente abilitati a procedere verso una rivoluzione unionista poi chemalista contro il dispotismo ottomano, mentre tutti gli altri movimenti rivoluzionari nazionalisti non insorgevano contro lo stesso potere imperiale, ma in un certo senso contro i Turchi in quanto tali. Il corollario di questo ragionamento è che “noi” eravamo totalmente in diritto di cercare di ristabilire l’ordine pubblico, mentre “essi” continuavano a perpetrare delle atrocità a nostro sfavore. Molte opere riportandosi specificamente sulle guerre balcaniche sono eccessivamente superficiali. Poiché sono state redatte per un pubblico esclusivamente nazionale e senza preoccuparsi per niente delle norme della ricerca internazionale, fino al punto che gli autori danno spesso l’impressione di essere così cinicamente disincantati dal loro soggetto che ne diventano incapaci di darsi la pena di proporre un argomento valido che vada al di là dei cliché dell’alterità nazionalista. Contemporaneamente alle condanne per la forma sono in uso, esiste ugualmente un altro sotto-insieme di fonti primarie e secondarie, che comprendono le memorie, i resoconti d’epoca delle diverse operazioni o campagne militari o le storie militari ufficiali comandate dal dipartimento di storia della guerra, posto sotto l’autorità dello stato-maggiore ad Ankara. Questi ultimi, notoriamente, sono uniformemente spenti, redatti non da storici, ma da soldati in pensione, e destinati a degli ufficiali dello stato-maggiore e non ad un pubblico, generale e intellettuale, essi brulicano a questo punto di dettagli tecnici che non giungono a dare una visione d’insieme del problema. Molte di queste storiografie sulle guerre balcaniche perdono la traccia della storicità del nazionalismo turco, il quale si trova naturalizzato e immortalato fino al punto di perderne a sua volta il suo concreto carattere storico. La comprensione del vero ruolo giocato dalle guerre balcaniche nella costruzione iniziale della memoria nazionale turca non è chiara (manca), così come le relazioni complesse tra l’unionismo e il chemalismo che ne scaturirono e che sfociarono in una cancellazione parziale. 114 Riferimenti Görgülü, Ismet, On Yillik Harbin Kadrosu 1912-1922, Türk Tarih Kurumu, Ankara, 1993. Hikmet, Nâzim, Memleketimden Insan Manzaralari, Adam Yayinlari, Istanbul, 1987. McCarty, Justin, Death and exile: The ethnic cleansing of Ottomans muslims, 1821-1922, The Darwin Press, 1995. McCarty, Justin, The ottomans peoples and the end of empire, Londra, Arnold, 2001. Moorehead, Alan, Gallipoli London, Ballantine Books, 1958. Overy, Richard (ed.), The times atlas of world history, Londra, Times Books, 1999. Steel, N., and Hart, P., Defeat at Gallipoli, Londra, Macmillan,1995. 115 116 14 Le guerre balcaniche (1912-1913): il punto di vista austriaco Karl KASER La situazione della monarchia austro-ungarica alla vigilia delle guerre balcaniche non era delle più semplici sul piano della strategia politica e militare. Da un lato, essa considerava i Balcani come la sua zona esclusiva d'influenza e come il solo spazio geografico e strategico dove poteva sperare di emulare le altre grandi potenze europee nelle loro imprese coloniali; dall’altro, la Russia era stata all'origine dell'alleanza militare degli Stati balcanici, cosa che impediva all'Austria ogni influenza su questa stessa alleanza che, invece, i suoi sogni di potenza coloniale richiedevano, e che rendeva i suoi obiettivi impossibili. Nello stesso tempo, il margine di manovra della monarchia era limitato da diversi motivi, relativamente alle sue risorse economiche e militari, ma soprattutto all'ordinamento politico internazionale del "concerto delle grandi potenze", la cui dissonanza andava sempre crescendo, in particolare, riguardo ai sistemi d'alleanza concorrenziali in vigore, che relegavano questo "concerto" ad una musica di fondo e privilegiavano il confronto. La politica estera austro-ungarica, nei limiti del possibile, si era essa stessa prefissata degli obiettivi realistici, ma di cui solo una realizzazione parziale fu possibile, poiché le guerre balcaniche generarono una dinamica che la monarchia non aveva previsto e che rimise in discussione la sua strategia coloniale nei Balcani, in particolare in relazione alla Serbia. Le autorità politiche e militari detentrici del potere decisionale trassero dalle guerre balcaniche la conclusione che la strategia di politica estera che mirava a consolidare un'influenza decisiva sui Paesi balcanici non poteva più essere attuata con mezzi politici, economici e diplomatici, tenuto conto delle alleanze esistenti. Furono, alla fine, coloro che, fin dalla vigilia delle guerre balcaniche, avevano imposto una guerra preventiva contro la Serbia per riprendere l'iniziativa politica nei Balcani, che ebbero la meglio. Il processo che portò a questa situazione sarà oggetto di una doppia analisi. La prima sarà dedicata alle prospettive ed agli obiettivi coloniali della monarchia austro-ungarica alla vigilia della prima guerra balcanica. La seconda esaminerà, in una prospettiva austro-ungherese, la situazione strategica precaria sorta dalle conseguenze delle due guerre balcaniche. Gli obiettivi colonialisti della monarchia degli Asburgo alla vigilia delle guerre balcaniche Studieremo, in questa parte, inizialmente la posizione della monarchia asburgica in seno alle grandi potenze europee. In un secondo tempo, ci soffermeremo sulla concezione colonialista della monarchia in relazione ai paesi balcanici in generale, infine sul contenuto concreto della politica estera austro-ungarica al termine della prima guerra balcanica. Dal 1815 al 1878 circa, il "concerto delle grandi potenze" composto dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Russia, dalla monarchia asburgica, come pure dalla Prussia/Germania, che l'Italia venne a completare nella seconda metà del XIX secolo, garantì la stabilità dell'Europa. Questa fu, tuttavia, rimessa in discussione dalla formazione dei nuovi Stati balcanici a spese dell’Impero ottomano e dai tentativi della Russia, dell'Austria e dell'Italia, in vista di esercitarvi una certa influenza. Questo sistema, che era stato per l'Europa una garanzia di pace e che volgeva gradualmente alla sua fine, era sempre più eclissato dalle due alleanze costituite dalle grandi potenze europee, che conducevano ad aumentare il rischio di guerra, nella misura in cui l'impegno dell'uno dei suoi partner in un conflitto minacciava di trascinare al suo seguito i suoi alleati nella guerra. Inoltre, questa politica internazionale d'alleanza delle grandi potenze si accompagnava ad una politica d'armamento e d'investimenti militari (Mann 1998: 185f, 192). Questo cambiamento avvenne in due fasi. 1) Dalla fine degli anni 1880 al 1902, esistevano due zone opposte, separate l’una dall'altra: la Triplice Alleanza (Austria-Ungheria, Germania ed Italia), che faceva fronte alla Doppia Alleanza (Francia e Russia). 2) Questi due blocchi di Stati 117 si consolidarono nel corso di una seconda fase: la crescita continua della Germania ed il crollo della Russia durante la guerra contro il Giappone comportarono un riorientamento della Granbretagna, che aderì in parte all'Intesa franco-russa (Mann 2001: 243). questi due decenni videro l'adozione di una "teoria del realismo" in materia di guerra e di pace. Essa si basava su un triplo postulato: (1) parlano; (2) (3) Gli Stati hanno degli "interessi" o quanto meno i loro "uomini di Stato" ne I conflitti di interessi tra Stati fanno parte della politica quotidiana; La guerra è un mezzo ordinario e piuttosto pericoloso per uno Stato per imporre o garantire i propri interessi. Così, potenzialmente, lo scoppio di una guerra, considerata uno strumento razionale per realizzare degli obiettivi nazionali, diventò sempre più probabile (Mann 2001: 238). Sotto quet’aspetto, i piccoli Stati dei Balcani erano da tutti i punti di vista uguali alle grandi potenze: le guerre balcaniche del 1912-1913 rientrarono pienamente in questo tipo di logica. E’ opportuno anche, in questo contesto, prendere in considerazione il dogma nazionale predominante che si impose nel corso della fine dello XIX secolo: la "geopolitica". Essa si basava principalmente sulla convinzione che lo Stato costituiva un organismo geografico. Si considerava, così, che Stati potenti e "vitali" avevano il desiderio "naturale" di estendere i propri territori con la colonizzazione e la conquista. I geopolitici distinguevano quattro interessi nazionali "vitali" per uno Stato: (1) l'interesse preponderante della difesa del territorio; (2) estendere il proprio controllo su altri territori attraverso un formalismo geopolitico, (costringendo altri Stati a concludere "patti d'amicizia" o rendendoli economicamente dipendenti); (3) costituire uno spazio coloniale d'influenza e di dominazione strategica; (4) garantire i primi tre punti ostentando una potenza economica e militare nell'ambito del sistema degli Stati (ibid.: 241). La lotta per l'egemonia, la razionalità della guerra, la geopolitica, gli interessi "oggettivi" delle grandi potenze e una sorta di costellazione di alleanze furono i fattori che trasformarono un conflitto regionale in una guerra mondiale. Così, un secolo, durante il quale l'Europa aveva goduto di periodi di pace relativamente lunghi, volgeva alla sua fine. Le guerre balcaniche furono un preludio alla prima guerra mondiale, nella misura in cui le loro conseguenze non tenevano sufficientemente conto, agli occhi dell'Austria-Ungheria, dei suoi interessi. Le possibilità per quest'ultima di realizzare le sue ambizioni nei Balcani si ridussero all'inizio dello XX secolo, quando il concerto delle grandi potenze si mostrò sempre più pronto ad abbandonare la sua politica d'ostacolo all'espansione dei piccoli e medi Stati balcanici a scapito dell'Impero ottomano, che rappresentava dopo secoli di ostilità uno dei principali alleati suscettibili di contrastare la "minaccia slava". La politica estera austro-ungarica mirava, pertanto, a mantenere fino a quando possibile l'esistenza dell'Impero ottomano, da un lato, per ridurre l'influenza della Russia nella regione e, dall'altro, per prevenire l'espansione degli Stati slavi dei Balcani (che rischiavano anche di diventare una fonte di problemi nei suoi affari interni). La monarchia entrò così in conflitto non soltanto con gli stessi Stati balcanici, ma anche con le altre grandi potenze che avevano già abbandonato l'Impero otomano o si apprestavano di distruggerlo. Gli storici più recenti ritengono che la doppia monarchia divenne quindi un peso per il sistema europeo delle potenze. Annettendo la Bosnia nel 1908, lasciava intendere la sua intenzione di inasprire la sua politica balcanica (Kos 1996:.10; williamson 1991: 42f; Bridge 1989:324f). Le relazioni che l'Austria-Ungheria manteneva con i suoi due partner della Triplice Alleanza riguardo a quella che veniva definita "la questione d'oriente", cioè la questione 118 dell'atteggiamento assunto nei confronti dell’Impero ottomano, ovvero del proprio smembramento, erano più o meno delicate a causa della loro divergenza d'interesse. La Germania, che non aveva alcuno scopo particolare sui Balcani, ma si concentrava sull'Anatolia, temeva di essere trascinata in un conflitto balcanico dalla politica estera della doppia monarchia. Si rifiutava pertanto di lasciare all'Austria il primo ruolo in materia di politica orientale (Mommsen 1991: 206). questa posizione era in contraddizione con la politica estera austriaca, che considerava i Balcani come sua sfera d'influenza esclusiva (Kos 1996: 42). La politica estera tedesca sosteneva tuttavia gli interessi enunciati dall'Austria alla vigilia della prima guerra balcanica, poiché non era possibile imporli con mezzi militari. L'atteggiamento dell'Italia era diverso: cercava di preservare lo status quo fino a quando quest'ultimo non evolveva in una direzione contraria ai suoi interessi. Per la politica estera italiana, gli obiettivi definiti dagli affari esteri austro-ungarici dovevano condurre, dopo la loro realizzazione nei Balcani, alla superiorità economica della monarchia asborgica a spese dell'economia italiana, in particolare al Monténégro e alle zone di popolamento albanese. Tuttavia, come l'Italia era fortemente impegnata nel Mare Egeo ed aveva rafforzato la sua presenza in Africa del Nord in seguito alla guerra che la vedeva opposta all'Impero ottomano sulle isole del Dodecaneso nel 1911-1912, non era in grado di svolgere un ruolo particolarmente attivo nella prima guerra balcanica(Kos 1996:45ft). Per quanto riguarda la doppia alleanza concorrente formata dalla Francia e dalla Russia, gli interessi di quest'ultima nei Balcani erano considerevoli. La politica estera russa cercava di consolidare gli Stati balcanici slav,i allo scopo, da un lato, di indebolire la doppia monarchia a lungo termine almeno e, dall'altro, rafforzare la sua posizione nella regione. Mentre l'influenza dell'Austria-Ungheria non cessava di ridursi fin dall'annessione della Bosnia nel 1908-1909, la Russia riuscì a portare gli Stati rivali dei Balcani, cioè il Montenegro, la Serbia, la Bulgaria e la Grecia, a concludere un’ alleanza militare contro l'Impero ottomano (Rossos 1981: 8fi). Le ambizioni coloniali dell'Austria-Ungheria erano divise tra due tipi di politica coloniale: cioè un esercizio diretto del potere e l'imposizione del suo sistema culturale ed amministrativo, come in Bosnia-Herzegovina; cioè la tentazione di uno sfruttamento delle risorse economiche del paese interessato, come ciò avrebbe dovuto essere realizzato per la Serbia, il rifiuto di quest'ultimo di cedere alle esigenze della doppia monarchia che hanno tuttavia comportato lo scoppio di una "guerra doganale" tra i due paesi (1904-1910). La politica coloniale adottata dalla monarchia asburgica nei Balcani si basava anche, essenzialmente, su una filosofia mercantile definita fin dallo XVIll secolo; secondo quest’ultima, occorreva sottoporre l'espansione dei paesi ad un principio di spartizione distributiva del potere, poiché le ricchezze del pianeta erano limitate e la loro ripartizione equivaleva ad un gioco a somma zero: qualsiasi aumento della ricchezza di un paese A era realizzato inevitabilmente a scapito di un paese B. Quest'idea era sostenuto dal legame ovvio che si stabiliva tra la ricchezza di un paese e la propria capacità di uscire vittoriosi dalle guerre (Mann 1991: 357). Si consideravano, così, le brevi ma intense guerre coloniali come operazioni razionali; il vincitore si impadroniva delle colonie ambite, mentre il perdente doveva accontentarsi di ciò che gli veniva lasciato. Questi conflitti offrivano per i decisionisti il vantaggio di non svolgersi sul territorio nazionale. Condurre una guerra vittoriosa non presentava pertanto alcun inconveniente nell'ambito dello Stato che l’ aveva vinta (eccetto un eventuale aumento della fiscalità o una mobilitazione generale) e probabilmente andava anche a vantaggio della maggioranza dei cittadini. Così, le classi abbienti si mostravano sempre più disposte a finanziare una politica estera aggressiva, che favoriva i loro interessi (ibid.: 358f). Il ruolo dello Stato consisteva, quindi, nei confronti di questa strategia, nell’aprire e proteggere i mercati a favore della sua borghesia intraprendente, con l'aiuto della sua potenza militare. La politica balcanica della monarchia asburgica non aveva altro scopo, anche nel corso della prima guerra balcanica, che di impedire la perdita del suo ruolo di grande potenza di fronte alla 119 Germania, che era riuscita a costruire un impero coloniale durante i decenni precedenti, ed all'Italia, che si preparava a fare lo stesso. Era chiaro che se l'Impero ottomano non fosse uscito vittorioso dalla prima guerra balcanica, questa avrebbe determinato, molto probabilmente, soltanto conseguenze negative per la monarchia asburgica, poiché la vittoria sarebbe andata in questo caso agli alleati slavi ed alla Grecia. Un intervento militare a favore dell’Impero ottomano avrebbe comportato una risposta della Russia e sarebbe stato d'altra parte respinto dagli alleati tedeschi ed italiani. Quindi appariva chiaramente agli occhi dei responsabili della politica estera della doppia monarchia, se non dell'insieme del comando dell'esercito, che un intervento militare non costituiva una alternativa seria (Bridge 1989: 323ff). La monarchia poteva, tuttavia, sperare in alcuni vantaggi, a titolo, per così dire, di compensazione per essersi astenuta dall’ intervenire. A tale riguardo, due obiettivi essenziali emersero dalle discussioni molteplici condotte dagli esperti consultati dal ministero degli esteri all'inizio dell'autunno 1912: a) garantirsi l'esercizio di un'influenza decisiva sul porto di Salonicco e sulla linea ferroviaria che vi conduce; b) impedire lo stabilirsi di ogni potenza ostile sulla riva orientale dell'Adriatico (nella zona di popolamento albanese), come l'Italia (e ciò era poco probabile) o la Serbia (e questo lo era maggiormente). Si trattava, insomma, a prima vista, di esigenze principalmente commerciali ed economiche, ma la cui realizzazione passava obbligatoriamente attraverso un'azione politica (Kos 1996: 231). Non c’è alcun dubbio che questi due obiettivi venissero considerati come tappe preliminari, in attesa di raggiungere lo scopo supremo della strategia militare e coloniale: la dominazione dei Balcani. Grande perdente della politica coloniale delle grandi potenze europee, e dunque molto in ritardo rispetto ad esse sul piano economico, l'Austria-Ungheria disponeva di risorse economiche troppo limitate per conservare il suo posto fra di loro a medio termine (Kennedy 1989: 330ft). Quando nell'autunno 1912 l'escalation delle tensioni rese apparentemente inevitabile una guerra dell'alleanza balcanica contro l'Impero ottomano, il ministero austriaco degli Esteri considerò tre grandi evoluzioni possibili del conflitto dopo il suo inizio: il mantenimento dello status quo in caso di vittoria dell'Impero ottomano; la definizione di obiettivi realistici in caso di vittoria dell'alleanza balcanica; l'accettazione dell'esistenza di sfere d'influenza degli Stati membri dell'alleanza balcanica, associata ad un mantenimento parziale del status quo (Kos 1996: 19). Trattandosi della seconda opzione, non sembrava ragionevole sperare di impedire agli Stati vittoriosi di spartirsi i possedimenti europei dell'Impero ottomano; nessuno, ad eccezione di alcuni dignitari dell'esercito, prevedeva (ancora) in questo caso un intervento militare. Nella fattispecie, gli obiettivi strategici principali furono definiti come segue: (1) creare un'Albania autonoma o indipendente; (2) garantire un accesso a Salonicco. Vi si prevedevano la sistemazione di un porto franco e, possibilmente, la concessione di uno statuto d'autonomia alla regione formata dalla città e dalla penisola di Calcidica, messa sotto un'amministrazione internazionale di qualunque natura; (3) evitare che condizioni d'acquisto inaccettabili siano imposte al monopolio austriaco del tabacco nella zona di produzione situata intorno alla città tracia di Drama o al porto di Kavalla (Kos 1996: 20f). L'Austria-Ungheria si aspettava, così, di conservare il suo ruolo decisivo di grande potenza nei Balcani. 120 L'Albania La creazione di un’Albania autonoma o possibilmente indipendente, che avrebbe permesso di ottenere l'influenza risoluta dell'Impero asburgico, era diretta contro la Serbia, che desiderava disporre di un accesso all'Adriatico indipendente dal Montenegro, e contro l'Italia, che desiderava mettere questo stesso Adriatico nella zona d'influenza italiana. L'Austria-Ungheria giudicava indispensabile mantenere la riva orientale dell'Adriatico sotto il suo controllo per non disturbare la circolazione delle sue navi mercantili. Benché la questione albanese fosse stata giudicata fuori luogo da Bismarck in occasione del Congresso di Berlino nel 1878, le regioni di popolamento albanese costituirono gradualmente nel corso dei decenni seguenti un fattore di politica internazionale, in particolare per l'AustriaUngheria, l'Italia e la Russia, le cui sfere di interesse si sovrapponevano sull'Albania. Più semplicemente, gli interessi di queste potenze europee si potrebbero riassumere come segue: la Russia si sforzava di sostenere l'espansione territoriale degli Stati slavi vicini a spese delle regioni albanesi (e questo rafforzava nello stesso tempo indirettamente la sua potenza). L'Italia ambiva a controllare le regioni popolate da Albanesi per controbilanciare l'amministrazione della Bosnia-Herzegovina affidata nel 1878 all'Austria-Ungheria. Quest'ultima faceva il possibile per ottenere l'indipendenza delle regioni albanesi più estese per fermare l'espansione di due Stati balcanici slavi, la Bulgaria e la Serbia, in direzione del litorale adriatico. Per i loro diversi interessi e per l'alleanza che erano suscettibili di concludere, due potenze influenti, l'Italia e l'Austria-Ungheria, si mostravano, quindi, favorevoli all'indipendenza delle regioni albanesi, quale che fosse la forma. Una rivalità crescente si instaurò tra questi due Paesi a questo proposito, senza tuttavia sfociare apertamente in un conflitto . Questo ritegno può spiegarsi con il fatto che nessuno dei due Stati cattolici ambiva, all'epoca, a controllare direttamente regioni albanesi nelle quali essi avrebbero dovuto far fronte alle difficoltà legate all'esistenza di una popolazione a maggioranza musulmana. Questa situazione avrebbe certamente posto problemi all'Austria-Ungheria in particolare, poiché era messa a confronto dal 1878 con i conflitti che opponevano le popolazioni musulmane e cristiane in BosniaErzegovina. La prospettiva del declino della potenza ottomana in Europa aveva portato fin dal 1876 i due paesi a preconizzare un'azione comune riguardo alle regioni albanesi; in caso di crollo dell'Impero ottomano, avevano deciso di sostenere la concessione di uno statuto d'autonomia o d'indipendenza a favore di queste. L'alleanza diplomatica e militare stabilita tra la Germania, l'Austria-Ungheria e l'Italia a partire dal 1882 non lasciava grandi margini di manovra ai due Stati sulla questione albanese. Ma nel 1887, in occasione dei negoziati sull’estensione della suddetta alleanza, l'Italia era riuscita ad imporre all'Austria-Ungheria la sua esigenza di compensazione in caso di modifica del status quo nei Balcani a favore di quest'ultima. Esisteva dunque implicitamente per l'Italia un diritto a compensazione a proposito delle regioni albanesi. Nel 1897, i rappresentanti dei due Stati decisero a Monza di mantenere fino a quando possibile la stabilità della situazione nei Balcani. Se una modifica territoriale si fosse prodotta tuttavia, dovevano decidere insieme un'azione comune. Quest'accordo implicava che i due Stati sostenessero la dominazione ottomana sulle regioni albanesi. Ma in caso di evoluzione della situazione, i due Stati si sarebbero sforzati di raggiungere un accordo sul futuro statuto delle suddette regioni, cosa che non escludeva la possibilità della creazione di una Albania indipendente (Gostentschnigg 1996: 62f). L'Italia e l'Austria-Ungheria si dedicarono, tuttavia, nello stesso tempo ad un'azione concorrenziale di seduzione degli Albanesi sul piano culturale. Ma essa si limitò e doveva limitarsi alla popolazione cattolica della parte settentrionale della zona di popolamento albanese. Questa popolazione cattolica doveva esercitare il ruolo di trampolino per le altre regioni albanesi. I metodi usati dai due Stati erano abbastanza simili: costruire e/o finanziare scuole, influire sulla nomina dei membri del clero, costruire chiese ed offrire alla popolazione altri 121 regali più importanti o più modesti che si supponeva la appagassero. L'Austria-Ungheria era in grado di mettere in vista il suo ruolo ufficiale di potenza protettrice delle popolazioni cattoliche (ciò che venne definito “protettorato culturale"). Questa pratica generò l'afflusso annuale di un aiuto finanziario considerevole nelle regioni albanesi. Nell'insieme, questa politica di sovvenzione rappresentò, tuttavia, una concezione o uno strumento estremamente limitato della politica estera, incapace di fare evolvere la situazione in una qualsiasi direzione (Gostentschnigg 1996: 102-113). Era chiaro che i cambiamenti decisivi dovevano provenire dall'esterno. Molte ribellioni della popolazione albanese non erano riuscite a compromettere realmente la sovranità ottomana su queste regioni. Si trattava di solito di sommosse locali motivate da esigenze molto specifiche, come la resistenza all'aumento della fiscalità o al dispotismo di qualche funzionario ottomano. Nel 1909-1910, ad esempio, il Kosovo fu, a varie riprese, scosso da sommosse causate dall'aumento delle imposte o dal reclutamento di nuovi soldati. Nel corso dell'anno successivo, le regioni albanesi del nord si sollevarono in maniera massiccia e trasmisero ai rappresentanti delle grandi potenze europee accreditati nella capitale del Montenegro un memorandum che esigeva la concessione di uno statuto d'autonomia in seno all'Impero ottomano, ma non l'indipendenza; la componente musulmana della popolazione agì da parte sua con prudenza. Una situazione simile si riprodusse nel 1912, che sfociò ancora una volta nella rivendicazione di un'autonomia. Così, globalmente, la monarchia asburgica era capace di svolgere il ruolo dominante che considerava come un interesse vitale, creando una regione amministrativa albanese autonoma in seno all'Impero ottomano o uno Stato albanese indipendente. La rivalità con l'Italia sulla questione non poneva alcun problema, poiché il matrimonio dell'erede al trono e futuro re Vittorio Emanuele I con la più giovane figlia del re Nicola I del Montenegro offriva un'altra opzione d'ancoraggio territoriale nell’ Adriatico orientale. Salonicco Fin dal 1870, l'Austria-Ungheria considerava Salonicco come la porta più importante del commercio mondiale austro--ungherese ("il commercio di Oriente”), questa posizione deve intendersi nel contesto della costruzione del canale di Suez. Due scuole si opponevano sulla questione del trasporto ottimale delle merci, cioè del modo più ragionevole di trasporto.: (a) Aumentare il trasporto marittimo delle merci via Trieste, secondo un tragitto più conveniente ma più lungo. L'inconveniente strategico di quest'opzione riguardava lo stretto di Otranto, che poteva essere bloccato dall'Italia se essa riusciva a a stabilirsi nelle regioni albanesi meridionali. (b) Aumentare il trasporto ferroviario via porto di Salonicco, più caro ma più rapido. Fino alla prima guerra balcanica, quest'opzione presentava il vantaggio, in caso di realizzazione della linea ferroviaria detta "linea del Sandjak", di attraversare esclusivamente territori sotto controllo austro--ungherese ed ottomano. La tratta Tessalonica-Mitrovica (Kosovska Mitrovica), costruita dalla Società delle "ferrovie d'Oriente" (sempre finanziata all'epoca da capitali tedeschi), fu aperta nel 1874; ancora non era tuttavia collegata alla rete ferroviaria austriaca in Bosnia-Erzegovina. Il progetto della "linea del Sandjak" doveva permettere il collegamento alla rete ferroviaria bosniaca, sistemata tuttavia completamente secondo un sistema di via stretta. La realizzazione della linea della valle della Morava sarebbe stata più economica, in particolare perché la monarchia aveva nel 1878 acquisito diritti considerevoli sulla rete ferroviaria serba. La linea ferroviaria del Sandjak non rappresentò più un vantaggio al termine della prima guerra balcanica, poiché questa stessa regione era diventata serba (Kos 1996: 190-193; Riedl1908: 10-13). 122 La politica estera austro--ungarica desiderava fare di Salonicco un porto franco, che avrebbe accordato alcuni privilegi al commercio austro--Ungherese e la cui amministrazione sarebbe stata affidata ad un imprenditore austriaco o ungherese (Kos 1996: 31). Kavalla Il tabacco coltivato nella regione tracia di Drama, situata a nord della città, era esportato dal porto di Kavalla. In materia di trasporto, in particolare, la regione non era sufficientemente sviluppata; l’unico elemento d’interesse per il porto di esportazione di Kavalla era rappresentato dalle condizioni climatiche della città e dei suoi dintorni, particolarmente favorevoli allo stoccaggio del tabacco. Contrariamente al porto concorrente di Salonicco, Kavalla era climaticamente protetta a nord e non era, quindi, esposta ai suoi venti freddi. Il"vardarac" poteva infatti fortemente alterare la qualità del tabacco nel porto di Salonicco. Quasi 150 piccole e grandi società, principalmente austriache, si erano stabilite fin dall'epoca ottomana e si fornivano in tabacco presso la direzione dei tabacchi ottomani. La località di Kavalla non era tuttavia essenziale all'industria austriaca del tabacco, poiché il 63% delle sue necessità potevano essere soddisfatte dalla propria produzione (Kos 1996: 218:ff). Possiamo così concludere che l'Austria-Ungheria attendeva le conseguenze della prima guerra balcanica con una prospettiva di successo estremamente limitata, poiché la speranza del mantenimento dell'Impero ottomano in Europa era svanita e l'aumento della potenza degli Stati ostili all'alleanza balcanica diventava inquietante. Con chi l'Austria-Ungheria doveva o poteva formare una coalizione per raggiungere gli obiettivi d'altra parte poco ambiziosi che si era prefissata? La prima guerra balcanica ed i nuovi dati Le conseguenze negative della guerra dei Balcani sulla posizione della doppia monarchia condussero il ministero austro--ungarico degli Esteri a lanciare una controffensiva strategica: si trattava di rompere l'alleanza militare ricongiungendo uno dei suoi membri (Kos 1996: 121). Era importante innanzitutto avvicinare la Serbia e il Montenegro, quindi la Bulgaria. Questo tentativo sembrò facilitato dal fatto che all'inizio dell'anno 1913 l'alleanza balcanica era evidentemente sul punto di frantumarsi a causa dell'incapacità dei suoi membri, la Bulgaria, la Serbia e la Grecia, ad intendersi sulla spartizione della Macedonia. Fin dalla fine del mese d'ottobre 1912, quando la sconfitta dell'Impero ottomano fu evidente, Vienna intravide fondamentalmente tre mezzi per raggiungere i suoi obiettivi economici e politici: (1) un'unione doganale fondata su accordi economici di una portata considerevole con la Serbia e/o il Montenegro (2) un'unione doganale con diversi Stati dei Balcani o con gli Stati dell'Unione balcanica (3) un accordo di cooperazione con la Bulgaria La doppia monarchia tentò di attuare queste opzioni senza coordinare la sua azione con le altre grandi potenze, poiché considerava la regione come la sua sfera d'influenza esclusiva (Giesche 1932: 16ft). Trattandosi di un'unione doganale con la Serbia e/o il Montenegro, gli accordi commerciali conclusi abitualmente a quel tempo comprendevano una clausola della nazione più favorita che non bastava a garantire ad un partner commerciale una posizione privilegiata sul mercato della parte contraente. Un'unione doganale, cioè l'abolizione delle frontiere doganali tra due paesi poteva rivelarsi uno strumento più efficace: avrebbe garantito le vendite di merci austro-ungheresi alla/e parte/i contraente/i e l'importazione a buon mercato di prodotti agricoli prodotti da quest'ultimi. Fin dall’inizio, naturalmente, la monarchia asburgica pensava anche a mettere in tal modo la Serbia sotto la sua dipendenza. Era almeno il progetto del Ministero degli Esteri; 123 ma il ministero delle Imposte e delle Finanze respinse definitivamente questo progetto d'unione doganale, poiché risultava difficile da realizzare per ragioni tecniche e perché era impossibile, secondo lui, mettere in ginocchio un paese come la Serbia con questo mezzo, come aveva sufficientemente dimostrato la "guerra doganale" intrapresa da questi due paesi tra il 1904 ed il 1910, in seguito alla questione dell'esportazione del maiale serbo verso la doppia monarchia (Kos 1996: 53). La Serbia e la questione del suo accesso all'Adriatico La guerra doganale con l'Austria-Ungheria evocata precedentemente aveva condotto alla riorganizzazione e alla diversificazione delle esportazioni serbe (dal bestiame e dagli animali da cortile fino ai cereali e ai prodotti di trasformazione). L’economia di esportazione serba dipendeva dalla sua possibilità di accedere al porto di Salonicco, cosa che restava un’opzione aleatoria, poiché l’Impero ottomano ne aveva a più riprese proibito l’accesso. Quindi il progetto di disporre del proprio porto nelle regioni albanesi del nord e del centro vide il giorno (Vojvodic 1987: 247). Esso prevedeva l'apertura di un corridoio da quaranta a cinquanta chilometri di larghezza da Mrdare a Shengjin (al Nord-ovest di Lezha) o Durrës, via Pristina e Djakova. L'esigenza di un porto serbo sull'Adriatico risaliva al XIX secolo e doveva garantire l'indipendenza del commercio serbo riguardo all'estero. Questa misura doveva accompagnarsi ad una linea ferroviaria Danubio-Adriatica che attraversava il sud della Serbia (Kos 1996:.62). La realizzazione di questo progetto avrebbe richiesto investimenti considerevoli, poiché i due porti previsti offrivano soltanto una debole bretella d'acqua a causa del loro forte insabbiamento (Kos 1996: 64). Sembrava abbastanza evidente che il riavvicinamento economico della Serbia e dell'AustriaUngheria dipendeva dalla condizione preliminare dell'accettazione della costruzione di un porto sull'Adriatico (Kos 1996: 59). ma era altrettanto chiaro d'altra parte che la doppia monarchia non poteva acconsentirvi. Questa soluzione infatti avrebbe in primo luogo compromesso la formazione di un’Albania autonoma o indipendente e, in secondo luogo, avrebbe presentato il rischio di un'alleanza possibile italo-serba, cosa che avrebbe avuto per conseguenza di permettere all'Italia di stabilirsi nei territori albanesi (meridionali) e controllare così lo stretto di Otranto: l'accesso dell'Austria-Ungheria al commercio mondiale sarebbe stato colpito finché Trieste fosse rimasta il suo primo porto d'esportazione. Così, risultava difficile conciliare gli interessi dei due paesi. La politica austro--ungarica mirava, da un lato, a forzare la Serbia a formare un'unione doganale impedendole definitivamente di possedere un porto sull'Adriatico e, dall'altro, a prendere il controllo di Salonicco per privare la Serbia del suo porto d'esportazione (Kos 1996: 69f). Ma il governo serbo si oppose con fermezza a questa politica. Il ministero austro--ungarico degli Esteri propose finalmente alla Serbia un compromesso nel quale l'unione doganale era sostituita da solidi rapporti commerciali e l'utilizzo da parte della Serbia di un porto sul Mare Egeo (Kavalla, eventualmente Salonicco). Questa soluzione sembrava presentare per la monarchia il vantaggio di offrire alla Serbia una possibilità d'accesso ad un porto sul Mare Egeo grazie al solo sostegno diplomatico dell'AustriaUngheria. La Serbia inoltre si sarebbe disinteressata dell'Adriatico e sarebbe entrata in conflitto con la Grecia e la Bulgaria, cosa che poteva comportare la scissione dell'alleanza balcanica (Kas 1996:.81). Ma questo compromesso avrebbe imposto la realizzazione di due condizioni: la cessione di Salonicco alla Bulgaria ed un trattato d'amicizia tra quest'ultima e la monarchia austro--ungarica, che avrebbe allora controllato due porti. Il rifiuto definitivo di quest'offerta da parte del governo di Nikola Pasic dispensò l'Austria dall’ avanzare su questa via (Kos 1996: 82). D'altra parte, l'esigenza serba di un porto sull'Adriatico non era neanche sostenuta dalla Russia, poiché quest'ultima riteneva che la cosa non meritasse il rischio di una guerra con la monarchia asburgica. Così, divenne impossibile alla Serbia concretizzare quest'idea, ciò che confermò anche la conferenza degli ambasciatori di Londra in occasione della quale fu decisa la creazione di un’Albania indipendente e territorialmente coerente (Kos 1996: 90f; Bridge1989: 326). D’altra parte, quest'evoluzione metteva un termine ai tentativi austro--ungarici di colonizzazione 124 pacifica della Serbia. Il progetto, d'altra parte vago, d'unione doganale con diversi Stati balcanici fu in realtà abbandonato; in ogni caso, la sua realizzazione avrebbe imposto di superare la resistenza dei suoi due alleati: l'Italia temeva infatti di perdere la sua influenza economica nella regione, poiché la doppia monarchia sarebbe in tal modo stata in grado di garantirsi il monopolio personale; la Germania temeva da parte sua di essere trascinata in questo modo nei conflitti balcanici che ne fossero scaturiti (Kos 1996: 84). Il solo successo riportato dalla monarchia asburgica fu quello della creazione di uno Stato albanese indipendente. I territori albanesi erano stati occupati nel corso della prima guerra dei Balcani dall'alleanza balcanica. Nel sud, l'esercito greco teneva il nord dell'Epiro, la Serbia occupava il Kosovo, il nord della Macedonia e l'Albania centrale, mentre il Montenegro controllava la città di Shkodra ed i suoi dintorni. Dopo avere consultato il conte Berchtold, ministro austro-ungherese degli Esteri, Ismail Kemal Bey, uno dei dirigenti albanesi in esilio, si recò a Durrës quindi a Vlora, le sole città importanti a non essere occupate da truppe straniere. Un governo provvisorio rapidamente formato proclamò l'indipendenza dell'Albania il 28 novembre 1912. Tutto il resto era ormai di competenza dei negoziati internazionali condotti dagli ambasciatori delle grandi potenze europee accreditati a Londra. Mentre la spartizione della Macedonia causò lo screzio dei vecchi alleati e lo scoppio della seconda guerra balcanica, i negoziati iniziarono sulla questione delle frontiere albanesi. Fra tutte le parti del negoziato, l'Austria-Ungheria sostenne con più determinazione una soluzione quanto più generosa possibile per l'Albania. Lo Stato più risolutamente opposto a questo progetto era la Russia. La questione di Shkodra fu delicata, poiché la città era occupata dalle truppe montenegrine. L'Austria-Ungheria mise tutto il suo peso sulla bilancia e riuscì ad averla vinta. Ma fu incapace di imporre il suo punto di vista sulla frontiera orientale dell'Albania. Pertanto, la totalità del Kosovo e la Macedonia occidentale ritornarono alla Serbia (Gostentschnigg 1996: 74-77). La controversia sulla frontiera meridionale con la Grecia sfociò in un accordo soltanto nella primavera seguente. Benché la creazione dell'Albania fosse indubbiamente un successo per la diplomazia austro-ungarica, rimase tuttavia relativo, poiché il giovane Stato affondò immediatamente in una crisi duratura. La questione dell'alleanza con la Bulgaria A causa del fallimento di qualsiasi forma d'alleanza con la Serbia, non restava alla politica estera austro-ungarica che l'ultima delle tre opzioni strategiche che aveva previsto, cioè un'alleanza con la Bulgaria; si trattava di un argomento delicato, in particolare perché la Romania era alleata della Triplice Alleanza e manteneva apertamente una controversia territoriale con la Bulgaria rivendicando la Dobroudja meridionale e la città di Silistra. D'altra parte, la Bulgaria era pronta ad accettare l'esistenza di uno Stato albanese e la doppia monarchia, da parte sua, era più favorevole a una Grande Bulgaria che ad una Grande Serbia. La Bulgaria avrebbe anche acconsentito all'attribuzione dello statuto di porto franco a Salonicco, come pure alla costruzione di una linea ferroviaria che avrebbe collegato Kavalla (Kos 1996:.122; 130); essa diede tuttavia il suo accordo a proposito di Salonicco soltanto dopo che la città fu assediata dall'esercito greco. La convergenza rumeno-bulgara costituiva il presupposto indispensabile per qualsiasi alleanza tra la monarchia asburgica e la Bulgaria. Quest'ultima accettò di avviare negoziati con l'AustriaUngheria, nonostante gli aspetti economici negativi che si aspettava, in particolare perché questa era la sola grande potenza da prometterle una compensazione per la cessione di Silîstra alla Romania: l'attribuzione di Salonicco. La Russia infatti si era pronunciata prima per la conservazione del porto da parte della Grecia. Inoltre, la monarchia sosteneva anche le esigenze bulgare su Ohrid e Bitola, a scapito della Serbia (Kos 1996: 159). Nel caso in cui Salonicco fosse messa sotto amministrazione bulgara, la Bulgaria avrebbe accordato all'Austria-Ungheria le concessioni economiche seguenti: 125 - la costituzione di una zona portuale franca per il commercio di transito l'autorizzazione per l'Austria-Ungheria di costruire nel porto depositi giganteschi e capannoni destinati a fungere da depositi provvisori la partecipazione dell'Austria-Ungheria all'amministrazione del porto sotto una forma adeguata (Kos 1996: 160). La Bulgaria e la Grecia si erano disputate il controllo di Salonicco fin dalla sua occupazione da parte delle truppe greche, all'inizio del mese di novembre. In fondo molto poco interessava alla doppia monarchia che la città appartenesse all'uno o all'altro di questi due Stati, purchè si concretizzasse il suo progetto di accesso al porto. Entrambi erano nel complesso pronti ad accordare uno statuto particolare all'Austria-Ungheria. Ma quest'ultima si pronunciò a favore della Bulgaria, per concludere con essa l'alleanza alla quale aspirava e che esigeva, da un lato, la cessione di Sîlistra alla Romania e, dall'altro, la concessione di una compensazione alla Bulgaria (Kos 1996: 135ft). La politica estera austro-ungarica riuscì a creare sulla questione una certa dinamica verso la fine del mese di gennaio 1913, nel momento in cui l'alleanza balcanica minacciava di dissolversi. Il governo austro-ungarico decise di acquistare dalla Deutsche Bank la Società delle ferrovie d'Oriente, che gestiva anche la linea ferroviaria Salonicco-Mitrovica di cui deteneva la maggioranza del capitale. La monarchia sperava in questo modo di sottolineare il suo impegno nella questione di Salonicco (Kos 1996: 151f). La diplomazia austro-ungarica non riuscì tuttavia ad imporre successivamente il suo punto di vista su Salonicco. Il 31 marzo 1913 si aprì a Sanpietroburgo, in presenza dei rappresentanti delle grandi potenze e sotto la presidenza del ministero russo degli Esteri, la conferenza degli ambasciatori che mirava al regolamento della controversia territoriale che opponeva la Romania alla Bulgaria. Fin dai primi negoziati, i rappresentanti della Triplice Alleanza si mostrarono incapaci di raggiungere un accordo sull'attribuzione di Salonicco alla Bulgaria in compensazione della perdita di Silistra, poiché l'Italia e la Germania espressero la loro opposizione a quest'idea. Inoltre, la Russia e la Francia, a fianco della Germania, rifiutarono categoricamente la proposta austro-ungherese, la doppia monarchia fu quindi costretta ad abbandonare i suoi progetti economici e politici a proposito di Salonicco (Tukin 1936: 164ff). La conferenza di Sanpietroburgo fu una cocente sconfitta per l'Austria. La Bulgaria non otteneva Salonicco a titolo di compensazione, mentre la città era ora attribuita così alla Grecia, cosa che avrebbe permesso alla Serbia, che aveva nel frattempo concluso un accordo con la Grecia, di beneficiare di un accesso a questo stesso porto. Fu chiaro fin da allora che il governo greco non avrebbe accordato all'Austria-Ungheria condizioni d'accesso al porto di Salonicco più favorevoli di quelle della Serbia (Ebel 1939: 199ff). I tentativi austro-ungheresi di fare della doppia monarchia una grande potenza europea, decisiva nei Balcani con mezzi diplomatici, erano così falliti in seguito alla prima guerra balcanica. Nonostante il successo che rappresentava per essa la creazione di un’Albania indipendente, non era riuscita a controllare la Serbia, nè con la sua dominazione economica nè attraverso un'alleanza con la Bulgaria. Per la prima volta, il ministro austro-ungarico degli Esteri previde seriamente di regolare la questione serba con il ricorso a una soluzione violenta (militare) (Tukin 1936: 164ff). La situazione strategica fondamentale della monarchia asburgica peggiorò sotto due aspetti al termine della seconda guerra balcanica: in primo luogo, la Serbia ne uscì rafforzata; in secondo luogo, la Bulgaria perse il suo accesso al Mare Egeo o piuttosto le regioni tracie produttrici di tabacco ed il porto di Kavalla. L'Austria-Ungheria aveva interesse che la Bulgaria conservasse la regione di Kavalla che occupava dalla prima guerra balcanica, non tanto per la sua importanza economica (l'industria di sigarette) abbastanza marginale, quanto per ragioni politiche (fare entrare contro qualsiasi attesa la Bulgaria nel suo campo) (Kos 1996: 221f). Durante la Conferenza di pace di Bucarest nell'agosto 1913, la Russia e l'Austria-Ungheria iniziarono ad entrare in conflitto sulla questione, poiché la Grecia, sostenuta dalla Russia, non 126 intendeva abbandonare le province tracie che aveva conquistato nel corso della seconda guerra balcanica. Agli occhi dell'opinione pubblica, la Conferenza di Bucarest apparve come una disgrazia per l'Austria-Ungheria (Kos 1996: 224f; Gostentschnigg 1996: 74). Conclusioni L'Austria-Ungheria deve essere considerata come la grande perdente, nell'ambito delle grandi potenze, della crisi dei Balcani del 1912-1913, benché la Russia non sia stata capace di imporsi in modo preponderante. Ma mentre i Balcani rappresentavano per la Russia soltanto un teatro di operazioni fra le altre, in cui soddisfare le proprie ambizioni espansionistiche, essi offrivano all'Austria la sola possibilità d'espansione e le conseguenze negative delle guerre balcaniche furono tanto più importanti. Da un lato essa aveva contribuito con successo a rompere l'alleanza balcanica ed era riuscita a consolidare la sua posizione sull'Adriatico; dall’altro, non era riuscita né a ricongiungere la Bulgaria al suo fianco, né ad eliminare o neutralizzare la Serbia, al contrario: la Serbia usciva rafforzata dalla crisi ed il piccolo Stato era diventato una potenza media rispettabile. Così, sia sul piano politico che su quello economico, la monarchia era lungi dall’avere raggiunto gli obiettivi che si era prefissata. Questo fallimento finì col mettere davanti l'opzione militare per la realizzazione dei progetti colonialisti. Fin dalla vigilia della crisi balcanica, gli ufficiali superiori e l'erede al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando, si erano pronunciati a favore di una guerra preventiva contro la Serbia (Hantsch 1963: 360ff). Al termine della prima guerra balcanica, la subordinazione economica della Serbia sembrò improbabile per l'Austria-Ungheria e la politica estera di quest'ultima si orientò sempre più verso un confronto diretto con la Serbia, mentre il ministro degli Esteri, Berchtold, indietreggiava ancora, all'epoca, davanti alle conseguenze di una tale decisione, che avrebbe probabilmente significato l'entrata in guerra della Russia. Inoltre, i partner della Triplice Alleanza erano contrari ad un impegno militare (Kos 1996: 202). Una volta conclusa la seconda guerra balcanica, Berchtold si chiese se non sarebbe stato preferibile impegnarsi militarmente a fianco della Bulgaria contro la Serbia. Egli non escluse più ormai l'idea di una guerra preventiva (Kos 1996: 229) e giunse alla conclusione che era meglio esigere il ritiro della Serbia da alcune regioni, allo scopo di provocare un'escalation che avrebbe permesso il ricorso ad una soluzione militare. Questo cambiamento d'atteggiamento è anche da mettere in relazione con, da un lato, il ravvicinamento che prendeva forma sempre più tra la Romania, partner della Triplice Alleanza, e le potenze ostili dell'Intesa e, d'altra parte, con l'alleanza ora evidente tra la Grecia e la Serbia (Kos 1996: 231). Il conflitto che oppone l'Austria-Ungheria alla Serbia aveva raggiunto dopo la seconda guerra balcanica un tale parossismo che rendeva a lungo termine ogni soluzione pacifica impossibile per l’uno o l'altro Stato, poiché ciascuno tentava di privare l'altro dei mezzi indispensabili alla sua esistenza. Una coesistenza pacifica era possibile per l'Austria soltanto sulla base di una relazione coloniale, mentre supponeva per la Serbia l'abbandono da parte dell'Austria del suo atteggiamento di grande potenza. Davanti a quest'escalation conflittuale, i responsabili politici favorevoli ad una conciliazione vedevano le loro possibilità di farsi intendere ridursi di giorno in giorno. Mentre la Serbia e il Montenegro perseguivano una politica di "piccoli colpi di pungolo" nei confronti dell'Austria-Ungheria, le élite politiche e militari della monarchia asburgica pensavano sempre più a cogliere la minima occasione per scatenare un conflitto militare (Kos 1996: 235). l'assassinio dell'erede al trono, Francesco-Ferdinando, a Sarajevo, il 28 giugno 1914, fornì il pretesto di una soluzione militare. 127 Riferimenti Bridge, Francis «Ôsterreich (-Ungarn) unter den Groûmâehten», Die Habsburgermonarchie 1848-1918, éd. Adam Wandruszka et Peter Urbanitsch, vol. VI: Die Habsburgermonarchie im System der intemationalen Beziehungen, vol. 1, Vienne, 1989, 196-373. Ebel, Ernst: Rumânien und die Mittelmûchte von der russisch-tûrkischen Krise 1877/78 bis zum Bukarester Frieden vom 10. 1913, Berlino 1939. Giesche, Richard: Der serbische Zugang zum Meer und die europâische Krise 1912 (Beitrâge zur Geschichte der nachbismarkischen Zeit und des Weltkriegs, Quaderno 18), Stuttgart 1932. 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Williamson, S.R.: Austria-Hungary and the Origins of theFirst World War (The Making of the 20th Century), Londra 1991. 128 129 PARTE III Il 1919 nella storia europea 130 131 15. Introduzione all’anno 1919 La prima guerra mondiale non si conclude in maniera netta. Nonostante l’armistizio sia firmato l’11 Novembre 1918, le ostilità proseguono in alcune parti d’Europa, come in Russia, dove divampa la guerra civile. Per di più, nuovi conflitti non tardano a sorgere tra la Polonia e l’Ucraina per la Galicia orientale, tra la Polonia e la Germania per quanto riguarda Posnan e la Silesia, tra la Polonia e la Lituania per quanto riguarda Vilnius, conflitti ai quali si aggiungono la guerra russo-polacca del 1920 e la guerra greco –turca del 1921/22. Governi che crollano, imperi che si disintegrano, lasciando alle spalle un vuoto politico. Il caos e la confusione che ne risultano spingono movimenti indipendentisti e rivoluzionari socialisti a tentare di impadronirsi del potere. Ciò avvenne in Russia già dal 1917, ma altre nazioni, tra cui la Bulgaria, l’Austria, la Germania, l’Ungheria vivono eventi simili. E forse inevitabile che ogni tentativo di raccogliere documenti sugli avvenimenti del 1919, che dimostrano una molteplicità di prospettive storiche – come quelle che presentiamo nei prossimi capitoli – dia largo spazio alle conseguenze fatali degli accordi di pace, in particolare quelle dei trattati di Versailles, Neuilly, Trianon e Sèvres, e alle aspirazioni revanscistiche e irredentistiche che questi trattati hanno provocato nelle nazioni sconfitte. Non sorprende che da un’analisi storica transnazionale di questo tipo venga fuori un sentimento crescente di disillusione e di speranze deluse. Lo stesso vale per l’incapacità e la reticenza degli uomini di stato europei ad abbandonare l’idea, discreditata, di equilibrio delle potenze per il concetto wilsoniano di sicurezza collettiva per l’isolazionismo crescente degli Stati Uniti dopo la morte di Wilson, per il crollo della Repubblica di Weimar, per le divisioni interne che non tardano a sorgere nella maggior parte dei nuovi stati creati e che portano la gran parte di loro a tornare presto a regimi autoritari, per l’ascesa del fascismo e del nazionalsocialismo, l’impotenza dello “Spirito di Locarno” di risolvere “il problema tedesco” e in ultimo l’incapacità della Società delle Nazioni di impedire una nuova guerra mondiale. Tuttavia questi capitoli mostrano che la “Grande Guerra” e gli sviluppi del processo di pace hanno contribuito a fissare e a influenzare, l’ordine del giorno delle relazioni internazionali per il resto del secolo. La Società delle Nazioni ha fallito negli anni ‘30, ma l’idea di sicurezza collettiva non è stata discreditata e gli sforzi per creare istituzioni internazionali e intergovernative efficaci, al posto del vecchio sistema di alleanze e di equilibrio delle potenze, sono proseguite. Un altro risultato durevole del Patto della Società delle Nazioni è la creazione a La Haye nel 1921 di una corte permanente di Giustizia internazionale. La conferenza di pace di Parigi, o più esattamente la sua Commissione delle riparazioni, inventa il concetto di crimine di guerra, anche se i tentativi di allora per giudicare i sospetti criminali di guerra falliscono. Altri elementi di controllo e d cooperazione internazionale, che oggi consideriamo come acquisiti, trovano la loro origine in negoziati tenutisi a Parigi nel 1919/20; è il caso, tra l’altro dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, della limitazione e il controllo dell’armamento o ancora dei tentativi per controllare il traffico di droga e il commercio di schiavi. 132 16. L’indomani della “Grande Guerra”: la Francia ed i Francesi nel 1919 Jean-Jacques Becher L’11 novembre 1918, all’annuncio dell’armistizio, le città e in particolare Parigi hanno potuto conoscere scene di entusiasmo quasi folle, ma da quel momento si mescolano strettamente in quel entusiasmo, l’euforia della vittoria certa, ma ancora di più la soddisfazione di avere finito ed il ricordo di spaventosi sacrifici. Ciò è particolarmente vero per i soldati del fronte dove l’entusiasmo è misurato, anche perché le ultime settimane della guerra sono state durissime, le perdite molto pesanti, 157.000 morti da agosto a novembre 1918. Il lutto Le campane della vittoria si mescolano spessissimo i rintocchi della morte dovuta “all’influenza spagnola”, infatti non si può mancare di notare tra la folla i militari che portano un nastro nero segno della perdita di un parente. Ciò è il primo aspetto della Francia nel 1919, il sentimento di un enorme salasso umano. A dire il vero non si sa ancora quale è stato il costo in vite umane della guerra, il segreto era stato cosi ben custodito che nessuno lo conosceva veramente, ma non conoscere la cifra esatta dei morti non poteva impedire a tante famiglie di essere immerse nel lutto, a tante giovani donne di sapere che il marito non sarebbe più tornato, a tanti genitori che il loro unico figlio era morto oppure in certi casi due, tre, quattro figli erano caduti, tanti figli che non avrebbero mai conosciuto il loro padre. Ci volle del tempo per conoscere la realtà: solo nel 1920 il rapporto dovuto al lavoro del deputato di Nancy, Louis Marin, permise di sapere che il numero dei morti e degli scomparsi – erano infatti, a parte alcuni casi rarissimi, morti non identificati – era al primo giugno 1919, di 1.383.000. Molto più tardi, ai giorni nostri, si è fatto il calcolo che ciò rappresentava in media quasi 900 morti al giorno dall’inizio della guerra. Alla cifra dei morti si aggiungeva il numero considerevole di feriti, circa cinque milioni, cifra senza grande significato poiché la gravità delle ferite è stata molto varia e alcuni sono stati feriti più volte. Ma ciò che aveva un significato era il milione di invalidi a più del 10%, di cui 300.000 mutilati e tra di loro i numerosissimi feriti in faccia ( “i musi rotti”), diventati un elemento permanente della società francese, senza contare gli avvelenati con il gas, cosa che non si vedeva, ma che soffrirono fino alla morte. La Francia del 1919 è anzitutto una nazione di vedove, orfanelli, mutilati …, un paese in lutto In questo quadro della società francese nel 1919, sarebbe un grave errore tralasciare l’enorme movimento che solleva la nazione affinché la guerra e le sue vittime, non siano dimenticate ma restino mel cuore dell’anima francese. Ci sono le innumerevoli lapide che dappertutto ricordano il sacrificio di giovani uomini di tale gruppo professionale, di tale amministrazione, di tale impresa…., ci sono soprattutto i monumenti ai caduti. A partire dal 1919, in quasi tutte le città e villaggi di Francia, sono eretti a migliaia, per l’eternità. L’11 novembre dell’anno seguente diventa giorno festivo imposto dagli ex combattenti per commemorare non tanto la vittoria quanto l’immensità dei sacrifici e, lo stesso giorno dell’11 novembre 1920, la tomba del soldato ignoto era inaugurata sotto l’Arco di Trionfo dell’Etoile. La Bancarotta 133 Questa nazione dissanguata, alla quale la debolezza di vecchia data della sua demografia fa risentire ancora più crudelmente che per altre nazioni la perdita di tanti suoi giovani, è anche una nazione impoverita e una nazione in parte rovinata. E’ difficilissimo calcolare quale fù il costo della guerra: ci furono le spese di equipaggiamento, armamento, mantenimento di un enorme esercito, il pagamento dei sussidi alla popolazione civile, anche il prezzo di ingenti distruzioni – un’intera striscia di territorio di 500 km di lunghezza e una larghezza compresa tra 10 e 25 km era completamente devastata, città, villaggi, rete stradale e ferroviaria, ponti, scuole, chiese, edifici pubblici e industriali, campi diventati incoltivabili, senza contare la mancanza di guadagni dovuta all’arresto di ogni attività economica normale, gli investimenti esteri perduti. Il totale delle spese ammontava ad un livello inimmaginabile rispetto alle risorse normali dell’anteguerra, ma il loro calcolo era reso ancora più difficile dalla svalutazione della moneta. Inoltre, essendo stato impossibile di fare coprire queste spese dalle tasse, anche perché una buona parte dei contribuenti era mobilitata – più di 8 milioni di uomini- la guerra fu fatta a credito: prestiti interni di tutte le specie, prestiti esteri dal Regno Unito e ancora di più dagli Stati Uniti. Paradossalmente, allorché la preoccupazione di come fare fronte a questa situazione avrebbe dovuto essere la cosa più importante, uno slogan coinvolge tutta la popolazione (compresi i dirigenti e particolarmente il ministro delle Finanze): “La Germania pagherà”. Il trattato di pace doveva comportate l’obbligo, per i vinti, di pagare le “riparazioni” – per dare un carattere morale agli antichi “indennizzi di guerra”- destinate a coprire le spese della guerra. Nessuno o quasi (per lo meno in Francia) s’interrogava sulla possibilità per la Germania ugualmente rovinata dalla guerra (anche se non ci furono distruzioni sul suo suolo) di potere pagare. La Rivoluzione Prima della guerra, o poco prima che scoppiasse, alcuni socialisti come il tedesco Babel o il francese Jaurès avevano pronosticato che se ci fosse stata una grande guerra, sarebbe finita con una grande rivoluzione. Non si sbagliarono, fuorché sulla sua localizzazione. La rivoluzione era scoppiata in Russia dove i Bolscevichi si erano impadroniti del potere, ma per loro era solo una prima tappa di una rivoluzione che non poteva essere che mondiale e per cominciare europea… Finchè durò la guerra, la rivoluzione russa fu avvertita in Francia, come l’abbandono, addirittura il tradimento dell’alleato russo, ma come sarebbero andate le cose alla fine della guerra? La situazione era completamente diversa da quella della Russia. Una rivoluzione non poteva che essere contadina. Anche se i contadini avevano conosciuto le perdite più pesanti - 600.000 agricoltori erano stati uccisi, quasi la metà della totalità dei morti, se il mondo rurale ha particolarmente sentito la promessa fatta da Clemenceau ai combattenti, “ hanno dei diritti su di noi”, la loro situazione materiale era piuttosto migliorata durante la guerra. Sono riusciti a liquidare i loro debiti, comprare dei terreni. Miglioramenti in parte fittizi. L’aumento dei prezzi di vendita dei prodotti agricoli è dovuto alla debolezza della moneta, mentre bisognerà sostituire, ad alto prezzo il materiale agricolo, cosa che non era stata fatta durante la guerra. Almeno per il momento, le rivendicazioni dei contadini non rischiavano di prendere una piega rivoluzionaria, anche se alcuni giovani contadini gridano il loro odio per la guerra e sono tentati dal bolscevismo. Le reazioni degli operai potevano essere diverse tanto più che la rivoluzione russa appariva da lontano come una rivoluzione operaia. Le loro perdite erano state proporzionalmente più lievi di quelle dei contadini, ma i loro redditi si erano abbassati. Il loro contributo allo sforzo di guerra, secondo le loro stime, giustificava un miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro. Ma in una certa misura, si produce il contrario. Le donne che lavoravano nelle fabbriche di guerra sono state rapidamente rimandate a casa, molti ex combattenti provano difficoltà a 134 ritrovare il loro lavoro; le difficoltà della riconversione di un’economia di guerra in un’economia di pace non facilitava le cose. In queste condizioni la CGT conosce un rapido progresso dei suoi effettivi, sebbene paradossalmente i suoi dirigenti come Léon Jouhaux, anarchico e dal linguaggio rivoluzionario prima del 1914, sono diventati adesso riformisti: sottopongono al governo un ampio programma di riforme, di cui una sola – importante- è concessa con una legge del 23 aprile 1919: la riduzione della giornata di lavoro a 8 ore, ossia 48 ore settimanali senza riduzione di salario. Questa riforma non basta per calmare la crescente agitazione operaia, tanto più che ci vuole molto tempo per attuarla: la giornata del primo maggio 1919 è molto movimentata, misure d’ordine molto importanti sono state prese, gli scontri tra manifestanti e forza dell’ordine sono violenti, ci sono dei morti; in primavera, gli scioperi si moltiplicano nelle ferrovie, presso i metallurgisti, i minatori. Aggiungiamo un odio crescente per la guerra, quando è finita! (lo slogan: “Mai più questo!” conosce un grande successo), una parte dell’ opera volge lo sguardo verso il bolscevismo che è riuscito a tirare la Russia fuori dalla guerra. Come si sarebbe adattato il partito socialista a questa situazione? Prima della guerra esso ostentava volentieri un discorso rivoluzionario, anche se la sua pratica era moderata. Durante la guerra aveva partecipato all’Unione sacra, ma sul finire del conflitto i suoi avversari erano diventati maggioritari. E’ profondamente turbato dall’opposizione tra i partigiani e gli avversari del bolscevismo. La grande discussione è aderire o meno alla 131° Internazionale, l’Internazionale Comunista. Ma la questione del Bolscevismo non riguarda soltanto l’area socialista e il movimento operaio. Preoccupa gran parte della popolazione – le classi medie in particolare- che ha il sentimento che una rivoluzione si sta preparando come in altri paesi d’Europa. Svolta a destra Per l’opinione francese, la grande discussione del momento è stata prima quella del tratto di pace che doveva impedire per sempre che un tale cataclisma potesse ricominciare. Ma è divisa in parti molto disuguali. D’un lato una minorità abbastanza debole si rende conto rapidamente che questi negoziati che hanno luogo senza la presenza dei vinti – e questo permetteva ai tedeschi di considerarsi l’oggetto di un diktat – non seguono lo spirito wilsoniano, “la pace senza vittoria”, ma lo stesso presidente americano è molto cambiato da quando ha pronunciato questa espressione all’inizio del coinvolgimento degli Stati Uniti, dall’altra una grande maggiorità si rende conto ugualmente e molto rapidamente che questa pace non sarà la pace auspicata, che le condizioni imposte alla Germania saranno meno pesanti di quanto voleva (anche se d’altro canto in Germania sono considerate come insopportabili). In queste condizioni deve essere eletta una nuova Camera dei deputati. I deputati in esercito, eletti nel maggio 1914 per 4 anni avevano visto la loro funzione prorogata, viste le circostanze, fino alla fine delle ostilità. Le ostilità furono giuridicamente terminate solo dopo la ratifica dal Parlamento del trattato di pace e le elezioni fissate soltanto al 16/11/1919. Il rancore contro un trattato di pace insufficiente di cui gli alleati della Francia sono resi responsabili, il timore della rivoluzione – il manifesto più famoso della campagna rappresentava l’uomo dal coltello tra i denti sgocciolando di sangue, simbolo del bolscevico russo – le difficoltà economiche, si tradussero con una netta svolta a destra e la vittoria del blocco nazionale che intendeva piazzarsi nel prolungamento dell’Unione sacra. Il blocco nazionale, non era soltanto la destra, come è stato detto troppo spesso, ma anche il centro, anche il centro-sinistra, ma la sua vittoria fu tanto più notevole che la destra era stata praticamente esclusa dalla vita politica francese da più di 20 anni... Alla fine del 1919, la Francia e i Francesi sembrano profondamente traumatizzati dalla guerra che hanno appena vinto e che bisognerà adesso pagare. Hanno voluto che questa guerra sia stata la “der der der” ma non l’hanno creduto per molto tempo. Sono sicuri però di non voler 135 ricominciare, da qui il pacifismo che non cesserà di svilupparsi negli anni seguenti. Sono sicuri che non vogliono la rivoluzione, anche se l’anno seguente glielo farà ancora temere, ma sono pronti a resisterci. Vorrebbero che la vita ricominciasse come prima, e che la guerra sia stata solo una terribile parentesi. Ma una guerra del genere non è mai una parentesi, è il punto di partenza di temibili mutamenti e i francesi non volevano vederli. Non si rendevano conto che il ritorno al tempo passato era assolutamente utopico. 136 17. La Repubblica di Weimar: il peso della Grande Guerra Gerd Krumeich Introduzione Il fallimento della prima Repubblica tedesca nel 1933, preludio alla catastrofe europea della seconda guerra mondiale, ha suscitato un gran numero di domande e risposte contraddittorie sulle sue cause. Ci fù un tempo, dopo il 1945, in cui l’ascesa di Hitler fu spiegata dagli storici con le cause legate alle questioni di politica internazionale e al sistema monetario. Si evocò prima di tutto il trattato di Versailles del 1919, chiamato dai tedeschi in modo molto peggiorativo, “Diktat”, oppure -nei cerchi dell’estrema destra- “Schmachfrieden”. Le generazioni seguenti di storici, soprattutto dalla fine degli anni ‘60, hanno radicalmente messo in dubbio questa spiegazione, insistendo, loro, sul peso che costituiva per la Repubblica, la “continuità delle elite (secondo la formula dello storico Friz Fischer) tra l’Impero di Guglielmo II e la Repubblica. “Continuità delle elite” significava soprattutto che gli strati dirigenti del vecchio Reich tanto i militari che il corpo dei grandi amministratori e dei funzionari non erano stati rinnovati dai repubblicani eppure, erano al potere dalla caduta della monarchia nel novembre 1918 e dalla proclamazione della Repubblica fatta dal leader socialdemocratico Philipp Scheidemann, il 9/11/1918. Dagli anni ‘70, la storiografia “di sinistra” o di orientamento democratico, ha largamente analizzato questo processo di tergiversazione dei nuovi responsabili davanti a l’elite del vecchio regime. Tergiversazioni che si spiegano soprattutto con l’ossessione antirivoluzionaria dei leader della socialdemocrazia, piuttosto centrista, proiettati al potere, un po’ loro malgrado, nel 1918. Ad insistere su questo aspetto è soprattutto l’illustre storico Hans Mommsen. Non per caso il suo grande libro sulla Repubblica di Weimar, apparso nel 1982, porta il titolo, certo provocatore, “Die Verspielte Freiheit” (La liberté perdue). La questione fondamentale che la generazione degli storici degli anni ‘60 ha posto a quella dei loro padri e nonni era di sapere perché la democrazia non aveva saputo liberarsi dal peso del passato, perché non aveva voluto impadronirsi del “potenziale democratico” delle masse, perché aveva combattuto e non integrato il vasto movimento di democrazia diretta, rappresentato soprattutto dai “consigli di operai e di soldati” (Arbeiter – und Soldatenräte) che sorsero spontaneamente un pò dappertutto in Germania, nelle giornate cupe della fine della guerra. Non si sarebbe potuto ottenere che la maggior parte di questi consigli servissero una repubblica democratica invece di farsi inghiottire dal movimento rivoluzionario, di tendenza dapprima spartachista poi comunista, represso all’occasione delle varie insurrezioni dell’inizio del 1919? Queste domande erano rilevanti e necessarie all’epoca e scaturivano dall’ostinazione della generazione precedente a prendere in considerazione solo il peso della politica estera per spiegare il crollo della Repubblica di Weimar. Questa interrogazione ha senza dubbio aperto la strada ad una migliore comprensione delle forze politiche esistenti, soprattutto per quanto riguarda il carattere e l’importanza dei consigli dei soldati e degli operai. Bisogna riconoscere che questa generazione ha ignorato l’impatto della Grande Guerra e delle sue conseguenze politiche sulla Repubblica di Weimar. Possiamo oggi “riaprire il dossier” e considerare, senza alcuno spirito di parte, l’impatto della Grande Guerra su coloro che l’avevano vissuta, e che hanno dovuto trarne le conseguenze politiche. La politica di Weimar Per prima cosa occorre constatare che la repubblica di Weimar è nata dalla guerra. I suoi primi passi, anche prima della sua creazione ufficiale, furono estremamente carche di conseguenze politiche e morali. In quel momento si dovette fare fronte alla disfatta. Il presidente americano Wilson aveva dichiarato, fine ottobre 1918, che la pace si sarebbe conclusa solo con un governo parlamentare, e non con la vecchia casta militarista prussiana. Questa dimensione parlamentare 137 della monarchia fu introdotta fin dal primo novembre, mantre il cancelliere Max von Baden formava un gabinetto “parlamentare”, nato dalla maggioranza del Reichstag. Già il 29 settembre 1918, un mese prima, il generale Ludendorff, quartiermastro generale, aveva chiesto al Kaiser “di fare formare un governo dalle forze che ci hanno messo nella situazione in cui ci troviamo”. Era già il rimprovero, formulato apertamente, che l’esercito vittorioso era stato “pugnalato alla schiena”, da dietro, dai civili stanchi di guerra. In effetti, la leggenda della “pugnalata alla schiena” doveva rivelarsi il peso schiacciante iniziale della Repubblica. Tanto più che in quel momento, nessuno tra i civili conosceva lo stato deplorevole in cui l’esercito tedesco era stato ridotto, sia a livello morale che materiale, dopo il fallimento dell’ultima grande offensiva di marzo 1918, dal nome echeggiante di “Michael”. Da quel momento, l’esercito aveva subito una grave crisi morale. Alcuni soldati cominciarono a non andare più in guerra, rifiutandosi di raggiungere il reggimento, rifiutandosi di attaccare, ecc…. Non lo si seppe che tardivamente, e la denunzia, da parte dei capi militari, degli “intrighi comunisti” sembrava credibile per molti. Non avevamo assistito ad uno sciopero degli operai nelle fabbriche di armamenti di Berlino (e altrove) nel gennaio 1918, sostenuto da personalità piuttosto centriste della Socialdemocrazia come il deputato Friedrich Ebert? E’ probabile che Ebert, Scheidemann e gli altri si misero a capo del movimento per farlo cadere e fare fallire gli “spartachisti”, desiderosi di trasformare la protesta in rivoluzione. I socialdemocratici centristi hanno voluto persuadere forse gli ex combattenti di tornare in fabbrica per non turbare il “lavoro” dei loro compagni rimasti nelle trincee senza fucili e munizioni. Ma l’ombra di questo affare inseguì Ebert tutta la vita. Capo del governo, poi eletto Presidente della Repubblica nel 1919, non riuscì mai a convincere la Destra e il Centro, di non essersi prestato nella “pugnalata alla schiena”. Durante tutta l’esistenza della Repubblica di Weimar, il rimprovero fatto alla sinistra di essere la vera colpevole di una sconfitta immeritata, assillò le menti. Niente è più evidente per i propagandisti estremisti, che la rivoluzione del 1918 e l’istituzione di una repubblica governata dai “disfattisti” aveva fatto perdere la guerra alla Germania. Adolf Hitler non fù, all’inizio, che un protagonista tra gli altri. Egli e il movimento nazista avevano tuttavia una particolarità. Rifiutavano ogni discussione o distinzione. Erano convinti che la pugnala alla schiena, la firma e il trattato di Versailles erano stati concepiti e messi in opera “dall’ebreo”, bolscevista o capitalista era lo stesso. Sotto questi auspici la Repubblica fece i primi passi vacillanti, ma viste le circostanze, coronati da un sorprendente successo. La prima cosa da ottenere fu il ritorno all’ordine dei soldati. E’ vero che dal 9 novembre 1918, data dell’armistizio di Rethondes, circa 7 milioni di soldati tedeschi rifluivano verso il loro paese, ritorno che si effettuò il più delle volte in un ordine perfetto. Ma cosa dovevano fare questi uomini armati e inaspriti dalla sconfitta “immeritata”, confrontati con i movimenti rivoluzionari? La grande paura era nell’eventualità di un putsch, di un esplosione di rabbia da parte di chi tornava, di una rivolta dalle conseguenze imprevedibili. Il governo Ebert, investito ancora prima dell’armistizio, affrontò per primo la sommossa dei marinai di Kiel rivoltatisi fin dal 30 ottobre 1918. Da questi ammutinamenti nacque rapidamente il movimento dei “consigli di soldati e operai”, istituitisi a Berlino, Hambourg, Kiel e poi nelle grandi città della Renania e di altrove. Essi concepivano la loro missione come il controllo del governo e del processo di democratizzazione della società tedesca. Per il governo, si trattava soprattutto di controllare questi “consigli”, dalle strutture politiche inizialmente mal discernibili, e in seno ai quali si supponeva una forte movenza rivoluzionaria. Di fronte alla massa dei soldati, all’atmosfera politica tesa e alla probabilità di una Rivoluzione, i governi successivi ebbero una sola priorità: stabilire e mantenere l’ordine per darsi i termini necessari all’istituzione di una repubblica ben costituita e all’elezione di un’Assemblea nazionale, il cui compito sarebbe la redazione di una costituzione democratica. Ebert affermò, fin dal 5 novembre 1918 che tale era lo scopo principale. Quattro giorni più tardi, Philipp Scheidemann, deputato socialdemocratico, prese l’iniziativa di proclamare la repubblica dal 138 balcone del castello della città di Berlino, il 9 novembre 1918. Parlando della vittoria del popolo, del “crollo delle vecchie strutture” e del militarismo esorta la folla a non sminuire questa vittoria con degli incidenti: “Occorrono adesso ordine, sicurezza e tranquillità”. La rivolta spartachista Si aprì immediatamente una grande ferita della Repubblica, forse inevitabile ma estremamente costrittiva. Di fronte alle varie (piccole) sommosse, in particolare la sommossa spartachista di gennaio 1919, il nuovo governo usò massicciamente e brutalmente la forza armata. Si mise al servizio della Repubblica i cosiddetti “capi franchi”, delle unità di ex soldati, rimasti o tornati sotto gli ordini dei loro ex capi militari, comandanti di reggimenti, ecc….. Furono dunque soldati agguerriti, disponendo di un armamento pesante, e sotto gli ordini di capi militari rappresentanti soprattutto la vecchia elite militare della Prussia (ad esempio il generale von Lüttwitz) ai quali la giovane repubblica affidava – o fu costretta ad affidare?- la difesa dell’ordine e della legge. Ne avranno abusato? E’ probabilmente vero che questi corpi franchi, infierendo contro gli spartachisti o gli operai in sciopero, procedettero spesso con una grande brutalità. All’odio di classe di questi soldati uscenti da una sconfitta militare, bisogna aggiungere il loro odio e il loro rancore trovandosi improvvisamente di fronte a persone tra le quali supponevano si trovassero coloro che li avevano pugnalati alla schiena. L’annientamento della rivolta spartachista a Berlino nel gennaio 1919, rispecchia questo odio. I due leader del movimento spartachista, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, furono selvaggiamente torturati, “giustiziati” e buttati nell’acqua. Gli assassini ne uscirono indenni. Fu una delle grandissime divisioni –insormontabili a lungo andare, che fu creata in seno alla nuova Repubblica: si contarono 300.000 manifestanti ai funerali di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, gridando il loro odio alla “nazione militare”. Le relazioni tra la socialdemocrazia governante e il movimento comunista si trovarono durevolmente segnati. Fino al 1933 e all’ascesa di Hitler non fù mai possibile superare questo abisso tra i partiti di sinistra incapaci dunque di fare fronte comune contro la destra unita nell’assalto contro il sistema repubblicano. La mancanza di interesse del popolo operaio di fronte alla repubblica democratica fu una pesante ipoteca durante tutta la Repubblica di Weimar. Per quanto riguarda i corpi franchi furono formalmente sciolti il 6 marzo 1919, ma le loro unità restarono a disposizione di chi voleva servirsene. La Reichswehr sciolta e ricostituita secondo le clausole del trattato di Versailles con 100.000 uomini soltanto, vi reclutò numerosi membri. Riuscì, malgrado tutti i controlli esercitati dagli alleati, a tenere in serbo una “Reichswehr nera”, di cui fecero parte gruppi di reduci. L’organizzazione la più potente fu il “ Stahlhelm” (caschi d’acciaio) che contava circa 400.000 aderenti. Tra questi gruppi figurava anche un servizio “d’ordine”di un piccolo partito operaio, fondato nel 1919 al quale aderiva un certo Adolf Hitler, ex grande ferito e decorato dalla croce di ferro di prima classe. La sua guardia personale si chiamava “Sturm abteilung”. S.A., ricevette armi e formazione come elementi della Reichswehr. Questa S.A. aveva 300 “soldati politici” nel 1920, tutti devoti al loro Führer. Nel 1933, contava più di 500.000 uomini. Hagen Schulze che ha scritto la storia dei capi franchi sotto la repubblica di Weimar ha concluso che il merito dei capi franchi fu di salvaguardare l’unità tedesca sotto la forma di una repubblica parlamentare e borghese. Ma alla fine della Repubblica, questa forze stesse furono i boia della democrazia. Malgrado tutti questi vortici, l’Assemblea nazionale fu regolarmente eletta il 19 gennaio 1919, votando, le donne, per la prima volta. Una maggioranza chiara di centro sinistra potè costituire un governo dal quale la destra fu esclusa. Ebert, il leader incontestato della socialdemocrazia, fu eletto Presidente della Repubblica, e la Costituzione, discussa e votata dall’Assemblea a Weimar, sembrò suscettibile di garantire l’esistenza e la perennità di una democrazia forte e 139 resistente. Una specie di equilibrio tra il Presidente da una parte ed il corpo legislativo dall’altra fu stabilita. Il Presidente della Repubblica aveva prerogative chiare, soprattutto quella di ricorrere all’articolo 48, che permetteva di sospendere temporaneamente i diritti fondamentali ed il diritto del Parlamento a legiferare. Questo articolo, introdotto per garantire la democrazia nascente contro ogni eventuale colpo di forza dalla destra fu utilizzato, nel 1933, per smantellare le ultime vestigia della Repubblica ad opera di coloro che volevano abolirla “nella legalità”. Ma evidentemente questo pericolo non fu risentito nelle circostanze del 1919, in cui la Repubblica si trovò alle prese con un’estrema sinistra frustrata della sua rivoluzione e un’estrema destra, che nutriva risentimenti sociali, nostalgie ma anche e soprattutto un odio feroce contro quelli che per loro sembravano essere l’origine della sconfitta e del “ribasso” internazionale della Germania. Le conseguenze del trattato di Versailles Il trattato di Versailles, rappresentò un immenso fardello per la Repubblica uscita dalla guerra. I vincitori erano stremati, e dovettero rispettare il desiderio dei loro popoli di ricompense e riparazioni per i danni subiti durante la guerra. Non torneremo qui sulle modalità di questo trattato rispecchiante la volontà wilsoniana di ristrutturare le relazioni internazionali, con la creazione, ad esempio, del Völkerbund e organizzando anche un ufficio della Lega delle Nazioni e un Ufficio internazionale del Lavoro. Ma ciò che importava in una prospettiva immediata era senza dubbio l’infamante articolo 231 del trattato cosi formulato: “I governi alleati e associati dichiarano e la Germania riconosce, che la Germania e i suoi alleati sono responsabili, per averli causati, di tutte le perdite e di tutti i danni subiti dai governi alleati e associati e dai i loro nazionali in conseguenza della guerra, che è stata loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati”. Dagli anni ‘30 si è discusso sul contenuto di questo testo, se veramente metteva moralmente sotto accusa la Germania oppure se non era piuttosto un articolo il cui scopo era di garantire il pagamento dei danni. Ma bisogna insistere sul fatto che nel clima del 1919, questo testo rispecchiava di certo il sentimento dei popoli alleati e dei loro governanti di poter finalmente fare i conti con un paese che secondo loro aveva messo deliberatamente il fuoco all’Europa e fu perciò tenuto come responsabile di milioni di morti e di immense devastazioni soprattutto in Francia e in Belgio. In Germania ci fu una totale costernazione, e all’inizio un rifiuto completo di firmare un tale “trattato della vergogna”. Il deputato Scheidemann, colui che aveva proclamato la Repubblica pochi mesi prima, si espresse in questi termini “chi firmerebbe questo trattato che biasimasse la mano”. Ma dato che gli alleati restavano fermi sulle condizioni imposte, minacciando di occupare militarmente la Germania e di porre fine all’unità del Reich, il trattato fu firmato con rassegnazione il 28 giugno 1919, in presenza di una rappresentanza di “musi rotti” francesi, la cui presenza simboleggia ancora i torti fatti dalla Germania ai suoi vicini, alleati contro la sua “barbaria”. La protesta contro “Versailles”e il “trattato della vergogna”, non si calmava durante i 15 anni del regime repubblicano in Germania. Ci furono, certo, dei governi che provarono a ottemperare, creare una nuova fiducia internazionale, contribuire alla “Società delle Nazioni”, creata con l’articolo primo del trattato di Versailles. Fu il caso soprattutto di Walther Rathenau, grande industriale e filosofo che aveva riorganizzato l’economia all’inizio della guerra e che si rassegnò come capo del governo nel 1922, ad una politica di esecuzione del Trattato. Fu anche il caso di Gustav Stresemann che cominciò, 2 anni più tardi, d’accordo con il capo del governo francese Aristide Briand, a concepire una politica di pace ed una politica europea. Ma tutti questi tentativi di ravvicinamento internazionale si trovarono falsati per il fatto di Versailles. 140 Tutti i governi tedeschi hanno protestato, fino al 1933, contro l’articolo 231 di cui si pretese l’invalidazione. Uno dei motivi della grandissima fama di Hitler alla fine degli anni 20, anche tra gli stati per nulla attratti dal nazismo, fu la sua risoluzione a lottare contro il trattato della vergogna. La protesta contro il trattato di Versailles era dunque universalmente condivisa in Germania. Ma tuttavia non creò un’unità di pensiero e di azione. Al contrario, questa lotta contro Versailles fu viziata dall’inizio con l’aggiunta “del colpo di pugnale alla schiena”. A partire da novembre 1919, Hindenburg, capo del grande quartier generale, eroe incontestato ed estremamente popolare, dichiarò, davanti ad una commissione di inchiesta sulle cause della sconfitta che incontestabilmente la sconfitta era stata provocata dal fermento comunista, affermazione che fu ripresa dalla destra nazionalista. La radicalizzazione politica, contro “Versailles” e la designazione dei “colpevoli” della sconfitta portò ad una bipolarizzazione estrema e ad una onda di destra. Il nazionalismo si radicalizzò e prese una direzione “völkisch”, estremamente razzista, sottolineando la superiorità sia per il sangue che per la storia, del popolo tedesco. Hitler stesso si riferì continuamente al sangue tedesco. La Germania schernita e assoggettata, si diceva, doveva rinascere in tutto il suo splendore. A causa di Versailles, gli estremisti “völkisch”trovarono un ascolto molto più largo di prima. Il “deutschvölkischer Schutz-und Trutzbund” (Associazione per la protezione del popolo tedesco), estremamente razzista e che accusava gli ebrei della sconfitta e della rivoluzione contava più di 100.000 aderenti alla fine del 1919 ed esercitò un’influenza crescente sulle associazioni di reduci, soprattutto il Stahlhelm. Ma ciò che è ancora più significativo di questa evoluzione fu che il grande partito di centro destra, il Deutschnationale Volkspartei, si avvicinò a questo estremismo. Il programma del partito, nel 1920 espresse chiaramente la sua opposizione contro l’elemento ebreo la cui predominanza in seno al governo e al parlamento è sempre più nefasta. L’ascesa dell’estrema destra nella politica tedesca del dopo guerra Di conseguenza le elezioni del 1920 furono segnate da una forte bipolarizzazione destra/sinistra. Il risultato delle elezioni faceva chiaramente vedere l’ascendente che l’estrema destra aveva preso sin dal 1919. Dopo queste elezioni, i partiti detti “ costituzionali” non ebbero mai più, da soli, la maggioranza parlamentare. La situazione estremamente tesa in politica interna fu ancora inasprita a causa della decisione presa dagli alleati a Londra, il 5 maggio 1921, di fissare la somma dovuta dai tedeschi a titolo di risarcimento dei danni materiali della guerra alla cifra, che sembrava allora esorbitante, di 132 miliardi di Goldmark. Era pagabile in più versamenti previsti fino agli anni ‘90, ma in Germania sollevò le proteste. Manifestazioni organizzate ovunque riunirono centinaia di migliaia di persone gridando il loro rifiuto di questa sottomissione del popolo tedesco. Il governo che sapeva di dover acconsentire, per evitare un occupazione militare della Germania e la scissione del Reich, fu deriso. Niente era più grave per la destra (centro e estremista) che la “Erfüllungspolitik”, la politica di esecuzione del trattato. Quando i capi di governo successivi, Wirth e Rathenau, dichiararono che avrebbero seguito una politica di esecuzione del trattato per dimostrare agli alleati che la Germania era nell’impossibilità materiale di pagare l’insieme del debito, la destra si ribellò. Rathenau era ebreo, e non importava più che avesse aiutato brillantemente ad organizzare l’economia di guerra nel 1914. Bande di estrema destra diffusero lo slogan che si gridò per le strade: “Walter Rathenau non invecchierà: assassina quel dannato porco ebreo”. Fu fatto il 24 giugno 1922 da due membri dell’organizzazione “Consul”, società segreta nata dal corpo franco più rinomato ( e più brutale), la “brigata Ehrhardt”. Questa brigata fu costituita nel 1919 e raggruppava circa 2.000 ufficiali del vecchio esercito. Ufficialmente fu sciolta nel 1920 ma 141 trasformata in organizzazione segreta i cui intrighi furono largamente tollerati dalla burocrazia bavarese, la stessa sempre più in rottura con la Repubblica ed il Reich. Questi incidenti ebbero un effetto di radicalizzazione in Baviera. La reazione alla legge per la protezione dello Stato, votata dai partiti di sinistra e del centro dopo l’assassinio di Rathenau incoraggiò i partiti repubblicani e suscitò, per un momento, un fronte repubblicano. In Baviera, Hitler, le cui azioni brutali furono largamente tollerate dalle autorità intensificò i suoi sforzi di organizzazione. Il gruppo paramilitare che proteggeva le riunioni del partito e attaccava “comunisti ed ebrei” in sanguinosi scontri in strada, ebbe un forte aumento: da 300 S.A. fine 1921 se en contò 3.000 alla fine del 1922. Il capo della S.A. era un ex ufficiale della Reichswehr, di Monaco che, dalla fine della guerra, tentava di coordinare le attività della Reichswehr con la cosiddetta “reichswchr nera”, i corpi franchi e gruppi paramilitari onnipresenti, reduci dalla Grande Guerra. Ha descritto il suo obiettivo nei suoi Ricordi, pubblicati nel 1928, cioè “dare al soldato del fronte la parte di governo alla quale ha diritto”. Fino 1923, Hitler, il prototipo stesso del soldato del fronte, si credette sufficientemente forte per tentare un colpo di Stato. Questo fallì per via della “diserzione” delle autorità bavaresi che non di meno lo avevano incoraggiato. Questo dopo guerra terminò con la “battaglia della Ruhr” nel 1923, in seguito all’occupazione dalle Ruhr da truppe francesi e belghe il 10 gennaio. Poincaré aveva preso questa decisione perché i tedeschi cercarono (e trovarono) più pretesi per sottrarsi all’adempimento del Trattato di Versailles ed al pagamento degli indennizzi in liquido o in beni (tra l’altro carbone). Questa “occupazione pacifica” rassomigliò molto ad una vera occupazione di guerra. In un certo senso i francesi e i belgi fecero pagare ai tedeschi ciò che avevano sofferto sotto l’occupazione dal 1914 al 1918. Ancora una volta, l’ombra della grande guerra fu molto pesante per la Repubblica di Weimar. Tuttavia riuscì a liberarsi per un pò. Il periodo compreso tra il 1924 ed il 1928 fu un brillante intermezzo di stabilità politica e di sviluppo culturale. Però quando venne la grande crisi dell’economia mondiale del 1928/29, iniziata con il crollo della Borsa di New York, lo spettro della grande guerra riapparve. E’ interessante notare cha soltanto a partire da quel momento iniziò la produzione di letterature e di film di guerra in Germania, culminante con la famosa “controversia” attorno al grande libro di Erich Maria Remarque: “A l’ouest rien de nouveau”. Il partito di Hitler si trasformò in partito di massa (all’occasione di questa crisi economica). Continuò ad apparire come il soldato della grande guerra riaffermando in ogni discorso che la sua presa di potere significherebbe la fine della schiavitù di Versailles e di ogni tradimento. Fu molto applaudito, addirittura da coloro che non lo seguivano, quando denunciò la firma tedesca del trattato di Versailles nel 1933. 18. Immagini di sconfitta: l’Ungheria dopo la guerra persa, la rivoluzioni ed il trattato di pace di Trianon Peter Bihari (Poesia revionista, anni 1920) (testo in inglese) Questo contributo riguarda meno gli avvenimenti nel particolare – le rivoluzioni del 1918/1919 e le disposizioni disastrose del trattato di Trianon – che il loro impatto e la loro sopravvivenza nella memoria collettiva. La memoria non è soltanto un approccio storico di moda, ma costituisce, a mio parere, un’opportunità per professori e studenti in storia che desiderano veramente mettere in relazione il presente con il passato. C’è un parallelismo ma le situazioni ungheresi e tedesche intorno al 1919 – a parte la dimensione, la potenza e l’importanza internazionale delle nazioni in questione. Tutte e due hanno subito una sconfitta che stentano ad ammettere come tale, vedendovi piuttosto una 142 “pugnalata alla schiena”; tutte e due hanno sviluppato un nazionalismo radicale – sulla base di torti reali o presunti- e tutte e due erano società profondamente divise, unite solo dal loro desiderio di riscrivere completamente trattati di pace “ingiusti”. A proposito di ciò che è successo realmente in Ungheria nel periodo di grande confusione degli anni 1918/1920, citerei l’eccellente riassunto che ne fa Robert O.Paxton nel suo recente lavoro sull’anatomia del fascismo. “Si può trarre più conclusioni di questa storia. In primo luogo, a prescindere dall’importanza dei radicalismi di sinistra e di destra in Ungheria, il destino della Nazione è stato globalmente sigillato dalle potenze vittoriose dell’Intesa (e della piccola Intesa). In secondo luogo nessuna nazione vinta ha conosciuto una simile sorte, in termini di smembramento e di perdite di territorio all’eccezione forse della Turchia nel quadro del trattato di Sèvres che è stato rettificato, al termine della guerra di liberazione, 3 anni più tardi a Lausanne. In terzo luogo, nessuna altra nazione o popolazione sopportò tanti cambiamenti come l’Ungheria in materia di sistema politico – eccetto l’Ucraina. Tutto ciò si è svolto in 10 mesi. Aggiungete la perdita della Grande Ungheria – sin dal 1919- e non ci si meraviglierà più delle profonde divisioni, per non parlare di discriminazioni che sono apparse in seno alla nazione. D’altronde le risentiamo ancora oggi nel XXI secolo” (IDEZET/Paxton, 2005, pp. 24/25). Chi avrebbe mai immaginato? Questa parte del mio contributo si concentra sulle conseguenze e l’impatto del trattato di Trianon sulla coscienza nazionale ungherese – in altri termini, le immagini di sconfitta, ovvero Trianon “come luogo di memoria”. Per iniziare conviene interrogarsi sulle ragioni per cui il trattato abbia causato tal choc, e tale protesta presso l’opinione pubblica della nazione. Ne vedo tre: la prima risiede nel fatto che l’uomo della strada, gli intellettuali ed i politici non ebbero nessuna coscienza di ciò che succedeva allora. “Tutto è capitato cosi in fretta! 5 anni prima, 2 anni prima, avremmo preso in giro, o anche malmenato chiunque avesse predetto che l’Ungheria del 1920 non sarebbe più stata formata che di 14 o 20 contee invece di 63, con Kosice, Bratislava, Timisoara, Arad, Cluj, Subotica diventate terra straniera! (……). Chi avrebbe potuto pensare che sarebbe bastato cosi poco per rovinare un paese millenario, una nazione che aveva resistito ai Turchi, ai Tartari e agli invasori occidentali – oggi alla deriva, sull’orlo dell’abisso!” si lamenta già Béla Bangha, padre gesuita di destra, in uno scritto datato 1920. Inoltre, dopo il 1920, l’Ungheria è diventata una delle nazioni europee più piccole e deboli, quand’anche fino al 1928, poteva considerarsi come una grande potenza, elemento chiave della doppia monarchia, l’impero millenario di Santo Stefano (cosa da notare, nessuno apparentemente ha rilevato che la rottura della doppia monarchia ha fatto allora del paese – per lo meno sul piano formale- uno stato indipendente, dopo praticamente 400 anni di dominio straniero). Infine, bisogna tenere presente che i territori smembrati erano con precisione i più saldamente associati al passato storico della nazione. L’Alta Ungheria e la Transilvania hanno cosi conservato la nazionalità Ungherese durante l’occupazione turca, per diventare la culla di tutta una discendenza di ungheresi, di eccezione, da Matthias Corvin a Béla Bartok. Era quasi inconcepibile che i luoghi di nascita di questi eroi potessero essere visitati solo con un passaporto valido – come anche i luoghi di parenti vivi o morti. Movimenti di protesta contro il trattato di Trianon, ma anche commemorazioni di quest’ultimo, iniziano il giorno stesso della firma. Il 4 giugno 1920, alcune scuole e negozi restano chiusi. 143 Parecchie centinaia di migliaia di persone scendono in strada a Budapest. Bandire nazionali sono messe a mezz’asta, e resteranno cosi per decenni. Sono pubblicati giornali con margini neri, in segno di lutto e le campane suonano senza sosta. La cosa si ripete nel novembre 1920, quando l’assemblea nazionale esamina e adotta il progetto di legge – che, evidentemente, tutti quanti respingono. “Questo trattato di pace, che mira a strangolare una vecchia nazione civilizzata, è nullo davanti a Dio e agli essere umani”- dichiara il deputato Jeno Czetter all’occasione del dibattito parlamentare attorno al trattato. Poi, facendo appello ai vecchi compatrioti, aggiunge: “Non dovete dimenticare che la vostra patria, l’antico impero di Santo Stefano, è stata sempre un paese di libertà, ordine, cultura, stato di diritto, dove ogni razza ha sempre potuto svilupparsi liberamente, e ogni persona prosperare secondo i propri meriti”. Non è difficile scoprire qui un genere del mito dell’età d’oro – mito del quale si ritrova la traccia nello slogan più popolare del revisionismo ungherese: “L’Ungheria mutilata non è una nazione – l’Ungheria nella sua compiutezza è una nazione divina”. Ne approfitto per citare un altro grande slogan, che è in realtà, una sorte di preghiera nazionale: “Credo in un Dio unico, credo in una sola patria, credo in una sola ed unica verità eterna e divina, credo nella risurrezione dell’Ungheria, amen” (la preghiera e lo slogan sono stati scelti tutte e due grazie ad una “competizione revisionista” organizzata su scala nazionale). Lo slogan più breve- “No, no, mai” – con la sua triplica negazione, era un’allusione al nome Tri-a-non (1.a, b. kép:”Nem, nem, soha!”+ “No, no, never!”). I simboli del revisionismo e dell’irredentismo Veniamo adesso alle immagini visibili dell’irredentismo e del revisionismo del periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale in Ungheria. Condivido l’opinione secondo la quale la nozione di revisionismo in se stessa rimanda ad un approccio più moderato, e che prende un carattere giuridico e pragmatico, mentre “l’irredentismo”, sia per natura più intenzionale, arbitrario, aggressivo e – in genere- irrealista. In Ungheria, tuttavia prevalse quest’ultimo atteggiamento, almeno nella propaganda nel discorso pubblico. Ci sono più immagini della bandiera nazionale a mezz’asta; almeno una ricavata da una cartolina sulla quale appare la preghiera sopra citata (1928). Il monumento era ricoperto di simboli e di iscrizioni cerimoniali. In cima all’asta, la mano lunga un metro – alzata come per un giuramento- era stata modellata su quella di Horthy. Le figure, evidentemente, rappresentano tutti gli strati della popolazione; le immagini piccole ad ogni angolo si riferiscono a 4 nuovi monumenti eretti alla stesso posto: “Ovest”, “Nord”, “Est”, e “Sud”. Questi simboleggiano i territori perduti. La statua della “tristezza ungherese” rappresentava – e non c’è da meravigliarsi- una donna nuda. Nel 1932, Ferene Herczeg, presidente della lega revisionista ungherese e per altro celebre scrittore, fa un discorso all’occasione della cerimonia di inaugurazione. “Noi, ungheresi, siamo il popolo più triste della terra, perché ogni cosa, a noi sacra, è stata derisa, demolita e crocifissa. Quanto all’eredità dei nostri avi, i mercenari l’hanno giocata ai dadi. La nostra nazione è stata più volte sotterrata in passato, ma sempre è risuscitata il terzo giorno”. Questa citazione, a mio parere, è piena di senso. E’ l’espressione di un nazionalismo fondato su ingiustizie e sconfitte nazionali storicizzanti, che fa ricorso, in modo molto significativo, al lessico cristiano. La sofferenza ungherese è messa sullo stesso piano della passione di Gesù Cristo, mentre le potenze di occupazione susseguitesi nel paese sono molto spesso descritte come demoni a grinfie e coda. L’immagine seguente”l’Ungheria crocifissa” - per altro copertina di “Giustizia per l’Ungheria”, celebre libro scritto in più lingue- è un’altra buona illustrazione di 144 questo parallelo. Oppure guardate ancora questo stemma di Trianon a forma di croce. E’ necessario aggiungere che il revisionismo avesse i suoi propri “dieci comandamenti”? L’immagine dell’Ungheria sola in mezzo ai suoi nemici, regolarmente vinta ma sempre risorta, diventa presto un luogo comune (che rispecchia le visioni romantiche del XIX secolo). In un articolo su “le nostre catastrofi nazionali”, Albert Berzeviczy, presidente dell’Accademia ungherese di scienze, evoca i Tartari, i Turchi e l’assolutismo dopo la rivoluzione del 1848, e conclude che “Trianon rappresenta la sintesi di quasi tutte le caratteristiche delle nostre tragedie nazionali passate, e ne fa, fino ad ora, la crisi più grave che abbia mai messo alla prova, la nostra vitalità”. Inoltre, attribuisce l’incapacità del paese di difendersi dalle attività di tradimento che vi si svolgono – ponendo cosi le basi del nostro proprio mito (latente) della “pugnalata alla schiena”, ciò fin dal 1920. L’analogia tra il disastro della battaglia di Mohacs (1526) e Trianon torna allora frequentemente, diventando anche il tema di esami finali di storia al liceo; cosi, nel 1929, l’enunciato della prova prende una forma delle più semplici: “parallelismi tra Mohacs e Trianon”. Non di rado, all’epoca, diversi memoriali erano innalzati alla gloria dell’irredentismo, addirittura nei quartieri più umili e nei luoghi più comuni. Vedete le vetrine di Budapest, negli anni 1920 e 1930. Queste cose non erano “attese dall’alto” ma facevano semplicemente parte dello “spirito pubblico”. Soffermiamoci su alcuni oggetti innocenti del quotidiano, come un distributore di bibite, un posa cenere, un astuccio, una “cimice nazionale”, un orologio irredentista o ancora una pubblicità per lucido. I vestiti non fanno eccezione, anche se è interessante notare che i vestiti tipicamente ungheresi sono diventati di moda soltanto nel 1930. I vestiti alla moda sono in relazione con “l’Ungheria in lutto”. Prediligo l’acconciatura che conteneva la sacra corona di Santo Stefano, vincitrice di un concorso. Nessuna occasione è stata tralasciata per rinforzare il messaggio: una corsa a piedi irredentista con l’iscrizione “no, no, mai!”, un gioco di carte “del destino ungherese” o un gioco di società irredentista “Raggiungere la grande Ungheria” – l’ ultima risalendo alla fine degli anni 1930, momento in cui questo programma prenderebbe forma e diventerebbe realtà. Un solo campo importante è stato tralasciato, l’educazione, che non è facile a illustrare. Durante tutta l’era Horthy, le giornate scolastiche cominciavano e si concludevano con la “preghiera nazionale”. Materie come la letteratura, la geografia, o ancora la storia sono piene di contenuti e di simboli irredentisti. Ho già menzionato i temi d’esame al liceo che riguardano, direttamente o no, Trianon o il Revisionismo. Un piano di corso dettagliato sul “modo di insegnare il trattato di Trianon” agli alunni di prima è un testo appassionato, molto di parte, anche estremista, allo stesso modo offensivo e ingiurioso per i vicini della nazione, gli ex compatrioti. Conclusioni Abbiamo visto come i memoriali della gloria di Trianon si sono diffusi, essenzialmente a partire dalla seconda metà degli anni ‘20. Senza sorpresa, molti di loro si ispirano allora a dei manifesti della prima guerra mondiale: la propaganda ufficiale in effetti ha spiccato il volo durante gli anni della guerra ( e le rivoluzioni hanno seguito). Molti, per non dire la maggior parte di questi memoriali fanno appello ai simboli del nazionalismo romantico, d’una parte, e del cristianesimo dall’altra: i più efficaci tra di loro combinano d’altronde, i due che non di meno, in fondo, non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro. Abbiamo visto in che modo varie forme di commemorazione del Trianon e della “Ungheria nella sua computezza” si sono ritrovate nella vita di tutti i giorni: appoggiandosi su piaghe lasciate aperte, sono innegabilmente efficaci. Tuttavia, alcuni contemporanei rimpiangono già che il rituale perpetuato attorno a Trianon si sia cosi svuotato del suo senso fino a diventare controproduttivo e a rilevare ormai un autoaccecamento puro e semplice. Eppure – ed è un punto cruciale- tutto ciò presenta una funzione essenziale per la comunità. Secondo lo storico francese Raoul Girardet, i miti storico politici moderni possono essere 145 spartiti in 4 grandi gruppi: le teorie del complotto, i miti dell’età dell’oro, le apologie eroiche ed i miti a proposito dell’unità di una comunità. Ora, pare che il mito di Trianon partecipi contemporaneamente ai quattro: la grande Ungheria, difesa dalla nazione ungherese, eroica e giusta, resistente da sola contro tutti i suoi assalitori – rappresentava un’età d’oro, ma complotti intrecciati da nemici sia interni che esterni, hanno avuto la meglio su di essa. Tuttavia, le basterebbe unirsi nuovamente per innalzarsi e resuscitare all’occasione di una completa revisione. In quanto all’unità, secondo un giovane storico ungherese, “il revisionismo era praticamente la sola forza capace di accogliere un consenso dell’Ungheria del periodo compreso tra le due guerre mondiali”. Spiega cosi che questa dottrina “svolgeva il ruolo di autoterapia psicologica post traumatica”. Aggiungerò che prima, all’epoca del socialismo di stato – gli storici avevano tendenza a fare prova di parzialità accordando un’importanza smisurata alla funzione legittimante della sindrome di Trianon, in modo particolare dando da pensare che contribuisse più di ogni altra cosa alla stabilità del sistema conservatore di destra di Horthy e Bethlen. Si trattava in quel caso di un opinione distorta, per il fatto che trattava Trianon ed il revisionismo come un problema creato dal nulla, allo scopo di manipolazione da parte di gente delle classi dirigenti. Ma vi mostrerò altre due immagini che provano che le apparenze non erano necessariamente ingannevoli: la prima con Horthy, capo, in mezzo, e la seconda – un manifesto di campagna datato 1931, sul quale appare il primo ministro, il conte Istvan Bethlen “per la resurrezione dell’Ungheria”. Per finire, vorrei brevemente segnalare alcune grandi caratteristiche della coscienza nazionale ungherese tra le due guerre mondiali. Come in Germania, questa si è definitamene allontanata dalle vestigia del liberalismo per prendere un aspetto nazionalista fanatico ed esclusivo. Da allora ha preso come bersaglio gli ungheresi imperfetti e magri che trattava come nemici interni, facendo prova di razzismo e antisemitismo crescenti. In un certo modo, questa coscienza nazionale si è anche rivolta contro l’Europa dell’ovest – che non era altro che fonte di sofferenze e vedeva solo le origini orientali “barbari” degli ungheresi. A questo riguardo, una citazione del 1920 del radicale di destra Gyula Gömbös (primo ministro tra il 1932 ed il 1936) è particolarmente rivelatrice: “Abbiamo sempre protetto l’Europa contro i nostri fratelli turanici e questa stessa Europa firma oggi la nostra condanna a morte.” Un immagine è l’esatto riflesso di queste parole: vi si può leggere”Da 1.000 anni per l’ovest”. Notate la croce apostolica ed il guerriero “barbaro”. Più tardi, negli anni trenta, il movimento nazista ungherese – gli uomini della croce frecciata – riciclerà questi simboli “turanici”per indicare la rottura con l’ovest, ma anche con le tradizioni cristiane. Cronologia degli avvenimenti 1867 1913 1914 1916 1917 1918 ESTATE 17 ottobre 24 ottobre 30/31 ottobre Compromesso austro ungherese – creazione della doppia monarchia Il conte Istvan Tisza torna come primo ministro (fino al 1917) L’Austria – Ungheria entra nella prima guerra mondiale dichiarando guerra alla Serbia (fino al 1918) La Romania entra in guerra attaccando la Transilvania. Il conte MichaelKarolyi fonda il suo partito indipendente antiguerra e antitedeschi – Carlo IV segue Francis Joseph Carlo IV priva del potere Tisza. Si seguono governi minoritari instabili. Dibattito sulla questione ebrea nei giornali (l’antisemitismo guadagna terreno) l’ultima offensiva della monarchia sul Piave gira al disastro Tisza annuncia in parlamento che l’Ungheria ha perso la guerra Creazione del consiglio nazionale ungherese formato da partiti di opposizione di sinistra Vittoria della rivoluzione democratica (“rivoluzione degli astri 146 3 novembre 13 novembre 16 novembre dicembre 1919 gennaio 20/21 marzo Aprile / giugno Luglio / agosto autunno 1920 1° marzo 1921 4 giungo Marzo / ottobre aprile 1922 settembre Michael Karolyi diventa primo ministro (praticamente niente sangue versato, ma il conte Tisza è ucciso da soldati sconosciuti). Armistizio di Padova firmato con rappresentati della vecchia monarchia Rappresentanti ungheresi firmano un armistizio distinto a Belgrado Proclamazione della repubblica ungerese a Budapest Aumento delle tensioni e del malcontento. I comunisti e i nazionalisti radicali si organizzano; gli eserciti della Cecoslovacchia e della Romania varcano le frontiere dell’armistizio. Karolyi diventa (temporaneamente) capo di stato. un comunicato dell’Intesa rivolto all’Ungheria esige un nuovo indietreggiamento praticamente fino alla frontiera che sarà tardi quella di Trianon. Dimissione del governo, creazione della Repubblica Sovietica l’esercito della Repubblica sovietica sostiene vittoriosamente gli attacchi rumeni e cecoslovacchi ma si china davanti all’ultimatum di Clémenceau la repubblica sovietica è in crisi; il governo di Béla Kun si dimette il primo agosto. L’esercito rumeno entra in Budapest terrore bianco contro i comunisti, socialisti, ebrei, ecc… I rumeni lasciano Budapest; le truppe dell’ammiraglio Horthy entrano nella capitale; questi assume la funzioni di comandante capo la nuova assemblea nazionale elegge Horthy reggente di Ungheria (fino al 1944) firma del trattato di Trianon l’ex re Carlo IV tenta di tornare sul trono di Ungheria (grazie a due colpi di stato del re). Le potenze della piccola Intesa si mobilitano; i due tentativi falliscono il conte Istvan Bethlen forma un governo ( riamane primo ministro fino al 1931) l’Ungheria si unisce alla lega delle nazioni. 147 19. Dall’equilibrio delle forze alla sicurezza collettiva? La Società delle Nazioni e la diplomazia internazionale Alan Sharp Un nuovo ordine? In dicembre del 1918, Woodrow Wilson, allora presidente degli Stati Uniti, riceve un’accoglienza particolarmente entusiasta in Europa; prima a Parigi, poi a Roma e infine a Londra dove, all’occasione di un discorso a Palazzo di Città, interpreta questo atteggiamento nei suoi confronti come un omaggio alla sua politica. “Vedo nell’accoglienza che mi è riservata il segno che esse (le nazioni alleate) hanno combattuto per sbarazzarsi del vecchio ordine al fine di stabilirne uno nuovo, e che il pilastro del vecchio ordine era quella cosa instabile che eravamo soliti chiamare equilibrio di forze, la quale era determinata dalla sciabola brandita su ambedue i lati, equilibrio mantenuto grazie ad una vigilanza gelosa ed un conflitto di interessi che, benché generalmente latente, era sempre ben ancorato” (Shaw, 1919, p.65). Wilson, in effetti, con un cospicuo gruppo di personalità europee e mondiali, procede tentoni verso un sistema di sicurezza collettiva, di cui ha già tracciato le grandi linee nel più importante dei suoi 14 punti dell’8 gennaio 1918: “Un’associazione generale di governi deve essere formata in virtù di patti specifici per offrire garanzie reciproche di indipendenza politica e di integrità territoriali ai piccoli stati come ai grandi” (Temperley, vol. 1, 1969, p.435). All’indomani del discorso a palazzo di Città, Georges Clémenceau, presidente del consiglio francese, ottiene l’approvazione della Camera dei Deputati, dichiarando a Parigi: “Esiste un vecchio sistema di alleanze chiamato equilibrio delle forze – questo sistema di alleanze, al quale non rinuncio, guiderà la mia azione al momento della conferenza di pace” (MacMillan, 2001, p.31). Questa evidente rottura tra la fiducia di Wilson in una nuova strada e la fede confermata di Clémenceau nella vecchia, danno da pensare che non è necessario di mettere un punto interrogativo al titolo di questo saggio. Se Wilson pensa allora che “il grande gioco, ormai discreditato per sempre, dell’equilibrio delle forze” non ha più corso (Temperley,op. cit. p. 439), i suoi colleghi europei non ne sono cosi sicuri; cosi, malgrado l’importante sostegno popolare e intellettuale di cui beneficia, durante la prima guerra mondiale e dopo, l’idea di un nuovo sistema di relazioni internazionale per sostituire i meccanismi che hanno fallito nel 1914, questo entusiasmo non è necessariamente condiviso dalle elite politiche, ancorché un potente istinto di sopravvivenza proibisca loro sempre più di ammetterlo. Pochi dicono apertamente come Clémenceau la loro costante fedeltà al vecchio regime e non tutti sono irrevocabilmente attaccati ad una via che si è mostrata ai loro occhi inefficace, ma la sicurezza collettiva rappresenta un salto nell’ignoto le cui conseguenze possono essere fatali. Il grande pubblico, che aspira ad un’organizzazione capace di impedire che si ripeta la prima guerra mondiale aspetta dai suoi dirigenti che sostengano la lega. Questi ultimi, per vari motivi, da quell’orecchio non sentono molto, ma non vogliono neanche dissociarsi dal progetto. Una delle linee di frattura dell’insieme del sistema, nel corso degli anni ‘20 e fino agli anni ‘30, risiede in questa dicotomia tra ciò che dicono i dirigenti politici al loro elettorato e ciò che pensano realmente. La crisi profonda del 1935 metterà il governo britannico, in particolare, di fronte alle conseguenze di tale atteggiamento. L’equilibrio delle forze 148 L’equilibrio delle forze è stato definito da Emmerich de Vattel come “uno stato degli affari tale che nessuna potenza occupi una posizione sufficientemente dominante per dettare la sua legge agli altri” (Bull, 1995, p.97). In quanto sistema è più strettamente associato al XIX secolo post napoleonico, di cui il britannico Lord Palmerston è considerato uno dei più ferventi sostenitori. L’opinione di quest’ultimo secondo la quale “da un punto di vista politico è fare prova di ristrettezza mentale di volere tale o tale nazione come eterno alleato o nemico perpetuo dell’Inghilterra. Non abbiamo ne l’uno né l’altro – i nostri interessi sono eterni, e il nostro dovere è di seguirli”, contiene da sola elementi importanti della filosofia che sottende il sistema. I giovani devono seguire i propri interessi tenersi pronti a difenderli. Devono anche poter mostrarsi flessibili, sia per cooperare con un altro membro che per opporsi in funzione della situazione. E’ importante mantenere un equilibrio di forze che vi sia favorevole come anche ai vostri alleati (del momento). Tuttavia, come lo ha fatto notare il diplomatico francese Charles Maurice de Talleyrand, il Sistema è artificiale e suppone una dimensione morale e allo stesso tempo una certa potenza militare o economica. “Se (…) la potenza di resistenza minima, scrive, (….) fosse uguale alla potenza di aggressione massima (…..), ci sarebbe un reale equilibrio. Ma (….) la situazione attuale permette soltanto un equilibrio artificiale e precario che non può durare a lungo se non fin quando alcuni Stati saranno animati da uno spirito di moderazione e di giustizia”. La politica in questione è particolarmente associata al Regno Unito; d’altronde, come Eyre Crowe lo esprimeva in un modo più conciso nel suo celebre memorando del primo gennaio 1907, “il fatto di stabilire un parallelismo tra la politica secolare dell’Inghilterra e l’equilibrio delle forze rileva dell’ovvia verità storica (citato in Otte, 2003, p.77). Nel 1923, il professore Pollard, dal canto suo, fornisce una definizione più cinica e partigiana di questa relazione: “l’equilibrio delle forze in Europa era in realtà una dottrina secondo la quale la Gran Bretagna doveva disporre della forza mentre gli altri paesi assicuravano l’equilibrio” (Pollard, 1923, p.60). Si può pensare che l’era delle alleanze bismarchiane abbia privato il sistema della flessibilità di cui aveva bisogno per funzionare. Anche se le relazioni non sono mai state esclusive, l’AustriaUngheria e la Germania si sono alleate dopo il 1879, come la Francia e la Russia a partire dal 1894, poi l’Italia ha contratto un’alleanza (sempre più distante) con l’Austria – Ungheria e la Germania allorché l’Inghilterra cadeva nell’orbita francorussa, ma in modo informale. La fluidità necessaria di Palmerston non fa più parte del sistema. Si potrebbe anche affermare che la Gran Bretagna di allora non abbia indicato in modo chiaro che avrebbe combattuto per impedire alla Germania di dominare il continente, benché sembra poco probabile che una dichiarazione del genere cosi chiara (che per motivi di politica interna, il segretario britannico agli affari esteri, Sir Edward Grey, non è mai stato in grado di fare) avrebbe mai fermato i tedeschi, in particolare nel corso della crisi di luglio 1914. Un nuovo approccio di pace? Wilson non è solo a pensare che lo scoppio della guerra del 1914 sia imputabile a incrinature nelle strutture esistenti in materia di politica e di relazioni internazionali, e cambiamenti radicali siano rivendicati in modo sempre più insistente a mano a mano che appare in modo più chiaro l’enormità di una guerra che non è ancora finita quando arriva Natale nel 1914, 1915, 1916, addirittura 1917.Grey è convinto che la guerra avrebbe potuto essere evitata se fosse riuscito a convincere i suoi colleghi di Berlino e di Vienna, a partecipare ad una conferenza europea delle grandi potenze e a rispettarne le decisioni. Sin dal 1913, la conferenza di Londra sui Balcani, sembra indicare che il Concerto dell’Europa, nato nel XIX secolo, sia ancora in grado di impedire un conflitto globale, come i suoi adulatori rivendicano che lo faccia dal 1815. Ma il sistema è sempre riposato sulla sola volontà delle potenze di partecipare e non prevede nessun meccanismo per forzare i suoi membri ad una consultazione mutua. Grey si converte dunque molto presto all’idea di una nuova architettura internazionale di sicurezza disponendo di poteri che gli permetterebbero di esigere la tenuta di tale consultazione e di imporre un termine prima 149 che la guerra possa essere dichiarata, ma è proprio quando Wilson unisce la sua voce a quella di piccoli gruppi influenti in favore di un cambiamento che l’idea di una Società delle Nazioni guadagna il suo più efficace difensore, in mancanza del suo ideatore più influente. L’idea di un’alleanza generale per mantenere la pace non è nuova. Maximilien Sully, consigliere del re Enrico IV di Francia, aveva già suggerito un “Grande disegno”. La “Santa alleanza” apparsa dopo la rivoluzione e le guerre napoleoniche, come la “federazione di stati liberi” cara ad Emmanuel Kant, costituiscono tante altre nuove proposte anteriori che miravano a raggiungere lo stesso obiettivo. Il XIX secolo ha visto la firma di vari accordi internazionali per facilitare il commercio e le comunicazioni, come anche un ricorso sempre più frequente al regolamento di conflitti per mezzo del diritto o di procedure di arbitraggio. Nel 1899, la prima conferenza dell’Aia ha creato una corte permanente di arbitraggio che vede uno dei suoi membri, Léon Bourgeois, pubblicare nel 1908 un’opera intitolata “La società delle nazioni”, che ha dato il suo nome all’organizzazione ed è quasi tutto. Praticamente tutte le grandi potenze hanno allora degli accordi, formali o no, secondo i quali si impegnano a sottoporre i loro litigi a tale o a tale forma di regolamento di conflitti, dal momento che l’onore o la sicurezza del paese non siano in gioco. Se una guerra mondiale non avesse coinvolto tutte le grandi potenze nel 1914, gli storici del XX secolo avrebbero forse scritto di un internazionalismo crescente e di un mantenimento efficace della pace che, nati nel XIX secolo avrebbero raggiunto la piena maturità alla loro epoca. Wilson venne infatti a Parigi con un’idea forza che sottende l’insieme della sua visione del ristabilimento della pace. Crede nella bontà fondamentale dell’essere umano. Dando potere alla gente, si assicura un avvenire prospero e pacifico. L’applicazione dei principi di autodeterminazione nazionale e di democrazia, che per Wilson sono inestricabilmente legati, significherà che la gente potrà scegliere lo stato in cui vive e controllare il governo di questo stato. Visto che sono buoni, sceglieranno un governo saggio. Ciò favorirà l’armonia nazionale. L’estensione dell’influenza di queste persone razionali ed informate nel campo delle relazioni internazionali potrà essere realizzata con la creazione di una Società delle nazioni, un organizzazione concepita non per proibire la guerra con il diritto ma per impedire un’ infiammarsi rapido come quello che è successo nell’estate 1914. Preparando il mondo alla democrazia, se ne farà un posto più sicuro, perché i governi sentiranno gli avvertimenti di un opinione pubblica informata e non lasceranno le controversie degenerare in guerra. Wilson spiega: “ La mia concezione della Società delle nazioni è semplice: questa deve operare come la forza morale organizzata degli uomini del mondo intero, ed ogni volta che una nazione prevede o progetta di aggredire un’altra o di causarle torto qualche sia il posto, questo lampo di coscienza dovrà essere puntato su di lui e tutti gli altri uomini dovranno chiedergli: cosa avete in cuore contro la buona marcia di questo mondo?”(Armstrong, 1982, p.98). Georges Clémenceau è meno convinto – “Vox populi, vox diaboli”, brontola, facendo a Wilson il complimento dubitoso sul “nobile candore del suo spirito”. (Duroselle, 1988, p.738). Tenendo conto che Wilson era visto come il grande campione della Società, è sorprendente che non sia stato coinvolto più di tanto nell’elaborazione di piani e progetti di legge prima del suo arrivo a Parigi. Infatti, è in Gran Bretagna, con il rapporto Phillimore a maggio, e in Francia, con a giugno le conclusioni di una commissione presieduta da Bourgeois, che le prime proposte pratiche appaiono nel 1918. La Società secondo Phillimore sarebbe un parente stretto del Concerto dell’Europa. Questa organizzazione insisterebbe sulla sovranità degli Stati. Tuttavia, Lord Justice Phillimore, invocando il concetto anglosassone del “hue and cry”, propone che ogni membro che parte in guerra senza avere esaurito le procedure della Società “si trovi ipso facto in guerra contro tutti gli altri stati alleati….”. Questa sanzione automatica e senza equivoco è al centro dell’idea di sicurezza collettiva, e la sorte che le sarà riservata determinerà se la Società diventerà o no una forza veramente nuova e rivoluzionaria nella diplomazia internazionale. Il rapporto francese condivide molto le idee avanzate da Phillimore, ma Bourgeois propone inoltre che la Società abbai un po’ più di muscoli, in altre parole una forza militare internazionale. Per altro insiste perché l’adesione non sia proposta soltanto agli alleati 150 del tempo della guerra, il che porta inglesi e americani a sospettare che la Francia voglia rendere perpetua l’alleanza di guerra unicamente per imporre la pace alla Germania (Egerton, 1979, pp. 65/69). Solo dopo questi rapporti, di cui dice che non lo impressionano, Wilson comincia a stendere le sue prime proposte, con l’aiuto del suo amico e confidente, il colonnello Edward House. In un primo momento, prende anche in considerazione la sanzione di entrata in guerra ipso facto, come stabilito ugualmente nel progetto di Jan Smuts, ministro sud africano della guerra e membro del gabinetto di guerra di Lloyd Gorge, e in quello di Robert Cecil, uno dei principali membri del partito conservatore e d’altronde ex ministro incaricato del blocco imposto alla Germania. Nel suo primo (testo) elaborato, Wilson scrive così: “Ogni potenza contrattante che rompe questo patto o non ne tiene conto…entra di questo fatto, ipso facto…. in guerra contro tutti i membri della Società”. Queste parole contengono alla volta l’idea centrale della sua organizzazione internazionale alternativa, la sicurezza collettiva, e la garanzia automatica da parte di tutti i membri di un’alleanza universale in favore dell’indipendenza politica e dell’integrità territoriale degli altri stati partecipanti di fronte ad un aggressione unilaterale. La formula di Wilson, tuttavia evidenzia la principale incrinatura del sistema – la contraddizione tra la sovranità degli stati e la necessità di una garanzia assoluta, incondizionale ed automatica. In questo quadro, la decisione fondamentale che un governo sovrano può essere indotto a prendere – quella di partire in guerra – sarebbe in realtà presa da un altro governo che non avrebbe rispettato i suoi impegni internazionali. Ora, come lo fanno notare al presidente il suo segretario di stato, Robert Lansing, e uno dei suoi consiglieri giuridici più vicini, David Hunter Miller, tale disposizione è incompatibile con il diritto costituzionale degli Stati Uniti che affida al Congresso la responsabilità di dichiarare guerra in nome della nazione. Per altro è accolta male ugualmente dagli altri grandi Stati; sarà dunque la formula modificata di Wilson a formare finalmente la base dell’articolo 16 del Patto che dispone che “ogni potenza contrattante che rompe questo patto o non ne tiene conto … è in realtà considerata ipso facto come avendo commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Società”. Ciò restituisce ad ognuno dei governi coinvolti la scelta della risposta che desidera obiettare per conto suo a tale mancanza. Nella competizione che oppone una Società sovranazionale alla sovranità nazionale non c’è nessun dubbio che prevalgono gli Stati, ma a danno dell’immediatezza della sicurezza collettiva da cui dipende la credibilità di ogni garanzia (Sharp, 1991, pp. 42/76). Perciò, quando i membri della Società promettono, all’articolo 10, “di rispettare e preservare dalle aggressioni esterne l’integrità territoriale e l’indipendenza esistente di tutti i membri della Società..”, Robert Cecil dice ad alta voce ciò che molti pensano: “Si, ma ce ne sono tra di noi che ne hanno veramente l’intenzione?”. Lo stesso Cecil ha annotato che “per l’essenziale, non si cerca in nessun modo di appoggiarsi su un potere sovranazionale qualunque, ma piuttosto sull’opinione pubblica – e se ci sbagliamo su questo punto, ci sbagliamo su tutta la linea”. Il delegato francese alla commissione della Società, Ferdinand Larnaude, avrebbe del resto esclamato: “Sono ad una conferenza di pace oppure sono finito in un manicomio?” (Sharp, 1991, pp. 57,62). In realtà, i principali membri della Società vedono in questa meno una sostituzione che uno sviluppo ed un miglioramento del sistema esistente di relazioni internazionali, e le ambiguità che ne derivano vengono a galla sin dal 1919. La Società è tenuta ad offrire ai suoi membri una garanzia assoluta alla loro integrità territoriale, essendo nello stesso tempo vettore di un cambiamento pacifico. La Gran Bretagna in particolare insiste sul fatto che un sistema che non saprebbe mostrarsi flessibile nè accogliere il cambiamento sarebbe a lungo andare vittima della propria rigidezza, ciò ne farebbe una minaccia per la pace mondiale che si proponeva di assicurare. Wilson si consola dicendo che benché sia inevitabile che la conferenza di pace commetta errori, i meccanismi della Società con il tempo li rettificherebbero. Tuttavia se molte delle nuove frontiere dell’Europa saranno definite, ai sensi dell’articolo 19, come “condizioni internazionali la cui perennità potrebbe costituire un pericolo per la pace mondiale”, si può allora pensare che la soluzione consista in un cambiamento. Ma, in questo caso, cosa ne sarebbe della garanzia 151 territoriale dell’articolo 10? Chi la politica di assicurazione della Società protegge, e a chi si applica solo a certe condizioni – le quali non sono chiaramente espresse nelle piccole linee? Se ad esempio la Francia crede nella sicurezza collettiva come è definita nel progetto del patto di febbraio 1919, a cosa servono le garanzie offerte in marzo da Lloyd Gorge e Wilson contro un nuovo attacco tedesco? Se una grande potenza come la Francia avvertiva il bisogno di beneficiare di una protezione supplementare, perché gli stati meno importanti dovrebbero affidare ad altri, senza riserva, la responsabilità della loro sicurezza nazionale? Si può sempre riconoscere l’aggressore in un litigio internazionale? Questo porterà sempre, come nei vecchi western, un cappello nero che lo identifica chiaramente come il cattivo? La lega delle Nazioni La Società non sarà mai l’organo universale che richiedeva la sua missione. Nel 1920, conta 32 membri fondatori – essenzialmente i vincitori della guerra ed alcuni stati neutri. I principali nemici sono esclusi, e l’incertezza che prevale per quanto riguarda la situazione russa mantiene un’altra grande potenza dell’antiguerra in disparte dalla nuova organizzazione. Quest’ultima attiverà fino a 63 Stati, ma nel corso della sua esistenza, vedrà 17 nazioni ritirarsi di loro spontanea volontà oppure esserci invitate, tra le quali il Giappone, la Germania, l’Italia o anche l’URSS. In nessun momento l’organizzazione raccoglie insieme tutte le grandi potenze, e la perdita degli Stati Uniti sin dall’inizio le assesta un colpo di cui non si riprenderà mai del tutto. Non solo si trova privata della forza e della perizia americana, ma gli stati di cui si aspetta che facessero rispettare le decisioni della Società, con al primo posto la Gran Bretagna, devono ormai tener conto, prima di agire, di un eventuale confronto con gli Stati Uniti nel caso, ad esempio, di un blocco navale contro un membro aggressivo con il quale gli americani avrebbero ancora la speranza di trattare. La libertà dei mari in tempi di guerra è stata sempre un punto sensibile nelle relazioni angloamericane, svolgendo un ruolo particolarmente importante nello scoppio della guerra che ha opposto i due paesi dal 1812 al 1815, e complicando ancora le cose durante la guerra civile americana e la prima guerra mondiale. Stanly Baldwin, un conservatore che diventerà primo ministro di Gran Bretagna, precisa cosi che nell’eventualità di un blocco discuterebbero con Washington prima di mettere la Royal Navy al servizio della Società. Come per l’esito della guerra in genere, il fatto che gli americani si ritirino dall’esecuzione di politiche che hanno largamente contribuito ad elaborare lascia l’essenziale delle responsabilità alla Gran Bretagna e alla Francia, e Ginevra, dove la Società si è insidiata, diviene un’arena in più dove si oppongono violentemente le loro visioni antagoniste (Henig, 2000, pp. 138/157). Il Canada si preoccupa vivamente delle conseguenze dell’assenza americana sulla sua relazione con il suo potente vicino e di conseguenza tenta a 4 riprese di sopprimere o attenuare la portata dell’articolo 10. Un delegato canadese dichiara cosi, forse a torto e in modo poco diplomatico, che la sua nazione vive “in una casa resistente al fuoco, lontana da ogni materiale infiammabile”, e che dunque non giudica essenziale di prendere parte ad un’equipe internazionale di pompieri. Se, tecnicamente le iniziative canadesi falliscono, un memorando del Foreign Office britannico riconosce pur sempre, nel 1926, che gli obblighi dei membri in virtù del Patto saranno limitati in funzione delle “condizioni specifiche e della situazione geografica” proprie; spetta dunque ad ogni stato di decidere del contributo che desidera portare ad ogni operazione di sicurezza collettiva, e le sentenze previste all’articolo 16 non sono obbligatorie (DBFP, 1996, Serie 1°, vol. 1, pp. 847/8). Come lo spiega allora Gilbert Murray, presidente dell’Unione della Società delle Nazioni in Gran Bretagna, la sicurezza collettiva non è molto sicura. “L’obbligo dell’articolo 10 è alla volta troppo vasto per essere accettato da una nazione prudente, e troppo vago perchè questo possa fare affidamento su di esso. Nella sua forma attuale, il Patto non permette a nessuna nazione di sperare che in caso di attacco, il resto della Società spedirebbe eserciti per difenderla (Daily News, febbraio 1923) (citato da Henig, 2000, p.148). I tentativi di rinforzare la sicurezza 152 collettiva a titolo, prima del trattato, di alleanza mutua, poi del protocollo di Ginevra, incontrarono una feroce resistenza britannica per mezzo del Foreign Office e dei servizi di stato che pensano che potrebbero portare a degli impegni militari indefiniti ed inaccettabili. I difensori ottimisti di queste proposte che mirano ad aumentare l’efficacia della sicurezza collettiva affermano che favoriscono di natura a lanciare e un progressivo disarmo mutuo. I dubbi, pieni di pessimismo e paradossali, nel novembre 1935, del comitato britannico di difesa imperiale: “è quasi impossibile prevedere con quali nazioni potremmo entrare in conflitto in seguito ad una mancanza al patto…è difficile lo stesso di determinare il modo… in cui dovremmo utilizzare le nostre forze armate, dato che non si può beneficiare di nessuna indicazione per quanto riguarda la condizioni nelle quali si dovrebbe operare. Di conseguenza… il principio di sicurezza collettiva costringe a prepararci ancora meglio di prima alla guerra” (Dunbabin, 1993, pp.440/1). Benché la Società sia essa stessa un prodotto degli accordi di pace, e pure se i 26 articoli del Patto costituiscono la prima parte di tutti i trattati negoziati a Parigi, diventa rapidamente chiaro che i britannici ed i francesi non hanno l’intenzione di lasciare gli aspetti più importanti dell’applicazione di questi trattati, sfuggire loro di mano. All’indomani del putsh Kapp di marzo 1920 in Germania, ed in rappresaglia a ciò che considera come un incursione illegale delle truppe del suo vicino nella zona demilitarizzata della Ruhr, la Francia decide unilateralmente, il 5 e 6 aprile, di occupare 5 città tedesche: Francoforte, Darmstadt, Hanau, Hambourg e Dieburg. Lord Robert Cecil suggerisce che la presenza di queste truppe tedesche nella zona vietata rappresenta una minaccia di guerra e rileva dunque, in virtù del trattato, delle competenze della Società. Ma il Foreign Office, anche se giudica l’argomento convincente, non è disposto a seguire questa politica – queste questioni devono essere risolte dai governi alleati, e non dalla Società (191340/4232/18 in FO371/3783, Archivio nazionale britannico, Kew). Questa ha le sue pratiche, che consistono ad esempio nel mettere da parte il principio di autodeterminazione quando pare necessario di attribuire alla Francia il carbone della Saar o alla Polonia l’uso del porto di Danzig, senza accordare alla popolazione delle regioni coinvolte la minima sovranità nazionale. E peraltro ben comodo di affidare la protezione delle minorità dell’Europa centrale e dell’Est alle cure della Società. La Gran Bretagna e la Francia chiedono anche alla Società di trovare una via d’uscita al problema in cui si trovano di fronte ai risultati del plebiscito dell’Alta Silesia del 1921 riguardo ai confini reali della regione, cosa che costituisce un coinvolgimento inabituale ed eccezionale dell’organizzazione nell’applicazione del trattato. D’altronde ciò non riesce necessariamente ai britannici giacchè il confine che sarà finalmente tracciato è molto più favorevole alla Polonia di quanto Londra avrebbe auspicato. La descrizione poco lusinghiera che fa del comitato, secondo il segretario del Gabinetto britannico dell’epoca, Sir Maurice Hankey, un gruppo costituito da “un belga profrancese, due Mètèques e un cinese” dà un’idea del poco rispetto che le era concesso e riflette chiaramente la delusione britannica (Hankey D’Abernon, 2 ottobre 1921. D’Abernon papers, ADD MSS 48954, British Library). Si comprende meglio l’atteggiamento anglofrancese quando le due nazioni respingono, nel 1921, l’idea di una sostituzione della Commissione di controllo permanente delle missioni militare alleate della Società stessa come organo principale di controllo del disarmo tedesco, e anche quando si dichiarano scettici per quanto riguarda la capacità dell’organizzazione di svolgere in fortuna attività di sorveglianza, nonostante alcune disposizioni dell’articolo 213 del trattato. La Società registra certo dei successi, di cui, quelli più rappresentati, sono relativi al problema delle isole Aaland nel 1920 e al conflitto greco-bulgaro del 1925, ma riguardano zone accessibili dell’Europa, oppongono stati minori e non coinvolgono gli interessi diretti di una grande potenza. Il ruolo positivo dell’organizzazione nella lotta contro la schiavitù, la prostituzione internazionale e il traffico di droga, come nella protezione dei rifugiati e delle minorità, è già riconosciuto all’epoca e sarà confermato più tardi dagli storici. Ma è difficile determinare se la nuova diplomazia di allora ottiene risultati diversi da quelli che avrebbe raggiunto la vecchia, in circostanze identiche. 153 La Società è molto meno efficace quando i criteri menzionati non si applicano, come ad esempio nel confronto tra Bolivia e Paraguay all’inizio degli anni 1930, od ancora negli incidenti degli anni 1920 come la presa di Vilna da parte dei polacchi. L’occupazione franco belga della Ruhr nel 1923 offre un altro esempio del modo in cui l’organizzazione è messa in disparte quando si tratta di fare rispettare il trattato. Lo stesso anno, l’incidente di Corfou mostra che le esigenze del sistema internazionale, il prestigio e la politica delle grandi potenze sono tanti elementi che danneggiano a modo loro l’implicazione della Società (Dunbabin, 1993, Henig, 200). Quando il problema si verifica in lontane contrade e coinvolge una grande potenza, come succede in Manciuria nel 1931, gli sforzi della Società restano nell’insieme senza effetto, tanto più che è difficile di designare chiaramente il Giappone come l’aggressore (Armstrong, op. cit. pp. 28/32). Tuttavia, è in Abissinia nel 1935 che le esigenze delle vecchie e nuove diplomazie si scontrano più violentemente. Nel dicembre 1934, le forze italiane e abissine si affrontarono a Wal-Wal, in Abissinia (Etiopia). Il 3 gennaio 1935, gli abissini chiedono alla Società di beneficiare delle garanzie offerte dall’articolo 11; ma 9 mesi più tardi, il leader fascista italiano, Benito Mussolini, si serve di quel incidente per legittimare l’invasione che lancia il 3 ottobre 1935. Le altre grandi potenze avrebbero potuto tollerare un tale atteggiamento (ma i popoli invasori evidentemente no) nel XIX secolo, ma non è più il caso nel 1935. Non c’è allora nessun dubbio che l’Italia abbia agito in modo aggressivo e contrario ai suoi obblighi nei confronti di un altro membro dell’organizzazione (di cui d’altronde, ironia della storia, essa ha sostenuto la candidatura). Allo stesso modo, è chiaro che l’Abissinia, già ben conosciuta a Ginevra per le sue posizioni, dubbiose in materia di schiavitù, può difficilmente considerarsi un membro reale da meritarsi la solidarietà internazionale, ma le circostanze non mostrano di meno che la credibilità della Società e della “sua nuova diplomazia”, sia ormai inestricabilmente legata alla risposta che daranno i suoi principali membri a questo problema preciso. La loro posizione si trova tuttavia ostacolata dalle esigenze della “vecchia diplomazia”. Sempre più preoccupate di vedere la Germania di Hitler rinunciare al disarmo ed imporre la coscrizione, la Gran Bretagna e la Francia vogliono evitare di perdere il sostegno italiano in Europa. L’Italia possiede in effetti un impressionante flotta moderna e Mussolini vanta la potenza e l’importanza dei suoi mezzi aerei. La nazione rafforza la sua vocazione ad assumere un ruolo di primo piano sul teatro europeo quando le sue truppe marciano verso il confine del Brenner ed impediscono ad Hitler di andare più avanti in Austria, in seguito all’assassinio del cancelliere Dolfuss a luglio 1934. L’Italia acquisisce cosi l’immagine di una componente importante per ogni equilibrio delle forze in Europa. Il vertice di Stresa, che riunisce l’Inghilterra, la Francia e l’Italia in aprile 1935, dà ai britannici e ai francesi l’impressione di avere rinforzato un blocco contro la Germania, mentre per Mussolini, l’indifferenza anglo francese di fronte al destino dell’Abissinia costituisce il quid pro quo del sostegno italiano (per una visione globale del contesto diplomatico europeo, vedere Marks, 2002, Steiner, 2005). D’un lato, c’è dunque la sicurezza collettiva, la Società e la moralità internazionale e, dall’altro, considerazioni sull’equilibrio delle forze ed un approccio amorale della diplomazia internazionale che si preoccupa dei fini, non dei mezzi. La Gran Bretagna, forse in una misura maggiore della Francia, è attanagliata tra queste due visioni antagoniste. La crisi in Abissinia ha come effetto di aumentare la pressione sull’elite decisionista britannica, divisa tra il sostengono riaffermato del pubblico alla Società e il proprio scetticismo, che si accompagna ad una preferenza per l’alternativa la più dura a digerire. In una nota dal tono tipicamente acerbo, in data 8 giugno 1935, Robert Vansittart, il sottosegretario permanente del Foreign Office, riassume perfettamente la posizione poco invidiabile di questa elite: “la situazione è chiara come l’acqua della fontana. Bisogna subornare – non abbiamo paura delle parole- l’Italia in un modo o l’altro, altrimenti l’Abissinia sarà distrutta”. La cosa in se potrebbe avere un’importanza molto relativa se non significasse che la Società, in questo caso, andrebbe distrutta anch’essa (e che l’Italia compierebbe simultaneamente un nuovo voltafaccia per gettarsi nelle braccia della Germania, movimento che dipende sia dall’alta politica che dall’alto imbroglio – che possiamo 154 difficilmente permetterci di questi tempi). Prevede dunque “un orribile autunno” (Adamthwaite, 1977, p.138). Durante l’autunno in questione, il governo britannico affronta un’elezione. Su 31.379.050 elettori , 21.997.254 votano in occasione di questo scrutinio generale di novembre. Precedentemente, sempre nello stesso anno, l’Unione della Società delle Nazioni, che vede diminuire il numero dei membri (da 407.000 nel 1931, a 377.824 nel 1935) organizza uno dei primissimi sondaggi dell’opinione pubblica, attraverso il quale cerca di determinare come la Società è percepita dai britannici. Quasi 11 milioni di persone, più della metà di quelle che voteranno poco dopo in quell’anno, rispondono ad una serie di quesiti incentrati sulle difficoltà di impiego nell’industria bellica e che finiscono col chiedere al pubblico britannico se sia disposto a lottare per salvaguardare la pace. Alla prima domanda, che chiede se la Gran Bretagna debba rimanere membro della Società, 10.642.560 britannici rispondono di si, 337.964 di no, il che equivale senza sorpresa al 97% di parere favorevole. Le 3 domande seguenti riguardano la fondatezza del disarmo globale e del divieto di vendere armi su scala internazionale. La quinta, in due parti, riguarda prima il modo in cui un aggressore debba essere costretto a desistere con mezzi economici e non militari, al che 9.627.606 (ossia il 94.10%) persone interrogate rispondono di si, contro 60.167 che rispondono in modo negativo. La seconda parte tratta del sostegno che il pubblico porterebbe a sanzioni militari contro un aggressore, se fosse necessario. 6.507.777 persone si dichiarano pronte ad appoggiare tali procedimenti, contro 2.262.261 che non li vorrebbero, vuol dire, ciò nonostante, che il 74.2 % di coloro che hanno risposto sarebbe favorevole alla guerra come ultimo ricorso. Nessuno dei partiti politici presenti all’elezione può ignorare questa convalida pubblica della Società quand’anche i suoi dirigenti esprimerebbero dubbi a proposito della nozione di sicurezza collettiva. La Gran Bretagna appoggia dunque l’idea di sanzioni contro l’Italia, ma si dissocia da due delle quali si può pensare sarebbero le più efficaci (oppure, ed è più imbarazzante, che avrebbero spinto Mussolini a comportarsi da “cane impazzito”, secondo l’espressione dei dirigenti britannici, lanciando ad esempio un attacco sorpresa sulla Royal Navy in Mediterraneo) -cioè un embargo sulle consegne di petrolio ed un divieto di imboccare il canale di Suez. Sarebbe bastato perché il governo conservasse la sua credibilità agli occhi dell’elettorato e perché il governo nazionale di coalizione, dominato dai conservatori, sia tranquillamente rieletto, ma i risultati internazionali si rilevano meno favorevoli. Le sanzioni contro l’Italia non le impediscono di conquistare l’Abissinia, cosa che la Società riconosce a malincuore nell’estate del 1936. Questa viene allora vista come fallimentare; diventa progressivamente obsoleta nella diplomazia internazionale, i piccoli stati provvedono ormai alla propria sicurezza, oppure, come in Irlanda, scelgono la neutralità e le nazioni più grandi tornano alle loro politiche tradizionali di alleanze e riarmo. Quando l’Anschluss austriaco controlla l’indipendenza di un membro nel 1938, la Società non ne è nemmeno informata. L’ Italia diventa l’alleata della Germania nazista, a distanza di mille leghe dal campo di Stresa da cui fu allontanata a causa di una politica che ha prodotto effetti diametralmente opposti a quelli dati per scontati. La Gran Bretagna non ha instaurato la sicurezza collettiva ne restaurato l’equilibrio delle forze. Conclusioni In realtà, la sicurezza collettiva sarebbe potuta arrivare a buon fine se le grandi potenze – in particolare la Gran Bretagna e la Francia- fossero state disposte a portare il loro completo sostegno alla Società, altrimenti era inevitabile che i piccoli stati si sentissero traditi nella loro fede nel sistema. Per altro, sussisteva la questione di saper chi supporterebbe il peso dell’azione della Società. Come Sir Samuel Hoare, segretario degli affari esteri britannici, dice all’assemblea delle Società l’11 settembre 1935: “…. La mia nazione è risolutamente favorevole … all’applicazione collettiva del Patto nel suo insieme, e particolarmente ad una resistenza ferma e collettiva di fronte ad ogni atto di aggressione unilaterale” – ma è significativo che questa osservazione sia stata preceduta da una messa a punto secondo la quale “ una cosa è 155 certa. Se ciò rappresenta un peso questo deve essere portato collettivamente. Se la pace deve essere minacciata, deve esserlo per tutti. La sicurezza di tutti non può essere assicurata dagli sforzi di alcuni, fossero i più potenti” (Hoare, 1954, p. 170). Un cinico direbbe che i più piccoli stati traggono beneficio sia dal successo della Società che dal fatto che costi loro poco. All’occasione di un conflitto tra la Colombia ed il Perù, nel 1932/33, il delegato irlandese presso la Società, Sean Lester, propone di imporre al Perù un embargo sulle armi. A Dublino, Sean Murphy (segretario assistente al ministero degli Affari Esteri) ricorda a Lester che l’Irlanda non è né un fabbricante né un esportatore di armi. “Il ministero desidera evitare una situazione in cui lo stato irlandese libero prenderebbe una parte troppo grande nell’accettare un obbligo la cui responsabilità non li spetta ma rileva di altri stati” (Kennedy, 1996, p. 179). La lezione abissiniana è dolorosa. Il 30 giugno 1936, l’imperatore Haile Selassie si rivolge all’assemblea delle Società in questi termini: “ Chiedo alle grandi potenze, che hanno promesso la sicurezza collettiva ai piccoli stati – questi piccoli stati sui quali incombe la minaccia di subire un giorno la sorte dell’Etiopia: quali misure avete l’intenzione di prendere? Rappresentanti del mondo, sono venuto a Ginevra per adempiere davanti a voi al dovere più doloroso di un capo di stato. Quale risposta devo portare al mio popolo?” (Kennedy, 1996, p. 220). Per gli addetti della realpolitik, la risposta va da se, come lo dichiara Henry Pownall, allora membro della segreteria del Comitato britannico di difesa imperiale: “Basta sicurezza collettiva, “forze morali” e tutto questo genere di cose… Non è buono pensare che gli articoli 10 e 16 del Patto possono perdurare. La gente che conta sopra per la propria sicurezza se ne morderà le dita, come l’Abissinia ne ha fatta l’amara esperienza. Le nazioni le più modeste ne sono perfettamente coscienti e lo dicono con collera tramite “loro giornali”…. Di conseguenza … sappiamo adesso a che punto siamo. L’esperienza è stata tentata, ed è fallita. Per fortuna è stata tentata su piccola scala, anche se l’Abissinia non è probabilmente di questo parere” (citato secondo Dumbabin, 1993, p. 441). La grande esperienza di Robert Cecil si conclude dunque come un fallimento. Riposava infatti su troppi paradossi: il tentativo di stabilire una sicurezza collettiva in un mondo composto da stati sovrani, la speranza di una democrazia internazionale in un mondo dominato da grandi potenze; la volontà di fermare un potenziale aggressivo e di mantenere la pace brandendo la minaccia della guerra in ultimo ricorso; una garanzia di integrità territoriale combinata con un organo di riaggiustamento territoriale; in breve, una base rivoluzionaria per assicurare la stabilità internazionale futura. Tuttavia, questa esperienza costituisce un precedente sul quale sarà edificata, nel 1945, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che conoscerà le proprie difficoltà nell’applicare il concetto di sicurezza collettiva. Infatti, nel caso dell’ONU, forse bisognerebbe scrivere “collettiva” con la K, visto che solo la Corea (Korea in inglese) ed il Koweit sono stati il teatro di operazioni riuscite. La Società rappresentava, alla fine della prima guerra mondiale, uno degli aspetti più nobili del ristabilimento della pace. A questo titolo, l’esperienza di Jean Monnet come assistente del primo segretario generale, Sir Eric Drummond, conta senza dubbio per molto nel suo pensiero futuro, particolarmente quando suggerì che la cooperazione europea dopo la seconda guerra mondiale si ispira alle caratteristiche internazionali della Società, ma includendovi competenze sovranazionali. Monnet credeva fermamente nel potere delle istituzioni, citando spesso Henri Frédéric Amiel, memorialista di Ginevra del XIX secolo: “Ogni uomo viene al mondo senza memoria. Solo le istituzioni guadagnano in maturità: sono le custode della saggezza collettiva che gli uomini, sottomessi alle stesse leggi, assimilano progressivamente – non è la loro natura che cambia, ma il loro comportamento” (Duschene, 1994, p. 401). Possiamo considerare che la Società non è stata un completo fallimento, visto che ha fatto progredire l’idea di un diritto internazionale, e che ha contribuito alla creazione delle istituzioni mondiali che conosciamo oggi; ciò non toglie che tra le due guerre mondiali, non è mai riuscita a sostituirsi alla nozione di equilibrio delle forze nella mente della maggior parte dei principali uomini di stato. D’altronde ci rincresce constatare che i loro tentativi, sinceri o cinici, di porsi a 156 difensori della sicurezza collettiva non sono serviti né all’unità, né alla sicurezza, rovinando allo stesso tempo la politica che, anche se oggi ha perso ogni credito, aveva allora la loro preferenza. 157 20. Gli Iugoslavi alla conferenza di pace di Parigi e l’eredità della prima guerra mondiale TVRTK JAKOVINA La prima guerra mondiale e la sua eredità presso gli slavi del sud Uno dei miei giovani colleghi, assistente in storia americana, evocò il tema di un test che aveva dato ai suoi alunni: fare l’elenco dei 5 più grandi presidenti americani. Con mia grande sorpresa, Woodrow Wilson, 23° presidente degli Stati Uniti non fu menzionato in nessuna copia. Con sua grande meraviglia, Wilson sarebbe probabilmente figurato (secondo me) nell’elenco della maggior parte degli studenti europei. Che fosse stato ingenuo o idealista, oppure un messia ed un uomo di stato in anticipo sul suo tempo, Wilson posò almeno 3 pietre angolari della politica del mondo moderno: gli Stati nazionali, la democrazia e la sicurezza collettiva (vedi ad es. Sheffield, 2002, p.278; Best ed altri, 2003, pp. 39/41). La fine della prima guerra mondiale segna incontestabilmente l’inizio di un’era nuova. Anche se furono lungi dall’essere perfette, e benché alcune elite nazionali abbiano considerato in seguito che la loro “età d’oro” si collocasse nel XIX secolo invece del seguente ( è il caso, ad esempio, dei Croati), le conseguenze della prima guerra mondiale, positive e durature, rappresentarono una vittoria. La prima guerra mondiale modificò radicalmente la situazione degli slavi del sud e la geografia politica dell’Europa del sud-est. Tre dei 14 punti esposti da Woodrow Wilson nel gennaio 1918 riguardano direttamente questa regione. Benché tutti gli iugoslavi siano stati finalmente riuniti nello stesso stato, il regno dei Serbi, croati e sloveni, e abbiano da quel momento condiviso le conseguenze, l’eredità della prima guerra mondiale non fu allora, e non è la stessa a tutt’oggi, per l’insieme degli ex Iugoslavi. Dall’indomani della guerra, rappresentava molto più per i serbi che per il resto della popolazione. Tutto l’insieme di villaggi che ricevettero il nome dal reggente Alessandro Karadjordjevic fu fondato nella parte orientale della Croazia (Slovenia), in Vojvodine (oggi nel nord della Serbia) e in Macedonia (che era allora chiamata Serbia del sud), dove alcuni appezzamenti furono concessi ai veterani serbi. Altre misure, invece, furono lontano dall’essere popolari. Il territorio del regno dei serbi, croati e sloveni che una volta faceva parte dell’Austria Ungheria era più esteso, più popolato e più ricco di quello della Serbia ( Macedonia e Montenegro compreso). Cosi la popolazione del primo fu scontenta della decisione di cambiare le vecchie corone austro ungheresi al tasso di 4 corone per 1 dinar (vedi Tudjman, 1993, pp. 298/302; Pirjavec, 1995, p. 20). Al termine della prima guerra mondiale, gli slavi del sud in passato separati, furono finalmente riuniti in un solo stato e sotto l’autorità della stessa dinastia, quella dei Karadjordjevic. Ciò spiega il fatto che l’eredità della guerra sia stata commemorata. Benché “l’dea iugoslava” fosse in origine croata, i serbi e i numerosi altri slavi vi aderirono. La fondazione del nuovo stato può essere accreditata sia agli ambienti militari e politici della Serbia, che ai responsabilità politici sloveni, croati, e serbi dell’impero austro ungherese. Dopo la seconda guerra mondiale, la posizione ufficiale della Iugoslavia socialista di Tito fu identica a quella adottata dalla sinistra, cioè con gli intellettuali comunisti, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. La creazione dello stato Iugoslavo e l’unificazione degli slavi del sud costituivano una realizzazione positiva. Tutto il resto era beninteso, negativo: il sistema capitalista, la monarchia, la dittatura, l’assenza di regolamento della questione nazionale. A causa di questa situazione e di una storiografia sempre molto ansiosa per la “distanza storica”, le opere consacrate alla prima guerra mondiale furono abbastanza numerose, soprattutto in certi poli iugoslavi. I macedoni furono generalmente delusi dalle conseguenze della prima guerra mondiale. I bulgari avevano tentato durante il conflitto di sradicare ogni traccia di influenza serba; all’indomani della guerra, i serbi fecero lo stesso, in senso contrario. 158 Retrospettivamente, e benché non fossero stati riconosciuti all’inizio, i macedoni furono felici della creazione della Iugoslavia. Durante la seconda guerra mondiale e nella Iugoslavia di Tito, alcune prerogative di stato furono loro concesse. Cosi la loro lettura del trattato di Versailles fu conforma alla dottrina ufficiale dell’epoca socialista. Gli albanesi del Kosovo non si adattarono mai veramente alla sovranità serba né all’instabilità accompagnata dalla repressione che precedette e segui le operazioni militari. Malgrado lo scoppio della guerra in seguito all’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, il teatro delle ostilità fu relativamente lontano dal territorio della Bosnia Erzegovina. La sua popolazione musulmana e croata colse molto male l’assassinio dell’arciduca commesso da Gavrilo Princip, membro dell’organizzazione “Giovane Bosnia”, con l’appoggio di una società segreta composta da ufficiali dell’esercito serbo, la “Mano Nera”. Dopo la prima guerra mondiale, il ponte che scavalca la Miljacka a Sarajevo fu chiamato però con il nome di Gavrilo Princip. Quest’ultimo era principalmente decritto nei manuali scolastici iugoslavi come un patriota nato nelle classi oppresse, un giovane che compì un atto patriottico certo disperato, ma comprensibile. Questo stesso ponte ha ritrovato oggi il nome di “ Latinska cuprica” che portava prima della grande guerra. Il monumento eretto alla memoria della coppia assassinata della famiglia imperiale fu demolito poco tempo dopo la guerra e non fu mai ricostruito. L’impronta dei passi di Princip fu rappresentata sul suolo nel luogo stesso dove si trovava al momento dell’assassinio e divenne una delle curiosità turistiche della città. I croati combatterono su più fronti. All’inizio delle ostilità, si trovavano esclusivamente nelle file dell’esercito austro-ungherese, sui campi di battaglia della Serbia, della Galicia, e più tardi dell’Italia. Per altro furono a migliaia a prendere parte, in qualità di arruolati volontari, ai combattimenti del fronte detto di Salonica, nell’autunno 1918. Questi, come il futuro cardinale croato Aloysiye Stepinac oppure il futuro bano di Croazia ed ultimo primo ministro reale Ivan Subasic, furono sistematicamente considerati maggiormente come partigiani della monarchia e della Iugoslavia, almeno per il momento. Ma senza l’autore croato Miroslav Krleza ed i suoi romanzi, poi i film e i telefilm adattati dalle sue opere, il ricordo della prima guerra mondiale in Croazia sarebbe difficilmente sopravvissuto al quotidiano. In effetti, rari sono i monumenti ai caduti innalzati in onore dei soldati morti sul campo di battaglia. La storiografia croata non ha mai prestato molta attenzione a questo periodo: si fermava all’assassinio di Sarajevo oppure incominciava alla creazione del nuovo regno. Le opere consacrate ai vari episodi della vita politica durante la guerra, all’azione del comitato iugoslavo o dei partiti politici del Sabor (parlamento) croato alla stessa epoca, rappresentavano generalmente gli sforzi ostentati per la creazione dello stato iugoslavo. Con la fine della guerra fredda e lo scoppio della Federazione iugoslava, il discorso pubblico croato associò sistematicamente alla Iugoslavia i termini di Grande Serbia o di comunista. La terza espressione la più corrente scherniva “la Iugoslavia, prodotto di Versailles” (e della sua conferenza). Materializzava il sentimento di una gigantesca cospirazione diretta contro i croati ed il loro diritto all’indipendenza. Siccome l’obiettivo era, nel corso degli anni ‘90, di uscire dalla Iugoslavia, ogni elemento in relazione con questo stato e soprattutto la sua creazione stessa aveva una connotazione negativa. Gli sloveni si sentirono molto meno frustrati con l’annessione del loro paese alla Iugoslavia. Ben più realisti dei croati, capirono che le loro possibilità di vedere regolata la situazione del 1918 in un senso più favorevole alla loro “causa nazionale” erano inesistenti. Gli italiani, usciti vincitori dalla guerra e che erano finalmente riusciti ad oltrepassare la Soca (Isonzo), annettero enormi parti di territorio nazionale sloveno (e croato) che erano stati loro attribuiti dal trattato segreto di Londra. Unità dell’esercito sebo contribuirono ad impedire all’esercito italiano di impadronirsi nuovamente di Ljubljana (Krizman, 1989, p. 338). Gli sloveni, la cui popolazione istruita era la più avanzata dell’insieme degli slavi del sud, riuscirono a rinforzare la loro posizione prima all’epoca del regno, poi nella Iugoslavia di Tito. Le regioni lasciate all’Italia nel 1919 furono parzialmente recuperate nel 1945. L’ovest della Slovenia è piena di monumenti e di cimiteri sistemati a ricordo della prima guerra mondiale; presenta anche il magnifico museo di Kobarid, al quale il consiglio di Europa ha concesso pochi anni fa il premio del miglior museo dell’anno. Come per i croati, la fine della prima guerra mondiale segna per gli sloveni la fine di un’unione di stato secolare con la dinastia degli Asburgi. 159 Il Montenegro assume una posizione particolare. Questo paese schierato dalla parte degli alleati, ma sotto occupazione, fu esplicitamente menzionato nei 14 punti del presidente Wilson; il suo monarca, di memorabile longevità, nonno del reggente serbo e futuro re di Iugoslavia, fu destituito dal suo trono mentre il paese era privo della sua sovranità. I montenegrini, di confessione ortodossa, furono favorevoli ad uno stato unito. Tutti non approvarono però i metodi adoperati per giungere all’unificazione della Serbia e del Montenegro. I “Verdi” fedeli alla dinastia montenegrina dei Petrovic, si opponevano ai “Bianchi”; questi, soprannominati cosi a causa del colore dei volantini che diffondevano le loro idee, convocarono le elezioni della Grande Assemblea nazionale del Montenegro, la quale depose Nicolas primo e proclamò l’unione con la Serbia. Ogni ulteriore tentativo di modificare la situazione come la rivolta di Natale 1919, si rilevò vano( Tudjman, 1993, pp. 250/273). La storia gloriosa di questo principato a lungo indipendente, povero, ma che era riuscito ad intrecciare una rete notevole di relazioni diplomatiche, fu una fonte permanente di ispirazione per numerosi montenegrini, anche per coloro che avevano l’identità nazionale in parte serba. Quelli che si sentivano maggiormente o esclusivamente montenegrini esaltavano la loro dinastia, la loro opposizione agli ottomani e la loro indipendenza. Oggi, quando il Montenegro si incammina verso un referendum che potrebbe ristabilire la sovranità piena ed integra di Podgorica, l’unificazione senza condizione con la Serbia del 1918 viene sempre più spesso considerata come un errore. Per i serbi, la prima guerra mondiale rappresentò un avvenimento storico tanto importante quanto glorioso. Rare furono le nazioni confrontate a tante prove in un lasso di tempo cosi breve: due guerre balcaniche, poi una guerra mondiale in meno di tre anni. I serbi riuscirono a vincere più battaglie contro le forze austro ungheresi nel 1914, prima di essere vinti; procedettero allora al ripiego del governo e dell’esercito più a sud, mantenendosi come forza politica rispettosa e promessa ad un brillante avvenire. All’indomani della guerra, dovettero scegliere tra l’annessione di regioni che consideravano come indubbiamente serbe (la Grande Serbia) e la soluzione iugoslava, la quale significava la costituzione di uno stato più ampio. Il regno recentemente creato di serbi, croati e sloveni, era dominato dai serbi ed incarnava, in un senso l’esito trionfale di un secolo di evoluzione e di accrescimento territoriale della Serbia. Inebriate dalla vittoria, le elite serbe si comportarono sfortunatamente di più da occupanti e padroni che da fratelli. I croati soprattutto erano scontenti di aver perso le istituzioni e l’autonomia di cui avevano goduto durante i secoli della dominazione asburghese. Nella seconda metà degli anni ’80, un numero crescente di storici serbi cominciarono a contestare pubblicamente la soluzione ritenuta nel 1918. Secondo loro, la scelta di uno stato più ridotto sarebbe stata chiaramente più proficua agli interressi nazionali serbi. Questa identità avrebbe inglobato i due terzi della Croazia, e la totalità della Bosnia-Erzegovina, il Montenegro e la Macedonia. Quando scoppiò la guerra nel 1914, il futuro presidente e dirigente iugoslavo Josip Broz Tito era caporale dell’esercito austro ungherese. I primi combattimenti dati sul fronte della Serbia, ai quali prese parte e dove combattè coraggiosamente in compagnia di migliaia di cittadini provenienti da questa parte dell’impero austro ungherese, di cui i serbi, furono alla fine cancellati dalla sua biografia ufficiale. Molto tempo dopo, mentre viaggiava in questa parte della Serbia, egli evocò i luoghi dove la sua unità aveva combattuto. Alaxander Rankovic, l’uomo forte della Serbia durante i primi tempi della Iugoslavia di Tito, gli raccomandò di mantenere il riserbo su questo argomento (Ridley, 2000, p. 71). Durante la guerra che oppose Otan e Serbia nel 1999, il monumento eretto in onore della Francia, in ricordo del sostegno che essa le aveva portato durante la prima guerra mondiale, fu nascosto a causa della sua partecipazione agli attacchi lanciati dall’Otan. Durante il processo dell’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, uno degli “amici della corte” ricordò le imprese di Tito sul fronte serbo nel 1914. Fu interrotto dal giudice, che chiese che non si tenesse nessun conto delle sue osservazioni, perché estranee alla causa. Questo incidente è tuttavia estremamente rilevatore. La storia del sud-est europeo rimane molto presente e molto sfruttata (in modo indiretto) nel dibattito politico. 160 La prima guerra mondiale Gli slavi del sud comprendono i popoli separati dal resto del gruppo slavo, dagli ungheresi e dai Rumeni. Soli i Bulgari, Serbi e montenegrini, avevano ottenuto l’indipendenza prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Gli abitanti della Macedonia rimasero sotto il dominio ottomano fino al 1912, al momento della divisione storica della Macedonia tra Grecia, Bulgaria e Serbia. La Bosnia-Erzegovina appartenne all’impero ottomano fino al 1878, ma divenne ufficialmente austro-ungherese solo nel 1908. Da questa data, tutti i croati e gli sloveni, come i serbi che vivevano in Vojvodine, Croazia e Bosnia Erzegovina furono sudditi austro ungheresi. L’Austria /Ungheria si confrontò con il grave problema del malcontento degli slavi, che non si limitavano a quelli del sud-est europeo. Benché la questione delle nazionalità divenne ogni giorno più ampia, l’Impero resisteva alla contestazione nazionalista. Tutti gli sloveni, divisi su più province storiche, come i Croati di Dalmazia e di Istria, facevano parte della metà austriaca della monarchia. Il resto di questa popolazione era integrata al regno di Ungheria e riuscì a preservare la sua autonomia e il suo Parlamento (Saber). I contingenti militari del territorio della Croazia – Slovenia erano annessi alla “ Honved” ungherese, ma la lingua di comando di ciò che si chiamava la “Domobranstvo” era il croato (dal 1868); gli ufficiali erano croati, le divise portavano i distinti croati e la bandiera stessa era bordata dai colori nazionali croati (Cutura e Galic, 2004, p. 39/40). Malgrado queste caratteristiche probabilmente lusinghiere per l’elite nazionale croata, tale organizzazione poneva un problema di funzionamento pratico (come comandare un esercito i cui soldati parlavano 3 lingue diverse), senza dubbio più preoccupante di nessun altro. Qualunque sia stato il loro grado di insoddisfazione di fronte alla situazione generale, queste popolazioni slave erano divise, deboli , in piccolo numero e impoverite. I Serbi possedevano il proprio stato, cosa che preoccupava Vienna. Belgrado ambiva in effetti a diventare il Piemonte degli slavi del sud. “La monarchia deve prendere una decisione energetica per dimostrare la sua capacità di sopravvivenza e porre fine alla situazione intollerabile che prevale nel sud-est”, faceva osservare il primo ministro ungherese all’occasione dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo il 28 giugno 1814 (Best e altri, 2003, p. 266). Poco importa se il primo ministro serbo Nicolas Pasic sia stato informato o meno dell’attentato (MacMillan, 2003, p. 113). La guerra scoppiò dopo l’ultimato lanciato ai Serbi. Era vano sperare di schiacciare la Serbia, umiliare la Russia e fare volare in frantumi l’Intesa. La maggior parte dei soldati che parteciparono all’offensiva lanciata contro al Serbia erano croati e serbi della doppia monarchia. L’esercito serbo vinse le prime battaglie, ma presto perse Belgrado. Quando la Bulgaria entrò in guerra al fianco delle potenze centrali, il territorio serbo e montenegrino fu diviso e occupato dalla stessa Bulgaria e dall’Austria /Ungheria fino agli ultimi giorni del conflitto. L’Italia rimase neutra solo all’inizio delle ostilità per poi aggiungersi all’Intesa nel maggio 1915. Dopo mesi di negoziato tra le due parti, l’accordo segreto di Londra assicurò agli italiani l’attribuzione di gigantesche parti di territorio albanese, croato e sloveno, come anche il sud Tirolo. L’Italia lanciò senza successo 4 offensive sull’Isonzo (Soca) nel 1915, a scopo di indebolire le posizioni austriache e di tentare una penetrazione fino a Trieste, poi fino a Vienna e Budapest (Sheffield, 2002, pp. 326-31; Boban, 1991, p. 17). Questo piano prevedeva un collegamento con le truppe russe sul suolo ungherese, ma le forze italiane erano troppo deboli per riuscirci. Le interminabili campagne del 1915 proseguirono fino al 1916. Nel 1917 non ci fu nessuno spostamento importante del fronte. Il comandante capo delle forze austro ungheresi sul posto era il generale croato Borojevic. Quando la rivoluzione scoppiò in Russia, gli affari esteri sovietici denunciarono la diplomazia segreta e pubblicarono l’insieme degli accordi segreti conosciuti dei diplomati zaristi. L’atteggiamento della questura del popolo agli Affari esteri e del marinaio Markin fu favorevole agli interessi austro/ungheresi. Il servizio di propaganda di guerra di Vienna fece stampare, sotto forma di volantini, le carte dei territori attribuiti all’Italia grazie all’accordo di Londra del 1915. I soldati sloveni e croati, in maggioranza lungo il fronte della Soca, ne furono indignati. La prima vittoria schiacciante 161 riportata dagli italiani con l’aiuto dei britannici e dei francesi fu quella di Vittorio Veneto, svolta dal 24 ottobre al 4 novembre 1918. Trieste fu finalmente persa. Grazie ai successi militari ottenuti sul fronte di Salonico a sud-est, la prospettiva di formare uno stato unito apparve agli slavi del sud per la prima volta nel corso della loro storia. Moltissime opinioni diverse si contrapponevano a proposito della sua organizzazione, ma ci sarebbe un unico esercito ed una sola dinastia. Truppe coloniali francesi entrarono nel 1919 a Zagabria. Un battaglione fu acquartierato nel centro stesso della città. Si componeva di Vietnamiti, che gli abitanti di Zagabria chiamavano “cinesi”. Diedero rappresentazioni di opera popolare e spettacoli di danza ai quali partecipò la popolazione locale (Suvar, 2001, p. 31). Ma questi vietnamiti furono acquartierati temporaneamente. La prima guerra mondiale segnò un vero tornante storico. Cosi, dopo mille anni di unione politica con Magyars e mezzo millennio di vita comune con gli Asburgi, i croati appartenevano ad un nuovo stato di cui non erano più questa volta la componente meno sviluppata, ma al contrario la più avanzata e la più ricca. La capitale era cambiata lo stesso come la dinastia e la religione dominante. Il sistema stabilito era meno occidentale ma coloro che ne avevano l’incarico erano considerati come fratelli e parlavano una lingua simile. Un gran numero di croati edi sloveni rimasero fuori dalle frontiere del nuovo stato; tutti i serbi, invece, vivevano ormai sotto la propria autorità. Le elite nazionali serbe, croate e slovene, non condividevano la stessa concezione dell’organizzazione del nuovo regno. Queste divergenze furono lampanti durante la guerra. Al momento dell’apertura delle ostilità, Pietro 1°, considerato spesso come uno dei sovrani più liberali della storia della Serbia, regnava sulla nazione. Il governo era diretto da Nicolas Pasic, uno dei più brillanti uomini politici della Serbia moderna. Dal mese di settembre 1914, i responsabili politici della nazione espressero la loro intenzione di costituire un potente stato, che radunerebbe integralmente serbi, croati, sloveni. Questo obiettivo che andava al di là di una semplice liberazione, fu riaffermato all’inizio di dicembre 1914 a Nis, nel sud del regno (Dimic, 2001, p.11). Nel campo avverso, parte dell’elite politica croata lasciò la nazione e formò il comitato iugoslavo. La sede di questo organo era stabilita a Londra. Era presieduta dal croato Ante Trumbic, proveniente da Split, in Dalmazia. Il progetto dei suoi membri mirava alla creazione di uno stato comune con la Serbia ed il Montenegro. Uno di loro, Frano Supilo, senza dubbio uno dei migliori politici che la Croazia abbia mai avuto, era favorevole ad uno stato federale e non centralizzato, posizione che non condividevano assolutamente i suoi omologhi serbi. Deluso dall’atteggiamento di Pasic e dall’Intesa dopo la divulgazione del trattato di Londra, diede le dimissioni. I rappresentanti del comitato iugoslavo firmarono finalmente, nel 1917, con i Serbi, la Dichiarazione di Corfou, il cui spirito era consono alla concezione federalista. Il futuro stato doveva prendere la forma di una monarchia costituzionale, parlamentare e democratica. La Costituzione doveva garantire l’esistenza di 3 bandiere, 3 religioni e 2 alfabeti. Il cambiamento di atteggiamento delle autorità serbe fu di breve durata, per via della rivoluzione russa e del complicarsi delle relazioni politiche (Goldstein, 1999, pp. 110/11; Boban, 1992, p. 8). I croati, sloveni e serbi che erano rimasti fedeli agli Asburgi e continuavano a prendere parte alla vita politica nella metà austriaca della doppia monarchia, adottarono nel 1917 la risoluzione detta di maggio. Questa chiedeva la costituzione di un’identità distinta di slavi del sud in seno all’Impero. Costituivano un cerchio iugoslavo, presieduto dallo sloveno Anton Karosec e facevano appello alle tradizioni parlamentari e storiche croate (Dimic, 2001, pp. 21/24; Krizman, 1989, p. 342). In seguito a questa decisione, con l’avvicinarsi della fine dell’Austria/Ungheria, i delegati sloveni, croati e serbi formarono il consiglio nazionale (Narodno vijece) a Zagabria. Il 29 ottobre 1918 il vijece proclamò l’indipendenza e la creazione dello stato degli sloveni, croati e 162 serbi, con Zagabria come capitale. Non fu però riconosciuto dalla comunità internazionale, sprovvisto di forza armate, messo in situazioni di conflittualità con la progressione militare dell’Italia nelle regioni promesse a quest’ultima con il trattato di Londra ed in tante altre zone, il nuovo stato si trovò in grande difficoltà. Una delegazione condotta dal Dr. Ante Pavelic (un dentista) partì per Belgrado spianto dai croati di Dalmazia, direttamente minacciati dagli italiani, e sorda agli appelli di Stjepan Radic e del Dr. Hrvoj che supplicavano i delegati di non andare in Serbia ( “come oche nella nebbia”). Il discorso di unificazione fu letto al reggente Alexander Karadjorjdevic il primo dicembre 1918. Parigi 1919 La conferenza tenuta a Versailles iniziò in gennaio 1919. Le nazioni vinte ancora esistenti non vi furono invitate. Benché la conferenza di Parigi contò fino a 58 commissioni differenti, le decisioni del consiglio dei 5 e più ancora del consiglio supremo, composto dai primi ministri dai presidenti del Regno Unito, della Francia, degli Stati Uniti e dell’Italia, facevano legge (Kissinger, 1994, p. 232). Tuttavia, questi rappresentanti non condividevano gli stessi valori ne la stessa concezione sul modo più opportuno di organizzare la pace. Le trattative di pace di Parigi si svolsero mentre i combattimenti proseguivano. La “Grande guerra” in effetti non fini alla fine dell’anno 1918. Al contrario, le truppe britanniche, francesi, americane e giapponesi combattevano contro i rossi in Russia sovietica. I russi stessi erano in piena guerra civile. Pochi anni più tardi, una volta respinte le forze controrivoluzionarie, uno dei loro capi, il generale Wrangel, andò a stabilirsi con migliaia di russi nel nuovo regno dei serbi, croati e sloveni; morì a Belgrado dove fu sepolto. Una guerra russo polacca infuriava nello stesso momento. Gli ungheresi lottavano ancora su due fronti, nella moderna Slovacchia e in Romania. Gli irlandesi si sforzavano di ottenere l’indipendenza. Un vento di insurrezione e di rivoluzione comunista soffiava dappertutto. La popolazione dell’insieme del continente era totalmente stremata da un conflitto che aveva causato un numero colossale di vittime e giganteschi danni materiali. In quest’atmosfera si svolsero dei negoziati che, in una certa misura, volevano dare una risposta alla situazione. La rettifica delle frontiere rappresentò una delle questioni più cocenti. Alcuni tracciati come quello della frontiera orientale della Polonia, furono ridisegnati sul campo di battaglia. Le trattative ormai servirono in parte a legittimare modifiche realizzate con la forza. Offrirono l’occasione di tenere referendum e plebisciti. Referendum furono cosi organizzati nel Burgendland (Austria) e in al Schleswig – Holstein ed in Silesia, ma non ci fu nessun plebiscito nel sud del Tirolo, in Alsazia Lorena, a Dantzig o nel corridoio polacco. Ciò si spiega beninteso con il fatto che i 4 grandi erano all’altezza di prevedere che i plebisciti organizzati in queste regioni avrebbero prodotto risultati contrari a ciò che speravano. Le priorità dei 5 grandi erano diverse. Il Giappone desiderava il riconoscimento internazionale dell’annessione delle colonie tedesche del Pacifico. La Gran Bretagna si preoccupava del suo impero. La Francia voleva prendere la rivincita. Gli Stati Uniti erano favorevoli all’autodeterminazione nazionale ed alla creazione di una Società delle Nazioni. L’Italia augurava l’applicazione dell’accordo di Londra del 1915. La Grecia tentava, sia diplomaticamente che militarmente, di restaurare una versione dell’impero bizantino a scapito di ciò che era ancora l’Impero ottomano. I negoziati di pace di Parigi riconoscevano la dichiarazione Balfour del 1917 e l’accordo Sykes – Picot. Tutti questi elementi svolsero un ruolo cruciale nella definizione del territorio della Iugoslavia, o più esattamente del regno dei serbi, croati e sloveni, la cui nazione aveva acquistato il nome dal primo dicembre 1918. Il regno degli slavi del sud esisteva già prima dell’inizio della conferenza di Versailles. L’unico punto che restava da regolare era quello delle frontiere. La delegazione iugoslava presente al momento della conferenza si componeva di diverse persone. La maggior parte di loro erano serbi, ma il ministro degli affari esteri era croato di Dolmazia, il presidente del comitato iugoslavo Ante Trumbic. Benché quest’ultimo avesse firmato l’atto di 163 unificazione in cirillico e che fosse sicuramente proiugoslavo e opposto ad ogni idea di mantenimento dell’impero Austro/ungherese, il suo discorso nei riguardi dei serbi non era, è il meno che si possa dire, politicamente corretto. “Non paragonerete, spero”, lanciò ad un autore francese “i croati, gli sloveni, i dalmati diventati puri occidentali grazie a secoli di comunione artistica, morale ed intellettuale con l’Austria, l’Italia e l’Ungheria, con questi serbi mezzo civilizzati, ibridi balcanici degli slavi e dei turchi”. “Per i serbi tutto è semplice; per i croati tutto è complicato” dichiarò al contrario un delegato di origini serba al suo omologato britannico (Macmillan, op. cit., p. 113). Mentre certi membri della delegazione erano molto più ansiosi di garantire le frontiere meridionali dello stato e di orientare quest’ultimo in direzione della penisola balcanica, altri si preoccupavano della sorte degli slavi rimasti sul territorio dell’Italia, dell’Austria o dell’Ungheria (Boban, op.cit.,pp. 17/19). Alla fine della conferenza di pace di Parigi, la Bulgaria cedette alla Serbia più parti del suo territorio nazionale situati presso Strumica, Caribrod e Basilegrad, anche la regione all’est di Titmok. Il trattato di pace di Neuilly fu firmato con la Bulgaria il 27 novembre 1919. Il regno dei serbi, croati e sloveni vi appose la propria firma il 5 dicembre. La Romania si vede promessa la totalità del Banat. Velidaka Kikinda, Veliki Beckerek (Zrenjanin), Vrsac e Bela Crkva furono finalmente ceduti alla Serbia. L’accordo definitivo fu firmato nel 1924. L’Ungheria perse Medimurje, Prekomurje, Prekodravlje (Gola, Zdala i Repes) e Baranja, regioni popolate esclusivamente da sloveni e croati, in virtù del trattato di Trianon del 4 giugno 1920. Benché le rivendicazioni iugoslave riguardassero anche Klagenfurt, Villach e Volkermarkt, soltanto Maribor e Radgona furono finalmente attribuite alla Iugoslavia. La divisione la più dolorosa fu quella effettuata tra il regno dei serbi, croati e sloveni e l’Italia. Il trattato di Rapallo fu firmato sul finire dell’anno 1920. Tutta la zona situata all’ovest di Snjeznik ed Idria in Slovenia, la totalità dell’Istria, le isole di Cres, Losinj, Lastovo e Palagruza, cosi come la città di Zadar, antica capitale della Dalmazia, divennero italiane. La città di Rijeka (Fiume) non era stata promessa agli italiani con il trattato di Londra; Gabriele D’Annunzio, pittoresco avventuriero e grande poeta italiano, occupò la città con l’aiuto di un esercito privato irregolare nel 1919. Rijeka ottenne lo statuto di città libera separata, ma fu annessa all’Italia in un secondo monumento (Boban, op.cit., pp. 17/19). Conclusioni La prima guerra mondiale fu l’evento chiave del XX secolo, all’origine di tutto ciò che segui, come sostiene Gary Sheffield (Sheffield, 2001, pp. 264/674)? Alcuni esperti di primo piano vanno fino ad affermare che essa fu un conflitto tragico ed inutile, altri la giudicano tragica ma non inutile perché servì a lottare contro l’autocrazia militarista ed aggressiva. Tutte le nazioni non divennero democrazie, la sicurezza collettiva di cui doveva farsi garante la Società delle Nazioni appena creata si rilevò illusoria ed i nuovi “stati nazionali” erano lungi dal corrispondere alla loro dominazione (la Cecoslovacchia raggruppava 10 milioni di cechi e di slovacchi, 3 milioni di tedeschi, 700.000 ungheresi, 500.000 ucraini e 60.000 polacchi). I negoziati di pace di Parigi oppure il trattato di Versailles non furono la causa diretta della seconda guerra mondiale, ma le loro imperfezioni erano tali da contribuire sicuramente allo scoppio di questo nuovo conflitto. Gli accordi di pace conclusi a Parigi nel 1919 non posero fine a tutte le guerre. Ma la democrazie liberale non avrebbe trionfato senza la vittoria ottenuta all’occasione della prima guerra mondiale. Il regno dei serbi, croati e sloveni, rappresentava la migliore soluzione possibile per ognuno. Qualunque altra decisione sarebbe stata meno favorevole agli sloveni e soprattutto ai croati. L’unione con i serbi preservò enormi parti del territorio nazionale, che altrimenti sarebbero diventate italiane (Antic, 2004, pp.15/21). Le speranze dei croati, di occupare, in seno al nuovo 164 stato, una posizione praticamente dominante almeno sul campo economico grazie al loro progresso si rivelarono vane. I serbi, malgrado la ristretta maggioranza di cui beneficiavano, pretendevano dominare tutto, cosa che avrebbe allora implicato un ricorso alla forza. La fine della prima guerra mondiale ed il movimento rivoluzionario che vinse la lotta in Russia e scosse brevemente tante città europee, marcarono l’inizio della guerra fredda? Se, per guerra fredda si intende anzitutto una lotta di idee, fu effettivamente il caso. I nuovi dirigenti del regno dei serbi, croati e sloveni, stabilirono una rete di “campi di internamento” in diverse regioni del nuovo stato. Le persone internate non erano tutte potenziali bolscevichi o ex prigionieri di guerra catturati dai russi; in mezzo a loro si trovavano anche lealisti fedeli agli Asburgi, membri delle minoranze nazionaliste, ecc (Miloradovic, 2004, pp. 267/274). 80.000 detenuti in totale soggiornarono in quei campi, di cui 57.000 fatti prigionieri in Russia. Sul piano politico, questa iniziativa si rivelò estremamente impopolare. Questo errore, al quale si aggiunsero tanti altri, rappresentò l’inizio di un processo di cui la Iugoslavia non si riprese mai (MacMillan, op.vìcit., p.117). (Referenze e bibliografie p.189/190) 165 21. La “Grande Guerra” ed il trattato di Neuilly – sur – SeineRetaggio reale ed immaginario nel dibattito pubblico in Bulgaria IVAN ILCHEV Nel XX secolo nel giro di 35 anni, precisamente dal 1912 al 1947, circa la metà di una vita umana, i Bulgari hanno fatto 4 guerre di cui ne hanno perso 3. Mi sembra un record ineguagliato e saremmo tentati di dire che nessun altro stato europeo ce lo invidii. Di fatti, con un po’ di fortuna, ammesso che convenga la parola, un coscritto dell’età di 18 anni nel 1912 avrà potuto partecipare ad ognuno di questi conflitti. Era inevitabile che queste guerre, e soprattutto le sconfitte ed i trattati di pace che seguirono, lascino nella coscienza nazionale profonde cicatrici, che furono visibilissime e lo sono ancora, almeno in una certa misura. L’unico conflitto di cui la nazione sia uscita vittoriosa, fu quello della prima guerra balcanica del 1912/1913, che si concluse con il trattato di pace di Londra nel maggio 1913. Ragion per cui si erge nella memoria nazionale come il trionfo dell’azione collettiva dei bulgari. Ma non ebbero né il tempo né l’occasione di raccogliere i frutti dei loro sforzi. La disastrosa seconda guerra balcanica gli subentrò in effetti durante al torrida estate 1913. La sconfitta subita sui campi di battaglia fu suggellata dal trattato di pace di Bucarest. La prima guerra mondiale scoppiò due anni più tardi. La Bulgaria guadagnò in quell’occasione il triste merito di essere l’unico stato al mondo ad avere ceduto alle “sirene” delle potenze centrali dopo l’autunno 1914 ( preceduta in questo solo dall’Impero ottomano), mentre più di 20 nazioni sceglievano il campo dell’Intesa. I sogni di rivincita e di gloria non tardarono a trasformarsi in triste sedute tenute al fronte ad epidocchiarsi, o peggio, ad ammucchiare cadaveri mutilati buttati senza altre cerimonie sul terreno roccioso della Macedonia. L’armistizio firmato a Salonico a settembre 1918, poi il trattato di pace di Neuilly del 27 novembre 1919 significarono il crollo completo della Bulgaria. Un piccolo stato L’equilibrio delle potenze che prevaleva prima della guerra nella penisola balcanica si era spezzato. All’inizio del secolo, la Bulgaria rappresentava il principale stato cristiano a sud del Danubio. Era largamente considerata come il paese dei balcani la cui progressione era la più rapida, con un economia in piena espansione, infrastrutture che migliorano a grande passo ed un ordine giuridico progressista, sfoggiando una legislazione sociale moderna. Il suo esercito era rimasto come il più disciplinato, il meglio attrezzato e probabilmente il più motivato della penisola. In un rapporto rivolto nel 1911 ai suoi superiori, l’addetto militare francese di Sofia affermava che un battaglione di fanteria bulgara valeva 3 battaglioni rumeni. Nell’autunno del 1912, in un articolo acceso consacrato alla storia recente del sud-est europeo, l’ex presidente americano Teodoro Rooselvet, definì la Bulgaria il “Giappone dei balcani”, non tanto per le sue prodezze militari che per il suo sviluppo economico sociale. Dopo il 1919, la Bulgaria divenne il più piccolo stato dei balcani (all’eccezione dell’Albania); la superficie del suo territorio rappresentò meno della metà della Iugoslavia o della Romania, essa sprofondò durante circa 15 anni in un ristagno economico, mentre la sua vita politica era scossa da numerose crisi e soccombeva alla violenza. I vincitori sorvegliavano con auspicio la minima sua iniziativa in campo diplomatico o militare. Non vedevano nella Bulgaria che un eventuale fonte di conflitto. Durante circa 20 anni, fu tenuta in disparte dalla scena internazionale. I suoi vicini la umiliarono pubblicamente in più occasioni. Sofia non aveva scelta. Doveva presentare delle scuse ed inchinarsi stringendo i denti. 166 Contrariamente e quanto era successo all’occasione dei conflitti precedenti, la partecipazione della nazione alla seconda guerra mondiale non fu volontaria. Il re di Bulgaria Boris III tentò fino all’ultimo momento di restare fuori dalla lotta che cominciava ad opporre le grandi potenze. Ma questa posizione si rivelò impossibile a tenere. La Germania aveva bisogno della Bulgaria per mantenere l’insieme della penisola sotto il suo dominio. Contava di utilizzare il suo territorio come pedana per l’offensiva che prevedeva di lanciare contro la Iugoslavia e la Grecia. Dal canto loro, le nazioni dette democratiche, la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti, non alzarono un dito per venire in aiuto ai bulgari nella difficile situazione in cui si trovavano. Sofia era considerata come preda legittima per la Germania, parte indiscussa della sua sfera di influenza politica ed economica. Il paese beneficiava di alcune consolazioni. Grazie ad accorte manovre, Boris riuscì almeno ad evitare l’impegno diretto del suo regno nella guerra. Questa tattica si rivelò tuttavia insufficiente. Al termine del conflitto la Bulgaria si ritrovò ancora una volta nel campo dei vinti e firmò il 10 febbraio 1947 il trattato di pace di Parigi al fianco dell’Italia, della Romania e degli altri alleati della Germania. Quando si pensa a questo percorso, colpisce il fatto che apparentemente il paese non abbia conosciuto una sorte cosi disastrosa come ci si sarebbe aspettato. Al momento del suo impegno nella prima guerra balcanica, nell’autunno 1912, il suo territorio si estendeva su 96.000 Kmq. Nel 1947, dopo tre disfatte consecutive, presentava una superficie di 111.000 Kmq, cioè 15.000 in più rispetto a quanti ne contava 35 anni prima. Le sue perdite in vite umane registrate ad ognuno dei conflitti armati della prima metà del secolo furono in genere ben inferiori a quelle dei suoi vicini. Un altro elemento merita di essere sottolineato. Durante queste 4 guerre, l’esercito bulgaro combattè fuori dalle frontiere della Bulgaria propriamente detta. All’infuori dei bombardamenti del 1943/1944 essa fu risparmiata dalle distruzioni e devastazioni che, in varie epoche, lasciarono praticamente in rovina la Serbia, la Grecia, la Romania e la Turchia. Perché, in questo caso, i bulgari deplorano un esito che più di un paese avrebbero persino definito un successo? Questo genere di argomentazioni positiva aveva all’epoca poca fortuna, e poco più oggi, di trovare un eco favorevole in Bulgaria. La maggior parte di bulgari rigettavano sulle sconfitte militari ed i trattati di pace la principale responsabilità del ritardo e della debolezza del loro paese. Il trattato di Neuilly – sur – Seine, che si inscrive nel quadro dei trattati di pace di Parigi del 1919/1920, fu considerato come l’autore di tutti i suoi mali. Nella mente della popolazione fu innalzato al rango di simbolo della condizione della Bulgaria, un “cliche”che permetteva di spiegare tutti i problemi con i quali era confrontata in modo ricorrente a causa della natura vendicativa dei suoi vicini e della bassezza delle grandi potenze che davano loro manforte. Perché il buon andamento dell’economia non si trovava “all’appuntamento”? A causa del trattato. Perché i politici erano corrotti ed indegni di fiducia? A causa del trattato. Perché il tasso di divorzi saliva vertiginosamente? A causa del trattato. Perché il senso morale era scomparso? A causa del trattato. Come ognuno sa, i “cliche” in genere hanno un ruolo capitale sia in politica interna che nelle relazioni internazionali. Secondo il padre della teoria moderna dei “cliches”, Walter Lippman, il loro interesse principale sta nella loro funzione di classificazione del reale. Ma questo interesse diventa spesso il loro principale inconveniente. Ciò si produce quando il “cliche” non è più conforme alla norma oppure quando classifica le cose o i fenomeni in funzione di caratteristiche secondarie, non essenziali. Lippman stesso precisa “che non è indispensabile che il cliche sia menzognero”. Questa spiegazione suona come una scusa. Di fatti, un buon numero di eruditi giudicano i cliche falsi di natura e considerano che rappresentano una “informazione ingannevole, sciocchezze tradizionali, largamente propagate”. Perché no, dopotutto”! Un altro ricercatore, Vaineke, ha in seguito affermato che era importante crederci. Questa convinzione difficile da fare crollare, che conferisce al clichè la sua stabilità ne costituisce uno dei segni distintivi. E’ ciò che provoca ben spesso “l’irrigidimento” delle conoscenze e le trasforma in dogma, il che permette loro di sussistere a lungo dopo che l’epistemologia abbia dimostrato la loro assenza di fondamento. 167 Il clichè più tenace della storia bulgara, risalendo all’ultimo quarto del XIX secolo è rappresentato da ciò che chiameremo la sindrome di Santo Stefano. Secondo costui, la Russia vittoriosa impose in marzo 1878 all’Impero Ottomano vinto di riconoscere il ben fondato delle rivendicazioni bulgare. Il trattato preliminario di Santo Stefano fece nascere un vasto principato bulgaro, dotato di un ampio litorale lungo il mare Egeo, che inglobava la maggior parte delle popolazioni bulgare entro le sue frontiere. Il trattato di Santo Stefano partorì una Bulgaria nata morta, che conobbe però una brillante carriera nell’immaginario popolare e nella retorica politica. Fu esaminata ed analizzata in una pletora di opere e migliaia di articoli pubblicati nella stampa, le riviste o serie pubblicazioni erudite. Nessuno osò esprimere neanche l’ombra di un dubbio a proposito del ben fondato di queste frontiere immaginarie, tracciate fino alla periferia della capitale dell’Impero Ottomano. La triste e dura realtà fu tuttavia ben diversa: i bulgari dovettero viveri confinati all’interno di frontiere definite a Berlino dalle grandi potenze durante l’estate del 1878, in quello che erano soliti chiamare all’epoca la “loro gabbia”. Santo Stefano divenne un potente slogan politico, una referenza che orientò la politica estera bulgara. Fino al 1912, il clichè di Santo Stefano fu fonte di discordia tra la scena politica bulgara e l’insieme dei paesi vicini: nessuno di loro in effetti condivideva il sogno di una grande Bulgaria installata al centro della penisola, che avrebbe praticamente esercitato un controllo strategico sulle principali vie di comunicazione. Il clichè della Bulgaria di Santo Stefano volò in frantumi con i conflitti militari. I Bulgari stessi lo abbandonarono infatti in occasione dell’accordo bulgaro/serbo del 1912, quando acconsentirono all’esigenza, formulata dalla Serbia, di condividere il pomo della discordia: la Macedonia. Fu sostituito nel 1919 dal clichè del trattato di pace di Neuilly. Secondo il parere dei bulgari, questo trattato era eccessivamente severo e andava contro i nobili principi morali formulati dagli alleati. La sua stessa stesura impegnò un anno, benché la maggior parte dei belligeranti sin dal 1914 elaborarono le loro rivendicazioni con l’intento di una futura conferenza di pace. Gli esperti dell’Intesa si limitarono in genere a principi identici. Non contestarono le motivazioni etniche, strategiche od economiche dell’irredentismo bulgaro. Fu ben diverso per i responsabili politici. Gli esperti potevano permettersi il lusso di proporre soluzioni strategiche suscettibili di sviluppo, che miravano a stabilire, a lungo termine, la pace in seno ai Balcani. Gli ambienti politici, al contrario, soffrivano di miopia congenitale. Erano incapaci di riflettere ad una prospettiva più lontana di quella delle prossime elezioni. Il loro seggio parlamentare dipendeva in effetti dal capriccio dei loro elettori che, in Europa occidentale e nei Balcani, si rilevavano decisamente antibulgari. Fine 1918 e inizio 1919, il ministero britannico degli affari esteri era disposto a lasciare alla Bulgaria l’insieme, o una parte almeno, della zona detta incontestata della Macedonia che era stata divisa in virtù del trattato bulgaro serbo del 1912, la Tracia orientale fino alla linea MjdiaAenos e la Dobroudja meridionale. “Fare rinunciare la Bulgaria alle sue aspirazioni legittime destinerebbe al fallimento i sogni di unità dei Balcani” profetizzava un diplomatico britannico di alto rango. La commissione detta d’Inchiesta degli Stati Uniti, composta di esperti incaricati di gettare le basi della pace futura, riconosceva alla Bulgaria dei diritti sulla Tracia orientale, la Dobroudja meridionale e anche una parte importante del litorale del mare Egeo. Secondo questa stessa commissione, la Macedonia costituiva senza dubbio una regione bulgara, ma gli avvenimenti sopravvenuti questi ultimi anni e la “Real politik” rendevano inopportuno indispettire la Serbia. 168 La Francia era del parere di punire severamente i bulgari, “i piccoli bosci”. Nello stesso tempo, la Serbia esigeva un territorio da 30 a 40 Km di lunghezza lungo il confine tra i due paesi, cosa che avrebbe spostato quest’ultimo a 20 Km da Sofia. In quanto ai greci insistevano perché l’interezza della Tracia ed il massiccio del Rhodope fossero loro concessi. In fin dei conti prevalse il parere bulgaro ma non completamente. In virtù del testo definitivo del Trattato, la Bulgaria abbandonava nuovamente la Dobroudja meridionale alla Romania. La popolazione locale vi si spartiva secondo un rapporto di 23 Bulgari per un rumeno. La Bulgaria perse inoltre più enclavi lungo il confine occidentale con la Serbia. I Serbi gli avevano reclamati a gran voce per motivi strategici e non etnici, cosa pertanto difficile senza arrossire dalla vergogna. La regione di Tzaribrod contava in effetti appena 79 Serbi su 21.000 abitanti, mentre 12 serbi vivevano in mezzo a 21.000 bulgari nel settore di Bossilegrad. La frontiera tagliò in due villaggi,cimiteri ed anche case private. Ma la principale perdita territoriale della Bulgaria fu quella del suo accesso al mare Egeo. Nel corso della sua recente storia, il paese era riuscito per tre volte ad ottenere uno sbocco precario sul litorale Egeo e, per tre volte, l’aveva perso. Questa situazione condannava il paese ad una quasi chiusura continentale e orientava i suoi interessi economici verso l’Europa centrale, cioè verso la Germania. Il paese fu sommerso da rifugiati. Nessuno ne conosce il numero esatto che varia e si estende secondo le stime tra 150.000 e 400.000. Furono per anni motivi di difficoltà per tutti i governi bulgari, impotenti a risolvere questo problema. Bisognava nutrirli, dare loro lavoro ed aiutarli a trovare un posto dove abitare. Il paese negoziò prestiti con stabilimenti finanziari internazionali, ma non ebbero che una scarsa incidenza sulla situazione critica dei profughi. Donatori privati tentarono ugualmente di venire in loro aiuto, con successo disuguale. La Bulgaria si vide proibire di possedere un esercito di coscrizione. Fu in cambio autorizzata, molto generosamente, a reclutare un esercito professionale di 30.000 uomini, cosa che le conferiva il privilegio di mantenere il più modesto ma più costoso esercito dei balcani. Le era proibito di detenere aerei militari, carri armati e pure, per un tocco di umorismo malvagio, sottomarini. Come tutti gli altri paesi vinti, la Bulgaria fu sovraccarica di riparazioni. L’impatto del trattato di Neuilly Le conseguenze psicologiche del trattato di Neuilly furono durevoli. Accentuò di più lo scetticismo pragmatico che si inserisce sistematicamente nella psicologia nazionale bulgara. I valori e gli ideali non hanno più corso! Contano soltanto la forza ed il potere! La legge suprema è quella delle armi. Come gli altri paesi d’Europa, la Bulgaria vide apparire una generazione senza ideali e sedotta da una concezione cinica dell’esistenza. I figli non capivano i loro padri e, per di più, schernivano apertamente il loro attaccamento sbagliato a nobili idee come il patriottismo, la patria, la giustizia e la morale. Il trattato di Neuilly rovinò la reputazione dell’elite dirigente tradizionale. Una parte di essa aveva preso parte attivamente alla scelta disastrosa all’autunno 1915. Quelli che vi erano contrari non cercarono risolutamente di opporsi alle decisioni di re Ferdinando e del suo malleabile servitore, il primo ministro Vasil Radoslovov. L’intera elite tentò di fare ricadere la responsabilità della disfatta sull’esercito, cha aveva abbandonato il fronte in settembre 1918 e provocato cosi la catastrofe. I soldati al loro volta, alimentarono il mito molto comodo di un esercito bulgaro che non aveva mai perso una battaglia, quando gli ambienti politici del paese non avevano mai vinto una guerra. 169 Il Trattato di Neuilly rinforzò la convinzione già ben radicata che la Bulgaria aveva da sempre fatto funzione di vittima, di capro espiatorio delle grandi potenze sempre pronte ad offrirla con devozione sull’altare dei loro interessi, per ritagliarne con lama insanguinata i migliori pezzi del suo patrimonio nazionale. Questo sentimento era d’altronde condiviso dalla maggior parte della popolazione dei Balcani. Il trattato di Neuilly gettò un’ombra sull’immagine alquanto idealizzata dei paesi detti democratici che fino a quel momento prevaleva in Bulgaria: la Francia e la Gran Bretagna divennero gli ultimi degli scellerati, mentre gli Stati Uniti passarono per un paese debole, bonaccione ed esitante nelle sue decisioni. Questo atteggiamento accentuò lo scivolamento della Bulgaria verso la Germania degli anni ’30. Il trattato di Neuilly contribuì all’apparire di una mentalità di perdente presso numerosi bulgari. Il sogno più mite della politica estera del paese, il suo ultimo scopo durante il periodo che va dalla prima alla seconda guerra mondiale, consisteva nell’evitare di commettere nuovi errori. La paura del bastone agitato dalle grandi potenze fu all’origine di certe iniziative apparentemente illogiche prese dai governi nel corso degli anni trenta quando proposero l’instaurazione di relazioni più strette con la stessa Iugoslavia che, nella mitologia popolare, aveva rubato al Macedonia ai bulgari. Il trattato di Neuilly fu a lungo pregiudizievole alle relazioni tra i paesi balcanici. Avvelenò queste ultime fino ad un punto di non ritorno, come lo mostrano in modo palese numerosi vani tentativi di accordo durante gli anni trenta. Predeterminò in effetti le correnti di inimicizia e di eventuale amicizia in seno alla penisola. All’inizio degli anni ’30, la Iugoslavia tentò alcune trattative che fallirono, per fare entrare la Bulgaria nell’Intesa detta balcanica. “Potete impiccarci, ma non chiedeteci di passarci noi stessi la corda al collo” rispose a questa proposta il ministro plenipotenziario bulgaro a Belgrado pensando all’obiettivo confessato dell’Intesa: il mantenimento dei confini esistenti. Il trattato di Neuilly mise la Bulgaria nella sconfortevole posizione di una grande potenza decisa a prendere la sua rivincita nella penisola. Almeno è cosi che la vedevano i responsabili politici dei paesi balcanici vicini. Questo apprezzamento era puramente teorico. Il paese era in pratica ben troppo debole, perché il suo esercito, rigorosamente limitato dal trattato di pace, era mal rifornito. In una parola, non rappresentava una minaccia militare per nessuno dei suoi vicini. In verità, la Bulgaria poteva diventare una fonte di pericolo se si alleasse ad un’altra potenza assetata di vendetta. Nel 1938, i paesi balcanici, allarmati dal peggioramento della situazione in Europa che annunciava la guerra, tentarono di raddrizzare la barra. Un accordo firmato a Salonico concesse alla Bulgaria il diritto dio disporre di un esercito di conscrizione. Fu autorizzata a fortificare i suoi confini ed a procedere al riarmo, equipaggiandosi di un materiale moderno. Le fu anche permesso di dotarsi di sommergibili se ne avesse i mezzi. Questo accordo sopraggiunse tuttavia troppo tardi per permettere un riavvicinamento tra posizioni ormai irriconciliabili. Il trattato di Neiully ravvivò presso i bulgari il triste e doloroso sentimento di non vedersi riconosciuto il rango di veri europei, di essere considerati dagli occidentali come un popolo galleggiante tra due acque, che faceva parte dell’Europa senza appartenervi: una sorta di “Humpty Dumpty” perché su di un muro tra orientalismo ed europeanità. Il trattato di Neuilly mise i bulgari che abitavano la parte serba o greca della Macedonia in una situazione molto più difficile di quella che conoscevano prima delle guerre balcaniche. Nessuno di loro era autorizzato a considerarsi come bulgaro. Possedere o leggere un libro in bulgaro costituiva un crimine passibile dalla pena di morte. Il ricorso al terrore provocò praticamente la scomparsa di tutto ciò che l’elite intellettuale bulgara aveva meticolosamente prodotto durante le varie epoche. 170 Il trattato di Neuilly modificò l’atteggiamento di numerosi bulgari nei riguardi di ciò che chiamavano il movimento macedone. Durante 40 anni i bulgari avevano speso e spanso, non avevano risparmiato i loro sforzi ed avevano fatto scoppiare guerre per un sogno battezzato Macedonia. Ora tutto ciò era stato intrapreso in vano: provavano vergogna a riconoscerlo, ma cominciavano a stancarsene; non credevano più a questo sogno nazionale ed i nuovi dirigenti del movimento macedone non possedevano più il carisma dei loro predecessori. Le lotte interne e gli omicidi ciechi che dilaniavano le organizzazioni macedone negli anni ’20 non migliorarono la situazione. Il trattato di Neuilly fece delle Bulgaria un terreno propizio alla diffusione delle ideologie di sinistra. Divenne uno dei rari paesi europei in cui le idee comuniste guadagnano terreno e dove i comunisti rappresentavano una forza politica della quale bisognava tener conto. Il trattato di Neuilly fu cosi cattivo come lo pensavano i suoi contemporanei e come lo credono una maggioranza di storici? E’ senza dubbio severo, ma non era più spietato dei progetti che i bulgari prevedevano di mettere in opera se fossero riusciti a fare inclinare la bilancia in loro favore. Nel 1916, quando la situazione sembra favorire le potenze centrali, il ministro bulgaro degli affari esteri, propose di dividere l’insieme della Serbia tra l’Austria e la Bulgaria, in modo da evitare in futuro ogni causa di problemi. Dopo il 1919, nessuno osò ricordarsi di questo punto né evocarlo. Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale il Trattato di Neuilly si rilevò essere una delle armi più potenti del dibattito pubblico. Tutta la classe politica dall’estrema sinistra fino all’estrema destra, sfruttava le disgrazie a lui associate per trarne vantaggio a breve termine. Ogni anno, il 27 novembre era l’occasione di manifestazioni di strada, di processioni di profughi, di manifestazioni politiche e risse nei bar. Questo clichè si rilevò molto utile. I manuali di storia trattarono la questione, anche dopo la seconda guerra mondiale, in uno spirito assai simile a quello che prevaleva prima della guerra. Ma gli anni passarono e questo clichè cominciò a perdere il suo fascino. Immediatamente dopo il 1989, un gran numero di gruppi politici tentarono di riavvivarlo. All’inizio incontrarono un certo successo, generato da sentimenti di nostalgia; ma sembra ormai che il trattato di Neuilly – sur – Seine abbia definitivamente lasciato la sfera del dibattito pubblico e dell’utilizzo politico per integrare l’universo degli storici.Questi ultimi continuano a discuterne insieme, ma le loro discussioni non interessano più realmente i bulgari. Non che gli storici si mostrino eccessivamente prolissi sull’argomento: malgrado le sue ripercussioni negative durevoli, il trattato di Neuilly non ha fatto l’oggetto che di un pugno di opere erudite. 22. L’immagine della donna dal 1914 al 1920. Miti e realtà (traduzione Prof.ssa Teresa Scanzano) Ruth Tudor Noi analizzeremo qui la rappresentazione delle donne sui manifesti di propaganda governativa della Prima Guerra Mondiale e del dopoguerra in Europa e negli Stati Uniti d’America, con particolare interesse alle seguenti domande: come le donne sono state dipinte nella propaganda governativa durante la guerra e all’indomani della guerra? Quali realtà si nascondevano dietro queste immagini? In quali momenti sogni e realtà non sono stati che una cosa sola? Come spiegare le divergenze? Quali sono le differenze nazionali identificabili? Cosa c’insegnano le rappresentazioni idealizzate quanto alle idee e credenze concernenti la natura della donna in quest’epoca? 171 Noi affronteremo ugualmente le seguenti domande, particolarmente interessanti nel contesto che ci riguarda, “Le donne e la guerra”: In che cosa la Prima Guerra Mondiale è stata un catalizzatore dei cambiamenti nella vita delle donne e per quanto tempo? In che misura la guerra ha modificato la vita di tutte le donne? Qual è stato il contributo delle donne in tempo di guerra? Quali ruoli diversi e vari hanno giocato? Sfide metodologiche Questo tema pone una doppia sfida metodologica: mettere in luce l’esperienza specifica delle donne nel passato senza, per questo, imporre una interpretazione progressista, di emancipazione della storia delle donne, ciò che Ute Daniel (1997, p.273) aveva chiamato il modello di pensiero che consiste nel prendere i propri desideri per delle realtà. Dopo la Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti e alcuni Paesi d’Europa, di cui la Gran Bretagna, la Germania e la Russia, hanno accordato il diritto di voto alle donne. Noi dobbiamo, tuttavia, evitare di accreditare l’ipotesi secondo la quale esse avrebbero agito, durante il conflitto, per fini politici e che il loro diritto di voto è la conseguenza del loro sostegno e della loro partecipazione alla guerra. La tendenza a prendere i propri desideri per delle realtà, quando si parla di storia delle donne,è particolarmente evidente nei manuali di storia che presentano generalmente la guerra come un catalizzatore di cambiamento, ma non evocano la situazione delle donne dopo il conflitto. Se, in Europa, i manuali di storia dell’insegnamento secondario affrontano frequentemente il tema delle donne e della guerra, semplificano, talvolta all’eccesso, la diversità delle loro esperienze. L’incidenza delle idee di genere sul vissuto delle donne durante la guerra e sulle loro rappresentazioni nella propaganda non è spesso presa in considerazione. Daniel (ibid.) sottolinea la necessità di attenersi alle fonti nel quadro dei lavori di ricerca consacrati alla storia delle donne. Peraltro è necessario avere coscienza della necessità della condizione femminile (in Europa come negli Stati Uniti) e delle classi sociali. Di solito la guerra è un catalizzatore di cambiamento per le donne, perché dà loro l’occasione di assumere dei ruoli e di vivere delle esperienze che sono loro negate in tempo di pace. Esse ottengono spesso un aumento di libertà sessuale e sociale e maggiore spazio; adempiono nuovi compiti, per esempio nell’industria pesante; esse mostrano competenze, di solito, nella gestione e nell’organizzazione. Prima della Prima Guerra Mondiale si riteneva, tradizionalmente in Europa e negli Stati Uniti, che le donne non potessero rivestire questi ruoli, giudicati contrari alla loro natura. Questa percezione dell’essenza stessa delle donne serviva a giustificare la loro esclusione dal potere politico. Come hanno dimostrato Grayzel (2002) e Shover (1975), la Prima Guerra Mondiale ha imposto la partecipazione delle donne allo stesso titolo degli uomini. C’era bisogno, infatti, della mobilitazione di tutta la popolazione. L’importanza delle donne nell’impegno bellico negli Stati Uniti, per esempio, è illustrata dalle migliaia di immagini che rappresentano le donne e di cui la pubblicazione aveva come scopo di “vendere la guerra“ e di ottenere il sostegno e la partecipazione del popolo(Dumenil). Nel corso della Prima Guerra Mondiale le donne hanno giocato un ruolo decisivo come sostegno e attore nell’impegno bellico. La natura delle immagini di propaganda prodotte dai diversi governi implicati nel conflitto riflette le convinzioni e le culture nazionali, comprese le convenzioni commerciali, così come le credenze in materia di genere. Infatti, i governi hanno deliberatamente giocato con le immagini culturalmente familiari per rafforzare l’efficacia della loro propaganda. Per questo è necessario analizzare le rappresentazioni delle donne durante la 172 guerra in un contesto più largo al fine di comprendere e valutare le loro corrispondenze con la realtà del vissuto delle donne. Shover (ibid.) identifica un dilemma nel quale sono stati confrontati i governi durante la Prima Guerra Mondiale. Questi avevano bisogno delle donne per rispondere alle esigenze della guerra, ma contemporaneamente speravano di preservare l’immagine tradizionale delle donne quali esseri passivi. Non era, dunque, questione di modificare in modo definitivo le relazioni di genere, ma c’era bisogno di trovare un equilibrio delicato tra la trattativa della partecipazione attiva delle donne e la tutela dell’ordine sociale stabilito. Ruoli e immagini Specialmente all’inizio della guerra, le donne hanno avuto essenzialmente la funzione di sostenere lo spostamento degli uomini, in genere come combattenti. Questo ruolo è stato particolarmente determinante in un Paese come la Gran Bretagna che ignorava la coscrizione o il servizio di leva e nel quale l’armata si componeva, alla partenza, solo di volontari. Nel corso dei primi anni di guerra il ruolo delle donne consisteva nell’esercitare una pressione affettiva sugli uomini per invitarli ad impegnarsi. Le prime immagini mostrano donne vulnerabili e vittime, spesso con i bambini. Sul manifesto britannico “Women of Britain say Go!”, la sfera privata della patria è simboleggiata dalle donne e il bambino, teneri, stretti gli uni agli altri e passivi, a mille leghe dalla sfera pubblica rappresentata da soldati virili che si allontanavano in ordine di marcia. Gli uomini erano tutti uguali, attivi, le linee dritte delle canne dei loro fucili, delle loro uniformi e della loro formazione di marcia in contrasto con quella delle donne. Le immagini di questo tipo erano destinate tanto alle donne quanto agli uomini. Le donne avevano come compito quello di incoraggiare gli uomini a partire per la guerra e gli uomini quello di andarci. Il manifesto francese “Merci“ (vedi immagine 1) evoca una situazione simile. La differenza tra le donne dipinte sui manifesti francesi e inglesi è minima. Tuttavia, altre immagini presentano le donne francesi meno direttive e meno forti delle donne inglesi, probabilmente sotto l’influenza del protestantesimo e della tradizione dell’individualismo liberale della Gran Bretagna, allorché in Francia le relazioni di genere restavano profondamente influenzate dal cattolicesimo iscritto nel Codice napoleonico. Immagine 1 Tali riproduzioni, il cui obiettivo era d’incitare le donne ad incoraggiare la mobilitazione, non rimettevano in causa la visione tradizionale della donna. Le donne erano spesso dipinte come vittime e spettatrici passive. Queste rappresentazioni rischiavano, dunque, di contraddire altre immagini tendenti ad ottenere la partecipazione delle donne alla guerra come operaie, particolarmente per lavori pesanti, poco puliti e pericolosi. Il manifesto russo è un altro esempio di questo tipo di rappresentazione, la vittima femminile che appare come un dettaglio apparentemente secondario nell’angolo inferiore destro (Jahn, 1995 ). Un soldato tedesco tiene una donna russa per i capelli sotto lo sguardo divertito di un altro soldato. La scena evoca chiaramente la violenza imminente sulla donna e la sua umiliazione. Immagine 2 Un manifesto britannico “Men of Britain! Will you stand this?” cerca di convincere gli uomini ad impegnarsi ricordando loro i 78 donne e bambini uccisi al momento dell’attacco navale di Scarborough nel 1915. L’illustrazione 3 “Enlist” descrive l’annegamento di una donna indifesa e del suo bambino durante il naufragio della Lusitania. Il manifesto tedesco della illustrazione 4 “Agriculteurs, faites votre devoir: les villes ont faim!” mira a mobilitare i contadini, mostrando delle donne e dei bambini che soffrono la fame. Alla maniera di altri manifesti tedeschi, questa immagine è più realistica della maggior parte di quelle di altri Paesi. Nell’illustrazione 5 “Ramassez les cheveux des femmes” una donna spettrale e molto femminile offre la sua lunga capigliatura - simbolo della sua femminilità - su uno sfondo di croce rossa. Questo manifesto è 173 stato affisso in Germania nel 1918, data in cui il blocco inglese ha costretto la Germania a ricorrere a materie prime alternative, per esempio i capelli in sostituzione del cuoio e della canapa (Shover, ibid.). Immagine 3 Immagine 4 Immagine 5 Tutte queste immagini, concepite per rafforzare la fibra protettrice degli uomini verso le donne, non rimettevano in causa la visione tradizionale che si poteva avere degli uomini e delle donne. Tuttavia, l’illustrazione 6 “Les Austrichiens sont allés à Radzivily”, è di uno stile sensibilmente differente. Si tratta di un manifesto russo che mostra dei soldati austriaci facilmente vinti da una donna russa. Essa sollecita la mobilitazione degli uomini, ma adotta un registro diverso dalla maggior parte delle immagini di allora. Infatti, essa gioca sull’amor proprio degli uomini per incitarli ad arruolarsi nell’armata: anche una donna può opporsi al nemico, le basta per questo una forca! Anche lì, questa immagine non rimetteva in causa la visione russa tradizionale della donna. In un contesto più largo, si prende atto che questo manifesto è in uno stile “loubok“, genere tradizionale che mette in scena delle contadine laboriose dedite alla terra e materne (Petrone, 1998). Lo stile “loubok”, molto corrente in Russia nel 1914 e all’inizio del 1915, ha conosciuto in seguito il declino e i manifesti di propaganda russa si sono uniformati alle immagini occidentali. Immagine 6 La rappresentazione di donne vittime sessuali era ugualmente destinata ad incitare gli uomini alla Guerra. La donna generalmente vi appariva come la vittima impotente di un predatore sessuale e non come una persona cosciente della propria sessualità. Queste immagini sono totalmente conformi all’ideale femminile dell’era industriale nell’Europa occidentale. Le rare rappresentazioni che mostrano delle donne volontariamente provocanti hanno sollevato all’epoca critiche accese (vedi illustrazione 7 “I Want You for the Navy”). Questo manifesto americano del 1917 faceva parte di una serie creata da Christy, un artista al quale si rimproverava l’assenza di dignità nelle sue opere. E’ un esempio inusuale di propaganda della Prima Guerra Mondiale che gioca sulla provocazione sessuale. Tuttavia, non rimette in causa l’idea della donna dipendente dall’uomo e nega la realtà della presenza delle donne nella marina in questo periodo( Grayzel, ibid.). L’illustrazione americana 8 “Destroy this Mad Brute”, datata 1917, era di stile molto più accettabile e corrente, difendendo la necessità per l’uomo d’impegnarsi per difendere l’onore della sua donna. Essa mette in scena una donna rapita da una bestia feroce per fini sessuali. La bestia rappresenta il nemico, mentre la donna rappresenta l’onore, la purezza e la civiltà americana. L’illustrazione 9 “It’s Up To You” è di genere simile, è stata pubblicata negli Stati Uniti nel 1917 e lascia chiaramente intravedere che la donna sta per essere vittima di violenza. Immagini 7 – 8 - 9 La rappresentazione delle donne in quanto madri era molto frequente. Essa era perfettamente accettabile nella misura in cui riassumeva l’immagine tradizionale dell’essenza delle donne e del loro posto nella società e rifletteva il loro ruolo essenziale in quanto madri durante il conflitto. Questi manifesti, che presentavano delle donne dignitose, dolci, umane, erano privi di ogni connotazione sessuale. La donna dell’illustrazione 10 “The Greatest Mother in the World” è una rappresentazione inusuale delle donne sui manifesti in tempo di guerra a motivo della sua taglia smisurata (Dumenil, 2002). Essa tiene tra le sue braccia un minuscolo soldato ferito. Sembra, dunque, che in quanto madre, una donna può essere grande e forte. Queste madri non rimettevano in discussione i valori tradizionali: la loro importanza è decisiva perché è loro compito quello di nutrire e curare i soldati e i bambini e dare vita alla generazione futura. Immagine 10 174 In realtà, le credenze dell’epoca sui rapporti tra le madri e la guerra e i vari comportamenti delle donne di fronte alla guerra erano diversi e complessi. Il Dr. Aletta Jacobs, nei Paesi Bassi, ha dichiarato che le madri non potevano sostenere la guerra perché il loro dolore era troppo forte. Essa richiamava ad un futuro controllo della politica straniera per mezzo di un gruppo internazionale di uomini e donne, tipo di pacifismo che diventerà una caratteristica del femminismo negli anni 1920 e 1930 (MacDonald e al., 1987). In Svezia, Ellen Kay condivideva questo punto di vista, giudicando anomalo che le donne sostenessero la guerra ( MacDonald, ibid.). All’inizio della guerra, nel Regno Unito, le madri hanno organizzato la campagna “White feather” (Piuma bianca), un’azione aggressiva e pubblica verso gli uomini che mirano a suscitare la loro vergogna per il mancato impegno. Al contrario, in Malati, in Africa, le donne hanno rifiutato d’incitare gli uomini ad impegnarsi ed alcune di loro sono state persino prese in ostaggio per obbligare gli uomini a raggiungere le fila dei volontari (Grayzel, ibid.). Nel mondo, solo una piccolissima minoranza di donne ha veramente partecipato ai combattimenti.. In Russia un battaglione femminile soprannominato il “Battaglione della morte” si è formato per ferire gli uomini nel loro amor-proprio al momento dei combattimenti. Le sue lodi sono state cantate dalla femminista e suffragista Emmeline Pamkhurst ( MacDonald, ibid.). I manifesti, che mettevano in scena delle donne infermiere erano fra le rare immagini che autorizzavano la rappresentazione di uomini in situazione di dipendenza nei confronti delle donne (Shover, ibid.) conservando tuttavia la loro virilità. L’illustrazione 11 (Croce Rossa belga) è tipica. Le donne sono dolci, calorose e, nel caso di questo manifesto belga, verosimilmente angeliche. Nel ruolo di infermiera, la visione familiare della donna non era rimessa in discussione. Questi manifesti riflettevano di solito la loro femminilità, salvo quando appartenevano al campo nemico: Nell’illustrazione 12 “Red Cross or Iron Cross” una crudele infermiera tedesca rovescia intenzionalmente un bicchiere d’acqua sotto gli occhi di un soldato ferito e assetato. Essa è dipinta come una donna “anormale”, cosa che è ammissibile poiché simboleggia il nemico. Immagini 11 – 12 Con l’evoluzione della guerra, Il ventaglio dei ruoli femminili si apre, come testimoniano le illustrazioni. La partecipazione della donna era richiesta nell’industria pesante e dovevano farsi carico delle funzioni di gestione, rimettendo così in questione i ruoli che erano tradizionalmente loro affidati. Sui manifesti governativi, la limpidezza, la sicurezza, la facilità e la durezza del lavoro delle donne durante la guerra erano fortemente minimizzate in rapporto alla realtà. Le donne rappresentate al lavoro nel settore industriale erano generalmente giovani, probabilmente per salvaguardare il concetto tradizionale del ruolo della donna in seno alla famiglia. Peraltro, niente lasciava intendere che questi cambiamenti nel lavoro delle donne prendesse un carattere permanente e, in Germania per esempio, alcune donne non avrebbero colto queste nuove opportunità in ragione della loro natura temporanea (Daniel, ibid.). Sul manifesto britannico “These Women are doing Their Bit”, il soldato sullo sfondo ricorda al pubblico perché le donne devono fabbricare delle munizioni, ma lascia intravedere ugualmente il suo ritorno assicurato. Il manifesto britannico “God Speed the Plough and the Woman who Drives it” insiste sulla facilità e il romanticismo dei lavori agricoli. Il manifesto russo “Tout pour la guerre”, illustrazione 13, libera anche l’immagine di un lavoro facile che attira le donne all’industria. Al contrario, le donne dell’illustrazione 14, “Les Allemandes travaillent pour la victoire !” sembrano scontente. Questa immagine del 1918 è più trucemente realistica delle paragonabili immagini di altri paesi. Nel 1918 le Tedesche hanno partecipato a scioperi di grande entità nell’industria e a rivolte frumentarie, fatte scattare dalle donne per numero utile fra di loro. Questo manifesto può essere considerato, pertanto, come il riflesso della corruzione in Germania nel 1918. La radicalizzazione dei cittadini della classe operaia nel 1918 è stata una delle cause della rivoluzione del 1918 (Daniel, ibid.). Immagini 13 – 14 175 Le realtà del lavoro delle donne durante la guerra erano più diversificate e complesse di quanto non lo lasciassero intravedere i manifesti. In molti paesi, le donne erano avide di cogliere le opportunità che offrivano questi lavori di genere nuovo, ma erano più motivate dai salari e dallo statuto che dallo slancio patriottico. Una minoranza di loro ha penetrato i settori abitualmente riservati agli uomini, ma quasi tutte hanno lasciato le loro occupazioni nel 1918. In generale, non sembra che il numero di donne che occupava un impiego salariato sia aumentato dopo il 1918, paragonato al periodo dell’ante-guerra. Se il tipo di lavoro si è evoluto, non si trattava tuttavia che di accelerazione di una tendenza già in corso. Negli Stati Uniti, per esempio, la guerra ha accelerato un movimento nato nel 1870, spingendo più donne a occupare un impiego salariato e ad investire nuovi settori di attività. Gli effettivi femminili sono evidentemente aumentati nei lavori d’ufficio e industrie metallurgiche, chimiche ed elettriche mentre il numero di impiegate a casa diminuiva (Weiner Grenwald, 1980). Negli Stati Uniti, la Prima Guerra Mondiale ha offerto ad alcune donne, in genere povere e nere, nuove opportunità di impiego meglio remunerati, per esempio nelle ferrovie e nella metallurgia. Sarebbe pericoloso pensare che il lavoro delle donne durante la guerra avesse come unico scopo l’emancipazione, sapendo che il diritto di voto è stato accordato loro in molti paesi dopo la guerra. Spesso, le donne hanno colto queste occasioni per motivi finanziari. L’illustrazione 15 è la fotografia di una donna che carica delle ogive di TNT all’arsenale di Woolwich, in Gran Bretagna, nel 1918 (Condell e Liddiard, 1987). Prima del 1914, questo arsenale impiegava 10 donne, mentre erano più di 24.000 nel 1918. Tuttavia, questi cambiamenti non hanno resistito dopo la guerra. Nel 1918, alcune donne hanno fatto sciopero per tentare di salvaguardare il loro impiego, ma la grande maggioranza ha accettato di rinunciarvi senza troppe difficoltà. Alcune donne desideravano lasciare il loro impiego a causa del doppio lavoro che gravava su di loro dentro e fuori casa, situazione alla quale si erano adattate durante la guerra. Immagine 15 Sui manifesti della Prima Guerra Mondiale le donne apparivano di solito come dei simboli. La maggior parte dei paesi facevano ricorso all’immagine della donna per rappresentare la nazione, in particolare la sua purezza e il suo onore. Queste immagini servivano a ricordare alle nazioni la loro giusta causa per la guerra e spingevano gli uomini ad arruolarsi per proteggere la loro patria. E’ importante notare che le donne in quanto simboli sono spesso dipinte allo stesso tempo forti e sensuali. Questa rappresentazione era autorizzata perché, in quanto simboli, esse non erano reali. L’illustrazione 16 “The Sword is Drawn, the Navy Upholds it” viene dagli Stati Uniti e data 1917. Su questo manifesto, Columbia (simbolo della Libertà) porta la spada della giustizia e chiama gli uomini a sostenerla. L’onore della donna simboleggia quello della nazione. Sullo sfondo passa una nave da guerra e il manifesto porta in basso l’indirizzo dell’ufficio leva della marina americana. L’illustrazione 17 “Souscrivez à l’emprunt” viene dall’Italia e data 1917. L’Italia è rappresentata da una donna vigorosa, niente affatto spaventata dall’avanzata del Goth che lascia cadere la sua clava del terrore davanti alla forza che essa sprigiona. Anche l’illustrazione 18 “Souscrivez au 5me emprunt de guerre autrichien” del 1916, presenta la nazione sotto l’aspetto di una donna ieratica, che ha tra le mani una spada decorata degli allori della vittoria. Una delle figure allegoriche femminili più forti è la Marianne francese. Nell’illustrazione 19 è rappresentata sotto forma di una potente guerriera, con in testa un casco gallico e armata di una spada, che esorta il popolo francese a compiere il proprio dovere. L’illustrazione 20 “La Russie pour la Vérité” (1914), dà un’immagine molto simile della donna. Su un altro manifesto russo, tre donne simboleggiano l’unità tra la Russia rappresentata da Vera (la fede), la Francia rappresentata da Lioubov (l’Amore) e la Gran Bretagna rappresentata da Nadejda (la Speranza). Un manifesto italiano, illustrazione 21, “… et ce qui était à nous est de nouveau à nous” fa riferimento ai territori annessi all’Impero austro-ungarico e dipinge l’Italia sotto l’aspetto di una donna vigorosa e sensuale. Immagini 16 – 17 – 18 – 19 – 20 – 21 176 Il manifesto dell’illustrazione 22 (Stati Uniti, 1917), dai tratti estremamente naturali, rappresenta un’eccezione alla regola che prevaleva sui manifesti della Prima Guerra Mondiale. Esso presenta una contadina seducente, molto giovane e sicura che suona il tamburo. Il testo del manifesto dichiara “The Spirit of Woman-Power. Women Serve Your Country Where You Can”. Questa illustrazione, scelta da un’organizzazione di donne americane per promuovere l’impegno in guerra, si ispira ad un quadro che rappresenta una contadina al tempo della Rivoluzione francese. Non essendo le donne né americane né contemporanee, la visione tradizionale della donna in America non è in realtà chiamata in causa. Immagine 22 Nel 1919, le donne scomparivano praticamente della propaganda governativa del dopoguerra. In questo periodo, i paesi concentrano i loro sforzi sulla ricostruzione e il lutto. I monumenti commemorativi e i manifesti del 1919 ignorano il contributo delle donne in quanto lavoratrici durante la Prima Guerra Mondiale. Praticamente tutti i monumenti eretti dopo la guerra rappresentano dei soldati. Le sole donne che vi figurano prendono le sembianze di una madre oppressa dal dispiacere che simboleggia il dolore della nazione. Il monumento commemorativo di Veliko Turnovo, in Bulgaria, ne è un perfetto esempio. La madre occupava un posto importante all’indomani della guerra, poiché essa incarnava il dolore della nazione, ma anche a motivo delle inquietudini legate alla natalità e all’elevato tasso di mortalità. Le donne subivano forti pressioni per assicurare la futura generazione. Una notevole eccezione è il monumento di Peronne, in Francia, dove la donna ostenta i tratti della collera. L’illustrazione 23 (Francia, 1919), è un appello all’investimento nella ricostruzione nazionale. Essa mostra tre operaie che piantano la bandiera francese sui territori precedentemente occupati dalla Germania. Nell’illustrazione 24 (Francia, 1919) “Journée des régions libérées. Après la victoire, au travail!”, un soldato francese congedato, che porta un gallo sulle sue spalle, se ne va a lavorare per la ricostruzione. Nella Russia comunista, i manifesti rappresentano di solito delle donne poiché il loro contributo è stato decisivo nella industrializzazione del paese. L’illustrazione 25, “Ce qu’a apporté la Révolution d’octobre à l’ouvrière et à la paysanne” mostra una giovane donna russa felice e impaziente di contribuire all’economia nazionale. Immagini 23 – 24 – 25 In conclusione, i manifesti erano delle immagini idealizzate che in genere non riflettevano realmente il contributo delle donne nell’impegno bellico. La grande maggioranza delle illustrazioni mostravano delle donne dipendenti, emarginate nei ruoli domestici, rese mute da uno spirito di sacrificio, dolci e generose. Le sole eccezioni sono le rappresentazioni allegoriche o quelle delle donne nemiche, o ancora le donne che corrispondono alla concezione tradizionale in un contesto culturale particolare. Esse non sono dipinte come un gruppo diversificato. La maggior parte di quelle riprodotte nelle immagini sembrano benestanti e non essere motivate da bisogni economici. La natura della propaganda ha così permesso ai governi di mobilitare le donne per la guerra senza pertanto richiamare in causa le relazioni di genere tradizionali. 177 Referenze e bibliografia 178 23. 1919: La dimensione globale Odd Arne WESTAD Il presente contributo risponde ad una necessità: quella di considerare la storia europea come una storia internazionale e globale. Per capire bene l’importanza del 1919, bisogna evocare la questione coloniale ma anche, in questo contesto coloniale, certi aspetti sociali dell’epoca. In qualche modo, noi passeremo in rassegna la storia di quest’anno, cardine in Europa, nella duplice prospettiva di quelli che l’hanno vissuta e di quelli che l’hanno osservata dall’esterno. Ad eccezione dell’Europa e degli Stati del Nord Atlantico, il 1919 segna, per il resto del mondo, due grandi evoluzioni: da una parte, la decolonizzazione in Asia, in Africa e nei Carabi, di cui il processo si può dire che ha dato il via a quest’anno; da un’altra parte, la radicalizzazione nel Terzo Mondo dell’anticolonialismo a beneficio del marxismo e del comunismo. Se la decolonizzazione fu una delle conseguenze della guerra, l’anticolonialismo fu il risultato di una pace mancata, che non ha saputo rispondere alle aspettative dei popoli colonizzati. La decolonizzazione Nel 1919, il continente europeo, alla fine della Grande Guerra, è sull’orlo del baratro. La sua fragilità, seguita molto attentamente fuori dall’Europa, non è solamente economica e materiale, è anche politica e morale. Per milioni di Africani e Asiatici che hanno sofferto della guerra europeo-europea per esservi stati coinvolti in Europa o altrove, la guerra ha rivelato un continente destinato a lacerarsi. Molti sono gli esponenti locali del Terzo Mondo a perdere la fede, largamente estesa prima del 1914, nei valori europei come giustificazione del colonialismo. Prima della guerra l’Indonesiano nazionalista Sutan Sjahrir scriveva: “Dal mio punto di vista, l’Occidente è una forza viva, potente, dinamica e attiva. Una sorta di Faust che io ammiro, e io sono convinto che solo questo dinamismo dell’Occidente permetterà all’Oriente di liberarsi dalla schiavitù e dalla sottomissione. L’Occidente insegna oggi all’Oriente a considerare la vita come una lotta e uno sforzo, un movimento attivo al quale la nozione di tranquillità deve essere subordinata…La lotta e lo sforzo implicano un lotta contro-natura, è lì l’essenza stessa della lotta: la volontà dell’uomo di sottomettere la natura e di governarla con la sua volontà”. Nel 1919, non resta più niente dell’ammirazione di Sutan e della maggior parte dei capi istruiti del Terzo Mondo. Dall’inizio di quest’anno, per la prima volta, un numero crescente di movimenti nazionalisti rivendicano innanzitutto l’indipendenza totale. Lo sviluppo del movimento anticoloniale nel terzo mondo, che permetterà alle correnti nazionaliste radicali di prosperare, è iniziato durante la Prima Guerra Mondiale. La guerra ha significato la fine dei valori europei, ma ha aperto anche delle prospettive alle organizzazioni locali che la repressione dell’anteguerra aveva potuto contenere. A partire dal 1914, essendo l’attenzione delle autorità imperiali rivolta altrove, i nazionalisti locali si impegnano a consolidare i loro partiti e movimenti e a moltiplicare il numero dei loro affiliati. Fin dal 1919, diverse organizzazioni nazionaliste in India, in Cina e in Indonesia, per non citare che alcuni paesi, sono pronte a lanciare delle offensive politiche su più vasta scala. L’oggetto di queste offensive è largamente determinato dagli avvenimenti che si succedono nel 1919, al momento dei negoziati del trattato di pace da parte delle grandi potenze riunite a Parigi. In India, Febbraio 1919 è segnato dalle prime campagne di Gandhi per l’indipendenza. La risposta dei Britannici - il massacro di Amritsar del 13 aprile - e l’opposizione pacifica alla violenza predicata da Gandhi elevano il mahatma al rango di leader nazionale. Quando Gandhi e un certo numero di partigiani pacifisti constatano, al momento della conferenza di pace, la 179 mancanza di volontà da parte dei vincitori di regolare la questione coloniale, comprendono che non potranno contare che su se stessi e le loro proprie azioni per ottenere l’indipendenza. In Cina, il 1919 è un sisma. Il paese è allora una “semi-colonia” perché le potenze imperialiste si sono attribuite le parti di territorio chiamate “concessioni” piuttosto che creare uno Stato interamente coloniale. Una buona parte di Cinesi spera dunque che le dichiarazioni del presidente americano Woodrow Wilson sull’intera sovranità nazionale riguarderanno anche la Cina. Il popolo cinese è furibondo quando scopre che la questione delle concessioni non è stata revocata durante la conferenza di pace di Parigi, salvo quella della Germania. E quando si è deciso di trasferire i diritti tedeschi al Giappone invece di tributarli alla Cina, la popolazione vi scorge un insulto e un disprezzo che si esprimono con massicce manifestazioni, che tutti i cinesi conoscono oggi sotto il nome di Movimento del 4 maggio, in omaggio a questa giornata del 1919 in cui gli studenti di Pechino sono scesi in piazza. Il Movimento del 4 maggio è all’origine del nazionalismo cinese moderno e dei due partiti che domineranno la storia cinese del XX secolo – il Guomindang e il Partito Comunista cinese. Gli slogans lanciati dagli studenti per la federazione del popolo in tutto il paese, l’emancipazione delle donne e la nascita di una nuova cultura locale, segneranno l’evoluzione della Cina fino al 1949 e oltre: Più di 400 giornali e riviste datati 4 maggio fanno del 1919 un anno culturale e politico cardine nella storia cinese moderna. Il giovane Mao Zedong scrive nel 1919: “Dal grande appello alla rivoluzione mondiale, il movimento per la liberazione dell’umanità è avanzato con accanimento e oggi noi dobbiamo cambiare atteggiamento di fronte a delle poste in gioco che noi non contestavamo in passato, a dei metodi che non utilizzavamo e tante parole che temevamo di usare. Contestate l’incontestabile. Osate fare l’impensabile. Non abbiate paura di dire l’indicibile. Nessuna forza potrà fermare quest’onda” (Schran, vol.1, 1995, pag. 318). Non è soltanto in Cina che i cinesi contestano gli accordi firmati a Versailles. A Parigi, Wang Jingwei, che ha lavorato nella capitale francese durante la guerra (e che, dopo il 1937, sarà il principale collaboratore della Cina sotto l’occupazione giapponese), è in testa alle manifestazioni, certamente più modeste che a Pechino. Le manifestazioni sono raggiunte da connazionali delle colonie francesi nel Sud-Est asiatico, tra cui Nguyen Ai Quoc, un giovane vietnamita che raggiungerà più tardi i comunisti sotto il nome di Ho Chi Minh.. Gli anni che seguono la Prima Guerra Mondiale sono determinanti per la carriera del giovane Ho, tre anni più anziano di Mao. Avendo sollecitato invano l’aiuto americano per stabilire le libertà democratiche e l’autonomia politica del Vietnam alla Conferenza di pace di Versailles, il foto-ritoccatore di trent’anni stabilito a Parigi è amaramente deluso dalla diplomazia wilsoniana e vede nel marxismo la soluzione ai mali del suo paese. “L’idra del capitalismo occidentale stima che l’Europa è un campo d’azione troppo ridotto e che il proletariato europeo è insufficiente a soddisfare il suo insaziabile appetito, essa stende ora e per molto tempo i suoi orribili tentacoli ai quattro angoli del globo” spiega Ho al Congresso del Partito Socialista francese che si tiene a Tours nel 1920 (QuinnJudge, op. cit. p. 32). Rimproverando ai socialisti francesi la loro mancanza di impegno in favore della liberazione delle colonie, Ho vota per l’adesione del partito all’Internazionale Comunista e diventa più tardi un agente itinerante del Komintern in molti paesi d’Europa e in Asia prima di dirigere, negli anni 1940, il Vietminh, movimento di resistenza comunista. 180 Il Comunismo Creata nel 1919 per promuovere prima di tutto la rivoluzione in Europa, la III Internazionale, detta Internazionale Comunista (IC) o Komintern, giocherà un ruolo maggiore anche nei paesi del terzo mondo. Malgrado la promessa fatta nel 1919 di incarnare le aspettative della rivoluzione mondiale -una sorta di Versailles al contrario dove tutti i paesi e i popoli avrebbero un posto riservato ed equo - negli anni 1920, il Komintern funziona soprattutto come uno strumento di controllo sovietico sul comunismo internazionale e finisce per venir meno alla promessa. Il Komintern è nato dalla triplice scissione della II Internazionale socialista sulla questione della Prima Guerra Mondiale. Una maggioranza di partiti socialisti, di cui l’ala “destra” dell’Internazionale, aveva deciso di sostenere il peso della guerra dei loro rispettivi governi contro dei nemici che, ai loro occhi, erano molto più ostili agli scopi socialisti. La fazione “centrista” dell’IC denunciò questo nazionalismo dell’ala destra e chiese che la II Internazionale restasse fedele alla pace mondiale. Quanto ai militanti di “sinistra” guidati da Vladimir Lenin, rinnegavano nello stesso tempo il nazionalismo e il pacifismo e volevano fare della guerra tra nazioni una guerra tra classi transnazionali. Nel 1915, Lenin propose la creazione di una nuova Internazionale al fine di promuovere “la guerra civile, non la pace civile”, facendo propaganda tra i soldati e i lavoratori. Due anni più tardi, Lenin era a capo del movimento bolscevico, e nel 1919 indice il primo Congresso del Komintern a Mosca, allo scopo di sabotare le posizioni espresse dai centristi per risollevare la II Internazionale. Soltanto 19 delegazioni e un gruppetto di comunisti non Russi presenti a Mosca rispondono al suo appello, ma due anni più tardi, nel 1920 a Mosca il secondo Congresso riunisce le delegazioni di 37 paesi. Lenin fissa i trentadue punti che sono le condizioni di adesione all’Internazionale Comunista. Per essere membro del Komintern, un partito deve essere strutturato con l’applicazione di una disciplina di ferro, conforme al modello sovietico, ed escludere i socialisti moderati e pacifisti. L’organizzazione amministrativa del Komintern ricalca quella del Partito Comunista sovietico: il Comitato esecutivo dirige i lavori nell’intervallo che separa le sessioni dei Congressi, e un presidio ridotto funge da organo direttivo. Poco a poco, questi due organi supremi concentrano tutti i poteri nelle loro mani e i partiti membri dell’IC devono adeguarsi alle loro decisioni. In più, i Soviets stabiliscono la loro dominazione sul Komintern: l’Internazionale è stata fondata da una iniziativa sovietica, il suo quartier generale è a Mosca, il partito sovietico è ampiamente rappresentato negli organismi amministrativi e la maggioranza dei comunisti stranieri sono indefettibilmente fedeli al primo Stato socialista del mondo. Nel Terzo Mondo, anche i non comunisti sono numerosi nel pensare che l’ora del comunismo è forse arrivato. Il giovane Indiano Jawaharlal Nehru scrive nel 1919: “Oggi, lo spettro del comunismo si è materializzato e tiene il mondo occidentale sotto il suo dominio: La Russia e l’Ungheria hanno chiuso con l’antica dominazione dei capitalisti e dei latifondisti. Orribili estorsioni vengono imputate ai bolscevichi in Russia. Ma se così è, come immaginare che milioni di uomini e donne abbiano scelto il terrore e l’abiezione e abbiano lavorato di buon grado per dargli vita. Noi siamo un popolo comunitario e, giunto il momento, sarà forse inventata una forma di comunismo più adatta alla natura umana rispetto ad un governo maggioritario. Prepariamoci in vista di questo momento e che i nostri dirigenti pensino” (Gopal, 1972, pp. 140-4 ). Il Komintern è lo strumento di cui hanno bisogno i comunisti per organizzare delle rivolte contro l’imperialismo. Agli occhi di molti oppositori della dominazione straniera nel Terzo Mondo, la rivoluzione russa è un avvenimento considerevole: non solo i bolscevichi vogliono 181 creare un loro nuovo Stato, che sopprimerà l’oppressione coloniale e la dominazione etnica, ma promettono anche di sostenere tutti i movimenti che perseguono lo stesso obiettivo nel mondo. E, la cosa più importante, i comunisti hanno ormai un modello, sanno come darsi da fare per rovesciare l’antico regime e creare un nuovo Stato allo stesso tempo giusto e moderno. L’immagine della rivoluzione russa che i propagandisti del Komintern diffondono nel mondo è di quelle che i giovani organizzatori e intellettuali trovano estremamente seducenti per l’avvenire del loro paese. In queste condizioni, non c’è da stupirsi se all’inizio degli anni 1920 dei partiti comunisti nascono nei principali paesi del Terzo Mondo - dal 1920 o 1921 in Cina, in India, in Indonesia, in Turchia e in Iran -. I segretari di questi partiti, almeno quelli che non sono arrestati o fucilati dai regni in carica, si ritrovano a Mosca in occasione dei Congressi del Komintern, accanto ai leaders comunisti europei. Le registrazioni di queste riunioni mostrano la diversità del comunismo agli esordi e quanto gli incontri saranno difficili tra i Russi e i marxisti arrivati da altri orizzonti. I sovietici si aspettavano l’opposizione (ben più che una vaga condiscendenza) manifestata dai marxisti occidentali presenti ai primi congressi del Komintern. Essi sono sorpresi, invece, dalla capacità e la volontà dei marxisti del Terzo Mondo di segnare la loro indipendenza rispetto alla visione sociale e politica del comunismo sovietico. Senza criticarlo all’unisono, questi capi evocano le difficoltà che le generazioni che si sono succedute al Cremlino si riveleranno incapaci di superare nelle loro relazioni con il Terzo Mondo. Il giovane indiano comunista Manabrenda Nath Roy, per esempio, criticava Lenin al tempo del II Congresso del Komintern, rimproverandogli la sua grande reticenza ad affidare un ruolo importante ai PC del Terzo Mondo nelle rivoluzioni anti-imperialiste condotte nei loro paesi. Roy conviene con il capo sovietico che i comunisti devono allearsi alla borghesia locale (nazionalista) contro le potenze imperialiste, ma egli stima da parte sua che i comunisti devono sviluppare una propaganda per il proprio partito e reclutare in tutti gli strati della società, al fine di formare “un’avanguardia della classe operaia”, compreso nelle regioni maggiormente agrarie dove questa classe è molto poco rappresentata. Sebbene ammetta che un’alleanza con l’Unione Sovietica potrebbe aiutare i paesi del Terzo Mondo a liberarsi dal capitalismo, Roy considera la possibilità che, almeno in certi paesi, dei partiti comunisti prendano il potere prima che la formazione della classe proletaria sia del tutto terminata e che essi siano per questo portati a mettere in piedi “una quantità di riforme piccolo borghesi come la spartizione delle terre” contemporaneamente al potere proletario (Schmidt – Soltan, 1994) Una critica emessa dal comunista bachkir Mirsaid Sultan Galiev tocca i Sovietici. Nato nel 1892 in una etnia colonizzata dalla Russia, Galiev considera la rivoluzione il miglior mezzo per liberare i popoli asserviti. Sin dal 1914, il fondatore dell’Organizzazione militante tartara dei socialisti internazionalisti chiama i soldati tartari e bochkirs dell’armata zarista a ribellarsi, poiché “i Russi, non contenti di aver sottomesso i Tartari, i Bechkirs, i Turkmènes, i Caucasi, ecc., vogliono sottomettere i Turchi e i Persiani” (Rorlich). Galiev raggiunge i Bolscevichi a Bakou nel 1917 e non tarda a diventare il capo del partito musulmano più influente. Nominato a capo del Commissariato delle nazionalità da Stalin, il comunista bachkir sostiene che “tutti i popoli musulmani colonizzati sono dei popoli proletari” senza forti contrasti di classi sociali e che la liberazione delle colonie è una condizione necessaria per le rivoluzioni in Occidente. “Tanto a lungo quanto l’imperialismo internazionale….conserverà l’Oriente allo stato di colonia, regnando come padrone assoluto su tutte le ricchezze naturali” predice Galiev, “egli ha la certezza di un esito favorevole in ogni conflitto economico puntuale con le masse lavoratrici metropolitane, perché è perfettamente capace di chiudere loro il becco accettando di soddisfare 182 le loro rivendicazioni economiche” (Rarlich; Bennigsen e Lemercier-Qelquejay, 1960, 1986; Bennigsen e Enders Wimbush, 1979; Carrère d’Encausse e schram, 1969). Sultan Galiev è arrestato nel 1928 e, come ci si poteva aspettare, giustiziato nella sua prigione nel 1941. In quel periodo, per quelli che prima si erano riconosciuti nella lotta anticoloniale, la maggior parte delle promesse del 1919 erano scomparse dal comunismo mondiale. Se l’anticolonialismo di Wilson è fallito nel 1919, si può dire altrettanto dell’anticolonialismo di Lenin, dal momento che l’URSS è diventato uno Stato dotato di colonie proprie. Da questo punto di vista, il 1919, anno decisivo,è forse stato tanto fondamentale per i movimenti che lottavano contro i sistemi in carica quanto per i paesi imperialisti che tentavano di fare la pace tra di loro. 183 Referenze (pag. 222) 184 24. La Grande Guerra: una rottura culturale? Dimitri VEZYROGLOU La storia culturale diffida delle rotture. Che sia in materia di rappresentazioni, di forme artistiche, di correnti intellettuali o di mentalità, essa tende a privilegiare le tendenze a lungo termine e i lenti cambiamenti, ancorati in un sistema di contesti (sociale, politico, ideologico, tecnico, ecc.) che imprimono al fatto culturale dei ritmi d’evoluzione a volte concordanti, a volte discordanti. Un fenomeno storico eccezionale da tutti i punti di vista come la Grande Guerra, è pertanto l’occasione, per lo storico della cultura, per interrogare questa nozione di rottura, di confrontarsi con essa. Innanzitutto perché questo avvenimento delinei chiaramente nella coscienza stessa dei contemporanei, un prima e un dopo: che questo sentimento sia o non sia giustificato, le società degli anni 1920 e 1930 hanno avvertito il primo conflitto mondiale come il momento di ingresso brutale nella modernità. Ma anche perché il fenomeno di lutto, che segna con le sue impronte le mentalità di questo lungo dopoguerra, costituisce un considerevole prolungamento culturale della guerra. Qui si tratta di introdurre una riflessione sulla Grande Guerra nella prospettiva della storia culturale dell’inizio del ventesimo secolo, e non di fare una storia culturale della Grande Guerra (vedi, per esempio, Becker, 2005), anche se è indispensabile prendere in considerazione alcuni dei suoi elementi, così che la disputa che mette contro i sostenitori del “consenso” alla violenza della guerra e quelli della “costrizione” nel cuore del quale si trova la nozione di “maltrattamento” che entra in risonanza con le tematiche della storia culturale. La Grande Guerra come una rottura culturale 1. Un’influenza duratura della cultura di guerra La Prima Guerra Mondiale ha fortemente investito il campo culturale, in tutti i suoi settori, sia altolocati che popolari. Dal romanzo alla cartolina, dal film all’opera e alla canzone di concerto, tutti i supporti sono stati utilizzati come vettori di una cultura di guerra che combina i leitmotiv patriottici, l’esaltazione della combattività, lo spirito di sacrificio e la trasfigurazione della guerra in “guerra di razza e di civiltà” (Audoin-Rouzeau e Becker, 2000 ). Apollinaire, poeta dell’amore e del desiderio, trova nella guerra (egli si arruola come volontario nell’esercito francese) allo stesso tempo un soggetto di stupore e un motivo di declinazione del desiderio. In “Calligrammes” (1913-1916), raccolta di poemi scritti per l’essenziale durante la guerra, quando Apollinaire si trova al fronte, diversi testi si basano su un parallelo costante tra la guerra e l’atto d’amore, e tradiscono un vero stupore davanti allo spettacolo della guerra. Così si può leggere, per esempio, in “Fête“: “Feu d’artifice en acier Qu’il est charmant cet éclairage Artifice d’artificier Mêler quelque grâce au courage ( ….) L’air est plein d’un terrible alcool” E in un poema dal titolo molto significativo, « Merveille de la guerre »: « Que c’est beau ces fusées qui illuminent la nuit » . Il poeta è sedotto dall’esperienza di guerra tanto come spettacolo che come azione, che gli procura stupore, ebbrezza, addirittura fascino, nel senso forte – 185 sessuale – delle parole: “Mon désir est devant moi / Derrière les lignes boches”, confessa nel poema “Désir“. L’esperienza e l’espressione singolari di un poeta come Apollinaire non devono nascondere il fatto che la cultura di guerra si è estesa all’insieme delle società belligeranti costrette a conoscere la stessa ebbrezza, lo stesso fascino per le gesta di guerra. Gli stessi bambini, come lo ha evidenziato bene Stéphane Audoin-Rouzeau per la Francia (1993) o come lo descrive in modo così sorprendente per la Germania Sebastian Haffner (200), hanno visto il loro ambiente culturale invaso dalla guerra. Che si tratti della scuola, dei giochi o degli svaghi familiari, la guerra è onnipresente fino al mondo dell’infanzia, non solo come contesto, ma persino come oggetto di illusione. La testimonianza di Sebastian Haffner, nato nel 1907, è a questo proposito molto illuminante. “ La guerra è un grande gioco eccitante, avvincente, nel quale le nazioni si affrontano; essa procura delle distrazioni più sostanziali e delle emozioni più deliziose di tutto ciò che può offrire la pace: ecco ciò che provarono dal 1914 al 1918, dieci generazioni di scolari tedeschi.(…) Si andava a scuola, si imparava a scrivere a far di conto, più tardi il latino e la storia, si giocava con i propri compagni, si andava a passeggio con i propri genitori, ma tutto ciò poteva riempire un’esistenza? Ciò che dava sole alla vita e colore alle giornate, erano le operazioni militari: Se una vasta offensiva era in corso, con dei prigionieri per centinaia di migliaia, dei forti espugnati e “ delle conquiste considerevoli in fatto di guerra “, allora era la festa, si poteva far lavorare senza fine la propria immaginazione, si viveva intensamente, come quando un giorno si sarebbe stati innamorati”. (Haffner, op. cit., pp. 34-9). Una tale presenza della cultura di guerra non poteva dissolversi prontamente una volta firmati gli armistizi. Prima di tutto perché i bambini del periodo del conflitto diventano gli adolescenti, poi gli adulti degli anni 1920 e 1930 e, segnati dalla guerra all’età della loro apertura intellettuale al mondo, la loro cultura – cioè il loro modo di intendere il mondo – ne porterà tracce indelebili. Ma anche perché il dopoguerra europeo è segnato in genere dalla persistenza di alcuni elementi della cultura di guerra, come lo dimostra l’onnipresenza del discorso patriottico, perfino nazionalistico in una Europa che ha consacrato la nazione come forma superiore dell’organizzazione politica. La pregnanza dello spirito “vecchio combattente” fa perdurare la cultura di guerra, impedendo il risorgere del ricordo traumatico: l’interiorizzazione e il consenso alla violenza della guerra dei combattenti erano il tabù assoluto della cultura di guerra. L’irruzione della cultura di guerra, la sua propaganda così caratteristica del periodo 1914 – 1918 ha dunque trasformato le società europee nel rapporto con la loro identità e indotto ad una rottura culturale. Questa rottura prende tuttavia una forma molto più eclatante in ambito artistico. 2. Un momento di splendore delle forme e degli oggetti culturali Durante la Grande Guerra, una generazione di artisti intraprende un accostamento radicale a tutte le modalità tradizionali di esistenza dell’arte. Il movimento Dada ne è l’esempio migliore, non solo per il suo accanimento a sconvolgere l’ordine tradizionale dell’arte, ma anche, e forse soprattutto, per gli stretti legami che lo uniscono al suo contesto spazio-temporale. Dada è nato a Zurigo, nel 1916: è in questa isola di pace, nel cuore di una Europa devastata dalla guerra, in piena battaglia di Verdun, che intorno a Tristan Tzara si è costituito un movimento che si estenderà mano a mano in tutto il continente- e al di là – e di cui il punto di partenza e di riunione è il rigetto di tutti gli antichi quadri – estetico, storico, sociale, nazionale – dell’arte. Dalla poesia alla pittura, dalla scultura alla musica, tutte le arti sono per Dada supporti 186 e oggetti al tempo stesso di una rivolta radicale che mirano non solo ad abolire le categorie culturali stabilite, ma a far vacillare, perfino crollare, una cultura europea ritenuta sclerotizzata e sclerotizzante. Le “ready-made” di Duchamp ne sono una buona dimostrazione. Apponendo la propria firma su un oggetto manufatto di uso corrente, l’artista realizza una triplice provocazione: nega la superiorità delle forme artistiche su quelle degli oggetti funzionali e confonde il limite tra arte e trivialità; si priva poi del processo laborioso attraverso il quale l’artista, almeno dal Rinascimento, afferma il valore e l’individualità della sua opera; sconvolge, infine, il sistema delle Belle-Arti che il XVIII e il XIX secolo avevano pazientemente costruito e che isolava la produzione artistica in un insieme di codici reputati immutabili. Il fatto che questo movimento sia apparso durante la Grande Guerra non ha niente di fortuito. La guerra, concepita come l’apocalisse del pensiero europeo, è proprio l’elemento scatenante di questa rivolta, di cui il nichilismo distruttore sembra autorizzato dalla violenza ambientale. Dada esprime una profonda nausea davanti a questa autodistruzione di una civiltà, ma gli offre nello stesso tempo l’occasione e il pretesto della propria impresa di distruzione. Come pure, il carattere internazionale e cosmopolita di Dada (il movimento si estende in tutta l’Europa, così come negli Stati Uniti e in Giappone) può essere letto come una reazione alla cappa di piombo nazionalista che si è abbattuta sull’Europa nel 1914 e di cui la cultura di guerra è la manifestazione più pesante. Dada si struttura senza contesto intorno all’esperienza e alla memoria del conflitto. (Becker, A; 2002). La guerra è dunque contemporaneamente l’origine e il teatro di una rottura fondamentale nell’ordine artistico. Ma la vecchia concezione europea della cultura perde così terreno di fronte alla cultura di massa. 3 Lo squilibrio nella cultura di massa. Il momento della Grande Guerra, vissuto come l’ingresso nella modernità culturale, coincide in effetti con l’inizio del regno della cultura di massa. Questo movimento di comunione e di tecnicizzazione culturali contribuisce a far esplodere la rappresentazione tradizionale e di élite della cultura ereditata dal sistema delle Belle Arti. Il periodo tra le due guerre vede così trionfare due degli elementi più rappresentativi della cultura di massa del XX secolo: lo sport e il cinema. Nell’ambito dello sport, le grandi gare ciclistiche, le partite di calcio o di pugilato diventano avvenimenti intorno ai quali si riuniscono folle innumerevoli: 120.000 persone assistono nel 1921 a Jersey City, alla partita Dempsey-Carpentier; lo stadio di Wembley, inaugurato nel 1924, accoglie fino a 250.000 spettatori per la finale della Coppa britannica. La prima coppa del mondo di calcio si terrà nel 1930 e questo avvenimento diventerà sin dalla sua prima edizione europea, nel 1934, il simbolo maggiore della nuova cultura popolare, ampiamente comunicato e con un indice di ascolto sempre crescente. Il cinema conosce una netta popolarità durante la Prima Guerra Mondiale: svago privilegiato delle retrovie, divertimento apprezzato dai soldati del fronte, si propaga, nel dopoguerra, fino alle zone rurali più arretrate. E’ il vettore di una delle principali rivoluzioni culturali europee, prodotta durante la guerra: la scoperta dell’America. Sin dal 1915, il mercato europeo è inondato di films americani, tanto a causa di fattori congiunturali (la caduta della produzione europea a motivo del conflitto: mobilità del personale, requisizione delle fabbriche…) quanto a causa di fattori strutturali (la difficoltà del rinnovamento delle forme cinematografiche in Europa degli anni 1900). La constatazione è senza richiamo: nel 1914, più dei due terzi dei films proiettati nel mondo sono dei films francesi; nel 1918, più dei due terzi dei films proiettati nel mondo sono americani. 187 Ma la rottura non è solamente economica: la scoperta dei films di David W. Griffith, di Thomas H. Ince o di Cecil B. De Mille costituisce un duro colpo per i cinedilettanti e i cineasti europei, senza neanche parlare dello sconvolgimento che rappresenta quella di Charlie Chaplin. La loro gestione del montaggio, il loro uso delle inquadrature ravvicinate e di primissimi piani,i loro movimenti di camera, la loro innovazione in materia di regia costituiscono tanti elementi di rottura formale, quante le lezioni di cui il cinema sarà d’ora innanzi tributario. E’ d’altronde notevole il fatto che questi cineasti siano stati affascinati dalla rappresentazione estetica della guerra: Griffith, in Naissance d’une nation (The Birth of a Nation, 1914) e Intolérance (Intolerance, 1915), Ince in Civilisation (Civilization, 1916) o De Mille in Jeanne d’Arc (Joan the Woman, 1916) hanno fatto della rappresentazione della guerra un campo di sperimentazione per la rivoluzione della sintassi cinematografica. Dal grande pubblico all’avanguardia cinedilettante si impone ormai il modello americano, tanto in campo estetico quanto nell’ambito commerciale. Questo squilibrio in epoca di cultura di massa si accompagna dunque, durante la Grande Guerra e in relazione ad essa, ad un fascino crescente, nella cultura popolare americana, per gli Stati Uniti. Il diffondersi in Europa del Jazz e dei suoi derivati o il successo crescente della cinematografia americana, i grandi avvenimenti sportivi metteranno ormai regolarmente l’America in testa alla scena culturale europea: la vittoria del pugile americano Dempsey, il 2 luglio 1921 a Jersey City, contro il francese Carpentier, ne è l’emblema. Pertanto si può considerare questa idea di rottura, cioè una periodizzazione della cultura europea, tutto sommato, fortemente legata alla percezione che ne abbiano potuto avere i contemporanei? Contro l’idea della rottura culturale 1. Un ingresso nella modernità artistica e culturale largamente sollecitato prima della guerra L’esplosione delle vecchie forme in arte, di cui Dada è la manifestazione più clamorosa e più tangibile, evidentemente non è avvenuta in una sola volta. Le prime incrinature in campo artistico tradizionale sono apparse sin dalla metà del XIX secolo. Alcune opere hanno simbolizzato fortemente questo cambiamento, questa emancipazione progressiva nei confronti delle Belle Arti. Per riferirsi a degli esempi francesi: l’Olympia di Manet, nel 1863, sfidava ad esempio le regole della rappresentazione del nudo femminile; l’uomo di l’Age d’airain di Rodin, nel 1876, sembrava annunciare l’alba di una nuova era dell’umanità; i quadri di Monet che rappresentano la stazione Saint-Lazare, nel 1877, facevano entrare con forza i segni tangibili della modernità in un ordine pittorico che continuava ad ignorarli. Lo stesso Dominique Kalifa ha mostrato bene che la cultura di massa è negata nel corso di un processo che risale alla metà del XIX secolo, perfino agli anni 1830, periodo durante il quale le società europee vivono un profondo cambiamento culturale legato ad uno spazio crescente per la tecnica e per l’immagine (Kalifa, 2001). Questo cambiamento si traduce in una industrializzazione culturale progressiva rispondente alla massificazione del pubblico (è valido per la stampa come per il libro, il teatro e alla fine del secolo per il cinema), e sbocca in un’accelerazione del tempo sociale e in una spettacolarizzazione della società (Schwartz, 1998). E’ a cavallo tra il XIX e il XX secolo che, in tutti gli ambiti artistici e in tutta l’Europa, avviene la più grande rivoluzione che dà origine alla modernità culturale. In letteratura, gli esempi sono tanti, si può riportare quello di Apollinaire che, sin dal 1903 con “Les Mamelles de Tirésias (l’opera è ultimata e rappresentata per la prima volta nel 1916), inventava il termine e la nozione di “surrealismo”. 188 Lo stesso Apollinaire apriva la sua raccolta “Alcools” (1912) con un poema, “Zone”, che recitava fin dai primi versi: “Dopotutto sei di là dal vecchio mondo”, e che cantava la poesia del mondo moderno, esaltando una mistica e un’estetica della trivialità. Con questo testo, distruggeva le antiche forme poetiche e decretava la nascita di un mondo nuovo e libero del quale si riproponeva di celebrare la bellezza. Una rivoluzione simile si attua nel campo teatrale, tanto nella scrittura quanto nella sceneggiatura, tra gli anni 1870 e 1900 con autori come Ibsen o Tchekhov e compagnie come il Teatro d’Arte di Stanislavski a Mosca, il Teatro libero di Antoine a Parigi, poi, le esperienze tedesche di espressionismo teatrale di Max Reinhardt. Il teatro moderno del XX secolo, di cui Brecht o gli sceneggiatori del “Cartel“ francese (Jouvet, Dullin, Baty, Pitoeff) sono considerati come primi rappresentanti, trova innegabilmente la sua origine in questo movimento di fine secolo che si è, per primo, liberato dai canoni del teatro classico. In pittura, la fine del XIX secolo costituisce anche una svolta maggiore. Dopo la rivoluzione impressionista, artisti come Munch, Ensor o Van Gogh approfondiscono la ricerca di una rappresentazione della soggettività permeandola di pessimismo, di dolore, persino di violenza, aprendo anche la strada a diverse tendenze dell’espressionismo che caratterizzeranno il debutto del modernismo pittorico. Questi elementi si realizzeranno in schemi di rappresentazione del mondo con la costituzione di gruppi come Die Brucke, intorno a Kirchner, poi la Blauereiter a Monaco con Kandinsky e Macke, parallelamente alla Secessione viennese di Klimt e gli Atéliers viennesi di Schiele e di Kokoschka, il tutto a cavallo tra il XIX e XX secolo. Anche l’avvento del cubismo con Braque o Ricasso, nello stesso periodo, annuncia il regno dell’astrattismo nella pittura e costituisce in tal modo esso stesso una svolta maggiore. Tutte queste ricerche aprono la strada alla rivolta artistica radicale di Dada o della “Nouvelle Objectivité” (Grosz, Dix ), fornendo loro strumenti, sintassi ed anche tematiche. Nella sua stessa radicalità, nel suo furente rifiuto del vecchio mondo, Dada non può essere concepito come un movimento senza legami e senza genealogia. Sin dal 1909, Martinetti si serviva di una violenza simile per condannare la stessa sclerosi del pensiero artistico; egli proclama nel suo primo Manifesto del futurismo: 1. Noi vogliamo cantare l’amore per il pericolo, per l’abitudine, per l’energia e per la temerarietà. 2. Gli elementi essenziali della nostra poesia saranno il coraggio, l’audacia e la rivolta. 3. La letteratura che ha finora esaltato la staticità del pensiero, l’estasi e il sonno, noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia ardente, il passo ginnico, il salto rischioso, lo schiaffo e il pugno. 4. Noi dichiariamo che lo splendore del mondo si è arricchito di una nuova bellezza: la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa con il suo cofano ornato di grossi tubi come dei grossi serpenti dal soffio esplosivo…un’automobile ruggente, che ha l’aria di correre sopra la mitragliatrice, è più bella della Vittoria di Samotracia. 5. Noi vogliamo cantare l’uomo che tiene il volante, di cui l’asta ideale attraversa la Terra, lanciata essa stessa sul circuito della sua orbita. 6. Bisogna che il poeta si spenda con calore, clamore e prodigalità, per aumentare il fervore entusiastico degli elementi primordiali. 7. Non c’è più bellezza se non nella lotta. Non capolavoro senza un carattere aggressivo. La poesia dev’essere un assalto violento contro le forze sconosciute per costringerle a piegarsi davanti all’uomo.(…) 8. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo -, il militarismo, il patriottismo, l’azione distruttrice degli anarchici, le belle idee che uccidono, e il disprezzo della donna. 189 9. Noi vogliamo demolire i musei, le biblioteche, combattere il moralismo, il femminismo e tutte le debolezze opportunistiche e utilitaristiche.(…) La violenza e l’aggressività sono dunque introdotte come principi vitali dell’arte. Il futurismo costituisce in tutto ciò una forma di brutalità spirituale che annuncia in qualche modo la cultura di guerra, ma che prepara anche il terreno al nichilismo dadaista e al volontarismo rivoluzionario del costruttivismo russo. Se c’è rottura in ordine artistico, essa non si colloca ,dunque, al momento della Grande Guerra, che segna piuttosto la realizzazione di un movimento che è penetrato in tutte le arti in prossimità del XX secolo. 2. Una rottura negata Conviene d’altronde non confondere la posizione di Dada e dei suoi epigoni nella storia dell’arte con la sua situazione nel campo artistico dell’epoca, cioè una situazione di marginalità, peraltro rivendicata e coltivata. L’immediato dopoguerra è infatti segnato, in ambito culturale, da un “ritorno all’ordine” che fa leva su una sorte di negazione della modernità, un discorso normativo e moralistico, e un ritorno ostentato ai canoni classici (vedere, per esempio, Silver, 1991). Di qui lo scandalo che suscitano Dada e poi il surrealismo: se rivolta e scandalo c’è, è proprio perché la società non è pronta a recepire questo appello all’abolizione degli antichi modelli. Questo ritorno “all’ordine” nelle arti è peraltro il riscontro di una vera e propria occultazione del ricordo della guerra. In grande maggioranza, pittori e scrittori hanno fatto silenzio intorno al ricordo traumatizzante del conflitto (Audoin–Rouzeau e Becker, op. cit.; Dagen, 1996); essi hanno rifiutato di prendere in considerazione e di rendere conto della profonda dimensione della brutalità indotta dalla guerra. Il rigetto suscitato da alcune opere che hanno tentato di affrontare questo argomento (Le Feu di Barbuse, per esempio) testimonia l’importanza di questo tabù legato all’esperienza del conflitto. In ogni campo, il discorso culturale dominante del dopoguerra è dunque quello di una rimessa in ordine della società. Se rottura esiste, essa è fortemente negata da una cultura dominante che non è pronta a cedere sotto i colpi dei rivoluzionari dell’arte. Per questo, e poiché l’abbandono dei modelli culturali antichi è avvenuto in tempi lunghi e secondo una cronologia complessa, la Grande Guerra non segna una “rottura culturale”. La Grande Guerra, una piattaforma culturale La guerra come riferimento e motivo culturali La negazione del trauma per il discorso dominante non impedisce un ritorno ossessivo sulla guerra nelle arti. In pittura, i Tedeschi Grosz e Dix fanno della guerra un motivo ricorrente della loro opera, che permette loro di mettere in luce la violenza fondamentale della società moderna, rivelata e accentuata dalla guerra. La letteratura di guerra, con i romanzi di Barbuse (Le Feu), Remarque(À l’Ouest rien de nouveau) o Dorgeles (Les Croix de Bois) per esempio, fornisce numerosi esempi circa l’impronta della guerra negli animi e il suo imporsi a motivo principale e imprescindibile della narrazione moderna. Nel cinema, seguendo le lezioni degli americani, e in particolare di King Vidor (La Grande Parade, 1925), i realizzatori europei hanno cercato anch’essi di rappresentare l’impresentabile, di cogliere da una nuova estetica questa nuova e parossistica forma della violenza di guerra. E’ 190 il caso, in Francia, di Léon Poirer (Verdun, visions d’histoire, 1928) o di Raymond Bernard (Les Croix de bois, adattato da Dorgeles, 1932); in Germania, tra innumerevoli esempi, uno dei più riusciti è certamente quello di “Quatre de l’infanterie” (Westfront ,1918, 1930). Queste opere testimoniano innegabilmente un ardente bisogno di dire allo stesso tempo il segno, il dolore e il lutto. Esse testimoniano molto spesso un ritorno impossibile ad una brutalità indicibile. Molto rari sono infatti gli artisti che riescono, come Dix in alcuni di suoi disegni e autoritratti o Cendrars nel suo testo “J’ai tué“(1919), ad esprimere la sofferenza per aver non solo subito la violenza di guerra, ma per esserne stato un attore volontario. Dix arriva, ad esempio, a cogliere sul proprio viso il ghigno del bruto sanguinario che la guerra aveva fatto di lui. Se una tale lucidità resta eccezionale, è tuttavia evidente che le produzioni culturali del dopoguerra sono segnate, tanto nella loro forma quanto nel loro contenuto, dall’esperienza del conflitto. 2 La complessa temporalità delle “mentalità” Resta il fatto che le temporalità della storia culturale sono complesse. La Grande Guerra è certamente un momento critico dell’evoluzione delle mentalità europee, ma è necessario, per misurarne la portata, esaminare da vicino i fenomeni di rimozione culturale (A. Becker, op. cit.). L’ ”anelito di guerra nelle menti”, per riprendere l’espressione di Gerd Krumeich (2002), si manifesta con ritmi e con una intensità peraltro diversi a seconda dei paesi, gli ambienti e le generazioni. La rimozione culturale è certo più lenta rispetto a quella militare, ma la sua cadenza è complessa. D’altronde, conviene mettere a fronte delle grandi rotture artistiche e del cataclisma morale la forza e l’insistenza del conservatorismo sociale, culturale e morale. Gli “anni folli”, simbolo di liberazione morale e culturale in un dopoguerra stordito di jazz e di sensualità, sono proprio un mito. La realtà dello statuto della donna, per esempio, è sintomatico di questo “ritorno all’ordine” morale e sociale. Malgrado il conseguimento del diritto di voto in alcuni paesi e l’illusione di una evoluzione del suo statuto sociale a motivo della sua partecipazione al sacrificio della guerra, la donna europea ritorna molto spesso ai suoi fornelli nel dopoguerra, e resta sottomessa ad una forte pressione conservatrice in ambito sessuale, come testimonia la legge francese del 1920 che penalizza la contraccezione e l’aborto. Bisognerà, infine, attendere ancora mezzo secolo – cioè sino alla fine degli anni sessanta – perché questo conservatorismo crolli. 3 Conflitto di massa, cultura di massa Se, infine, la cultura di massa non è nata con il primo conflitto mondiale, è innegabile che il periodo tra le due guerre veda accentuarsi questo fenomeno: l’Europa entra allora pienamente nell’era della cultura industrializzata su vasta scala e delle grandi manifestazioni culturali. Nel cinema Chaplin è oggetto di un culto senza precedenti – e senza uguale poi – nel quale sono in comunione le élites e le masse; la radiofonia – aspettando la televisione – parteciperà ormai alla massificazione di ascolto delle grandi prove sportive. Massificazione accelerata, industrializzazione crescente: questi due fenomeni che interessano le nuove forme culturali risuonano come delle eco alla Grande Guerra, prima guerra massiccia ed industrializzata di tale portata. Così in ordine militare come in ordine culturale o politico, il tempo delle masse era arrivato. Più che una rottura, termine in definitiva ambiguo e poco adatto alle realtà culturali, la Grande Guerra rappresenta dunque una piattaforma - decisiva - nel processo attraverso il quale l’Europa è entrata nell’era della sua modernità culturale. Nel momento in cui si accaniva ad autodistruggersi, l’Europa ha fatto una scoperta che ha modificato il suo rapporto con il mondo: la scoperta della cultura americana, attraverso la scappatoia del cinema e della musica. Questa scoperta, che sfocerà nei decenni futuri in una 191 “americanizzazione” tanto consentita quanto temuta, costituisce in definitiva la sola vera rottura culturale intervenuta in Europa nel 1914-1918. A meno che non gli si aggiunga un’altra rivoluzione culturale in ordine alle idee politiche: la nascita dell’idea della sicurezza collettiva, di cui le realizzazioni concrete impiegheranno molto tempo prima di incominciare ad avere efficacia, ma che in quanto idea e quindi fenomeno culturale, costituisce un’autentica rottura con il mondo antecedente il 1914. 192 193 PARTE IV IL 1945 NELLA STORIA EUROPEA 194 195 25. Introduzione all’anno 1945 L’anno 1945 vede finire una guerra che è stata all’origine di una catastrofe umana senza precedenti. Le escursioni aeree e i bombardamenti dell’artiglieria hanno ridotto numerose città europee in uno stato simile ad un campo di rovine. La guerra, con il suo corteo di economia devastata, d’industrie, di strade, di ponti e di ferrovie distrutti, ha ucciso più di 40 milioni di persone, tra cui numerosi civili. Milioni di esseri umani sono stati sistematicamente sterminati nei campi di concentramento. Ovunque in Europa, orfani da identificare per poterli riunire a quello che restava della famiglia, e soldati che tentavano di tornare in paese o prigionieri nei campi. Ovunque, rifugiati e persone deportate. Molti di loro che tentavano di tornare a casa; milioni di altri, di cui tedeschi che risiedevano fuori dalla Germania, i Tartari e i Ceceni in Unione Sovietica, e altre minoranze etniche, cacciati con la forza dalle città e dai paesi che consideravano la loro patria. Nel febbraio del 1945, epoca durante la quale i tre leader alleati, Roosevelt, Stalin e Churchill, si incontravano nella stazione balneare di Yalta in Crimea, sanno che la guerra è quasi vinta in Europa. Le truppe americane e britanniche hanno attraversato il Reno e avanzano dal Ovest su Berlino. Le truppe sovietiche sono in Lituania, in Pologna, in Bulgaria e in Romania; hanno varcato il confine orientale della Germania e sono soltanto a 50 chilometri da Berlino. Dunque, se è ancora necessario mantenere la cooperazione per potere mettere fine alla guerra il più rapidamente possibile, la Conferenza di Yalta si preoccupa soprattutto di organizzare la pace. Durante quella settimana, i leader convengono che la Germania vinta sarà divisa in più zone di occupazione, che la Francia sarà una delle potenze occupanti, che l’Unione Sovietica entrerà in guerra contro il Giappone e che le frontiere polacche saranno spostate verso l’Ovest per ridurre il territorio tedesco e ingrandire quello dell’Unione Sovietica. Gli articoli presenti in questa parte dell’opera sono stati prima presentati ad una conferenza, che ha avuto luogo nel 2003 a Yalta, una di queste sedute ha avuto luogo, tramite il Ministero ucraino dell’Educazione e della Scienza, nella sala di riunione del Palazzo Livadia. Non è dunque strano che la maggior parte degli autori si erano interrogati sull’importanza della Conferenza originale di Yalta. Non ci sono dubbi, come fa notare il Professor Borodzej, che l’influenza di Yalta si è fatta sentire in modo duraturo su numerosi polacchi e altri popoli dell’Europa centrale e orientale. Il sentimento di essere stati traditi può essersi indebolito col tempo ma, come il patto Ribbentrop- Molotov negli Stati baltici, Yalta ha continuato a pesare sulle percezioni dei popoli fino agli anni ‘80. D’altronde come il Professore Westad sottolinea nel 1° capitolo di questa parte, non è la Conferenza di Yalta che ha condotto alla divisione del continente ma la situazione militare in Europa alla fine della Seconda guerra mondiale. O, come Stalin ha detto a Milovan Djilas, “ Questa guerra non assomiglia alle guerre del passato. Chiunque occupa un territorio impone anche il proprio sistema sociale. Ognuno impone il proprio sistema fin dove può arrivare il proprio esercito. Non può essere altrimenti”. Come osservano molti autori, la guerra fredda non è iniziata con Yalta; le sue radici affondano molto più lontano nel tempo. Ma con la fine della guerra, l’arena che è l’Europa ha cessato di essere circoscritta dalla minaccia del fascismo per esserlo invece dalla competizione militare, diplomatica, economica e ideologica tra due super potenze. 196 26. La conferenza di Yalta e l’emergenza della guerra fredda Odd Arne Westad I miti di Yalta Numerosi miti circondano la riunione di Yalta nel 1945; certi sono nati subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, altri sono di nascita più recente. In qualche paese europeo, questi miti nascondono altri dibattiti, che risulterebbero molto più utili di discussioni generali sulle decisioni prese dalle grandi potenze, ma che sarebbero comunque molto più dolorosi visto che porterebbero ad interrogarsi sui miti nazionali che hanno fatto nascere decisioni prese al momento in cui la Seconda guerra mondiale si evolveva in direzione di una guerra fredda. Le questioni associate a questi miti sono, per esempio, l’esodo dei rifugiati tedeschi venuti dall’Est, la rivolta schiacciata di Varsavia e, anche, il destino dei paesi incorporati nell’Unione Sovietica. È spesso più semplice, soprattutto nelle aule scolastiche, parlare dell’azione combinata dei grandi uomini di Yalta. I principali miti di Yalta sono i seguenti: l’Europa è stata divisa a Yalta; la guerra fredda è iniziata a Yalta. “L’Europa è stata divisa a Yalta” In realtà, non è stata presa nessuna decisione di questo tipo. La divisione dell’Europa è il risultato di una guerra civile europea iniziata dal 1914. Nel 1945, i principali protagonisti di questi conflitti, la Gran Bretagna, la Germania e la Francia, avevano smesso di essere delle grandi potenze capaci di definire l’avvenire del continente. Le uniche vere grande potenze (o superpotenze, secondo l’espressione consacrata usata di seguito) che esistevano alla fine della Seconda guerra mondiale, erano l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. I loro obiettivi, nello stesso tempo ideologici e strategici, si scontravano già prima del 1945 e la linea che delimitava e divideva le regioni europee messe sotto il loro controllo non era stata tracciata dalla Conferenza di Yalta, ma dalla situazione militare che regnava in Europa alla fine del secondo conflitto mondiale. “La guerra fredda è iniziata a Yalta” Anche qui, questa affermazione deve essere corretta: la guerra fredda non trova la sua origine nei contrasti apparsi durante la Conferenza in Crimea, né nelle particolari tensioni che sono nate durante l’intervallo tra la riunione di Yalta (4-11 febbraio 1945) e l’ulteriore conferenza (finale) dei capi alleati di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945); le sue cause sono in effetti diverse e più profonde. La loro natura e il loro calendario dipendono certo dalla regione d’Europa di cui si tratta. Il confronto tra il comunismo e i suoi oppositori in Europa e negli Stati Uniti non è iniziato nel 1945, ma nel 1917. Cosi, per i Polacchi, la guerra fredda era all’apice in Polonia già dal 1944 (o forse anche dal 1920). L’opinione degli Ucraini è sicuramente la stessa. Nella maggior parte delle altre regioni, la guerra fredda si è insediata più lentamente; molte cause, d’ordine militare, diplomatico, sociale e ideologico, hanno contribuito a creare un clima di confronto. Visto che si tratta qui di miti di Yalta, quale è dunque “la realtà di Yalta”, cosi come è stata percepita da quelli che vi hanno preso parte? Le realtà di Yalta 197 Quando Franklin D. Roosevelt, Joseph Stalin e Winston Churchill si sono riuniti a Yalta cinquantotto anni fa, stava per concludersi un conflitto maggiore. Ogni partecipante ne aveva coscienza, anche se la durata della fase finale della guerra o la posizione esatta della forze armate dopo il crollo del nemico – Germania e Giappone – restavano incerti. La Conferenza verteva, allo stesso tempo, sulla fine della guerra e sull’organizzazione della pace. Questi due aspetti erano strettamente legati, perché i tre capi consideravano che se fossero riusciti a collaborare per mettere fine al conflitto, avrebbero avuto forte possibilità di lavorare insieme all’organizzazione della pace. E quello che potrebbe essere definito come “tentativo di Yalta”: vincere la guerra e organizzare la pace in modo tale da non scatenare un conflitto imminente tra i vecchi alleati. Se il “tentativo di Yalta” derivava da uno sforzo comune da parte dei tre capi, perché ha avuto cosi poco successo ? La spiegazione data di solito è naturalmente l’assenza di una vera franchezza da parte dei partecipanti: nello stesso momento in cui parlavano di cooperazione, ognuno di loro cercava soltanto di trarre profitto della situazione. In altri termini, questo tentativo di cooperazione era soltanto una falsa arte del dire che non corrispondeva alla realtà. Questa interpretazione è sicuramente errata, non perché fa dell’interesse dei capi e dei loro rispettivi paesi l’elemento determinante delle decisioni prese, ma perché afferma l’incompatibilità di questi stessi interessi e di quello che appariva come una possibile cooperazione (o almeno come un’assenza di conflitto). Disponiamo ormai di un gran numero di archivi redatti prima, durante e dopo la Conferenza di Yalta provenienti dai tre paesi partecipanti, compresa l’Unione Sovietica. I documenti personali di Stalin, riuniti negli Archivi nazionali russi di storia moderna di Mosca, comprendono fascicoli essenziali su Yalta, come anche nei documenti di Molotov, che risultano negli archivi di politica estera della Federazione di Russia. Gli archivi interni dei tre campi e il resoconto dei dibattiti fanno risultare che nessuno di loro vedeva un interesse nel far sorgere un conflitto tra alleati, almeno non a breve. La maggior parte degli storici che hanno esaminato attentamente la situazione internazionale nel 1945 dopo la messa a disposizione delle nuove fonti documentarie dell’Unione Sovietica, concordano nel dire che la rottura della cooperazione è dovuta più al frutto della posta in gioco e del modo in cui si è evoluta, piuttosto che il prodotto di qualsiasi intenzione negativa nei confronti dei negoziati da parte di uno degli alleati. L’evoluzione della situazione politica e militare in Europa e in Asia orientale è stata semplicemente troppo veloce tra Yalta e Potsdam per permettere il mantenimento di compromessi duraturi, tenuto conto del fossato ideologico che divideva già in partenza l’Unione Sovietica dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Una volta sconfitta la Germania, le discussioni vertevano su tutte le questioni legate alla ricostruzione dell’Europa. Ognuno dei vecchi alleati voleva vedere la sua Europa realizzarsi, anche se rischiava di compromettere la cooperazione globale. La posta in gioco futura era troppo importante per rischiare di scendere a un compromesso. Questa spiegazione, che associa un certo numero di condizioni strutturali preliminari ad una situazione politica che cambiava velocemente e che sfuggiva al controllo individuale delle potenze presenti, sembra essere sempre più privilegiata dagli storici che si cimentano nella spiegazione della guerra fredda. Questa tendenza è principalmente dovuta alla posizione sempre più importante che la nuova storiografia di questo periodo attribuisce al ruolo delle ideologie, sia dal lato americano che da quello sovietico. Queste due potenze si definivano per definizione tramite la loro ideologia: capitalismo e democrazia liberale per gli Stati Uniti, marxismo e collettivismo per la parte sovietica. In una situazione dove queste due superpotenze dominavano i negoziati (i Britannici furono a Yalta come a Potsdam il “parente povero”), la scissione ideologica, rendeva difficile qualsiasi compromesso ed esigeva, da Washington e da Mosca, una chiara determinazione politica nel ricercare una soluzione di compromesso alla controversia se si augurava di mantenere una forma di cooperazione. 198 “La posta in gioco” Se si tiene in considerazione questa prospettiva, è bene esaminare la posta in gioco determinante e presente a Yalta e Potsdam (in seguito) per capire le origini della guerra fredda sulla scena diplomatica. È molto importante osservare le reazioni dei tre capi man mano che si svolgono gli avvenimenti, tenendo conto delle mie precedenti osservazioni sulle ideologie e il loro funzionamento. Le idee preconcette non determinano il modo in cui gli individui risolvono i loro problemi, ma influenzano (e qualche volta limitano fortemente) la scelta apparente delle opzioni disponibili. Tutti i dirigenti implicati in questi negoziati erano uomini prudenti e pignoli. Ma la loro prudenza ordinava di adottare una doppia attitudine. Da un lato non dimentichiamo che avevano bisogno gli uni degli altri, o almeno fino a quando la guerra continuava, da un altro lato non dare fiducia a delle motivazioni di un nemico ideologico che, alla fin fine, si augurava di vedere il suo sistema politico trionfare sul vostro. Permettetemi innanzitutto di evocare brevemente i tre personaggi principali della Conferenza di Yalta e di dare qualche precisazione sul loro stato d’animo e sulla loro concezione di diplomazia. Franklin Delano Roosevelt Il Presidente degli Stati Uniti, nato nel 1882 da una delle più ricche e illustri famiglie degli Stati Uniti, era diventato durante il suo mandato il più importante dirigente progressista della storia americana. I suoi programmi pubblici, come il New Deal, avevano aiutato gli Americani a sormontare i peggiori effetti sociali della grande depressione e aveva permesso a dei tecnocrati di sinistra di orientare la politica governamentale in modo tale che lo Stato giocasse un ruolo senza precedenti nell’economia e nella vita pubblica americane. Certi elementi permettono tuttavia di pensare che FDR concepiva innanzi tutto questa politica come mezzo per uscire dalla crisi e per vincere la guerra, come lo ha sottolineato il suo biografo William Leuchtenburg. Le principali realizzazioni di FDR sono state di raccogliere le sfide dell’ideologia americana, sia nell’ ambito del paese che sulla scena internazionale, di vincere l’autoritarismo e, di conseguenza, di accrescere le libertà americane in senso largo: in altri termini, fare tornare gli Stati Uniti in primo piano sulla scena che avevano lasciato dopo la Prima guerra mondiale. Anche se indebolito dalla malattia, il presidente, a Yalta, si è impegnato a realizzare questo progetto, convinto che ci sarebbe riuscito di più portando i suoi interlocutori a cooperare piuttosto che a resistere. Cosciente dello statuto di grande potenza degli Stati Uniti, FDR considerava che nulla poteva essere fatto a Yalta né altrove dagli alleati senza il consenso degli Stati Uniti. Giocando il ruolo di bilanciere tra il vecchio imperialismo di Churchill e il comunismo di Stalin, il presidente americano riuscì ad influenzare questi due campi in modo quasi illimitato. Come lo aveva dichiarato lui stesso ad alcuni dei suoi più vicini collaboratori nel maggio del 1942: “Vedete, sono un giocoliere e non tengo mai la mano destra informata su quello che fa la mia sinistra…. Posso agire in modo totalmente contraddittorio e per di più, sono perfettamente disposto ad impiegare l’inganno e le bugie, se ciò può aiutare a fare vincere la guerra” Joseph Stalin Il leader sovietico, nato nel 1879, era figlio di un povero calzolaio della città della provincia georgiana di Gori, nel Caucaso, che era all’epoca una colonia imperiale russa. Di intelligenza media, salì i gradini della scala del Partito comunista grazie alla sua enorme capacità di lavorare e al suo gusto sfrenato dell’intrigo e di quello che chiameremo oggi la “costituzioni di reti”; egli intravide nel marxismo il mezzo fondamentale di governare l’Unione 199 Sovietica e di definire le sue relazioni con il mondo esterno. Dopo essersi sbagliato sulle intenzioni della sua vecchia alleata, la Germania, credette che l’alleanza con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sarebbe durata di più, convinto che le rivalità, nell’ambito del campo imperialista, prenderebbero il sopravvento su quelle che opponevano questo ultimo all’Unione Sovietica. Così anche Stalin considerava, sia a Yalta che a Potsdam, che nonostante il carattere inevitabile a lungo termine di un conflitto tra l’Unione Sovietica e gli Stati capitalisti, le relazioni tra le grandi potenze sarebbero in pratica segnate alla fine della guerra dalle preoccupazioni americane e britanniche di ridefinire la divisione della loro egemonia imperialista e non con uno scontro tra Washington e Londra, da un lato, e Mosca dall’altro. Se l’Unione Sovietica giocava abilmente questa partita, in altri termini se Stalin riusciva a fare accettare agli altri due protagonisti la legittimità dell’Unione Sovietica, presentata come una potenza preoccupata della sua sicurezza, la guerra potrebbe essere respinta e il socialismo rinforzato prima dell’ultima prova di forza contro l’imperialismo. Attore pieno di talento, Stalin scelse, durante le due conferenze, di addossare il ruolo del capo di Stato che incontra i suoi simili, reclamando la sua parte legittima di torta e allontanando in questo modo ogni sospetto sui suoi veri obiettivi. Winston Churchill Il primo ministro britannico, il più anziano dei principali partecipanti di Yalta, nacque nel 1874 a Blenheim Palace, in una delle famiglie più importanti d’Inghilterra. Data l’età, egli esercitò funzioni già dal XIX secolo e conservò, durante tutta la sua carriera che esercitò nel XX secolo, numerosi ideali del secolo precedente. Mentre Roosevelt e Stalin, ognuno a modo loro, amavano considerare gli altri paesi rispetto al contenuto del loro sistema politico rispettivo, Churchill riteneva che le relazioni internazionali fossero determinate da una combinazione di cultura e di geostrategie. Così egli credeva fortemente, per esempio, che la cultura che divideva il Regno Unito dagli Stati Uniti, avrebbe progressivamente riavvicinato i due paesi. Nonostante la sua ripugnanza per il socialismo, giudicò, all’inizio, che Stalin inseguiva un obiettivo di ragionevole sicurezza in Europa orientale. Ma da Yalta, Churchill iniziò ad accorgersi che le esigenze di Stalin andavano al di là del ruolo molto limitato che Londra aveva intenzione di assegnare a Mosca nell’ambito della risoluzione del dopo guerra. Churchill, che aveva una coscienza acuta sulla perdita di potenza e d’influenza dell’Impero britannico, sperava che gli Stati Uniti avrebbero sostenuto il mantenimento sia di questo ultimo, sia delle forze americane in Europa, affinché l’equilibrio dei poteri in seno al continente non andasse troppo a favore della Russia. Tuttavia, cosa abbastanza sorprendente se si pensa all’ambiente dal quale proveniva, Churchill era assai realista per constatare che se occorreva scegliere tra due priorità, il Regno Unito avrebbe dovuto privilegiare l’Europa e non il suo Impero. Dopo avere tentato di ottenere da Stalin un accordo durante la visita a Mosca nell’ottobre del 1944, sapeva che la firma del dirigente sovietico non costituiva una garanzia sufficiente e che soltanto la presenza della potenza americana sul continente avrebbe potuto impedire l’estensione progressiva verso Ovest dall’influenza sovietica. Nessuna delle posizioni adottate dai principali capi riuniti a Yalta permetteva a lungo termine di trarre facilmente un compromesso sulle questioni diplomatiche complesse, né di assicurare il rispetto della sovranità di ogni protagonista. Ma è anche vero che, come le prospettive considerate da Roosevelt, Stalin e Churchill proprio durante la conferenza, queste si limitavano ad un breve periodo, e sembrava poco probabile che la grande alleanza sprofondasse in un rapporto conflittuale e in un’acrimonia reciproca meno di un anno dopo. Per capire la rapidità con la quale questa alleanza venne meno, conviene esaminare sia le idee in causa e la loro percezione, sia le questioni concrete con le quali si erano confrontati i principali partecipanti quando si riunirono qui, nel palazzo di Livadia, il 4 febbraio del 1945. 200 Mi piacerebbe a questo scopo concentrarmi su due punti essenziali evocati a Yalta: i negoziati su l’avvenire territoriale e politico della Polonia e le discussioni relative all’entrata dell’Unione Sovietica nella guerra contro il Giappone. La questione polacca Certo, considerata in modo diverso da Londra, Mosca o Washington, era stata in parte all’origine della Seconda guerra mondiale. Per Churchill, il destino della Polonia era stato una delle cause maggiori del conflitto e il suo governo giudicava essenziale stabilire una forma di indipendenza polacca alla fine della guerra. Per Stalin, la Polonia permetteva innanzitutto di misurare il punto di rottura dell’alleanza. Anche se il territorio polacco fu importante per la sicurezza di Mosca, Stalin non aveva molto insistito, durante il conflitto, sulla forma del regime politico di cui doveva beneficiare la Polonia nel periodo del dopo guerra. Contava soprattutto prendere il massimo di quello che poteva ottenere senza compromettere l’alleanza: un governo a maggioranza comunista se possibile, un governo di coalizione se necessario. Per Roosevelt, infine, la Polonia costituiva un terreno di negoziati. Aveva meno importanza per lui - molto meno - determinare quello che ne sarebbe stato di Varsavia piuttosto che fare durare l’alleanza in un avvenire prevedibile. Anche se sospettava che Stalin avesse delle mire durature già dal 1944, quando costui tentò di privare il governo polacco in esilio, di qualsiasi ruolo nella Polonia del dopo guerra, il presidente continuava a sperare che le sue capacità di negoziatore gli avrebbero permesso di stabilire una forma di compromesso con il dirigente sovietico. Le varie operazioni necessarie a riorganizzare il territorio della Polonia erano state evocate dagli alleati in varie occasioni verso la fine della guerra e in modo abbastanza breve a Yalta: le sue frontiere orientali furono tracciate leggermente ad Est della linea di Curzon, all’inizio proposta come vecchia frontiera sovietico-polacca del 1920. La frontiera occidentale doveva permettere alla Polonia di ottenere compensi da parte della Germania sotto forma di territorio prussiano situato a est dell’Oder, ma fu convenuto di rimandare la decisione finale alla futura conferenza di pace. A Potsdam, le tre potenze alleate concordarono per una frontiera “temporanea” che annetteva l’insieme dei territori tedeschi situati ad est della linea tracciata dall’Oder e la Neisse (a eccezione delle porzioni della Prussia orientale attribuite all’Unione Sovietica) nel territorio polacco e approvarono in modo implicito l’espulsione massiva della popolazioni tedesche presenti in quelle regioni. La “conferenza di pace” non ebbe naturalmente luogo prima del 1990. I dibattiti a Yalta avevano per argomento essenzialmente l’avvenire politico della Polonia. Stalin aveva tentato di imporre un fatto compiuto riconoscendo unilateralmente il governo polacco di Lublino, diretto dai comunisti, anche prima dell’inizio della Conferenza di Yalta. Ma i sovietici e i loro alleati occidentali sapevano perfettamente che si trattava più di uno stratagemma destinato ai negoziati piuttosto che una decisione definitiva; aveva soltanto importanza, come Churchill con gran rammarico non cessò di ripetere durante tutta la conferenza, la posizione dell’Armata rossa sul territorio polacco. Nonostante la sua determinazione a “salvare la Polonia dalle grinfie sovietiche” il Primo Ministro era cosciente anche prima dell’apertura della conferenza, di potere scendere al massimo, secondo i suoi termini, ad uno “piccolo sporco compromesso”. Anche se Roosevelt scrisse a Stalin prima della sua partenza per la conferenza, informandolo del suo “turbamento e della sua profonda delusione” in seguito alla decisione sovietica di riconoscere ufficialmente il governo polacco, si rendeva anche conto che gli Stati Uniti avrebbero negoziato in posizione di debolezza, visto che le loro forze militari si trovavano a centinaia di chilometri dal paese oggetto dei suoi negoziati. Tuttavia, i negoziati svolti a Yalta a proposito della Polonia sfociarono finalmente in un compromesso e fu probabilmente Stalin che fece il maggior numero di concessioni sulla carta, autorizzando la riorganizzazione del governo di Lublin in modo da includervi rappresentanti del governo in esilio, stabilito a Londra. Ma la Polonia rivelò ugualmente le debolezze del 201 “tentativo di Yalta” perché né gli Stati Uniti, né l’Unione Sovietica erano disposti ad un compromesso a lungo termine su una questione così fondamentale come quella della forma di governo che avrebbe diretto il territorio situato tra la Germania e la Russia. “Non vi preoccupate. Potremo metterlo in opera, a modo nostro in seguito” dichiarò Stalin al suo ministro degli affari esteri Molotov, una volta stipulato l’accordo. “È il meglio che posso fare attualmente per la Polonia”, confessò FDR al suo consigliere militare in capo, l’ammiraglio Leahy. L’insieme del dibattito sulla Polonia rivelò anche quanto la concezione del mondo fosse diversa tra le grandi potenze che formavano quest’alleanza. Nonostante il rinvio ad una data ulteriore, le questioni di legittimità a proposito del compromesso polacco riapparsero praticamente dalla chiusura della Conferenza di Crimea. L’entrata in guerra dell’Unione Sovietica contro il Giappone Queste essenziali differenze di percezione apparvero molto chiaramente anche durante le discussioni relative all’entrata in guerra dell’Unione Sovietica contro il Giappone; la questione è raramente associata all’evocazione della disposizioni prese per l’Europa a Yalta, ma riveste un’importanza fondamentale per la comprensione dei rapporti tra le pressioni della diplomazia classica e la visione del mondo dei principali capi. Andava da sé che per Stalin, l’Unione Sovietica avrebbe lanciato, ad un certo punto, un attacco contro il Giappone, (ma soltanto una volta vinta la guerra in Europa e preferibilmente dopo che i combattimenti nel Pacifico avessero indebolito l’esercito imperiale giapponese, al fine di garantire una vittoria facile). Ci dimentichiamo spesso che Stalin e lo stato maggiore sovietico pensavano seriamente, e fino ad una data così lontana come quella del mese di gennaio del 1945, all’ipotesi di un’aggressione giapponese contro l’Unione Sovietica e sapevano che i mezzi militari sovietici erano così disseminati, che una tale eventualità avrebbe avuto della conseguenze catastrofiche sulle sue disposizioni strategiche, senza parlare della sua capacità d’influenza, verso le fine della guerra in Europa, grazie ad un connubio di pressioni politiche e militari. Stalin giudicava inevitabile la guerra con il Giappone perché il capitalismo giapponese considerava l’Unione Sovietica come il suo nemico mortale (qualunque fossero i conflitti che l’opponevano all’occidente). Tuttavia dal punto di vista americano, il conflitto sovietico-giapponese non sembrava così evidente. Il presidente Roosevelt al contrario, credeva fortemente che gli Stati Uniti dovessero incitare l’Unione Sovietica ad entrare in guerra. Gli incaricati alle previsioni di Washington consideravano questo intervento indispensabile per tre validi motivi, e nessuno di questi derivava dall’ingenuità, a volte attribuita, al presidente. Il primo di questi motivi era che l’entrata in guerra dell’Unione Sovietica avrebbe permesso di evitare, durante la prima parte della guerra, la morte dei soldati americani ad un livello che oscurerebbe le perdite elevate che gli Stati Uniti avevano subito durante la campagna del Pacifico. Il secondo motivo derivava dal fatto che, nonostante l’elaborazione da parte degli Stati Uniti di una nuova arma che secondo i suoi partigiani “avrebbe rivoluzionato la guerra”, non esisteva nessuna assicurazione che una tecnologia atomica, non essendo mai stata oggetto di prove, avrebbe prodotto effettivamente dei risultati. Senza una tale arma, l’invasione dell’arcipelago nazionale giapponese poteva diventare un impresa lunga e ardua. In terzo luogo, infine, in assenza di una entrata in guerra dei sovietici prima della disfatta del Giappone, non solo la posizione degli Stati Uniti in Asia orientale sarebbe stata indebolita dalle perdite che sicuramente avrebbero subito, ma anche il mantenimento della neutralità sovietica avrebbe lasciato a Mosca la piena libertà di rinforzare la sue posizioni altrove, compreso in Europa e in Medio Oriente, mentre il conflitto giungeva al suo termine. In altri termini, gli Stati Uniti avevano bisogno, a Yalta, di giungere ad un compromesso con i sovietici, in modo da difendere meglio i loro interessi nell’ultima fase della guerra e dopo la fine di questa. Si stimò che la diplomazia americana aveva ottenuto un enorme successo 202 quando Stalin accettò finalmente di impegnarsi a favore dell’entrata in guerra dell’Unione Sovietica sul teatro delle operazioni dell’Asia orientale, dopo la conclusione dei combattimenti in Europa. Questo compromesso rivelò che il “tentativo di Yalta” poggiava su quello che i principali partecipanti alla conferenza consideravano, sempre qui, sessanta anni fa, come una necessità per le grandi potenze durante l’ultima fase della guerra. Ma, ma mentre il divario ideologico si allargava troppo per potere essere colmato. in Europa nel momento in cui conveniva definire la politica del tempo di pace, la percezione del ruolo di ognuno dei protagonisti evolse considerevolmente in Asia orientale tra le conferenze di Yalta e di Potsdam. Nonostante la poca fiducia generalmente concessa alle motivazioni di Stalin a Yalta, gli alleati vedevano le forze militari sovietiche come una risorsa comune. Sei mesi dopo, l’Armata Rossa divenne velocemente più una minaccia che una risorsa. Conclusioni Il tentativo di Yalta – e il suo fallimento - avevano per scopo di portare la Russia ad una forma di cooperazione con il resto dell’Europa e con gli Stati Uniti. Ho spiegato a lungo perché aveva fallito nel 1945 e avesse potuto riprendere soltanto alla fine della guerra fredda. Ma al di là della guerra, ragioni più ampie spiegano perché questo progetto sia stato ed sia ancora critico. Per poter svilupparsi in quanto Stato, la Russia era passata, come gli Stati Uniti, da una conquista continentale a occupare una posizione particolare che la poneva naturalmente al centro delle nazioni che la circondavano. Questa situazione non appare così chiara da nessuna parte come in Crimea, soprattutto se si risale a duecento anni fa. Credo che la divisione dell’Europa non sia totalmente superata – è questa la missione di cui è investito il Consiglio d’Europa – se non quando la Russia evolva, tramite una sua mutazione interna, passando dallo stadio d’Impero a quello di uno Stato che desideri essere integrato all’Europa per le sue ragioni. Questo procedimento non è sconosciuto agli altri paesi e impiegherà del tempo. Discutendo dell’argomento che ci riguardava, contribuiamo a questa evoluzione, ed è la ragione per la quale mi sento onorato di essere stato invitato a presentarvi questo avvenimento. 27. Yalta, Potsdam e l’emergenza della guerra fredda: la visione del Regno Unito alla luce di recenti ricerche Martin McCauley Nel novembre del 1917, Arthur Balfour, segretario di Stato britannico agli Affari Esteri, indirizzò una lettera a Lord Rothschild, capo famiglia del ramo inglese di quella dinastia bancaria ebrea, che prometteva il sostegno del Regno Unito all’azione condotta dal movimento sionista a favore della creazione di una patria ebrea in Palestina. In un altro documento scoperto recentemente, Balfour dichiarava che la Gran Bretagna non aveva mai avuto la minima intenzione di mantenere questa promessa. Si trattava di una manovra tattica, destinata soltanto a riunire questo movimento al campo britannico durante la Prima guerra mondiale. Stalin riutilizzò, per conto suo, questa tradizione balfouriana durante la Grande guerra patriottica dal 1941 al 1945. Fece numerose promesse che non aveva intenzione di mantenere, soprattutto a proposito della Polonia. I suoi discorsi erano manovre tattiche che avevano lo scopo di rinforzare la sicurezza dell’Unione Sovietica. Churchill fece lo stesso, come d’altronde Roosevelt. 203 La conferenza di Yalta Quale percezione la Gran Bretagna aveva dei suoi interessi a Yalta? Quali obiettivi si fissarono e in quale misura furono raggiunti? La situazione militare è la chiave di Yalta. Di fatto, le questioni militari vi occupavano il primo posto. L’armata Rossa era già presente sul suolo tedesco, in Romania, Bulgaria, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria e si preparava a prendere la capitale austriaca, Vienna. L’offensiva delle Ardenne (la battaglia delle Ardenne) lanciata dal dicembre del 1944 al gennaio del 1945 aveva sorpreso gli alleati occidentali e fatto cadere numerosi capi militari nello smarrimento: la presa della Germania sarebbe stata più difficile del previsto. Nella seconda metà dell’anno 1944 l’ottimismo del generale Eisenhower era stato tale, che aveva scommesso con il generale Montgomery che gli alleati sarebbero stati a Berlino e che la guerra sarebbe stata conclusa il giorno di Natale del 1944. Edward Stettinius, segretario di Stato americano, sottolinea la realtà della situazione: “Non bisogna mai dimenticare che al momento della Conferenza di Crimea, i consiglieri militari del presidente Roosevelt gli avevano appena fatto sapere che la resa del Giappone potrebbe probabilmente non avere luogo prima del 1947, o anche più tardi. Lo avevano informato che senza la partecipazione dell’Unione Sovietica, la presa del Giappone potrebbe costare un milione di morti all’esercito americano (le stime britanniche erano di 500.000 morti e altrettanti feriti). Bisogna anche ricordarsi che all’epoca della Conferenza di Yalta, il perfezionamento della bomba atomica restava incerto e visto che la battaglia delle Ardenne aveva ritardato la nostra progressione in Europa, ignoravamo quanto tempo occorrerebbe perché la Germania crollasse…La speranza fiduciosa di una fine rapida della guerra contro la Germania fu oscurata”. Per Roosevelt, tre questioni importanti si ponevano a Yalta: la disfatta della Germania; la disfatta del Giappone; la creazione della Nazioni Unite. L’ONU non poteva imporre nessuna sanzione senza un voto all’unanimità del Consiglio di sicurezza. Il punto di vista di Roosevelt era il seguente: “La cosa più importante è mantenere l’unità delle tre grandi potenze, di vincere contro la Germania, poi di riunirle intorno ad un tavolo per mettere a punto un’organizzazione mondiale”. Quali erano le conseguenze per Churchill ? Era messo da parte. Churchill si augurava di coordinare un approccio comune prima della conferenza, ma questa proposta non suscitò l’interesse di Roosevelt. Le fonti sovietiche contengono qualche riferimento poco lusinghiero nei confronti di Churchill. Sergo Beria, il figlio di Laventry Beria che faceva parte della squadra incaricata di ascoltare le conversazioni a Yalta, fa notare come le guardie sovietiche rispettassero Roosevelt, ma che scherzassero su Churchill. Quest’ultimo aveva difficoltà a prendere sonno e faceva un considerevole consumo di alcool. Sapeva che tutte le stanze erano piene di microfoni e provava un piacere maligno ad esprimersi in un inglese sottile, da complicare il compito dei traduttori. Roosevelt aveva riflettuto sui suoi obiettivi politici, e non era affatto il caso che Churchill gli facesse cambiare parere. Rifiutò semplicemente di discuterne con questo ultimo. Churchill viaggiava a fianco della jeep che trasportava Roosevelt e tentava di affrontare certe questioni, ma otteneva come sola risposta che tutto era già stato già discusso e deciso. La difficoltà derivava in parte dal fatto che Roosevelt considerava l’Unione Sovietica come un partner nella gestione del mondo del dopo guerra. Gli Stati Uniti avevano intenzione di smantellare l’impero coloniale britannico e, in questo, Washington aveva più punti in comune con Mosca che con Londra. 204 Dl punto di vista occidentale, il principale problema era quello della Polonia. Il dominio sovietico di questo paese era stato concesso a Teheran. L’accordo sulle percentuali fatto tra Churchill e Stalin nel ottobre del 1944 non citava la Polonia, ma il resto dell’Europa dell’est e del sud-est, ritagliato in zone di influenze – in particolare la Grecia (90-10%) a favore dell’ovest, la Romania (90-10%) a favore dell’Unione Sovietica, la Bulgaria (75-25%) a favore dei sovietici, e anche la Yugoslavia e l’Ungheria (50-50%). Roosevelt e Churchill convinsero Stalin ad accettare alcuni ministri polacchi di Londra nel governo di Lublin, Churchill desiderava che fossero loro attribuiti otto o dieci mandati. Churchill non poteva affrontare Stalin da solo. Tentò di ottenere l’appoggio di Roosevelt, ma quest’ultimo preferiva collaborare con Stalin e non poteva permettersi di avere discussioni con lui. Churchill aveva certo qualche carta da giocare a Yalta, ma in conclusione, né lui né Roosevelt furono pienamente soddisfatti del risultato della conferenza. Stalin era molto meglio informato di Churchill o di Roosevelt. Burgess e Maclean gli fornivano dei documenti relativi alla politica britannica e Kim Philby si dava allo spionaggio. Alger Hiss, agente sovietico del dipartimento di Stato, faceva parte della squadra di Roosevelt a Yalta. Stalin sapeva esattamente quello che Roosevelt era disposto a concedergli per ottenere la partecipazione dell’Unione Sovietica nella guerra contro il Giappone. Roosevelt, da parte sua, non si rendeva conto che Stalin era impaziente di entrare in guerra. Per Churchill, la Conferenza di Yalta era sfociata in una Dichiarazione sull’Europa liberata; che parlava di democrazia, di libertà, di sovranità. L’esame dei documenti del Foreign Office (ministero britannico degli Affari Esteri) rivela che questa dichiarazione sostituiva nel suo spirito l’accordo sulle percentuali dell’ottobre del 1944. Non era un caso per Stalin. Churchill ebbe ugualmente un motivo di soddisfazione con la Spagna: Franco restava al suo posto. La sua caduta avrebbe permesso ai comunisti di prendere il potere e ciò avrebbe causato dei problemi riguardo allo stretto di Gibilterra. La Russia aveva delle mire sulla Libia e su Tangeri. Nella ripartizione delle carte nella partita di Yalta, Stalin pensava probabilmente di possedere tre assi in mano sua; Roosevelt credeva di averne due o tre in mano, mentre Churchill non ne possedeva alcuno. Di fatto disponeva probabilmente soltanto del due di fiori e del due di picche! Gli americani non ignoravano che il pagamento delle riparazioni da parte della Germania fosse una necessità per l’Unione Sovietica, ma a Yalta non venne stabilita alcuna somma. Essi pensavano ugualmente che quest’ultima avrebbe avuto bisogno di importanti prestiti americani dopo la guerra. A causa del conflitto, la Gran Bretagna si trovava sull’orlo del fallimento ed era cosciente che avrebbe dovuto beneficiare di prestiti americani alla fine della guerra. La delegazione britannica fu evidentemente soddisfatta dei risultati della conferenza a causa della straordinaria impressione che Stalin aveva fatto su di essa, a cominciare da Churchill e fino all’ultimo dei suoi collaboratori. “Non ho mai conosciuto un russo che sia così alla mano e così accomodante. Egli ha dato prova di estrema bontà. E’ un grande uomo e spicca in modo impressionante sugli altri due statisti che ormai invecchiano”, fece notare Alexander Cadogan, sottosegretario permanente al Foreign Office. Stalin si mostrò molto accomodante. Acconsentì, dopo essersi opposto inizialmente, ad accordare alla Francia una zona ed un seggio in seno alla Commissione alleata di controllo. Accettò ugualmente, ancora una volta dopo un rifiuto iniziale, la modalità di scrutinio proposta dagli Americani per il Consiglio di sicurezza, permettendo così la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Churchill conservava il ricordo di Neville Chamberlain, Primo ministro britannico che era stato tratto in inganno da Hitler. “Quel povero Neville Chamberlain credeva di potersi fidare di Hitler. Si sbagliava. Ma io non penso di sbagliarmi a proposito di Stalin”. 205 Tra Yalta e Potsdam L’attitudine britannica cambiò radicalmente dopo Yalta: la soddisfazione lasciò il posto alle disillusioni. La Gran Bretagna stimò che i Russi non cercassero di risolvere le questioni relative alla Commissione consultiva europea. La conclusione a cui giungeva era che i Sovietici sperassero di raggiungere il Reno alla fine della guerra e che fossero stati sorpresi dalla rapida avanzata degli altri alleati. Avevano deciso così di conservare tutto ciò che detenevano. Un funzionario del Foreign Office deplorò che i termini “democrazia” e “cooperazione” avessero un significato diverso in russo. Lì, la democrazia era una “democrazia guidata” e la nozione di cooperazione significava che ogni potenza potesse agire di testa propria nell’ambito della propria zona, con il consenso degli altri. L’Unione Sovietica iniziò ad apparire come un potenziale nemico per l’avvenire. Questa idea fu espressa per la prima volta dai capi di stato maggiore il 2 ottobre 1944, poi di nuovo nel maggio del 1945. Essi avevano ricevuto da Churchill il compito di valutare la possibilità di un’offensiva militare contro l’Unione Sovietica, in caso di conflitto nelle negoziazioni tra quest’ultima e la Gran Bretagna. Il 24 maggio 1945, Churchill espresse la sua inquietudine riguardo l’espansione dell’“orso” in Europa. Incaricò i capi di stato maggiore di elaborare un piano militare per ricondurre l’orso russo a Mosca prima della smobilitazione delle truppe americane e britanniche. L’11 giugno 1945, Churchill tracciò un triste bilancio della situazione in Europa: I Russi sono molto potenti in Europa”. Churchill avrebbe voluto che gli alleati mantenessero le posizioni raggiunte alla fine della guerra, allo scopo di negoziare un accordo favorevole sull’accesso ai settori occidentali di Berlino. Ma gli Americani non erano pronti ad un confronto con Stalin poiché intendevano fare dell’Armata Rossa un loro alleata nella guerra contro il Giappone. Contrariamente alle aspettative di Churchill, gli alleati si ritirarono nei limiti convenuti delle loro rispettive zone e entrarono a Berlino solo all’inizio di giugno. Il pessimo accordo raggiunto sull’accesso degli Occidentali a Berlino (e sul diritto dei Berlinesi dell’Ovest di andare nella Germania dell’Ovest) creò alla fine parecchie frizioni tra i vecchi alleati della guerra. Potsdam Churchill prese la fatale decisione di non assistere ai funerali di Roosevelt. La ragione che lo spinse a non cogliere quest’opportunità di incontrare Truman e di tentare di influenzarlo rimane un mistero. Truman aveva un’ammirazione senza limiti per Churchill. Roy Jenkis, nella sua biografia su Churchill (Macmillan 2001), lascia intendere che i rapporti tra questi e Roosevelt mancassero di calore. I due erano unicamente degli alleati tattici. Questo può in parte spiegare la decisione di Churchill di non recarsi ai funerali di Roosevelt. Quale che sia la ragione, fu comunque un grave errore da parte sua, che pure di solito dava prova di una straordinaria intuizione nell’ambito delle relazioni pubbliche. Truman propose di incontrare Stalin a Potsdam; Churchill li avrebbe raggiunti solo alla fine della conferenza. Quest’attitudine illustra chiaramente il ruolo accordato alla Gran Bretagna. Non si trattava della riunione dei Tre Grandi, ma di due giganti e di un nano. Il 2 luglio 1945, Alexandre Cadogan, Vice Segretario permanente del Foreign Office britannico scrisse a Churchill: “Speriamo di preparare a vostro favore la lista delle carte che gli Americani e noi stessi possediamo. Non sono numerose. La più importante è quella dei fondi a disposizione degli Americani. Noi abbiamo in nostro possesso la flotta, le installazioni e le risorse industriali tedesche situate a ovest. Gli archivi tedeschi. Ogni concessione che Stalin potrebbe augurarsi di ottenere da noi, per esempio riguardo gli stretti o Tangeri”. 206 Truman, ben inteso, disponeva della bomba atomica. Prima di Potsdam, Stalin credeva di avere tre assi nel suo gioco, ma la Bomba A modificò totalmente la distribuzione delle carte lasciandogliene solo due. Truman pensava senza alcun dubbio di disporre di tre assi, uno di essi corrispondeva alla bomba atomica. Churchill, dal canto suo, stimava di possederne almeno uno. Alanbrook riporta la reazione di Churchill alla notizia dell’esplosione della bomba (il 23 luglio 1945): “L’impegno dei Russi nella guerra contro il Giappone ormai non è più necessario; questa nuova bomba è sufficiente a regolamentare la questione. Inoltre, noi disponiamo oggi di una carta vincente che ci permette di ristabilire l’equilibrio con i Russi! Il segreto di questo esplosivo e il potere di usarlo modificherà completamente l’equilibrio diplomatico, che era incerto dopo la sconfitta della Germania! Possediamo oggi un nuovo vantaggio che risolleva la nostra posizione”, aggiunse sollevando il mento, l’aria accigliata; “noi possiamo ormai affermare che se si dimostrano troppo insistenti sull’uno o l’altro punto, non dovremo far altro che cancellare dalla carta Mosca, poi Stalingrado, Kiev, Kuibyshev, Kharkov, Stalingrado (sic), Sebastopoli, ecc. Che cosa resta oggi dei Russi!!!”. Truman era impressionato da Stalin: “Posso trattare con Stalin. E’ onesto, ma furbo come un diavolo”. L’attitudine della Gran Bretagna nei confronti dell’Unione Sovietica La Gran Bretagna aveva sempre avuto coscienza della potenza militare dell’Unione Sovietica, che considerava un gigante rispetto al nano quale essa era. Dal punto di vista militare, le negoziazioni di Teheran e Yalta erano state difensive e quasi improntate alla contrizione. Questo divario poneva politicamente la Gran Bretagna in una posizione di debolezza nella difesa dei suoi interessi e nella resistenza al dominio dell’Unione Sovietica in Europa dopo la guerra. In una penetrante analisi, datata 17 aprile 1944, il Foreign Office esamina gli obiettivi della politica sovietica e le sue probabili conseguenze per l’Europa. “Stalin rigetta l’idea americana di una pace garantita da un’organizzazione di cooperazione internazionale. Il capitalismo significa guerra. Stalin vuole la pace e rimarrà al di fuori dei conflitti se può. L’Unione Sovietica è intenta a costituire un cordone sanitario lungo le sue frontiere occidentali. L’obiettivo è di costituire un gruppo di piccoli Stati legati all’Unione Sovietica, se possibile tramite trattati. Mosca si opporrà ad ogni progetto di federazione, perché ostacolerebbe la sua influenza diretta su ogni Stato. Questi Stati rivendicheranno dei territori vicini – la Prussia orientale per la Polonia, la Transilvania per l’Ungheria, ecc – cosa che li renderà dipendenti da Mosca per la loro sicurezza. La Russia a bisogno di venticinque anni di pace per diventare una grande potenza economica; cercherà ad ogni costo di evitare le ostilità con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti nel corso dei prossimi dieci - venticinque anni. L’Unione Sovietica farà tutto ciò che è in suo potere per evitare una rivoluzione socialista in Europa, perché destabilizzerebbe la regione e rischierebbe di condurre all’insubordinazione dei nuovi regimi, cosa che potrebbe renderli difficili da controllare”. Il sopraggiunto cambiamento di potere in Gran Bretagna modificò la politica straniera del paese? Attlee, dimostrò maggiore disponibilità nei confronti dell’Unione Sovietica? No. L’analisi fatta dal Partito Laburista della politica sovietica dopo il 1945 era quasi identica a quella del Partito conservatore. Si presupponeva che l’Unione Sovietica si consacrasse ai suoi 207 affari interni e non costituisse una minaccia militare per la Gran Bretagna o l’Europa occidentale. L’influenza di Ernest Bevin, segretario di Stato agli Affari esteri, fu considerevole. Bevin odiava i comunisti che aveva combattuto quando era sindacalista. Non sopportava Molotov. La politica estera dei laburisti fu simile a quella dei New Labour (nuovo Partito Laburista). L’alleanza con gli Stati Uniti ne costituiva le fondamenta. Questa posizione fu fonte di conflitto con l’ala sinistra del Partito Laburista ma Attlee spazzò via ogni forma di contestazione. Alcuni deputati laburisti fornirono informazioni a Stalin tramite l’intermediazione di alcuni agenti sovietici. La politica britannica era influenzata da un fattore essenziale: la debolezza militare ed economica del paese, che necessitava dell’aiuto americano. La Germania Una delle prime preoccupazioni della Gran Bretagna era di assicurarsi che la Germania non costituisse nuovamente una minaccia per la pace, come era accaduto 20 anni dopo il 1919. Essa rimase la sua bestia nera fino al 1946, quando la sua opinione cambiò alla luce della minaccia sovietica. La paura della Germania esisteva ugualmente nell’Europa dell’est. Il Presidente cecoslovacco, Eduard Benes, era disposto a fare concessioni a Stalin purché l’Unione Sovietica garantisse la sicurezza del paese in caso di una rinascita della Germania. I cechi e gli slovacchi furono sempre meglio disposti nei confronti dei russi di quanto non lo fossero i polacchi. Questo stato d’animo cambiò radicalmente dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle forze del Patto di Varsavia nell’agosto del 1968. La percezione britannica di Stalin e dell’Unione Sovietica Il Foreign Office si mostrò particolarmente preoccupato di analizzare la personalità e la politica di Stalin e dell’Unione Sovietica. Stalin era essenzialmente un marxista, un pragmatico o entrambe le cose? Churchill aveva un approccio personale della diplomazia. Giudicava possibile concludere una trattativa dopo aver incontrato personalmente un capo di stato. La politica estera si riduceva allo stringere rapporti personali, che si basavano principalmente sulla fiducia. Una volta stabilito un rapporto di fiducia era possibile prendere decisioni politiche importanti. Ai suoi occhi era questo il solo modo di garantire l’applicazione reale degli accordi passati. Churchill concluse che Stalin era un uomo col quale fosse possibile trattare e che avrebbe mantenuto la parola data. Ciò significava che si poteva comprendere il suo modo di pensare e di conseguenza determinare una politica dagli esiti positivi. Churchill scartava Molotov e gli altri dirigenti del Cremlino che considerava come “Bolscevichi”. In altri termini, era impossibile comprendere il percorso intellettuale che conduceva alle loro decisioni e, di conseguenza, riuscire a influenzarli efficacemente. I diplomatici britannici ritenevano Stalin sottomesso alle pressioni del suo Politburo o del Consiglio dei Ministri; senza dubbio egli doveva subire i loro rimproveri quando gli capitava di eccedere nelle concessioni, pensavano essi. Alcuni si spingevano ad immaginare che Stalin dovesse accuratamente tener conto del parere del comando militare. Quando Churchill incontrava difficoltà con Stalin, ne concludeva che il problema derivasse da Stalin stesso. In un’interessante analisi del 14 agosto 1942, Churchill medita sull’apparente incostanza di Stalin, conciliante un giorno e intrattabile l’indomani. Per lui, questo cambiamento si spiega forse con la preoccupazione di veder consegnato questo punto di vista nel resoconto 208 dei dibattiti al fine di potersene valere in seguito e accontentare i commissari (i ministri del governo). “Cercavamo una spiegazione a questa sorta di recitazione e alla trasformazione alla quale assistevamo, quando trovammo la sera della vigilia un terreno d’intesa. La ragione più probabile mi parve essere che il Consiglio dei commissari non avesse accolto la mia proposta altrettanto bene di quanto avesse fatto lui. Queste persone hanno forse più potere di quanto pensiamo e può essere che egli agisca così affinché la sua posizione risulti nel resoconto finalizzata ad altri scopi, per seguire la loro volontà o perché prova il bisogno di sfogarsi”. Da cosa deriva quest’idea che Stalin non fosse il padrone del Cremlino? Dai funzionari e dai diplomatici del Foreign Office ? Sfortunatamente nessun documento permette di porre fine alla questione. E’ vero che i diplomatici e gli analisti americani giungevano a conclusioni simili, così come i canadesi. In realtà, Stalin era proprio il padrone del Cremlino, anche se naturalmente discuteva con i suoi collaboratori degli approcci e delle tattiche da adottare. Molotov si oppose fermamente e a più riprese al punto di vista di Stalin e qualche volta riuscì a fargli cambiare idea. Viceversa, se Stalin giudicava sbagliate le decisione prese da Molotov nel corso di una riunione con gli alleati occidentali, lo ricopriva di feroci rimproveri. Un giorno, sotto la violenza degli attacchi, Molotov scoppiò in lacrime. Gli ufficiali non sfuggivano a questo trattamento. Ma è giusto sottolineare che Stalin non tollerò mai la formazione di una maggioranza contestataria in grado di rovesciarlo. Le origini della guerra fredda Esiste un avvenimento preciso, che abbia agito da detonatore della guerra fredda? La risposta è no. La guerra fredda si estese progressivamente. La grande alleanza conclusa tra Unione Sovietica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fu sin dall’inizio fonte di tensioni. Stalin rimase però sulla difensiva fino all’autunno 1943. A partire da questa data, egli acquisì gradualmente fiducia (si può collocare questo momento alla fine del 1943, quando l’internazionale che faceva da inno nazionale sovietico fu sostituita da un inno nazionale russo), fino a diventare pienamente sicuro di se nel 1945. Molotov riconobbe in vecchiaia che nel 1945 Stalin si mostrava vanitoso e che oltrepassava ogni limite. L’attitudine diplomatica della Gran Bretagna fu difensiva nei confronti dell’Unione Sovietica fino a Potsdam. Si può d’altronde aggiungere che Londra si tenne costantemente sulla difensiva. Gli Stati Uniti si consideravano come il membro dominante di questa alleanza, ma giudicavano che la cooperazione con Stalin, alla fine della guerra, fosse indispensabile per assicurare e per mantenere la pace nel mondo. Così la Gran Bretagna ricoprì un ruolo minore nel dramma che condusse alla guerra fredda. Il conflitto oppose essenzialmente le due potenze che stavano per diventare delle super potenze, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Gli altri paesi furono relegati a uno status di semplici figuranti. Gli archivi personali di Stalin offrono diversi aspetti della sua personalità e del modo con cui prendeva le sue decisioni. Egli soffriva regolarmente di una malattia che riduceva senza dubbio la sua capacità di controllare tutti i dettagli di un problema e poi di prendere una decisione. Afflitto da un male allo stomaco almeno dal 1936, egli arrivò alla conferenza di Potsdam con un giorno di ritardo, apparentemente indebolito da un nuovo attacco della sua malattia. Si mostrava estremamente geloso degli altri dirigenti, come Molotov e Joukov. L’interprete britannico, Hugh Lunghi, pensava che trattasse Molotov come “un cane”, cioè in modo offensivo. Quest’attitudine mirava a mantenere Molotov in uno stato di subordinazione nei confronti di Stalin, affinché non potesse prendere alcuna decisione di sua iniziativa. Ben inteso, gli era impossibile controllarlo come un robot, poiché questi a più riprese dovette dar 209 prova di iniziativa. Stalin si comportava allo stesso modo con ogni funzionario che potesse usurpare i suoi poteri decisionali. A partire dal 1945, passava diversi mesi dell’anno nel sud, principalmente in Georgia, ma esigeva di essere informato di ogni questione che ritenesse importante. Esaminava ogni giorno una montagna di documenti e redigeva accuratamente le sue decisioni ed i suoi ordini, che erano in seguito trasmessi a Mosca. Rifiutava di condividere il potere. Tenuto conto dell’influenza e del potere crescenti dell’Unione Sovietica, era assolutamente impossibile che un uomo solo potesse prendere l’insieme delle decisioni importanti. Un superuomo non ci sarebbe riuscito. Considerato il suo desiderio di arrogarsi l’insieme dei poteri, un partenariato con gli Stati Uniti dopo la guerra, gli avrebbe imposto un sovraccarico di lavoro considerevole e proprio quando la sua salute iniziava a venir meno. Nessun dirigente unico avrebbe potuto trattare la moltitudine di problemi che si presentavano e che esigevano una soluzione. Avrebbe potuto tracciare le grandi linee ma, gli sarebbe stato impossibile verificare che ogni funzionario eseguisse i suoi ordini alla lettera. Il suo dominio si estendeva ugualmente in politica interna. Egli aveva capito che i soldati e i civili russi entrati a Parigi dopo aver vinto Napoleone, erano tornati a casa loro con lo spirito e i bagagli colmi di idee straniere. La rivolta dei Decabristi, che aveva tentato di rovesciare lo zar Nicola I nel 1825, fu una conseguenza di questo fermento di idee. E’ questo, in modo particolare, il motivo che spiega la decisione di Stalin di deportare, al loro ritorno, i prigionieri di guerra sovietici in Siberia e di impedire loro di raggiungere le famiglie. Stalin aveva sperato di beneficiare dei crediti americani che avrebbero facilitato la ricostruzione del paese. Ma quando questa speranza non si concretizzò, fu necessario costituire questo capitale in seno all’Unione Sovietica stessa. La ricostruzione rapida del paese imponeva lo sfruttamento della popolazione. Al fine di galvanizzare i cittadini e di eliminare ogni opposizione, scelse allora di promuovere il nazionalismo russo, in particolare nei suoi aspetti antioccidentali e xenofobi. L’opera di Montefiore (La corte dello zar rosso, 2003) fornisce numerose indicazioni sul modo di pensare e di decidere di Stalin. La fatica lo vinse a partire dal 1945; egli passava generalmente diversi mesi nel sud del paese, ma doveva essere tenuto informato e prendere personalmente tutte le decisioni importanti. Redigeva un numero colossale di lettere e note di servizio e si informava costantemente dell’esecuzione fedele dei suoi ordini. Stalin si considerava un intellettuale – leggeva una quantità fenomenale di opere del mondo intero – e come tale abilitato a intervenire e pronunciarsi in tutti i domini che giudicava importanti, cioè quelli che avevano delle incidenze politiche. Detestava i pettegolezzi e i chiacchieroni, ma voleva essere informato sui minimi dettagli della vita privata dei suoi collaboratori. Senza dubbio credeva di essere il solo autorizzato a collezionare i pettegolezzi, probabilmente al fine di farne uso successivamente a detrimento delle persone coinvolte. Uno dei suoi collaboratori dichiarò che in Stalin vedeva sei personalità differenti, tanto era complicato il capo del Cremlino. I suoi subalterni dovevano dare prova di una grande abilità per riuscire a determinare con quale Stalin avevano a che fare. Una cattiva risposta da parte loro poteva far abbattere su di essi la collera del capo e mettere fine alla loro carriera. Stalin era ugualmente un attore consumato, capace di incantare i suoi interlocutori. Ciò spiega perché l’impressione che poteva dare, variava da una persona all’altra. Egli scelse talvolta di mostrarsi offensivo con Churchill (nel corso delle negoziazioni dell’ottobre 1948, che sfociarono nell’accordo sulle percentuali, Stalin si dimostrò così grossolano che Churchill fu a un passo dal lasciare Mosca. Invitò quindi quest’ultimo a cena in compagnia della sua famiglia e si mostrò così affascinante che Churchill se ne andò raggiante). In altre occasioni, egli fece sfoggio di cordialità verso il Primo ministro britannico, e questo funzionò sempre a meraviglia. 210 L’effetto che il dittatore sovietico produceva su Churchill è abbastanza straordinario, se si pensa all’odio che il premier britannico provò per il comunismo lungo l’arco di tutta la sua vita. Stalin fece un’impressione simile a Roosevelt, ma il Presidente americano voleva credere che associati all’Unione Sovietica, gli Stati Uniti avrebbero potuto dirigere il mondo dopo il 1945. Churchill ebbe sempre coscienza che dopo il 1943 la Gran Bretagna si sarebbe trovata di fronte a un’Europa suscettibile di subire, dopo la guerra, la dominazione militare, e forse politica, dell’Unione Sovietica. Ma essa non poteva resistere da sola all’avanzata dell’orso russo. D’altra parte Roosevelt manifestò sempre un’aria di superiorità distaccata nei confronti dell’Unione Sovietica. Questa non rappresentava alcuna minaccia militare né politica per gli Stati Uniti. Egli si preoccupava molto poco dell’ideologia marxista leninista, persuaso com’era che il capitalismo liberale e la democrazia avrebbero trionfato. Mentre Stalin era convinto che l’Unione Sovietica sarebbe divenuta la terra promessa, Roosevelt dal canto suo non dubitava che gli Stati Uniti incarnassero già questa terra promessa. Le cause della guerra fredda Citiamo innanzitutto la presunzione di cui Stalin diede prova dopo il 1943. Egli desiderava conservare da solo il controllo dell’Unione Sovietica: un partenariato con gli Stati Uniti avrebbe resa necessaria la presenza di più decisori sovietici e Stalin non sarebbe stato in grado di imporre la sua volontà in tutti i campi. Era estremamente geloso di tutti gli altri dirigenti sovietici portati a prendere decisioni, da Joukov a Molotov. Gli Stati Uniti speravano in un partenariato con l’Unione Sovietica, ma la loro frustrazione era tanto più grande visto che essi erano convinti di essere i padroni del gioco e che a loro spettasse di tracciare la politica di questo partenariato. Per loro, l’Unione Sovietica aveva bisogno dei fondi americani per la propria ricostruzione. Stalin aveva poca stima di Truman, che giudicava “sprovvisto di istruzione e intelligenza”. E’ sorprendente che un dirigente prudente come Stalin non abbia cercato di coltivare di più le sue relazioni con il Presidente americano, nei confronti del quale destava una certa impressione. Dopo il 1945 Stalin si mostrò stanco e frequentemente malato. Non apprezzava neanche Atlee. La Gran Bretagna non ebbe alcun ruolo nello scatenamento della guerra fredda, ma fu lieta di vedere il mantenimento della presenza americana in Europa. Il piano Marshall e la NATO furono per lei una benedizione. E’ impossibile designare un avvenimento preciso che possa essere considerato come il detonatore della guerra fredda. Essa fu progressiva. Nondimeno, alcuni consiglieri di Truman manifestarono un’opinione estremamente negativa riguardo all’Unione Sovietica sin dagli inizi della sua presidenza, come Averill Harriman e George Kennan. Essi non ebbero peli sulla lingua per designare la minaccia che i sovietici rappresentavano ai loro occhi per l’Europa e gli Stati Uniti. Roosevelt e Churchill non “svendettero” l’Europa orientale a Yalta. Durante la conferenza di Teheran, essi avevano acconsentito affinché l’Unione Sovietica giocasse un ruolo più importante in Polonia e, una volta che la Polonia fu occupata dall’Armata Rossa, la dominazione di Mosca sui suoi vicini fu praticamente un fatto compiuto. L’accordo sulle percentuali dell’ottobre 1944 rivelò che Churchill era disposto a negoziare l’istituzione di zone d’influenza. Riconosceva così che l’Europa orientale sarebbe stata d’ora in avanti sottomessa all’Unione Sovietica. La paura di una rinascita della Germania, suscettibile di voler dominare 211 ancora una volta l’Europa occidentale, continuava ad occupare la sua mente. La presenza dei russi in Europa orientale costituiva così una garanzia che quest’ipotesi non potesse realizzarsi. 212 28. La conferenza di Crimea e le origini della guerra fredda Alexander Chubaryan Lo sviluppo della ricerca storica sulla guerra fredda L’interesse degli storici e dei giornalisti politici del mondo intero per la storia della guerra fredda è rapidamente cresciuto nel corso di questi ultimi anni. La marcata attenzione su questo soggetto si spiega per diverse motivi. In primo luogo, è ormai possibile consultare un notevole numero di documenti, raggruppati essenzialmente nei fondi d’archivio. A questo riguardo gli archivi della vecchia Unione Sovietica, una volta inaccessibili, rivestono un’importanza capitale. Malgrado il malcontento espresso dai ricercatori di fronte al mantenimento del divieto di consultazione di alcuni archivi, i documenti già disponibili e utilizzati dagli specialisti consentono di definire in maniera generale le principali tappe di transizione verso la guerra fredda e il confronto fra i due campi, di comprendere l’essenziale delle intenzioni sovietiche, di ritracciare il processo decisionale, di valutare il ruolo di Stalin e la logica della sua politica così come la correlazione tra le questioni ideologiche e le questioni pratiche della Realpolitik. Disponendo anche delle pubblicazioni e degli archivi americani, britannici, francesi e tedeschi, i ricercatori possono ricostruire una panoramica dell’evoluzione della guerra fredda comparando le diverse fonti e attingendo alle numerosissime memorie dei contemporanei. In secondo luogo, occorre sottolineare che nel corso degli ultimi dieci anni hanno avuto luogo centinaia di conferenze e di riunioni diverse, consacrate ai differenti aspetti della guerra fredda, ivi comprese quelle che hanno accolto testimoni dell’epoca. All’inizio degli anni ’90, il centro Woodrow Wilson di Washington ha lanciato il progetto “Storia internazionale della guerra fredda”. Oltre alle dozzine di conferenze e di seminari, esso comprende un Bollettino speciale (dodici numeri sono finora già stati pubblicati) nel quale i documenti d’archivio prima sconosciuti dal mondo scientifico, sono regolarmente pubblicati. Oltre che a Washington, centri di ricerca sono stati creati in numerosi paesi – nella Federazione Russa (in seno all’Istituto di Storia mondiale dell’Accademia russa delle scienze), nel Regno Unito (al King’s College di Oxford), in Germania (all’Università di Essen). Un gran numero di conferenze sono state peraltro organizzate in Francia, in Italia, nella Repubblica Ceca, in Slovacchia, in Cina, in Giappone, in Vietnam e in altri paesi ancora. Queste attività hanno consentito la costituzione di una rete che raccoglie diverse centinaia di specialisti della storia della guerra fredda. In terzo luogo, centinaia di opere e di articoli, pubblicati nel corso dell’ultimo decennio, chiariscono diversi aspetti delle cause, dell’evoluzione e della fine della guerra fredda. I punti di vista dei diversi autori divergono spesso radicalmente e ciò fornisce motivi di discussione e confronto. In quarto luogo, la ricerca in questo campo è facilitata dal fatto che la guerra fredda costituisce un’epoca passata e ciò consente di analizzare il fenomeno nella sua totalità. Disponiamo per questa ragione di un quadro completo della guerra fredda, che comprende una valutazione delle sue cause, l’analisi delle sue tappe e i fattori che hanno determinato il suo abbandono. I ricercatori possono così confrontare gli obiettivi iniziali dei protagonisti e il risultato finale delle loro azioni. Infine, la guerra fredda deve essere ricollocata in un contesto più ampio. Come si sa, la Seconda guerra mondiale creò un nuovo ordine mondiale, quello di Yalta e di Potsdam. Il XIX e XX secolo di fatto, non hanno dato la vita che a qualche raro sistema internazionale nel mondo: il sistema di Vienna (istituito dopo le guerre napoleoniche e la 213 disfatta della Francia), il sistema di Versailles (istituito dopo la Prima guerra mondiale) e, infine, il sistema di Yalta-Potsdam di cui abbiamo appena parlato. Gli storici hanno la possibilità di confrontare l’evoluzione di questi sistemi, le circostanze della loro nascita e il loro funzionamento, di definire la loro tipologia, le loro caratteristiche comuni e le loro particolarità. Lo studio del ruolo svolto dal sistema YaltaPotsdam è, in più, facilitato dalla sua scomparsa avvenuta contemporaneamente alla guerra fredda. Le ricerche anteriori sulla guerra fredda e il sistema di Yalta-Potsdam hanno peraltro rivelato la necessità di un approccio interdisciplinare, in vista di un’azione concertata degli storici, dei politologi, dei giuristi, dei sociologi e degli economisti. Quest’approccio risulta particolarmente indispensabile, perché è praticamente impossibile capire i molteplici aspetti della questione senza un’analisi dei suoi fattori economici e giuridici. Inoltre, lo studio storico di questi ultimi quaranta anni ha dimostrato la considerevole efficacia di un approccio sistemico, di un’analisi che ricorra ai metodi applicati dai politologi a diversi sistemi, ivi compresi i sistemi internazionali. Infine, è apparso necessario includere gli specialisti della storia nazionale di diversi paesi nel quadro delle ricerche sulla guerra fredda. Numerosi aspetti della politica estera – quella dell’Unione Sovietica , per esempio – possono essere compresi e spiegati solo nel contesto dei meccanismi interni propri al sistema staliniano, dell’interconnessione dei fattori politici e ideologici, delle particolarità dell’origine e del ruolo del complesso militare industriale sovietico, così come il suo confronto con i complessi militari – industriali americani e di altri paesi. L’interesse scientifico su questo soggetto nei diversi paesi e i risultati abbastanza sostanziali ottenuti dagli studi consacrati alla storia del dopoguerra nel corso degli ultimi dieci anni sono stati predeterminati dall’insieme delle circostanze precitate. E’ opportuno notare che queste questioni storiche hanno ugualmente suscitato l’interesse di un largo pubblico. Una serie di documentari sulla storia della guerra fredda, cooprodotta dai Britannici e dagli Americani è stata diffusa sui canali televisivi di più paesi, compresa la Federazione Russa. Un gran numero di altre trasmissioni televisive e film consacrati a questa questione sono stati recentemente realizzati in diversi paesi, tanto in Europa che in Asia. Peraltro, parecchie opere di successo e brochures sono state pubblicate sull’argomento. Un progetto di manuale scolastico d’insegnamento secondario sulla guerra fredda è ormai all’ordine del giorno. Su iniziativa di specialisti russi e britannici, nel 1999 è stata creata a Londra una rivista internazionale specializzata, Cold War History ( Storia della guerra fredda). Possiede una squadra editoriale comune russo-britannica e un comitato di redazione internazionale rappresentativo. Fino a questo momento sono stati pubblicati dodici numeri. Anche l’Università di Harvard negli Stati Uniti pubblica una rivista consacrata alla storia della guerra fredda. La guerra fredda e il sistema globale delle relazioni internazionali E’ possibile affrontare un punto che da molto tempo attira l’attenzione degli specialisti: i rapporti tra la guerra fredda e il sistema globale delle relazioni internazionali esistenti dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni ‘80. Grazie a quest’approccio, possiamo costatare che la guerra fredda rappresenta un elemento importante e decisivo, ma solo uno degli elementi dell’evoluzione generale delle relazioni internazionali e dell’insieme del sistema politico internazionale del dopoguerra. Si tratta quindi, a mio avviso, di un approccio fruttuoso e allo stesso tempo interessante. 214 Nel corso degli ultimi dieci anni, parecchi dibattiti e pubblicazioni hanno sollevato un certo numero di questioni concernenti la storia dei negoziati internazionali svoltisi durante l’ultimo periodo della Seconda guerra mondiale, così come durante la stessa guerra fredda. Non basta una sola esposizione per rappresentare l’insieme dei problemi che hanno suscitato l’interesse degli specialisti. Ragion per cui affronteremo qui solo una parte di questi, cioè quelli che suscitano più discussione. Soffermiamoci innanzi tutto sulla questione del punto di partenza della guerra fredda. Secondo una tesi diffusa nella storiografia americana dopo la pubblicazione dell’opera di Fleming, la guerra fredda è iniziata subito dopo la Rivoluzione russa del 1917. Questo punto di vista è generalmente condiviso dagli storici “di sinistra”. Ma una schiacciante maggioranza di specialisti, compreso l’autore di questa presentazione, ritiene che la guerra fredda sia iniziata dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Un’altra questione oggetto di discussione è quella della comparsa dei primi segni del futuro scontro fra gli alleati. Gli storici hanno scoperto una nota del NKVD (commissariato del popolo agli Interni) indirizzata a Stalin nell’estate del 1943. Gli autori indicano gli Stati Uniti quale principale avversario dell’Unione Sovietica dopo la guerra e rilevano la necessità di prendere in considerazione quest’elemento e di conseguenza di prepararsi. I ricercatori hanno anche scoperto negli archivi nazionali americani alcune note redatte durante la guerra e anche altri documenti che indicano a loro volta l’Unione Sovietica come il principale futuro avversario degli Stati Uniti. Trattandosi delle relazioni tra gli alleati, non bisogna dimenticare che le divergenze che li opponevano durante la guerra – sull’apertura del “secondo fronte”, i carichi spediti in leasing ecc.- nel 1945 si erano aggravate considerevolmente, man mano che si avvicinava la vittoria. I punti principali di disaccordo presero progressivamente forma, prima di degenerare successivamente in un accanito scontro. La divergenza principale riguardò il destino dei paesi dell’Europa centrale, orientale e del sud-est liberati dall’occupazione tedesca. Mosca prevedeva di porli sotto il suo controllo e di installarvi, con l’aiuto delle truppe sovietiche che vi erano spiegate, dei governi comunisti subordinati all’Unione Sovietica. Gli alleati occidentali tentarono di opporsi a questa evoluzione e di mantenere quei paesi nell’orbita del mondo occidentale. Tutti gli aspetti di questa lotta si concentrarono nelle negoziazioni sull’avvenire della Polonia. Ogni posto ministeriale diede luogo a contestazione. Impiegando una tattica di progressione a tappe e di compromesso di facciata, l’Unione Sovietica riuscì finalmente a sistemare governi dominati dai comunisti in Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Albania e Yugoslavia. Questi paesi annunciarono ben presto la loro intenzione di costruire un socialismo sul modello sovietico, prendendone tutti i suoi attributi (il principio di fatto del partito unico, la nazionalizzazione delle industrie, le purghe lanciate contro i dissidenti, le critiche ideologiche del sistema capitalista, ecc.). L’attuale storiografia occidentale, particolarmente negli Stati Uniti, contiene un certo numero di opere che accusano Roosevelt di aver consegnato l’Europa dell’est all’Unione Sovietica. Retrospettivamente si può certo affermare che Roosevelt e Churchill finirono per cedere davanti a Stalin sulla questione dei regimi politici dei paesi dell’Europa orientale. Ma oggi è altrettanto noto che quel compromesso, che rifletteva il grado di cooperazione esistente tra i membri della coalizione anti-hitleriana, era stato in realtà ottenuto per costrizione. Le truppe sovietiche stazionavano già sul territorio dell’insieme di quei paesi; Mosca disponeva così di tutti gli strumenti che le permettevano di esercitarvi la propria influenza. Roosevelt e Churchill non avevano alcun vero mezzo e non disposero di occasione alcuna per impedire questo tipo di evoluzione, ad eccezione di un conflitto armato diretto ( che era a sua volta impossibile e insensato). Gli alleati occidentali potevano opporre solo la retorica del loro discorso e la loro insistenza per ottenere qualche concessione. 215 I paesi dell’Europa centrale e orientale, che costituirono il “campo socialista” con l’Unione Sovietica, adottarono il modello di sviluppo interno sovietico e parteciparono al movimento generale di competizione e scontro con l’Ovest. La consultazione degli archivi nuovamente disponibili rivela che, in seguito, in particolare negli anni ‘70 e ‘80, contrariamente a ciò che si pensava un tempo, questi paesi disposero spesso di una indipendenza più rilevante nei confronti di Mosca di cui essi non avevano beneficiato fino a quel momento. I loro dirigenti ostentarono una linea ideologica ancora più dura di quella del Cremlino o ebbero l’audacia di adottare un atteggiamento più accorto verso l’Ovest. La questione tedesca rappresentò un altro punto di disaccordo. Le divergenze tra alleati divennero qui particolarmente marcate dalla fine dell’anno 1945. Le due parti della Germania divisa presero direzioni diverse. La Germania divenne il teatro dove si affrontarono i sistemi di valore e gli interessi politici opposti dei vecchi alleati. La questione tedesca fu causa permanente di crisi, le quali portarono spesso i due campi sull’orlo di un conflitto aperto. Ognuno di essi temeva tuttavia la riunificazione della Germania: l’Unione Sovietica la considerava come una minaccia di rinascita di una Germania borghese e antisovietica, i paesi occidentali temevano la prospettiva della diffusione all’ Ovest del sistema totalitario della Germania Est. Il simbolo della guerra fredda fu in Germania il Muro di Berlino, la cui distruzione simbolizzò parallelamente la fine della guerra fredda. Dal punto di vista ideologico, la situazione nella Repubblica democratica tedesca pose ugualmente qualche problema ai dirigenti sovietici, poiché la classe dirigente della Germania Est si distingueva per il suo estremo dogmatismo e l’adozione di una linea dura senza compromessi. La corsa agli armamenti costituì il principale avvenimento della guerra fredda. Il monopolio nucleare degli Stati Uniti conferì loro innanzi tutto un solido vantaggio nel loro scontro con l’Unione Sovietica. Quest’ultima compensò questo disequilibrio con una considerevole preponderanza nel campo delle forze convenzionali e degli armamenti spiegati in Europa. L’equilibrio fu ristabilito successivamente con la messa a punto della bomba atomica e della bomba a idrogeno da parte dell’Unione Sovietica. Ne risultò una parità di armamento nucleare, che rappresentò una delle caratteristiche principali del “mondo bipolare” e i due campi non risparmiarono nessuno sforzo per mantenere questo equilibrio. Conviene notare che, malgrado la messa in campo di alcune misure di limitazione degli armamenti a conclusione di lunghissime trattative, la parità nucleare si mantenne a un livello abbastanza alto ed ebbe conseguenze disastrose per l’economia sovietica. Il bilancio del paese era gravato dalle spese militari e questa situazione emerse in maniera eclatante nella crisi generalizzata dell’economia sovietica alla fine degli anni ‘80. La guerra fredda si avviò in Europa e si estese in tutto il mondo. Il teatro degli scontri o delle lotte di influenza si trasferì fino all’Africa e all’Asia. La concorrenza tra i due campi prese molto spesso la forma di lunghi conflitti nazionali o etnici, se non addirittura di scontri diretti tra i due sistemi, come fu il caso della guerra di Corea. Successivamente, la guerra fredda provocò interminabili conflitti in Angola, Mozambico e Etiopia. Lo scontro della guerra fredda assunse così una dimensione mondiale. Si estese anche in diversi campi, comprese le attività delle organizzazioni internazionali, di cui l’ONU costituisce l’esempio più patente. In questo contesto di conflitto generale, l’ideologia giocò un ruolo maggiore. Al momento attuale, dopo parecchi anni di dibattiti animati e di ricerche in seno a nuovi documenti , gli storici non giungono sempre a determinare il fattore principale di scoppio e di sviluppo della guerra fredda, soprattutto per ciò che riguarda l’Unione Sovietica. Fra gli storici americani si contrappongono due correnti, senza parlare dei loro colleghi europei. La prima corrente spiega l’azione di Stalin e del suo entourage con motivazioni ideologiche e ambizioni più tradizionali, cioè la combinazione dell’idea di “rivoluzione mondiale” e degli “eterni” obiettivi di espansione imperiale russa. L’ altra tesi ritiene che Stalin e i suoi collaboratori erano guidati prima di tutto da intenzioni puramente pragmatiche conosciute sotto il vocabolo di Realpolitik. 216 Secondo me, queste due nozioni sono in parte fondate, ma peccano entrambe di un approccio troppo esclusivo alla situazione, poiché gli obiettivi strategici della politica estera sovietica erano in realtà più complessi. I documenti scoperti negli archivi russi dimostrano che dall’autunno 1945, su direttiva personale di Stalin, il Cremlino aveva lanciato una violenta campagna ideologica contro l’Occidente. Nel novembre del 1945, essa era diretta principalmente contro la Gran Bretagna, ma gli Stati Uniti non tardarono a divenirne il bersaglio. I diritti dei giornalisti occidentali accreditati in Unione Sovietica vennero ridotti, la circolazione e la vendita delle riviste occidentali, che erano state diffuse in tutto il paese durante la guerra, furono ridotte in modo drastico e vennero adottate altre misure simili. Questa campagna contro l’influenza occidentale raggiunse il suo parossismo nel corso della famosa “lotta contro il cosmopolitismo”. Parecchie migliaia di intellettuali sovietici – personalità della cultura, artisti, scienziati – furono oggetto di aspre critiche per essersi dedicati alla propaganda delle idee occidentali e aver dato prova di “servilismo” nei confronti dell’Occidente. Un gran numero di essi perse il proprio lavoro, altri furono vittime di purghe. Queste campagne su vasta scala proseguirono fino alla morte di Stalin nel marzo del 1953. La componente ideologica della guerra fredda continuò tuttavia a giocare un ruolo fondamentale anche dopo la scomparsa del capo. Essa motivava le purghe praticate contro i dissidenti e le campagne generali destinate ad assoggettare ogni forma di non-conformismo. Conviene però notare che l’ideologia occupò un posto importante anche nella parte occidentale. La campagna lanciata dal senatore McCarthy, una persecuzione dei cittadini americani sospettati di simpatizzare per il comunismo, oltre ad una “offensiva” generale contro le idee comuniste e la minaccia sovietica, rappresentò una parte molto importante dello scontro tra l’Ovest e l’Unione Sovietica. Gli studi condotti su questo aspetto della guerra fredda ci permettono di trarre delle conclusioni più generali sul ruolo dell’ideologia e i suoi rapporti con la politica. Essi affrontano anche questioni relative all’origine della “rappresentazione dell’altro” e al consolidamento dei “clichés” tanto nel pensiero dell’ “élite” quanto nella mentalità della gente comune. I “clichés” radicati profondamente sono duri a morire, farli scomparire rappresenta un’impresa difficile, spesso fonte di controversie. Il problema dei dirigenti ha ugualmente contribuito allo slittamento verso la guerra fredda. Per Stalin, i suoi rapporti con i dirigenti britannici e americani costituivano un’esperienza completamente nuova. Era rimasto per decenni in un isolamento di fatto e si ritrovava di colpo sullo stesso piano di Roosevelt e Churchill. Questi ultimi espressero il rispetto e persino l’ammirazione che avevano per lui. Nel 1944, Stalin e Churchill divisero l’Europa dell’Est e nel 1945 i tre capi elaborarono insieme il sistema politico internazionale del dopoguerra. Tutti questi avvenimenti accrebbero considerevolmente il prestigio del capo sovietico e la stima che egli aveva di sé stesso. Numerose persone si interrogavano sulla durata , a conclusione della guerra, della cooperazione e della mutua fiducia che si erano stabilite tra le tre potenze. Ma questa situazione cambiò brutalmente e radicalmente. Roosevelt morì alla vigilia della Conferenza di Potsdam. Durante il vertice, il partito di Churchill subì una disfatta elettorale che gli fece perdere il suo posto di Primo ministro. Stalin si ritrovò così a Potsdam di fronte a due nuovi omologhi occidentali con i quali non aveva mai avuto contatti prima. Secondo testimoni del periodo, questa situazione irritava Stalin; perdeva fiducia e trattava i suoi nuovi interlocutori con diffidenza. Inoltre, il nuovo presidente americano Truman proseguiva in segreto le prove della bomba atomica, rafforzando così l’animosità di Stalin nei suoi confronti. Questi elementi crearono una nuova atmosfera psicologica tra i capi alleati che ebbe ripercussioni sulle relazioni tra gli Stati. Abbiamo già ricordato le direttive date da Stalin nel 217 novembre e dicembre 1945. si può aggiungere che nelle sue “Lettere dal sud” (redatte quando vi passava le sue vacanze) Stalin si lasciò andare ad aspri commenti su Churchill, accusando i suoi più vicini luogotenenti del Politburo di “piegare la schiena” davanti al dirigente britannico e all’Ovest in generale. Nello stesso momento, la Pravda, l’organo di stampa del PCUS, pubblicò il discorso pronunciato da Churchill davanti al parlamento, nel quale il Primo ministro in pensione faceva gli elogi di Stalin e del suo ruolo nella vittoria sul nazismo. Stalin reagì duramente per iscritto: non aveva alcun bisogno che un rappresentante ben conosciuto negli ambienti imperialisti britannici e vecchio nemico dell’Unione Sovietica facesse il suo elogio. La collera di Stalin trovò una nuova fonte d’ispirazione nel discorso di Churchill a Fulton, che la propaganda sovietica qualificò come manifesto della guerra fredda. Il passaggio alla guerra fredda e allo scontro si spiega anche in parte attraverso fattori psicologici individuali. Storici, diplomatici e giornalisti dei due campi si rimproverarono reciprocamente, per molti anni, la responsabilità della guerra fredda. Negli anni ‘50 e ‘60, storici americani “revisionisti” cominciarono a parlare della responsabilità degli Stati Uniti, durante la distensione, Zbigniew Brzezinski ricordò il cumulo fatale delle circostanze che avevano condotto alla guerra fredda. Malgrado i regolari tentativi finalizzati fino ad oggi a far ricadere la colpa della guerra fredda sul campo avverso, noi condividiamo l’opinione di coloro che credono che essa fu il prodotto di intenzioni, obiettivi e azioni conflittuali da una parte e dall’altra, che contribuirono ad alimentare le reciproche critiche, all’adozione di una linea di condotta basata sullo scontro e a una lotta feroce. Una volta sistemati questi elementi, la guerra fredda finì per acquisire la sua propria logica: ogni di lotta e situazione di scontro generava le conseguenze e accresceva le tensioni internazionali. Gli storici e i politologi discutono ancora oggi sull’essenza del sistema di YaltaPotsdam e dell’entità dei suoi rapporti con la guerra fredda, al fine di determinare se questo sistema è all’origine della guerra fredda o se non abbia finito per alimentarla dandole un costante impulso. Il sistema politico internazionale di Yalta-Potsdam è un fenomeno complesso e controverso. I suoi fondatori tentarono di edificare un nuovo ordine mondiale, per evitare la riproduzione di tragici conflitti paragonabili a quello che si era appena concluso. L’ONU è stata creata a questo scopo come garante principale della pace e della sicurezza. Questo sistema poggiava nello stesso tempo sul nuovo equilibrio delle forze che si delineava a conclusione della vittoria sulla Germania nazista. Le decisioni prese a Yalta e a Potsdam definirono i principi e le posizione comunemente ammessi, ma parallelamente generarono le ulteriori controversie. I loro autori hanno confermato una forma di status quo tra l’Unione Sovietica e l’Ovest (essenzialmente cioè gli Stati Uniti). Generalmente si crede che questo sistema poggiasse in larga misura sul principio della bipolarità, che è perdurato fino alla fine della guerra fredda. Lo scontro e la guerra fredda tra i due campi rappresentano la parte più visibile e più evidente del sistema di Yalta-Potsdam, ma la sua essenza non si riduce a questi due elementi. Dal 1945 alla fine degli anni ‘80, l’evoluzione delle relazioni internazionali ha conosciuto un gran numero di ondeggiamenti. Talvolta il mondo si ritrovò a due passi da un conflitto mondiale, come fu nel corso della crisi dei missili cubani del 1962 o, piuttosto ancora, durante la crisi di Berlino del 1948. Ma anche questo sistema ebbe ugualmente dei periodi di distensione: il primo, dopo la morte di Stalin, e il secondo, più lungo, alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70, che fece nascere un’immensa speranza e si concretizzò con un’importante realizzazione, l’Atto finale di Helsinki e il processo di Helsinki nel suo insieme. Il sistema di Yalta, con il mondo bipolare al quale diede vita, affrettò certamente lo scontro mondiale tra i due blocchi, ma instaurò anche un equilibrio relativamente stabile. 218 E’ impossibile liberarsi dell’impressione che i suoi principali protagonisti hanno messo in scena (intenzionalmente o accidentalmente) alcune regole che hanno evitato lo scoppio di un conflitto generalizzato. Sembra che questo scontro si sia fermato sull’orlo di un conflitto (alcuni ideologi e uomini di Stato considerarono anche questa situazione come “politica a due passi dalla guerra”) senza tuttavia oltrepassare mai questo confine. Numerosi conflitti locali, come guerre talvolta violente, scoppiarono nel corso dei quaranta anni di guerra fredda, ma i principali attori, cioè l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti e i loro alleati riuscirono ad evitare una grande guerra e un conflitto diretto. Gli argomenti a favore di una politica di “dissuasione” e di “arginamento” sono stati elaborati dai teorici e ideologi dei due campi. Il mondo conobbe talvolta situazioni di estrema tensione, ma ogni volta le due potenze avversarie diedero prova di molto buon senso e buona volontà per evitare di farlo precipitare in una guerra nucleare generalizzata. Il periodo del dopoguerra si caratterizzò per l’interconnessione e l’intrecciarsi di fattori esterni, come lo rivelò in modo eclatante la fine degli anni ‘80. Il crollo dei regimi comunisti nei paesi dell’Europa centrale e orientale, l’avvio di cambiamenti radicali nell’Unione Sovietica, che portarono alla creazione di un nuovo sistema, sconvolsero notevolmente la distribuzione nel campo delle relazioni internazionali. La guerra fredda era finita, il muro di Berlino era caduto e i vecchi paesi socialisti dell’Europa dell’Est ritrovarono il loro ordine sociale ante guerra. Conclusione Il crollo dell’Unione Sovietica comportò anche la caduta del sistema politico internazionale di Yalta-Potsdam. Lo scontro puro e duro dei due campi appartiene al passato, compreso il campo della strategia militare. La transizione della Russia verso un’economia di libero mercato e un regime politico democratico ha posto fine all’antica era dei conflitti ideologici acuti. L’umanità si confronta ormai con nuove minacce e nuove poste, di cui il terrorismo è il più inquietante. Un gran numero di complessi problemi, talvolta gravi, sorgono nei rapporti tra la Russia e l’Occidente, ma sono risolti oggi secondo altri metodi e con diversi mezzi. Il tenore delle questioni internazionali si è modificato considerevolmente; il mondo deve adesso raccogliere un’altra sfida: edificare un sistema politico internazionale che riveli obiettivi mondiali e un equilibrio di forze all’alba del XXI secolo. 219 29. Yalta, nella prospettiva polacca Wlodzimierz Borodziej Prima di iniziare la propria esposizione, ogni intervenuto ha probabilmente dovuto rispondere a due domande: quale è il soggetto preciso e se la nostra percezione della conferenza é stata modificata dalle “recenti ricerche” su Yalta o la nostra riflessione sul recente passato è piuttosto influenzata dalla rivoluzione del 1989? Gli studi su questo problema redatti in polacco sono estremamente numerosi e poggiano per la maggior parte sulle recensioni americane e britanniche. Gli archivi polacchi forniscono un complemento importante; essi ci rivelano le alternative e gli argomenti sia dei polacchi esiliati a Londra e sia della società polacca in un paese che era ancora in parte occupato. Ma suppongo che la pertinenza di tutti questi documenti non risieda tanto nel fatto che essi ci permettono di ricostituire le misure concrete che sono state adottate o le strade che non sono state prese; l’interesse della conferenza di Yalta risiede maggiormente nella delusione che ha fatto nascere piuttosto che nella decisione che essa rappresenta, come anche in seguito il mito che ha formato l’immaginario di due generazioni di polacchi e ha impedito ogni vero dibattito pubblico prima del 1989. Così la mia intenzione è di dimostrare, nel poco tempo che mi è concesso, l’interazione tra mito e realtà nel 1945 e nel corso dei decenni successivi. Ad eccezione degli archivi sovietici, tutti gli altri sono stati sfruttati dagli storici dagli anni ‘50. Recentemente, negli anni ‘90, una buona parte dei “dossier” staliniani e diventata accessibile. E’ la ragione per cui è difficile presentare nuove conclusioni, trattandosi almeno di documenti, di fatti, di cifre. D’altra parte, e questo ci porta al punto probabilmente più importante, è singolare che una conoscenza dei fatti perfettamente stabilita non dia luogo a più interpretazioni successive. L’interpretazione dei fatti di cui ci occupiamo si è evoluta soprattutto nella storiografia americana, che ha giocato e gioca ancora un ruolo rilevante in materia. Come si sa, questa evoluzione è iniziata con un rifiuto totale di Yalta, considerato all’inizio degli anni ‘50 come un evento vergognoso e spiacevole; il decennio seguente non ha modificato questo giudizio; gli anni ‘70 sono stati l’epoca delle accuse lanciate, in seguito alle investigazioni, contro gli Stati Uniti, indicati come i principali responsabili della situazione; infine la storiografia è giunta a una sorta di “nuovo consenso” che riconosceva contemporaneamente i meriti e i fallimenti di Franklin D. Roosevelt. La storiografia polacca non si è evoluta cosi rapidamente e si potrebbe persino rischiare di dire che non si è evoluta affatto. Al tempo dell’esilio del governo, Yalta fu fin dall’inizio considerata come il simbolo del male e del tradimento; la storiografia ufficiale della Repubblica popolare della Polonia in realtà non si è pronunciata su Yalta. La conferenza di Potsdam, che simbolizzava la decisione presa in favore della frontiera occidentale, suscitò molto più interesse e diede vita alla idea degli accordi di Yalta-Potsdam, che riuniva le modifiche essenziali in materia politica e di frontiera. Negli anni ‘80, quelli che abbiamo chiamato gli storici indipendenti (i cui scritti venivano pubblicati fuori dalla portata della censura) posero un nuovo sguardo sulla questione. Le loro conclusioni, cosa non strana, si avvicinarono più alla storiografia degli esiliati che a quella della Repubblica Popolare di Polonia. Dopo questo consenso nazionale, la questione di Yalta non fu praticamente più oggetto di dibattito. Come tutti sappiamo, la questione polacca fu il fulcro della conferenza, soprannominata da Roosevelt ”l’emicrania del mondo”, e venne affrontata nella maggior parte delle sessioni plenarie. Tenterò di spiegarne la ragione; questa interpretazione sarà seguita da una presentazione delle reazioni polacche all’inizio dell’anno 1945 e, infine, un’ultima parte sarà consacrata alle ripercussioni del mito di Yalta sulla Polonia durante la guerra fredda. 220 Dal patto Molotov-Ribentrop alla conferenza di Yalta La questione polacca non sarebbe esistita nel corso della Seconda guerra mondiale se l’Unione Sovietica, alleata della Germania, non avesse attaccato la Repubblica Polacca e annesso più della metà del suo territorio nel settembre 1939. L’alleanza conclusa tra il Reich nazista e l’Unione Sovietica aveva creato immediatamente una situazione delicata tra il 194041, quando la Gran Bretagna finì per non indicare a Mosca che essa era disposta ad accettare la nuova frontiera sovietica occidentale se il Cremlino si decidesse a raggiungere il campo degli alleati. Il governo in esilio sollevò più di una protesta contro queste proposte britanniche poiché considerava la restituzione integrale del territorio della Repubblica nelle sue frontiere anteguerra come l’obiettivo principale della guerra e come un obbligo costituzionale. L’attacco dell’Unione Sovietica da parte della Germania complicò ancora di più la situazione, benché Londra non avesse accettato l’idea di un protocollo segreto che garantiva la nuova frontiera occidentale russa presentata a Eden dai Sovietici nel 1941. Qualche giorno prima, il Primo ministro polacco, il generale Wladyslaw Sikorski, aveva ugualmente rifiutato la proposta di discussione delle questioni di confine tra la Polonia e l’Unione Sovietica fatta da Stalin, questa volta disposto a modificare, ma soltanto di poco, il tracciato della frontiera (quando le truppe tedesche erano quasi visibili dalle finestre del Cremlino). Sikorski non approfittò della debolezza dell’Unione Sovietica, poiché si aspettava probabilmente il crollo dell’impero stalinista e l’entrata in guerra degli Stati Uniti in Europa. Ma l’impero sovietico sopravvisse alla crisi del 1941 e Washington non considerò più la Polonia come la pietra di paragone delle relazioni americano-sovietiche; anche i termini del mercato non cessarono di piegarsi per il governo polacco in esilio. Quando nel 1942 l’esercito polacco costituito da vecchi prigionieri sovietici lasciò l’Unione Sovietica, le relazioni si deteriorarono, fino a diventare ostili, dopo l’annuncio, di Berlino nel 1943, della scoperta di fosse comuni di ufficiali polacchi nei pressi di Smolensk. Siccome il governo polacco in esili sosteneva la proposta di esame delle fosse comuni da parte di una commissione messa sotto l’autorità della Croce Rossa internazionale, Stalin utilizzò questo pretesto per rompere le relazioni con gli “emigrati polacchi di Londra”. A Mosca vennero costituiti un comitato polacco, composto da comunisti, e una divisione sotto il comando comunista polacco. Quando nell’estate del 1944 l’Armata Rossa oltrepassò la nuova frontiera sovietico-polacca, i comunisti diedero forma alla nuova amministrazione del paese. La resistenza antitedesca che si era fin qui mostrata leale al governo in esilio fu disarmata e parecchi ufficiali furono giustiziati o deportati in Unione Sovietica, mentre divenne impossibile la creazione di partiti politici fuori dal controllo dei comunisti. Nel gennaio 1945, il comitato di liberazione nazionale, che pretendeva già di assumer il ruolo di autorità suprema e unica dello Stato, si ribattezzò Governo Polacco Provvisorio. Gli avvenimenti sopravvenuti nel 1944 nella parte liberata del territorio polacco ridussero il governo in esilio a una forza secondaria. Non era disposto né a negoziare sulla questione delle frontiere né in grado di farlo. Dopo “l’affare di Katyn”, Mosca trattava i “circoli polacchi emigrati” come reazionari e pro-fascisti. L’unica opzione proposta dai Sovietici era di includere nel comitato comunista polacco alcuni emigrati e uomini politici “progressisti” e “realmente democratici”, nati dalla resistenza a condizione che essi accettassero la nuova frontiera sovietico-polacca. Nell’ottobre 1944, nel momento stesso in cui Churchill redigeva il suo famoso accordo sulle percentuali, i negoziati col Primo ministro polacco Stanislaw Mikolajczyk furono abbandonati. Mikolajczyk lasciò le sue funzioni qualche settimana più tardi; il gabinetto rimaneggiato dal suo successore si tresentò come un “governo di protesta nazionale”, ma non venne mai trattato da Londra e Washington come un vero partner. Così nel gennaio 1945, la Polonia aveva un governo in esilio, riconosciuto dalla quasi totalità degli Stati ad eccezione dell’Unione Sovietica, e un governo provvisorio che non beneficiava affatto della riconoscenza di Mosca. Il paese in rovina non aveva alcuna frontiera internazionalmente riconosciuta ad est, ad ovest e a nord; non veniva contestato solo l’antico tracciato della frontiera con l’Ungheria a sud-est, diventata quella della Repubblica Cecoslovacca nel 1918. 221 Da Yalta all’instaurazione di un regime stalinista nel 1948 Il paragrafo seguente rievoca il più brevemente possibile il contesto dei dibattiti concernenti la questione polacca al momento della conferenza di Crimea. Mi soffermerò soltanto sui quattro punti più importanti. E’ chiaro che Yalta non fu né la prima né l’ultima occasione di discussione dei Tre Grandi sulla Polonia. Già a Mosca nell’ottobre 1943, era diventato evidente che gli argomenti sovietici avevano avuto la meglio sulla fragile linea di difesa presentata dai Britannici. A Teheran, Stalin ottenne il consenso generale dei suoi interlocutori per spostare la Polonia verso ovest, Churchill prese la difesa del governo polacco in esilio ed era apparentemente persuaso che fosse possibile un accordo equo. Roosevelt non sollevò alcuna obiezione e chiese soltanto a Stalin di rimandare la decisione finale dopo le elezioni americane. Durante la riunione di Mosca nell’ottobre dell’anno seguente, che abbiamo già ricordato, apparve chiaramente che il governo polacco in esilio non aveva nessun ruolo da giocare nei negoziati, poiché la decisione di Teheran sulla questione delle frontiere aveva totalmente minato la sua posizione e non lasciava spazio ad una politica alternativa. “Voi altri polacchi, voi siete come gli irlandesi” dichiararono responsabili politici britannici a un inviato del governo in esilio dall’inizio del 1944, “siete soltanto capaci di pensare riferendovi al passato”; in effetti secondo i Britannici, Stalin non aveva alcuna intenzione di far propria la Polonia e, per di più, l’Unione Sovietica non aveva altra scelta dopo la guerra se non di cooperare con l’Ovest (Dülffer, 1998, p.28). da questo punto di vista, Yalta non modificò in nessun modo la questione della frontiera orientale della Polonia, ma rese soltanto pubblica la decisione presa a Teheran. La conferenza rappresentò un’altra tappa importante del regolamento del problema del futuro governo a scapito del governo in esilio, ma non portò a nessuna decisione finale sulla frontiera occidentale, che venne regolamentata solo sei mesi più tardi a Potsdam. Stranamente, il problema della frontiera occidentale fu dibattuto dai Tre Grandi come se non avesse alcun legame con la questione tedesca. Solo i Britannici avevano in quella occasione studiato il problema del trasferimento della popolazione. Essi conoscevano vagamente cifre di milioni di persone interessate e opposero questo argomento a quello di Stalin che si pronunciò in favore della Neisse occidentale; ma essi apparentemente considerarono questo argomento in primo luogo come uno strumento tattico e, in secondo luogo, come un elemento pratico nel quadro della futura politica d’occupazione in seno alla zona britannica in Germania. Nessuno dei protagonisti, Stalin compreso, sembra abbia valutato la sostanza del problema: più i territori tedeschi promessi alla Polonia e il numero dei tedeschi espulsi verso il restante territorio erano importanti e più si assottigliavano le possibilità di un’esperienza comunista tedesca. In questo senso, la tesi del futuro Stato della Germania dell’Est considerato come “il figlio non desiderato” di Stalin (Wilfried Loth) sembrerebbe meritare ancora la nostra attenzione. Benché la questione della frontiera occidentale rimanesse in sospeso, sulla carta le decisioni concernenti il futuro della Polonia avevano persino l’apparenza di una buona soluzione. L’instaurazione della democrazia e lo svolgimento di elezioni libere, il rimaneggiamento del governo provvisorio con la presenza di responsabili politici importanti in esilio o nati dalla resistenza sotto il controllo degli americani e dei britannici, tutti questi elementi potevano essere considerati come la promessa di una quasi sovranità, se non addirittura una sovranità per tre quarti, della Polonia. La soluzione di una Polonia democratica sistemata in seno alla sfera d’influenza sovietica, la cui politica estera e di sicurezza sarebbe stata probabilmente limitata, e che s’inscriveva nella visione del “mondo unico” dove la cooperazione tra i Tre Grandi avrebbe chiaramente prevalso sulle tensioni manifestamente visibili, poteva ancora essere concepita come il mezzo migliore per risolvere “l’interminabile imbroglio polacco” (Yergin,1980). Questa lettura delle decisioni prese a Yalta si rivelò tuttavia sbagliata durante le settimane che seguirono, innanzitutto a causa dell’arresto e del giudizio dei capi della resistenza che avevano voluto negoziare con Mosca sulla base dell’accordo di Yalta. 222 Questa situazione e tutte le successive violazioni dell’accordo mostrano quanto fosse limitata l’influenza della conferenza di Crimea; è opportuno comunque sottolineare che si trattava di azioni e di decisioni unilaterali da parte di Mosca che chiaramente non rispettava né la lettera, né lo spirito dell’accordo di Yalta. Adesso interroghiamoci sulla reazione dei polacchi all’annuncio delle decisioni prese nel febbraio 1945. possiamo distinguere tre tipi di reazioni. I comunisti ne furono incantati: la riconoscenza ben presto conferiva loro una dimensione internazionale e la formula di un “rimaneggiamento” del governo indicava chiaramente che il nocciolo della struttura esistente sarebbe stata preservata. Il governo polacco in esilio, d’altra parte, vedeva in Yalta la conferma, persino nella sua versione scritta (senza la particolare messa in opera che non tarderà a seguire), dei suoi peggiori timori: la Polonia stava per perdere quasi la metà del territorio ante guerra, la quantità di territori tedeschi che le erano stati attribuiti come compensazione restava incerta e il riconoscimento veniva messo da parte come se non esistesse. Le decisioni prese in Crimea, avvertì il governo, “creano una situazione nella quale il resto della Polonia è costretto a diventare uno Stato satellite della Russia” (Kersten,1989, p.103 Dülffer,1998, p.101). Era esattamente quello che all’inizio George F. Kennan aveva predetto in una serie di telegrammi che nessuno a Washington aveva apparentemente preso sul serio o, più precisamente, che nessuno aveva giudicato sufficientemente importanti. La censura britannica nascose al governo in esilio il citato telegramma indirizzato al comando della resistenza, come fece con altre numerose comunicazioni , ma la politica di “protesta nazionale” proseguì, questa volta in opposizione alla “nuova divisione della Polonia” (Kersten, op. cit. p.104) ; finì senza sorprese con il ritiro del riconoscimento ufficiale del governo in esilio da parte del Regno Unito e degli Stati Uniti nel luglio 1945. Le reazioni più interessanti e politicamente più importanti furono quelle del Partito Contadino (al quale Mikolajczyk apparteneva) e del Partito Socialista, entrambi operanti nella clandestinità. Il Partito Contadino era probabilmente il più potente in seno alla resistenza e occupava una posizione chiave in esilio; esso scontava su una vittoria schiacciante nel corso delle promesse libere elezioni. I socialisti erano numericamente meno importanti ma contavano su parecchi uomini politici conosciuti, che avevano sempre giudicato remota la negoziazione con l’Unione Sovietica. I due partiti subirono comparativamente delle deboli perdite durante l’occupazione tedesca e sovietica. Il Partito Contadino decise di conformarsi a Yalta, nella speranza che il ritorno di Mikolajczyk e le elezioni libere avrebbero portato i loro rappresentanti al potere. I socialisti in esilio rifiutarono l’accordo, mentre quelli rimasti in Polonia sostennero la posizione del partito contadino. Il Consiglio di Unità Nazionale, autorità civile suprema della resistenza, si pronunciò il 22 febbraio in favore dell’accettazione delle decisioni di Yalta. Il paese era troppo esangue per resistere all’invasione sovietica; alla fine dell’occupazione tedesca, la popolazione aspettava di poter ritornare a una vita normale e, se Stalin e i comunisti polacchi avessero accettato la presenza di altri responsabili politici polacchi nelle negoziazioni future, si poteva forse sperare di ridurre le perdite territoriali prevedibili all’est. Nei mesi che seguirono, la messa in pratica delle decisioni di Yalta vide svanire la maggior parte delle speranze che i polacchi avevano riposto in esse. La Polonia, che poteva essere considerata come un membro fondatore della coalizione antihitleriana, non ebbe il diritto di prendere parte alla prima sessione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in aprile. I capi delle resistenza contro la Germania, che uscivano dalla clandestinità per cominciare a negoziare con i Sovietici, furono fermati e condannati a Mosca; il capo delle resistenza civile e il comandante in capo morirono presto in una prigione sovietica, mentre gli altri condannati furono liberati e ritornarono in Polonia dove un gran numero di essi fu di nuovo arrestato, questa volta dalla polizia segreta polacca. Nel momento stesso in cui si svolgeva il processo dei capi della resistenza iniziarono le trattative fra Mikolajczyk, capo dei “ Polacchi in esilio”, e i Comunisti; fu nel corso di queste negoziazioni che il segretario del Partito Comunista pronunciò questa celebre frase: “ noi non restituiremo mai il potere una volta che l’avremo preso”. La popolazione polacca non seppe niente di questa affermazione; a giudicare dall’accoglienza 223 entusiasta riservata a Mikolajczyk al suo arrivo a Varsavia alcuni giorni dopo, molti credevano ancora che la Polonia sarebbe potuta sfuggire in un modo o l’altro alla dominazione sovietica. Tutte queste speranze presero svanirono con il terrore poliziesco e la soppressione inesorabile dell’opposizione anticomunista, il referendum del 1946 e le elezioni del 1947, entrambe truccate e infine, l’instaurazione di un regime staliniano totalitario nel 1948. L’era comunista e l’eredità di Yalta Yalta divenne così per la Polonia il simbolo di un tradimento. Non si potrebbe sottolineare troppo il cambiamento operato dal 1945 al 1947 nell’opinione pubblica: coloro che contestavano la Conferenza di Crimea nella primavera 1945 protestavano contro le sue conclusioni, la perdita delle province orientali e la perdita della sovranità nazionale. La violazione di queste decisioni ufficiali, l’inizio della guerra fredda e l’esistenza di un volto crudele della cortina di ferro modificarono l’opinione riguardo il soggetto di Yalta, che in realtà andò ben aldilà di ogni dubbio della primavera 1945. La Conferenza di Crimea cominciò a simbolizzare molto più ancora: il tradimento non solo dell’Unione Sovietica, ma anche delle potenze occidentali che non avevano preso alcuna precauzione per assicurare la messa in opera dell’accordo. Sul piano interno, Yalta fornì un motivo di rifiuto di ogni discussione con i comunisti e di fiducia nelle loro dichiarazioni. Ella sperimentò la divisone fra “noi” (cioè la società) e “ loro” (le autorità), che modellò la storia politica della Polonia almeno alla fine degli anni ‘70 e negli anni ‘80: se vi è impossibile fidarvi della minima affermazione dell’ avversario , nessuna negoziazione in pratica è possibile. Al di là di queste incidenze pratiche, “ Yalta” divenne il simbolo del carattere disperato del posto che occupava la Polonia fra Est e Ovest durante l’intera guerra fredda. Timothy Garton Ash comincia la sua opera Polish Revolution – Solidarity ( La rivoluzione polacca – Solidarietà ) con un’impressione personale: “ Al mio primo viaggio in Polonia, sentivo sempre una parola estremamente strana. “ Yowta”, sospiravano le mie nuove conoscenze, “ yowta” e la conversazione sprofondava in un silenzio malinconico. “ Yowta”, significava il destino, mi chiedevo, si trattava di un’espressione equivalente a “è la vita ..”?”. “Yalta” ( che si pronuncia in polacco “ yowta” ) rappresentava l’elemento primo dell’esistenza nella Polonia contemporanea. E’ a Yalta che inizia la storia di Solidarietà. Per i Polacchi, “Yalta” significa che, poiché la loro armata era stata la prima a resistere a Hitler, che la Gran Bretagna era entrata in guerra per difendere l’indipendenza della Polonia e che i soldati polacchi si erano battuti coraggiosamente per la difesa del Regno Unito, che sei milioni dei loro compatrioti ( un cittadino su cinque della Repubblica polacca prima della guerra) avevano trovato la morte nel corso della guerra, malgrado tutte queste prove, i loro alleati occidentali britannici e americani gli avevano consegnati alle famose tenere cure di “zio Joe” .Stalin. Benché si possa sostenere che Churchill e Roosevelt non avessero altra alternativa, poiché al momento in cui i Tre Grandi si riunivano a Yalta in Crimea nel febbraio 1945 l’Armata Rossa occupava già il territorio dell’antica Repubblica polacca, e sebbene, nel comunicato di questa riunione, Stalin avesse promesso solennemente “la gestione appena possibile di elezioni libere e senza impedimento, a suffragio universale e con voto segreto” questa liberazione fu per la popolazione polacca una benedizione oscura. Ma se si vuol comprendere perché la prima rivoluzione operaia contro uno “ Stato operaio” ebbe luogo precisamente in Polonia nell’agosto 1980, conviene capire perché la prospettiva di una “liberazione” sovietica fu spaventosa per la maggior parte dei Polacchi nel 1945. L’annientamento di “Solidarietà” dall’armata il 13 dicembre 1981 rinforzò la convinzione generale che “Yalta rappresentasse l’elemento primo dell’esistenza nella Polonia contemporanea“. Gli Stati Uniti e gli Stati dell’Europa occidentale reagirono elevando proteste e infliggendo sanzioni, ma se certi dirigenti di “Solidarietà” speravano di vederli adottare una 224 inclinazione ”bellica”, non tardarono ad essere delusi. Yalta rimaneva; la partecipazione della Polonia alla Seconda guerra mondiale prescriveva i limiti delle reazioni occidentali. D’altronde, né l’elezione di un papa polacco, né l’apparizione del sindacato “Solidarnosc”, erano state previste al tavolo delle negoziazioni della conferenza di Crimea. Per spiegare in alcune parole l’importanza di questi fenomeni, ricordiamo che milioni di Polacchi assistettero alla prima visita di Giovanni Paolo II in Polonia nel 1979 e che si stima in dieci milioni di persone circa il numero degli aderenti a “Solidarnosc” nel 1980-81. Al suo ritorno in Polonia nell’estate 1945, Mikolajczyk aveva posto tutte le sue speranze nelle elezioni libere promesse a Yalta. Questo scrutino “permetterà di contarci”, sottolineava lui senza sosta, un modo per dire che avrebbe dimostrato che la maggioranza dei suoi concittadini erano favorevoli alla democrazia e contrari al comunismo. I comunisti impedirono nel 1946 e 1947 ai Polacchi di “contarsi” e solo gli avvenimenti del 1979 – 1981 portarono la prova che il socialismo di Stato non era che un’opzione scelta in favore di una minoranza. Questa dimostrazione segnò il punto di partenza dell’ultimo capitolo della Repubblica Popolare Polacca alla fine degli anni 1990, quando le autorità decisero di aprire negoziazioni con ciò che restava del sindacato “Solidarnosc”. Una volta ancora Yalta giocò il suo ruolo. Inizialmente i dirigenti di “Solidarnosc” espressero forti riserve su queste negoziazioni, persuasi che i comunisti avrebbero dato ancora una volta prova di voler imbrogliare e che il loro obiettivo era di reiterare il loro piano del 1945 – 1947. In secondo luogo, e questo elemento è più importante ancora, la convinzione restava che Yalta continuava a definire il quadro delle trattative diplomatiche polacche. Le recenti esperienze della società provano, dichiarava Bronislaw Geremek all’inizio dell’anno 1989, che essa deve rinviare le sue aspirazioni a dei “ limiti ragionevoli” questo significava che la trasformazione augurata dalla Repubblica Popolare Polacca verso la normalità si sarebbe effettuata progressivamente e in maniera progressiva, tenendo sistematicamente conto del ruolo particolare ricoperto da Mosca in virtù delle decisioni prese in Crimea e della loro interpretazione. Le ingerenze nella stampa dell’epoca rivelano l’apparizione di un’altra dimensione pratica della sindrome di “Yalta”. Nel corso delle discussioni che avevano preceduto la riunificazione della Germania, un vecchio diplomatico comunista aveva denunciato la nuova politica straniera, cioè l’apertura verso l’Ovest, del governo “Solidarnosc” nel 1989 sotto il titolo “ Yalta resta valida”, significando che Varsavia restava nella sfera d’influenza sovietica e che doveva obbedire alla voce del suo padrone. Uno dei suoi oppositori replicò: “Yalta non è eterna”. La spartizione della Germania aveva concretizzato la divisione dell’Europa, la rivoluzione polacca scalzò inizialmente la divisione della Germania, poi la cortina di ferro e finalmente la struttura completa del mondo stabilito à Yalta ( Ludwig, p. 37/ 63, 27/40, Senato 23 X 91); felicemente , egli aveva ragione. Yalta fu bruscamente messa da parte dalla “rivoluzione” (T. Garton Ash ) dal 1989 ? In pratica, non c’è alcun dubbio. Eppure, le nozioni fondamentali che hanno plasmato l’immaginario politico di due generazioni rimangono presenti sotto la forma di correnti sotterranee o di elementi di riferimento, anche dopo la loro classificazione negli archivi delle idee politiche; è la ragione per la quale i dibattiti attuali sul terrorismo, il Medio Oriente o la Cecenia evocano talvolta l’idea di una “nuova Yalta”. E’ difficile contenersi nelle discussioni relative alla politica estera polacca contemporanea. Qui affiora un altro aspetto del nostro argomento, la questione delle frontiere. La frontiera sovietico–polacca è stata tracciata da Hitler e Stalin, poi complessivamente confermata da Churchill e Roosevelt. La frontiera tedesco-polacca fu un’idea di Stalin, approvata ad un tempo dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, con alcune riserve. Le due soluzioni formarono un insieme, ciò che rendeva l’approvazione degli Anglo-Americani definitiva, prevedendo la messa in opera dell’idea di “popoli puri” ossia il trasferimento forzato di milioni 225 di Tedeschi, di alcuni milioni di Polacchi, di centinaia di migliaia di Ucraini e di un numero minore di Bielorussi e di Lituani. Questo metodo ebbe come conseguenza quella di creare un’Europa centrale e orientale dove, per la prima volta in ottanta anni, i problemi di frontiere e di minoranze non guidavano più le relazioni; il successo o il fallimento della trasformazione di un paese non può più essere attribuita alla presenza degli “altri”, ma riposa essenzialmente sui nostri propri meriti o il nostro fallimento personale. E’ qui senza dubbio una conseguenza di Yalta che nessuno degli protagonisti, partecipanti o vittime, aveva previsto. 226 Referenze e bibliografia Ash, Timothy Garton, La Rivoluzione Polacca: Solidarietà, 1980- 1982, Londra 1983 Dülffer, Jost, Jalta. 4. Februar 1945: Der Zweite Weltkrieg und die Entstehung der bipolaren Welt. Monaco, 1998. Gaddis, John L., We know now, Oxford University Press, Oxford, 1989. Nicieja, Stanislaw (ed), Jalta z perspektywy polwiecza, Opole, 1995. Kersten, Krystyna, Jalta w polskiej perspektywie, Londra e Varsavia, 1989. Zubok, Vladislav, e Konstantin Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War: From Stalin to Khrushckev, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1996. 227 30. Yalta, Potsdam e l’emergenza della Guerra fredda: la visione della Germania dopo le recenti ricerche. Wolfgang Benz La Germania e la conferenza di Yalta. La riunione dei “Tre Grandi”, Roosevelt, Churchill e Stalin a Yalta dal 4 all’11 febbraio 1945 entrò nella leggenda più di qualsiasi altra conferenza organizzata durante la guerra dai membri della coalizione antihitleriana (Smyser, 1999; Graml 1985, Dulffer 1998). La conferenza del palazzo di Livadia fu quasi immediatamente presentata in Germania come una cospirazione contro l’Europa e un accordo con l’obiettivo della divisione del mondo e in questo senso, di abbandonare l’Europa orientale alla dominazione sovietica (vedere, per esempio, Stover, 2003; Mastny e Schmidt, 2003; Ressing 1970; Laloy, 1990). Le ricerche storiche hanno messo in luce che la preoccupazione essenziale di Stalin a Yalta era di confermare il riconoscimento di una sfera d’influenza sovietica in Europa dell’Est e del Sud- Est oppure, poiché Churchill frenava così violentemente queste ambizioni, almeno di delimitare chiaramente il tracciato delle frontiere polacche (cioè l’esigenza di un accordo su una frontiera orientale lungo la linea Curzon e su una frontiera occidentale lungo la linea OderNeisse) e il ruolo dell’Unione Sovietica negli Stati Balcanici. Inoltre Stalin sperava di determinare il totale delle riparazioni imposte alla Germania e la parte che doveva ritornare alla Unione Sovietica. Egli propose la somma totale di 20 miliardi di dollari (USD), di cui 10 miliardi all’Unione Sovietica; quest’esigenza doveva in origine essere discussa a Yalta. Sei mesi dopo a Potsdam, il principio di questi “10 miliardi” contribuì in maniera decisiva al deterioramento delle relazioni fra l’Unione Sovietica e le potenze occidentali. La questione delle riparazioni mantenne la divisione della Germania parecchi decenni dopo Potsdam, poiché era stato deciso che ogni potenza occupante avrebbe ottenuto riparazione nella propria zona di occupazione. A Yalta il presidente Roosevelt si preoccupava soprattutto di ottenere da Stalin l’impegno dell’entrata in guerra dell’Unione Sovietica contro il Giappone (dopo la disfatta della Germania) e di assicurare la cooperazione dell’Unione Sovietica per la creazione delle Nazioni Unite. La Costituzione di una organizzazione di pace permanente rappresentò in definitiva il più importante obiettivo di guerra alleato dalla dichiarazione solenne pronunciata al momento della firma della Carta Atlantica nel 1941. Come Churchill, Roosevelt voleva d’altronde evitare una ascesa incontrollata della spinta espansionista sovietica in Europa dell’Est e del Sud – Est, tentando di regolarla con una sorta di cordiale sfiducia. I negoziati intrapresi a Yalta furono caotici, per svariate ragioni: gli alleati occidentali non avevano fiducia nel loro partner orientale; inoltre dei grandi sconvolgimenti potevano essere instaurati visto che il futuro restava incerto; infine, gli interessi dei principali protagonisti e dei loro paesi satelliti erano profondamente divergenti. Le conseguenze di certi accordi non apparvero che molto più tardi, come nel caso delle centinaia di migliaia di cittadini sovietici che avevano lasciato la loro patria sulla scia dell’armata tedesca in ritirata, sia volontariamente, sia sotto costrizione. Dopo l’8 maggio 1945, essi furono rimandati d’ufficio dalla Commissione di rimpatrio in Unione Sovietica, dove la maggior parte di loro conobbero un tragico destino. Trattandosi della Germania o più precisamente di ciò che doveva rimanere, i “Tre Grandi” decisero di procedere al disarmo e alla demilitarizzazione completa del paese e all’imposizione di tasse considerevoli per la ricostruzione. L’altro accordo importante fu quello che invitò la Francia (cioè il governo provvisorio diretto da Charles de Gaulle, ufficialmente riconosciuto dalle potenze occidentali nell’autunno 1944 e dal Cremlino qualche tempo dopo) a partecipare al controllo esercitato dagli alleati sulla Germania, divenendo la quarta potenza 228 dotata della propria zona di occupazione. Quest’ultima doveva essere situata nel sud-ovest della Germania e prelevata dalle zone occupate dagli Americani e Britannici, mentre la zona sovietica restava inalterata. Quattro obiettivi principali erano proposti da De Gaulle dall’estate 1944: la federalizzazione del Reich tedesco, ossia il suo smantellamento in diverse entità autonome; la separazione della Renania dal resto della Germania, al fine di garantire la sicurezza della Francia; la messa sotto controllo internazionale della Ruhr; e infine l’affiliazione o l’incorporazione nella Francia della Sarre e delle sue miniere di carbone. Gli interessi francesi e sovietici si riavvicinavano su alcuni punti. Quando De Gaulle accettò la linea Oder-Neisse come futura frontiera orientale della Germania nel corso della sua visita a Mosca nel dicembre 1944, egli sperava che di ritorno Stalin avrebbe riconosciuto il tracciato di una frontiera occidentale lungo il Reno; il controllo internazionale della Ruhr (con la partecipazione dell’Unione Sovietica) rappresentava un obiettivo estremamente allettante per il Cremlino ( Wolfrum 1999, pp 60-72). Questi ambiziosi piani francesi si rivelarono totalmente illusori, precisamente perché la Francia era considerata al massimo come un partner subalterno nel gruppo delle grandi potenze. De Gaulle non fu invitato a partecipare alla Conferenza di Potsdam nel luglio 1945 così come non lo fu al summit di Yalta nel precedente mese di febbraio. La Francia fu profondamente ferita nel momento in cui capì di essere considerata e trattata come una potenza di secondo piano. Questa situazione ebbe conseguenze maggiori sull’orientamento della politica francese dinanzi alla Germania negli anni successivi. I piani e le riflessioni per la divisione della Germania furono rapidamente superati nel corso della fase finale della guerra. Già nell’autunno 1944, il personale militare britannico incaricato della realizzazione degli studi di previsione era pervenuto alla conclusione che le ripercussioni di uno smantellamento politico della Germania sarebbero state così incresciose per la sua economia che esse avrebbero potuto far nascere dei gravi problemi, collocando gli Stati recentemente creati in una situazione di dipendenza dinanzi ad altri paesi, e provocando un abbassamento del tenore di vita che avrebbe compromesso l’indipendenza di questi nuovi Stati e limitato la capacità della Germania di sdebitarsi. Gli esperti britannici avanzavano in appoggio a questa tesi un ulteriore argomento: la divisione della Germania avrebbe comportato l’impoverimento del paese, rallentato il risanamento del mondo nel suo insieme, indebolito dai danni causati dalla guerra, e di conseguenza, avrebbe portato ugualmente danni agli interessi economici del Regno Unito. Il cancelliere dello scacchiere britannico, Anderson, si era opposto al piano di divisone della Germania dall’inizio del mese di marzo 1945 (rendendo chiaro il suo scetticismo riguardo ai risultati della Conferenza di Yalta); la su opposizione si basava anch’essa su delle considerazioni economiche esposte in un memorandum: secondo lui, la Gran Bretagna doveva scegliere fra una politica di riparazione e una politica di taglio, ma non poteva sperare di condurle entrambe allo stesso tempo. L’intenzione di procedere alla divisione della Germania, manifestata in occasione del summit di Teheran, che aveva riunito nel novembre 1943 la coalizione antihitleriana, e apparentemente confortata e resa ufficiale dalla creazione di una commissione competente a Yalta, era infatti già sepolta nel febbraio 1945, prima della capitolazione del III Reich, e apparve finalmente come una minaccia. Poiché Stalin non voleva rinunciare alla ricchezza tedesca ch’egli contava di sfruttare, i responsabili politici a Washington e a Londra, preoccupati dal punto di vista economico, non rivolgevano certamente la lama contro se stessi: il controllo dell’industria tedesca, unito al disarmo e alla demilitarizzazione del paese, garantivano la sicurezza e si avvicinavano agli interessi economici britannici. Il ministro britannico degli Affari Esteri, Eden, tentò di convincere i responsabili politici revanscisti di questa realtà: la creazione di una serie di piccoli Stati tedeschi sarebbe stata allo stesso tempo un peso economico per i vincitori della guerra e un errore politico; e la combinazione di questi due 229 fattori avrebbe costituito un insormontabile handicap per condurre l’Europa sulla via del nuovo ordine internazionale in cui essa sperava (Benz, p.45). Le reazioni in Germania In Germania, l’opinione pubblica riguardo la Conferenza di Crimea rimaneva controllata e manipolata da Goebbels. La stampa tedesca (Völkischer Beobachter, VB), creò degli slogans che rappresentavano l’idea che i tedeschi si facevano di Yalta e che in parte continuano a farsi tutt’oggi. Mentre prima della conferenza essa dichiarava che in seguito alle proposte britanniche, milioni di tedeschi sarebbero stati inviati come schiavi in Siberia, il Völkischer Beobachter presentava sul momento la divisione del Reich tedesco e “la distruzione completa del popolo tedesco” come gli obiettivi militari ufficiali della coalizione antihitleriana (VB, 3 febbraio 1945). Dinanzi al comunicato diffuso dopo la chiusura della Conferenza di Crimea, i giudizi della stampa furono ugualmente dello stesso tenore: Stalin aveva “spennato” le potenze occidentali, Roosevelt e Churchill avevano “preso i loro ordini da Stalin per nove giorni” ed erano stati costretti a fare propri “gli slogans di sterminio e di odio“ del dirigente sovietico (VB, 14 febbraio 1945). Essa pretendeva che Stalin avesse riservato alle sue comparse solo un ruolo minore a Yalta, affermazione diffusa con dei titoli come “Roosevelt e Churchill trainati dai rivoluzionari bolscevichi mondiali” (VB, 15 febbraio 1945), e che “il decreto di morte” dell’Europa era stato firmato. La Germania rappresentava ormai la sola potenza capace di opporsi a Mosca: “ Mentre la stampa inglese e americana tentano di cancellare l’impressione di sconfitta totale di Roosevelt e Churchill a Yalta, la maggior parte degli osservatori neutrali considerano che i Sovietici hanno riportato una vittoria totale e hanno fatto progredire la rivoluzione bolscevica mondiale in maniera decisiva. I piani di sterminio elaborati contro la Germania hanno seminato il germe di nuove guerre; i decreti tirannici che decidono il destino della Polonia e della Yugoslavia significano la fine di tutte le nazioni. Appare sempre più chiaro che se si è parlato della questione tedesca, è in realtà dell’Europa che si trattava e che con lo sradicamento del popolo tedesco il Continente perderà il suo punto di equilibrio e sarà assoggettato alla tirannia senza limiti dei Bolscevichi” (VB, 16 febbraio 1945). Gli attacchi si susseguirono sullo stesso tono. Pur precisando che Yalta era il “prodotto di cervelli che rappresentavano un pericolo per la popolazione”, la stampa annunciava che tutta la popolazione dei paesi nemici cominciava “a sospettare che si progettasse a Yalta un crimine le cui conseguenze sarebbero state terribili per l’intera umanità” (VB, 17 febbraio 1945). Questa affermazione era pertanto il frutto dell’immaginazione della propaganda nazista, come quella lanciata in un altro titolo della stampa nazional-socialista, secondo il quale il progetto bolscevico di dirigere l’Europa faceva parte di un vecchio piano elaborato dagli Ebrei per rinforzare il loro dominio sul mondo (NS- Kurier Stuttgart, 11 marzo 1945). Tutti i mezzi possibili e immaginabili furono impiegati per trarre vantaggio da Yalta in favore della propaganda tedesca e dei suoi appelli al riallineamento. L’organo nazista più autorevole, Das Reich, evocava ugualmente “il nuovo ordine voluto da Stalin” e “la sottomissione anglosassone”; con stupore, vi si trova già la metafora della “cortina di ferro”, di cui la paternità sarebbe stata attribuita a Churchill nel 1946, in occasione del suo discorso di Fulton: “Malgrado il viaggio per avanzare richieste intrapreso da Churchill a Mosca, e prima dell’elezione di Roosevelt, la cortina di ferro del fatto compiuto bolscevico si era abbattuta sull’insieme dell’Europa del Sud – Est” (Noelle e Neumann, 1956, p.140). Gli slogans della propaganda nazista continuarono a influenzare a lungo l’immaginazione dei Tedeschi dopo il crollo dello Stato nazista. Dal momento della loro 230 utilizzazione nel corso della guerra fredda a Ovest, gli slogans anticomunisti furono particolarmente efficaci e durevoli pur offrendo una sorta di consolazione in mezzo alle rovine della disfatta. Questi slogans facilitarono ugualmente la sottomissione ai vincitori occidentali, poiché permisero rapidamente di avvertirli come dei protettori contro l’Unione Sovietica stalinista. Inoltre questa ostentazione di anticomunismo nel giorno fatidico alimentò una menzogna tuttora creduta da un buon numero di tedeschi, l’illusione che la Germania avrebbe potuto e dovuto, alleandosi con le potenze occidentali, proseguire immediatamente nel 1945 il combattimento contro il nemico bolscevico all’est. L’idea del fallimento delle potenze occidentali a Yalta e Potsdam nel loro scontro con l’Unione Sovietica era quella di Goebbels. La propaganda tedesca e i suoi successori non vollero riconoscere che le due conferenze non erano un scontro, ma delle riunioni fra partners alleati. Comunque sia, un sondaggio effettuato nella Repubblica Federale Tedesca nel settembre 1951 chiese alle persone interrogate quale fosse stato il più grande errore delle potenze occupanti. Il 15% rispose “il loro errore di predisposizione nei confronti dei Russi (Yalta, Potsdam)”. Si trattava della seconda risposta data più frequentemente (dopo lo “smantellamento e la distruzione dell’industria”, 21%) che precedeva l’accusa della ”espulsione dei Tedeschi dai Territori dell’Est” (risposta data dal 3% dalle persone interrogate). Questo rapporto fra la ripartizione delle accuse è ugualmente interessante, nella misura in cui i Tedeschi erano abbastanza ben informati sulle espulsioni dai territori orientali, mentre il cittadino medio sapeva poche cose sulle altre questioni negoziate a Yalta e Potsdam. E’ ciò che si evince da un’altra inchiesta condotta nel novembre 1951. Interrogati sui punti più importanti degli “Accordi di Potsdam”, il 20% delle persone citarono la “cessione dei territori dell’Est, l’ingiustizia fatta agli espulsi”. Il 19% risposero “ la divisione della Germania”. La risposta seguente, data dal 12 % delle persone, evoca l’asservimento della Germania e la fine dell’indipendenza tedesca”. Facevano seguito dunque per l’11 % “la demilitarizzazione, la denazificazione, i processi dei criminali di guerra” e per l’8 % lo smantellamento dell’industria. Il 10% delle persone interrogate non diedero alcuna risposta chiara e più della metà, cioè il 55 % non avevano la minima idea del contenuto degli Accordi di Potsdam ( Mannheimer Morgen, 29 maggio 1953). La riunificazione tedesca e l’eredità di Yalta e Potsdam. Via via che il periodo trascorso dall’avvenimento si allontanava, veniva a mancare la conoscenza dettagliata delle discussioni e delle decisioni di Yalta e Potsdam e la guerra fredda fece di “Potsdam”, o della violazione dei suoi accordi, una formula suscettibile di essere sfruttata politicamente e di venire spesso contrapposta in campo avverso. Uno degli aspetti essenziali della disponibilità degli alleati occidentali fu l’accento posto sul carattere temporaneo delle risoluzioni di Potsdam relative alle ricostruzione, all’eliminazione del nazismo, alla demilitarizzazione ed al ristabilimento della democrazia in Germania; l’idea che Potsdam sarebbe la prima tappa verso la creazione di una pace che, preparata da un Consiglio dei ministri degli esteri riconosciuto giuridicamente, culminante in un trattato di pace con la Germania, rappresentò un altro aspetto dell’immediato dopoguerra. La speranza dei Tedeschi si basava proprio su questo processo politico. A ciò si affiancava inizialmente l’idea di riunificazione delle quattro zone di occupazione in un nuovo Stato tedesco, unitamente alla speranza che almeno una parte dei territori perduti a Est forse sarebbe stata recuperata. Dopo il fallimento della quarta Conferenza dei Ministri degli esteri tenutasi a Londra nel Dicembre 1947, nel corso della quale le grandi potenze non raggiunsero un accordo su una politica comune per la Germania, la speranza di una soluzione della “questione tedesca” in un vicino futuro venne quasi completamente abbandonata. 231 Una volta che i Tedeschi della repubblica federale accettarono lo status quo, che si tradusse principalmente in una facile integrazione occidentale a fianco della potenza soccorritrice degli Stati Uniti, anche attraverso la svolta in favore dell’idea di un’Europa unita, e quando la divisione della Germania e la separazione causata dalla guerra Fredda diventarono realtà stabile, i dettagli degli accordi di Potsdam poco a poco scomparvero. Uno dei principali quotidiani regionali della Repubblica Federale espose questa idea nella primavera del 1953 in un articolo intitolato “ Cosa fu esattamente Potsdam ? “. Dopo aver descritto l’oggetto e i risultati della conferenza, dichiara a proposito degli “ Accordi di Potsdam “: “ Nel frattempo, la storia li ha dimenticati. I loro articoli rimangono validi de facto solo per i Sovietici, ma unicamente perché essi considerano che potrebbero servire ai propri interessi politici “ (Neues Deutschland, 15 febbraio 1955 ). Nella Repubblica democratica Tedesca, l’organo ufficiale del SED e portavoce del Partito e del governo (Neues Deutschland) diffondeva al contrario la versione accreditata all’Est, secondo la quale le potenze occidentali avevano propagandato a Yalta l’idea di divisione della Germania, mettendo in opera in seguito questa politica a Potsdam, per cui: “ Il ripetuto rifiuto delle proposte sovietiche di creare organi amministrativi centrali, la riforma monetaria separata [e] la creazione di un distinto Stato tedesco dell’Ovest rappresentano gli anelli si una stessa catena, destinata a dividere la Germania, che sarà presto perfezionata grazie ai patti di guerra di Parigi, che creano un esercito di mercenari NATO della Germania Ovest, … Al contrario, questi ultimi dieci anni, la politica sovietica nei confronti della Germania era guidata dai principi stabiliti a Yalta e sanciti negli Accordi di Potsdam. Questi principi, come conferma tutta l’evoluzione del periodo antecedente la guerra, sono vicini agli interessi del popolo tedesco. Mentre la politica delle potenze occidentali ha cercato di spaccare la Germania e di coinvolgere il popolo tedesco in una guerra nucleare fratricida e suicida sul territorio tedesco, il governo dell’Unione Sovietica ha avanzato proposte senza sosta, in vista della riunificazione pacifica della Germania. (Si troveranno degli estratti, ad esempio, nel Frankfurter Allgemeine Zeitung del 23 e del 30 novembre 1995). Gli accordi firmati a Yalta e Potsdam ebbero poco interesse per il comune cittadino della Repubblica Federale durante la guerra fredda e gli anni di scontro politico, e senza alcun dubbio poco di più per quello della Repubblica Democratica,. Tutti erano occupati dai problemi della vita quotidiana: bisognava anzitutto ricostruire e poi guadagnarsi la giornata. Nella Repubblica Democratica lo spirito di Potsdam era invocato in occasione delle commemorazioni o in occasioni simili. L’Ovest mostrava sistematicamente la sua versione dei fatti, ricordando quando e come l’Unione Sovietica avesse violato altri patti firmati a Potsdam e affermando come essa sola fosse responsabile dello status quo. Nel corso degli anni ‘50 e ‘60 l’opinione pubblica occidentale era tormentata da una domanda, instancabilmente posta e dibattuta dai mezzi di informazione, cioè quella dei presunti accordi segreti firmati a Yalta: un’altra domanda ossessiva riguardava la discussione sull’annessione del territorio tedesco, frutto dell’ignoranza in materia di geografia e del disinteresse di cui avevano dato prova gli Americani e gli Inglesi. Si trattava principalmente, in questa occasione, di Settin, che era stata attribuita alla Polonia mentre in realtà era situata a ovest dell’Oder, dell’opportunità della cessione completa della Slesia, cui si sarebbe preferita la cessione della sola parte orientale, e del problema di sapere se la scelta della Neisse occidentale di Görlitz per il tracciato della frontiera era stata prevista sin dall’inizio o non si dovesse parlare piuttosto della Neisse orientale. Ci furono in seguito discussioni intellettuali e teoriche sulla validità delle frontiere del 1937 per ciò che concerne il diritto internazionale: si trattava di determinare se i territori situati a est della linea Oder – Neisse fossero effettivamente e irrimediabilmente perduti da parte della Germania. L’ostinazione con la quale il tracciato delle frontiere del 1937 era propagata ed argomentata nei manuali scolastici sino agli anni ‘70 e la 232 accresciuta ottusità con cui si discuteva della carta metereologica nella televisione della Germania Ovest (i territori a est dell’Oder dovevano figurare sulla carta come facenti parte della Germania) non cambiarono per niente il fatto che i Tedeschi semplicemente non diedero grande importanza a queste pratiche di guerra fredda. Le decisioni territoriali prese a Potsdam e le loro conseguenze perdurarono nella memoria collettiva dei Tedeschi in altro modo, e non associate alla Conferenza di Potsdam. Esse restarono più presenti nelle disposizioni economiche e sociali (demilitarizzazione e democratizzazione) poiché queste colpivano direttamente l’esistenza di un gran numero di persone (Timmermann, 1997). Al tempo della Conferenza di Potsdam nell’estate del 1945, le tre grandi potenze avevano ratificato ciò che era già stato deciso molto tempo prima: l’espulsione delle minoranze tedesche da Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria. Secondo le affermazioni di Stalin a Potsdam, i territori della Germania orientale che dovevano essere ceduti alla Polonia e quelli che l’Armata Rossa aveva già posto sotto l’autorità amministrativa del Governo provvisorio polacco erano stati abbandonati. Tutta la popolazione tedesca era fuggita. Grazie a questa affermazione, Stalin rassicurò i suoi partner presenti alla Conferenza, semprechè questi ne fossero preoccupati, riguardo la sorte dei civili tedeschi di fronte alla prospettiva del loro “trasporto ordinato e appropriato” al di fuori di Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria. Si doveva procedere all’espulsione dando prova di umanità. Nel dicembre 1944, in un discorso pronunciato dinanzi alla Camera dei Comuni, Churchill giudicò questa espulsione come “il mezzo più soddisfacente e duraturo” per stabilire la pace: “Non ci sarà alcuna di quelle unioni forzate di popolazioni che portano alla nascita di conflitti interminabili, come ci fu nel caso dell’Alsazia–Lorena. La questione sarà regolamentata”. (Churchill, 1974, pp. 7213-14). Il termine di “pulizia etnica” non esisteva ancora, ma è proprio di questo che si trattava. Un’immenso flusso di rifugiati si riversò, alla fine della guerra e nel periodo che ne seguì, in una Germania con nuovi confini, devastata e divisa in quattro zone di occupazione. Alla fine dell’ottobre 1946, si contavano più di 9.600.000 espulsi. Al momento del censimento effettuato nel settembre del 1950, il loro numero era aumentato di due milioni; ci furono complessivamente più di 16 milioni di persone, che dopo essere state costrette a fuggire e a subire il destino degli esuli, avevano ottenuto il diritto di vivere nella Repubblica Federale e nella repubblica Democratica. Queste persone furono inizialmente considerate come stranieri, una sorta di pericolo, di poveretti indesiderati, con abitudini e modi di vestire insoliti. Le popolazioni locali gli fecero capire di considerarli degli stranieri. Ma molto presto, l’integrazione dei rifugiati e degli esuli diventò una realtà. Fu proprio questo, forse, il vero miracolo della Germania post-hitleriana. La perdita d’importanza dei gruppi di pressione e del partito dei rifugiati, il “Blocco degli espulsi e delle persone private dei loro diritti” dà un’idea della rapidità e della completezza dell’integrazione degli espulsi nella loro nuova patria. Il partito dei rifugiati, che fu nella prima parte degli anni 1950 partner di una coalizione popolare ottenendo notevoli successi elettorali, sia a livello federale che nelle Länder, scomparve totalmente dalla scena politica agli inizi degli anni ‘70. Visto che era sempre stato un partito che rappresentava gli interessi di un gruppo strettamente definito, la sua scomparsa fu il segno che l’identità collettiva dei suoi elettori non sussisteva più e che gli espulsi si erano ormai installati nella loro nuova patria. Una tale situazione non era immaginabile nell’agosto 1950, quando gli oratori della Landsmannschaft (una associazione sociale e culturale) ed i responsabili delle associazioni degli espulsi, “coscienti della loro responsabilità davanti a Dio e agli uomini”, formularono la “Carta dei rifugiati di etnia tedesca”. Al tempo del raduno di Stuttgard, dove la Carta fu presentata rinunciando solennemente a qualunque spirito di rivalsa e di punizione, si dichiarò il “diritto a 233 una patria, che costituisce uno dei diritti fondamentali del genere umano, che ci è stato concesso da Dio”. Questa formulazione fu interpretata, soprattutto in Polonia e Cecoslovacchia, come espressione di un desiderio di rivincita, e gli espulsi del mondo politico della Germania Ovest vegliarono in modo che questi malintesi non mettessero radici. Questa attitudine fu particolarmente evidente nella resistenza indomabile che essi opposero alla Ostpolitik dei socialliberali agli inizi degli anni ‘70 e nel corso di una riunione degli espulsi dalla Slesia nel 1985, il cui slogan affermava “La Slesia resta nostra !”. Questi sfortunati propositi tenuti a Ovest furono sempre accolti con gratitudine nella Repubblica Democratica tedesca; dopotutto le riunioni annuali organizzate dalla Landsmannschaft a Whitsun, considerati come “Riunioni di rivendicanti”, confortavano la percezione ufficiale che aveva di essa stessa questa Germania migliore, che aveva ben capito le lezioni antifasciste, mentre la Repubblica Federale era percepita come pronta ad attendere il giorno della propria rivincita. L’integrazione realizzata nella Repubblica Democratica era simile sotto tutti gli aspetti agli sforzi impiegati e ai risultati ottenuti dalla repubblica Federale. Certo, il suo modo di risolvere i problemi finì per farne un tabù, visto che questa parlò fondamentalmente ed esclusivamente di semplici “persone reinstallate” e che le riunioni di espulsi non erano neanche autorizzate. Conclusioni Si può vedere come i Tedeschi accettarono lo statuto territoriale ed etnico definito a Potsdam nel 1945. Solo una minoranza di simpatizzanti dell’estrema destra, e in nessun caso la maggioranza dei Tedeschi, ripensò ai confini della Germania del 1937, ma essa non ebbe alcuna influenza ne peso politico. Il sommovimento occasionale delle associazioni di espulsi e dei loro responsabili politici, come quello che ribadì lo slogan “La Slesia resta nostra !” nel 1985, non costituì il segno di una speranza e di un desiderio largamente condiviso di una revisione territoriale degli Accordi di Potsdam. In occasione del 50° anniversario della Conferenza di Potsdam un’importante articolo venne pubblicato nel quotidiano più letto e più autorevole della Germania. Questo articolo si intitolava “Storia di una salutare umiliazione. Cinquanta anni fa, gli alleati decidevano la sorte dei Tedeschi a Potsdam”. In conclusione, mi piacerebbe citare le ultime frasi di questo articolo, poiché esse danno un’indicazione precisa sullo stato d’animo dominante nella maggioranza dei Tedeschi. Sono trascorsi cinque anni da quando la riunificazione della Repubblica Democratica e della Repubblica Federale ha avuto luogo, una unificazione temuta da tanti: “Eccetto i risultati concreti della Conferenza di Potsdam, che furono diversi e, per parte, non molto durevoli, ci resta da notare come mai nel corso della storia moderna, delle potenze sconfitte di tale statura fossero state umiliate quanto la Germania ed il Giappone nel 1945. Ma è proprio questa umiliazione che si è rivelata salutare per i due Paesi. Questa è l’impressione ineluttabile che si ha mezzo secolo dopo.” (Süddeutsche Zeitung, 29 e 30 luglio 1995). 234 Referenze Benz, Wolfgang, Potsdam 1945: Besatzungssherrschaft und Neuaufbau im Vier-ZonenDeutschland, Monaco, 1944. Churchill, Winston S., His complete speeches, 1897-1963, New York, 1974, Vol. VII, pp. 721314. Dülffer, Jost, Jalta, 4 Februar 1945: Der Zweite Weltkrieg und die Entstehung der bipolaren Welt, Monaco, 1998. 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Si ricordi lo scambio di proposte senza successo tra Churchill e Stalin riguardo alla percentuale comparativa delle rispettive influenze in Albania, Bulgaria, Grecia, Romania e Jugoslavia. Un accordo fondato sulla parola d’onore di un criminale non poteva essere uno strumento affidabile. I partiti agrari, liberali, social-democratici e altri partiti moderati erano apparentemente rappresentati nei governi dell’Europa centrale e dei Balcani. Solo i partiti conservatori e clericali di destra ne erano esclusi. I comunisti parteciparono ugualmente ai governi Italiano, Francese e di altri Paesi europei. Essi perdettero le elezioni e fecero gioire l’opposizione democratica. La situazione fu differente a Est. Le effimere democrazie terminarono la loro breve esistenza nella brutale usurpazione del potere da parte dei comunisti. La repressione si abbatté sulla resistenza armata in Ucraina e nei Paesi del Baltico, così come sulle sollevazioni spontanee apparse in Germania, Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia. I sogni fatti dai dissidenti di un “socialismo dal volto umano” si rivelarono essere solo una illusione. La felicità degli individui era impossibile in un’Europa divisa, di cui il Muro di Berlino rappresentava il simbolo visibile. La politica è l’arte del possibile. Eppure, il prezzo pagato dall’Ovest in cambio di una prosperità incerta sembrava elevato. Alla distensione relativa dell’Unione Sovietica e dei paesi satelliti fantoccio succedette l’immobilismo post-totalitario. L’opinione pubblica assistette disperata all’egoistica indifferenza delle grandi potenze. Lo spirito di Yalta rese possibile questa situazione. E’ poco probabile che abbia preservato la pace, anche se la storia ignora il condizionale. L’indipendenza nazionale è solo uno slogan tenace nel nostro mondo interdipendente. Il problema è di sapere se si dispone di una vera sovranità, di una possibilità di definire coscientemente e liberamente in qualunque momento di priorità, forme, misure e durate ottimali della volontaria dipendenza. E’ difficile parlare in termini reali di Stato quando si evocano le repubbliche socialiste dell’Europa centrale e orientale, tanto all’interno che all’esterno di una Unione Sovietica fortemente centralizzata. A quell’epoca, l’Ucraina non esisteva come soggetto sovrano di diritto internazionale. Sotto il regime totalitario, il paese perse almeno un terzo della popolazione in seguito alle persecuzioni ed a una carestia deliberatamente organizzata. Nessuno si faceva la minima illusione riguardo lo status di membro delle Nazioni Unite accordato all’Ucraina. Il paese non possedeva neanche le prerogative ufficiali della sua identità nazionale, come emblemi, bandiera e inni nazionali. I colori nazionali, giudicati “nazionalisti borghesi” erano vietati. I nazionalisti polacchi probabilmente conservarono il ricordo più doloroso di Yalta. Rappresentava per loro una “quarta divisione” della loro madre patria. Questo numero è comunque errato, poiché non tiene conto di tutte le ripartizioni territoriali sopraggiunte all’inizio 237 del XIX secolo. Ma si trattava senz’altro di un atto di violenza perpetrato contro la legalità dell’Unione polacco-lituana del 1569-1795 e della Seconda Repubblica del 1918-1939. Qui il contesto ucraino ebbe importanza cruciale. Per un Polacco, la frontiera orientale tracciata a Yalta era totalmente fittizia, poiché separava dal paese le città di Vilnius, Grodna e Lviv (in polacco Wilnia, Grondo e Lwów). Il fervore patriottico ne recriminava il ritorno. Non ci fu comunque nessun desiderio di rinunciare alla frontiera tedesco-polacca stabilita sulla linea Oder-Neisse (in polacco Odra-Nysa) a Yalta. La sua revisione avrebbe potuto compromettere na nuova acquisizione di Gdansk, Shszecin e Wroclaw (in tedesco Danzig, Stettin e Breslau). Per un Ucraino, il tracciato arbitrario della frontiera con la Polonia era insopportabile, poiché privava l’Ucraina di Peremyshl e Kholm, così come di Lemko e di altre regioni ancora. Ciò che è stato definito scambio di popolazione da una parte all’altra della frontiera fu in verità una deportazione forzata. Le accuse di massacri a Volhynia e oltre accentuarono le tensioni interetniche provocate da Mosca tra Kiev e Varsavia. Questa situazione facilitò il soffocamento, da parte delle forze di sicurezza nazionali comuniste, della guerriglia portata avanti dall’Armata polacca dell’interno (Armija Krajow – AK) e dall’Armata insurrezionale ucraina (UPA). Sotto il regime totalitario, i membri dell’AK furono perseguitati in Polonia come volgari banditi, sebbene oggi siano stati riconosciuti come combattenti. I loro omologhi ucraini devono ancora arrivare a provare che la loro lotta contro i nazisti ed i sovietici fosse una lotta di liberazione nazionale. Ancora oggi, alcuni gruppi finanziati dall’estero si lanciano in provocazioni. Tuttavia, tanto sul piano ufficiale che da un punto di vista intellettuale, l’Ucraina non conosce alcuna controversia territoriale con la Polonia o uno dei paesi confinanti. Tutti gli stati dell’Europa centrale ed i paesi Baltici hanno aderito all’Alleanza Nord Atlantica e sono ormai sul punto di aderire all’Unione europea. L’Ucraina non cessa di dichiarare che quello è il suo obiettivo finale. La Conferenza di Yalta ha senza alcun dubbio rappresentato un importante passo in avanti nel consolidamento delle forze alleate in vista della vittoria sul loro nemico comune, i nazisti. I pareri divergono sul ruolo positivo giocato da Yalta nel futuro dell’Europa. Questa divergenza è visibile nella terminologia. I comunisti favorevoli ad una linea dura glorificavano la “Grande guerra patriottica”. E’ vero che si tratta per l’Unione Sovietica della sola guerra difensiva della sua storia. Anche la Russia imperiale conobbe una sola guerra patriottica, quella portata avanti contro Napoleone. Il resto delle sue campagne militari furono campagne d’aggressione, appena velate di messianica demagogia. Il mondo considera la guerra tedescosovietica come un capitolo della Seconda guerra mondiale. Ma al contrario dell’Ovest, gli Ucraini e gli altri paesi dell’Europa centrale e orientale dovettero subire un altro totalitarismo, che fece milioni di vittime. L’Ovest non prestò molta attenzione alla simbolica manifestazione di surrealismo totalitario che rappresentava la conduzione della Conferenza di Yalta praticamente in un deserto. La Crimea era in effetti disabitata dopo la recente deportazione dei Tartari e degli altri popoli minori della regione. La frontiera amministrativa separava la penisola dalla sua patria naturale, l’Ucraina. Essa sembrava ed era d’altronde praticamente un paese dove era stata fatta tabula rasa del proprio passato, ancor più che nel resto dell’Europa del dopoguerra. Così l’Ucraina era in apparenza presente, ma de facto assente dalle nazioni vincitrici del dopoguerra. Altra coincidenza, si commemora l’anniversario di Yalta in un luogo che, appena dieci anni fa, sarebbe potuto divenire il punto di partenza di un sanguinoso conflitto nello territorio postsovietico, cosa che fortunatamente non avvenne. Alla vigilia del crollo sovietico, gli ultraconservatori del regime fecero il possibile per respingere, se non addirittura evitare, la disintegrazione finale. Al fine di impedire la progressiva deriva delle repubbliche dell’Unione Sovietica verso la loro sovranità, Mosca sostenne i separatismi locali che esistevano in seno a 238 queste repubbliche. Il Caucaso, gli Stati Baltici, la Moldavia e l’Ucraina ne forniscono numerosi esempi. Gli ex funzionari ristabilirono l’autonomia della Crimea tenendo le popolazioni locali il più lontano possibile da questi affari. Talvolta assistiamo ancora a tentativi di incitamento a tensioni o conflitti interetnici intorno alla flotta russa del Mar Nero, con base a Sebastopoli, non lontano dalla marina ucraina. Alcune autorità locali negano ai Tartari dell’Ucraina e della Crimea una struttura identitaria nella loro stessa patria. L’insieme del patrimonio presente sul suolo di un paese fa parte della sua memoria ufficiale. Le città-stato greche dell’antichità e i popoli vicini, le comunità italiche, armene e giudee dell’epoca medievale, così come il khanat tartaro costituiscono altrettanti capitoli della storia ucraina. Kiev non l’ha mai conquistata. La Crimea di maggioranza russofona è una parte inalienabile dell’Ucraina, mentre la limitrofa regione ucrainofona di Kouban appartiene alla Russia. Le nazioni moderne si definiscono per un patriottismo fondato sul diritto sul territorio ed un patriottismo fondato sul diritto di discendenza. I Nordamericani anglofobi non si considerano soggetti britannici. La lealtà politica non sempre va di pari passo con la lingua materna. Gli Ucraini, come gli altri Europei, dovrebbero parlare almeno la loro lingua nazionale, un dialetto etnico minoritario oppure locale (per esempio il russo) e l’inglese, in modo da disporre di un mezzo di comunicazione internazionale. Nel momento in cui i Tre Grandi discutevano e decidevano del futuro dell’Europa centrale e orientale a Yalta, le nazioni della regione avevano già conosciuto esperienze diverse in epoche precedenti. Polacchi, Cechi, Estoni, Lettoni e Lituani conservavano nella loro memoria la fruttuosa evoluzione, che comunque non fu senza problemi, che essi avevano conosciuto nel periodo tra le due guerre. La rinascita ucraina era stata interrotta e l’élite intellettuale ed il potenziale umano avevano sofferto terribilmente durante e dopo il grande terrore. Non stupisce che la ripresa di questo paese sia così lenta. La politica portata avanti dall’Ucraina manca spesso, ed in modo prevedibile, della necessaria coerenza per lottare contro la corruzione e per riformare la società. Ciononostante, la nazione non ha altra alternativa se non la propria reintegrazione in seno alla famiglia europea, oppure un lento suicidio. Yalta propose due opzioni. La prima ha portato in un vicolo cieco. Secondo una battuta amara, il comunismo è la strada più lunga per andare di capitalismo in capitalismo. L’altra opzione ha portato all’integrazione europea, fondata su principi accettati universalmente come l’uguaglianza dei cittadini, il pluralismo politico, la proprietà privata, il governo elettivo, la libertà democratica e i diritti civili. L’equilibrio dei poteri è stato sostituito dal consenso in favore dei comuni interessi. La diplomazia del XIX secolo ha inventato l’accordo delle sei grandi nazioni europee: l’Austria-Ungheria, la Francia, l’Italia, così come gli imperi britannico, tedesco e russo. Senza vere regole chiare e realiste, le Nazioni Unite non sarebbero oggi in grado di prevenire conflitti distruttivi e di mantenere la pace, così come non lo seppe fare la Società delle Nazioni di un tempo. Il tempo degli imperi è scomparso per sempre. L’Europa è ormai composta di Statinazione. Nessuno di essi desidera con di rinunciare alla propria sovranità. Tutti sono pronti ad abbandonare alcune delle loro prerogative a vantaggio di organi comuni di coordinamento, in vista di rinforzare la propria sicurezza. Yalta e Potsdam sono il simbolo di un’Europa divisa in campi militanti dalla frontiera invisibile del crollo ideologico e politico. Maastricht e Schengen simbolizzano ormai l’Europa integrata grazie ad una tradizione, una ricchezza ed una stabilità comuni. Il territorio ucraino ha fatto parte della civiltà bizantina, dei principati feudali slavi, del Granducato di Lituania, dei regni ungheresi e polacchi, degli imperi ottomano e russo, così come dell’Austria-Ungheria e degli stati che gli sono succeduti, come la Cecoslovacchia e la 239 Romania. Ortodossa, ma allo stesso tempo cattolica e protestante, l’Ucraina ha condiviso i valori intellettuali del Rinascimento, del barocco, del classicismo, del romanticismo e di altri fenomeni ancora. Repubblicani e realisti si sono succeduti in Europa a più riprese. Ma la storia non conserva nessun esempio di restaurazione di un impero plurinazionale. Conviene semplicemente persuadere la Russia a non sostenere pericolosi orientamenti. La Grande Muraglia cinese ed i limes romani si sono alla fine rivelati incapaci di fermare le invasioni barbare. Edificare una nuova cortina di ferro, stavolta tra Polonia e Ucraina, non sarebbe per l’Europa la migliore delle soluzioni. L’eventuale pacificazione o partecipazione della Russia è realizzabile solo a condizione che l’Ucraina conservi la propria indipendenza verso se stessa e rimanga uno stato europeo. Oggi Kiev deve scegliere tra una inevitabile miseria ed una libertà responsabile, anche se piena di sacrifici. Resta comunque all’Occidente decidere se voglia accogliere in futuro l’Ucraina o abbandonarla definitivamente con un tradimento comparabile a quello di Yalta, con i rischi imprevedibili che questa soluzione comporterebbe. L’Europa prosegue tutt’oggi il suo progressivo mutamento, dagli Imperi arcaici alle nazioni, in seguito dalle nazioni ad una rete di regioni autonome. Questo consolidamento e rafforzamento delle opportunità grazie alla diversità culturale è possibile solo all’interno di questo spazio economico unito e volto a Ovest. Il potenziale di cui dispone l’Ucraina, che è non solo uno stato mediterraneo, ma anche il più grande stato dell’Europa centrale ed orientale, apporterebbe enormi benefici a questa costellazione di Stati, nel loro interesse e per il loro progresso. L’Ucraina non è né la sorella gemella della Russia, né un ponte gettato tra Asia ed Europa. Il suo ritardo è temporaneo, mentre la sua posizione geopolitica ed i suoi interessi strategici sono permanenti. Niente potrà essere fatto con un colpo di bacchetta magica, ma respingere l’Ucraina sarebbe certamente un grave errore. 240 PARTE V IL 1989 NELLA STORIA EUROPEA 241 242 32. Introduzione all’anno 1989 All’inizio del 1989, pochi sarebbero stati gli osservatori specializzati in grado di prevedere i cambiamenti cruciali che si sarebbero prodotti in quell’anno in Unione sovietica e nell’Europa centrale ed orientale. Nell’autunno del 1987 negli Stati Baltici si svolgono manifestazioni di massa. Un anno più tardi, l’Estonia sì auto- proclama repubblica autonoma. In Polonia, durante l’estate del 1988, la direzione del partito comunista polacco accorda uno status giuridico ai gruppi dell’opposizione, tra i quali troviamo il sindacato indipendente Solidarnosc. Alle elezioni il Partito Comunista registra risultati mediocri. Il generale Jaruzelski, non essendo riuscito a formare un governo di coalizione, domanda al redattore capo del giornale Solidarnosc, Tadeusz Mazowiecki, di costituire il primo governo dell’Europa centrale ed orientale dalla fine degli anni ‘40 che non sia sotto il controllo comunista. Nel mese di settembre, l’Ungheria apre le frontiere all’Austria per attirare l’attenzione internazionale sulla difficilissima situazione in cui vive la minoranza ungherese in Romania. Migliaia di tedeschi dell’est approfittano di tale occasione per fuggire all’Ovest. Mentre numerosi “turisti” tedeschi dell’est si dirigono verso la Germania dell’Ovest via Austria, altri assediano le ambasciate della Germania dell’Ovest a Varsavia ed a Praga cercando di ottenere visti d’uscita. Dresda e Leipzig sono anch’esse teatro di tumulti e manifestazioni. Quando, il 9 novembre, Egon Krenz, segretario generale del partito comunista della Repubblica Democratica Tedesca, sembra aver ordinato di aprire i varchi del Muro di Berlino, i tedeschi dell’Est cominciano a passare in massa dall’altra parte. I giorni seguenti la popolazione comincia la demolizione del Muro senza che gli agenti di frontiera oppongano alcuna resistenza. Gli avvenimenti di Berlino servono da detonatore ad altri cambiamenti che avvengono altrove in Europa orientale. In Bulgaria, il regime comunista lascia il potere l’indomani della caduta del muro di Berlino. In Cecoslovacchia, il governo comunista tenta di introdurre delle riforme ed un governo composto da alcuni membri non comunisti, viene formato nel dicembre 1989; ma l’opposizione non lo accetta pertanto viene rimpiazzato da un nuovo governo non comunista. Tali cambiamenti si svolgono in un contesto sorprendentemente calmo. Vengono commesse brutalità da parte della polizia in Cecoslovacchia e Germania dell’Est, ma solo la Romania è per lungo tempo teatro di rivolte interne. Gli avvenimenti sanguinosi che avrebbero condotto alla disintegrazione dell’ex Iugoslavia dovevano ancora arrivare. Nessuno avrebbe potuto predire all’inizio del 1989 l’effetto domino che è seguito alla prima breccia aperta nella Cortina di ferro. La caduta di ogni regime ha apparentemente scalzato la legittimità, la credibilità e la stabilità di tutti gli altri. Inoltre, l’opinione pubblica, che ogni giorno constata la vastità delle manifestazioni attraverso gli schermi televisivi, si rende conto che spesso la risposta dello stato non è così violenta. Elemento fondamentale: il capo sovietico Mikail Gorbatchev deliberatamente non interviene militarmente a sostegno dei regimi satelliti. Paradossalmente tale decisione viene presa perché Mosca possa dedicarsi a mantenere in vita il Comunismo in Unione Sovietica. Nonostante ciò, meno di due anni più tardi, Gorbatchev non riesce ad impedire la frammentazione della stessa Unione Sovietica. 243 33. 1989: in retrospettiva, l’anno dei miracoli. Jussi Hanhimäki Il 1989 è stato denominato l’anno dei miracoli; fu in effetti l’anno nel corso del quale un ordine antico fu spazzato via e dove fu eretto un nuovo sistema internazionale o almeno europeo. Un anno che vide crollare uno dopo l’altro i governi totalitari, contro ogni aspettativa, a dispetto delle previsioni degli osservatori ben informati, che fossero giornalisti, responsabili politici, storici od altro. Quell’anno, la Polonia, L’Ungheria e gli altri paesi detti del blocco sovietico ritornarono improvvisamente “liberi”, cosa che suggellò, almeno retrospettivamente, il carattere praticamente inevitabile dell’ultima dissoluzione dell’Unione Sovietica. In verità, il 1989 fu allo stesso tempo segnato da una certa apprensione. Poiché dopo quattro decenni di guerra fredda, pareva fosse quasi impossibile che uno degli elementi costituenti dell’ordine internazionale, l’Unione sovietica e la sua egemonia sull’Europa centrale ed Orientale, potesse finire senza combattimenti. Durante la spettacolare successione degli avvenimenti – introduzione del multipartitismo in Ungheria, la legalizzazione in Polonia del Movimento Solidarnosc, la caduta del muro di Berlino, l’esecuzione del dittatore rumeno Nicolae Ceausescu – l’incredulità nei confronti della realtà della situazione si accrebbe dell’inquietudine che non gli subentrasse, da un momento all’altro, una reazione brutale. In effetti, numerosi osservatori apparentemente bene informati avvertivano che “ i carri armati non avrebbero tardato ad entrare in azione” per reprimere le manifestazioni in Europa centroorientale (la Romania conobbe alla fine del 1989 un periodo di violenti combattimenti che causarono diverse centinaia di morti e feriti); la Cina aveva d’altronde dato esempio di una brutale soppressione del movimento democratico nel corso dell’estate 1989. Tali apprensioni perdurarono del resto fino alla caduta finale dell’Unione Sovietica alla fine del 1991. E tuttavia ciò che pareva impossibile si produsse nel 1989: un gran numero di nazioni dell’Europa centro-orientale “si liberarono” dal giogo che faceva pesare su di loro da decine d’anni una potenza egemonica esterna e cominciarono ad instaurare (anche se con tempistiche diverse). Un regime democratico all’interno delle proprie frontiere. La domanda sulla quale il presente articolo intende meditare è semplice. Perché? Perché il sistema comunista è crollato in Europa centro-orientale nel 1989? Una puntualizzazione è d’obbligo. La posizione dello storico è felice: tenta di dare un senso a degli avvenimenti che si sono già svolti, ma gli è raramente chiesto di dare un giudizio sul prossimo sconvolgimento che la storia ci riserverà o di elaborare teorie su ciò che sarà il mondo tra 10 anni. Tale situazione è sicuramente un lusso, ma è anche una trappola nella quale risulta facile cadere, poiché la storia non assomiglia per niente ad una locomotiva irresistibilmente lanciata su di una traiettoria che la condurrà ad una destinazione prestabilita. Il suo corso dipende da un evento fortuito, e più precisamente, dall’azione degli individui. E anche il caso di sottolineare un punto essenziale riguardo alle rivoluzioni del 1989: tali cambiamenti radicali non erano, all’inizio, inevitabili. Tuttavia, quando si tratta di dare un senso al passato, compito essenziale dello storico, non si può sottrarsi alla tentazione di strutturare il contesto nel quale s’inserisce questo imprevedibile racconto. In quanto grandi mutamenti avevano creato le condizioni che spinsero poi le popolazioni alle scelte che fecero nel 1989. Dopo un breve escursus sugli avvenimenti di rilievo dell’anno 1989, questo saggio si concentrerà su due evoluzioni centrali e generali. Innanzitutto quella che conobbe la guerra fredda durante gli anni ’80, al punto da diventare irriconoscibile; fu dovuta in gran parte ai cambiamenti sopraggiunti in Unione Sovietica, ma allo stesso tempo ad altre evoluzioni della scena mondiale, che attenuarono considerevolmente l’ascendente della guerra fredda sulle relazioni internazionali. In secondo luogo, man mano che il contesto mondiale si trasformava, 244 l’Europa nel suo insieme cominciava a cambiare al punto di rendere la divisione dell’Europa stessa meno accettabile, anzi totalmente impossibile. Questo articolo terminerà con una messa in risalto della dimensione umana dell’anno 1989. Poiché, in definitiva, mentre la congiuntura(situazione) e le strutture possono offrire un quadro propizio all’azione, gli individui rimangono di fronte ad una scelta o ad un ventaglio di scelte. Il fatto più degno di nota del 1989 è forse che un così grande numero di persone, arrivate da orizzonti diversi, ed in così tante nazioni scelsero di prendere strade che modificarono radicalmente il corso della storia europea contemporanea. Le rivoluzioni del 1989 Le rivoluzioni iniziarono in due nazioni che avevano affermato una volontà di indipendenza già dai decenni precedenti: l’Ungheria e la Polonia. In Polonia, il movimento Solidarnosc guidato da Lech Walesa, che era stato dichiarato illegale al momento dell’applicazione della legge marziale circa dieci anni prima, intavolò dei negoziati con i membri del governo polacco all’inizio del mese di febbraio 1989. Solidarnosc fu nuovamente reso legale il 7 Aprile. Poco tempo dopo, la Chiesa cattolica romana si vide accordare una personalità giuridica, mentre al contrario la tradizionale sfilata del 1° maggio fu annullata a Varsavia. In Giugno, Solidarnosc incredibilmente ottenne il 99% dei seggi liberamente eletti, più precisamente il 35% di quelli della Camera bassa (il Sejm) e la totalità di quelli della camera alta. Il generale Wojciech Jaruzelski rimase presidente (ancora per un anno), ma il nuovo governo costituitosi ad agosto fu diretto dal giornalista e militante di Solidarnosc Tadeusz Mazowiecki. La Polonia fu così fiera di possedere il primo governo non comunista dell’Europa orientale dopo il colpo di stato organizzato in Cecoslovacchia nel 1948. Alla fine dell’anno, il Parlamento polacco aveva adottato una nuova Costituzione che metteva effettivamente termine alla storia del regime socialista in Polonia. Così come in Polonia, lo smantellamento dello Stato socialista si produsse rapidamente e relativamente con calma anche in Ungheria. Sebbene la contestazione popolare vi avesse giocato un ruolo importante, il partito comunista ungherese facilitò tale evoluzione legiferando lui stesso in favore della sua scomparsa. Alla fine del 1988ed inizio 1989, il Parlamento ungherese adotto nuove leggi che garantivano la libertà di associazione e riunione. Nel giugno 1989, il partito annunciò la prossima costituzione di una commissione d’inchiesta per far luce sulla repressione della sommossa del 1956 che fino ad allora era stata qualificata quale odioso atto contro-rivoluzionario. I Febbraio, fu ufficialmente reintrodotto il multipartitismo nei mesi che seguirono si susseguirono la denuncia del lungo regime di Janos Kadar, lo scioglimento dell’organizzazione dei giovani comunisti e le trattative con l’opposizione. Il 16 giugno 300.000 ungheresi assistettero ai funerali di Imre Nagy e di quattro altre vittime dell’era Kadar, oramai riabilitate ed inumate quali eroi nazionali. Un osservatore inglese rilevo tuttavia che tale avvenimento, lungi dal limitarsi alla cerimonia di sepoltura di Nagy, rappresentava in realtà “il funerale di Janos Kadar”. Quest’ultimo rese simbolicamente l’anima tre settimane più tardi (il 6 luglio1989). Il 23 ottobre, trentatre anni dopo la storica marcia degli studenti verso la statua di Stalin a Budapest, che aveva segnato la fine di una repressione sanguinaria, la Repubblica popolare di Ungheria divenne semplicemente la Repubblica di Ungheria. Gli ungheresi avevano anche contribuito a velocizzare la caduta del blocco sovietico. Il 3 agosto, il governo ungherese annunciò che avrebbe offerto asilo politico ai cittadini della Germania dell’Est. Ne arrivarono migliaia. Il 10 settembre, il governo di Budapest decise di aprire la sua frontiera con l’Austria ed il giorno seguente – l’11 settembre, questo giorno tra tanti – iniziò a smontare le recinzioni di filo spinato. Durante questa prima giornata di demolizione materiale della cortina di ferro, circa 125.00 tedeschi dell’est passarono in Austria. Tenendo conto delle innumerevoli defezioni dei suoi stessi cittadini, i giorni della Repubblica Democratica tedesca erano oramai contati. Agli inizi del mese di ottobre, il 245 quarantesimo anniversario della creazione della Repubblica democratica tedesca fu segnato dai “Gorbi Gorbi” che la folla scandì quando il capo del partito, Erich Honecker, che si trovava a fianco del dirigente sovietico Mikhaïl Gorbatchev, tentò di parlare a Berlino. Dieci giorni più tardi, Honecker era destituito; nello spazio di un mese, nel novembre 1989, il muro di Berlino, il simbolo più forte e pubblico della divisione della Germania e dell’Europa durante la guerra fredda, si aprì e finì per crollare. Un anno dopo, il 3 ottobre 1990, ciò che pareva una vota impensabile avvenne: la Germania non solo fu riunita, ma divenne membro dell’OTAN. In Cecoslovacchia, l’anno 1989 era iniziato in modo inquietante con l’arresto di 14 eminenti militanti della Carta 77. Ma quando nel mese di maggio questi ultimi, tra i quali figurava Vaclav Havel, furono liberati, apparve chiaramente che la repressione si stava attenuando. In agosto la polizia intervenne appena durante le manifestazioni a commemorazione dell’invasione del 1968 da parte delle forze del Patto di Varsavia. I negoziati tra il regime di Jakes ed i gruppi di opposizione (il Forum civico ceco ed il suo equivalente slovacco il Pubblico contro la violenza) iniziarono a novembre. Dopo numerosi rimpasti ministeriali durante il mese seguente, la Rivoluzione di velluto della Cecoslovacchia raggiunse infine il suo apogeo alla fine di dicembre, con l’elezione di Vaclav Havel alla presidenza del paese. Alexander Dubcek, capo dei socialisti riformatori oppressi nel 1968, divenne presidente dell’Assemblea federale. Importanti riforme costituzionali seguirono all’inizio del 1990, mentre la Cecoslovacchia divenne la repubblica federale ceca e slovacca (e si scisse poi in due stati). Qualche giorno prima dell’elezione di Havel, la Romania aveva conosciuto il punto culminante della sua propria rivoluzione del 1989, che fu ben più violenta. Il giorno di Natale, Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena furono giustiziati dopo una parodia di processo. Il dittatore, al potere da lungo tempo, aveva senza successo tentato di conservarlo e di reprimere l’opposizione crescente. Tale repressione in realtà non fece altro che scatenare una lotta tra le forze della Sicurezza di Ceausescu ed i partigiani del fronte di salvezza Nazionale. Le vittime furono nell’ordine delle centinaia e la natura del colpo di stato contro Ceausescu sollevò in seguito un certo numero di questioni. Ma la realtà evidente fu, qui come altrove, la scomparsa di una dittatura comunista e la riapparizione dei partiti politici tradizionali della Romania. Questo fu ugualmente vero per la Bulgaria, dove il partito comunista aveva obbligato il dirigente Todor Zhivkiv, al potere da tempo, alle dimissioni il 10 novembre, l’indomani della caduta del muro di Berlino. Malgrado l’assenza di una vera e propria rivoluzione nel 1989 (fu, in effetti, più una rivoluzione di palazzo), la Bulgaria organizzò le sue prime elezioni libere nel 1990, nel corso delle quali l’ormai Partito Socialista ottenne il 47% dei suffragi. Come in Romania, si preparavano dei cambiamenti, ma ad un ritmo più lento. Fortunatamente la Bulgaria non conobbe né violenze né esecuzioni comparabili con quelle della Romania. Le rivoluzioni in Europa centro-orientale influenzarono anche l’evoluzione dei Balcani. In Iugoslavia, lo scredito gettato sul comunismo contribuì senza dubbio molto all’ascesa del nazionalismo, delle tensioni etniche e delle violenze brutali, anche se il cambiamento che portò alla disintegrazione dell’antica federazione di Tito era iniziato prima della caduta del muro di Berlino. In Albania, paese isolato dalla maggior parte degli altri paesi del mondo, le manifestazioni pubbliche, ed infine le riforme, apparvero un po’più tardi. Ma anche qui un governo non comunista arrivò al potere nella primavera del 1992. Tutti questi avvenimenti – il crollo del comunismo in Europa orientale, l’unificazione della Germania e l’ulteriore disfacimento del Patto di Varsavia - sfociarono infine nella disintegrazione della stessa Unione sovietica. A lungo represso, il nazionalismo esplose sotto la forma di numerose dichiarazioni di indipendenza dai paesi baltici alla Georgia, l’Armenia e l’Azerbaidjan. In verità, la contestazione popolare alla dominazione sovietica si era propagata a partire dal 1988 in Estonia, Lituania e Lettonia. Tale movimento non terminò nel 1991 con la sola scomparsa del “blocco sovietico”: l’Unione Sovietica aveva anch’essa cessato di esistere. 246 Il 1989, come pure il processo collegato a tale anno, non fu niente di meno che una gigantesca rivoluzione, che passò le frontiere nazionali e sconvolse l’antico ordine attraverso un immenso spazio nel blocco continentale eurasiatico. Nel giro di un anno, i fondamenti della guerra fredda, che aveva costituito per più di quaranta anni il paradigma centrale del sistema internazionale, furono abbattuti. Il 1989 rappresenta dunque un sisma (terremoto), una mutazione sotto forma di cataclisma della recente storia internazionale. Quali ne sono le ragioni? Perché questi avvenimenti si produssero nel 1989? Perché il crollo del comunismo fu così rapido e non incontrò alcuna resistenza da parte dei detentori del potere? La Guerra Fredda. Le Grandi Linee La risposta a questa domanda sembra molto semplice: le grandi linee della situazione erano cambiate; negli anni ’80 la guerra fredda non era più un elemento cruciale delle relazioni internazionali.Contrariamente ai decenni precedenti la scissione tra l’est e l’ovest e tra il capitalismo e il comunismo non era più determinata da un rapporto di forza equilibrato. Per capire ciò, è necessario superare il conflitto propriamente detto tra le superpotenze. Tenuto conto dei numerosi cambiamenti sopraggiunti in questo periodo, sembrava sempre meno probabile che la guerra fredda restasse la principale scissione della politica internazionale. I cambiamenti più profondi erano particolarmente di ordine economico, come l’aumento degli scambi internazionali, la crescita economica dell’Asia orientale (soprattutto del Giappone e delle “tigri” economiche del sud-est asiatico) e la discesa dei prezzi delle materie prime (in modo particolare dl petrolio negli anni ’80). Questi cambiamenti avevano un denominatore comune: aumentavano le risorse finanziarie dei paesi capitalisti, limitando quelle dl blocco sovietico e dei suoi alleati del terzo mondo. Innovazioni tecnologiche notevoli, ad es. nel settore delle comunicazioni e dell’informatica, la cui quasi totalità era messa a punto in Occidente e solo in parte nell’Unione sovietica, aumentavano ancora questo divario. Tuttavia era difficile prevedere in quel momento gli effetti politici di questa evoluzione economica e tecnologica. Ironicamente, all'inizio degli anni 1980, numerosi osservatori giudicavano i nodi da sciogliere dall’Occidente senza dubbio più importanti di quelli ai quali era confrontato il blocco sovietico. Molti americani pensavano che il Giappone avrebbe superato rapidamente gli Stati Uniti sul piano della produttività e della gestione e temevano le conseguenze economiche a lungo termine che avrebbero causato la perdita del ruolo dominante del loro paese nell’economia mondiale. Così l’elezione di un repubblicano di destra, Ronald Reagan, alla presidenza nel 1980, rappresentava non solo la presa di coscienza dei giochi politici sulla scena internazionale – la fine della distensione, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la rivoluzione iraniana – ma ugualmente il sentimento generale di un declino del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, che esigeva una risposta più energica. La politica adottata da Reagan fu il riflesso di questo stato d’animo, con i suoi eccessi retorici (l’impero del male), la sua volontà d’intervenire contro i regimi rivoluzionari e il rafforzamento massiccio della potenza militare americana. Per contro, i dirigenti sovietici vollero credere all’inizio degli anni 1980 al mantenimento di una tendenza mondiale favorevole al socialismo. Dopo tutto, quest’ultimo aveva trionfato nel sud est dell’Asia e in diverse regioni dell’Africa all’inizio degli anni ’70. Ma alla morte di Breznev nel 1982 (forse prima), l’idea che la storia era più vicina all’Unione Sovietica e al socialismo svanisce. L’economia sovietica sembrava incapace di seguire quella dell’Occidente e l’aumento delle spese militari alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80 avevano provocato una carenza di beni di consumo. La guerra in Afghanistan prendeva una piega inquietante per i Sovietici e il costo degli aiuti accordati ai loro alleati del terzo mondo aumentava quando Reagan iniziò un’offensiva anti-rivoluzionaria (concentrata soprattutto sull’America Centrale, l’Afghanistan e l’Angola). La situazione del mondo si presentava sempre 247 più negativa per i segretari generali arcigni che erano succeduti a Breznev, Yuri Andropov (1982-84) e Costantino Tchernenko (1984-85). Ma gli anni 1980 non furono solo l’ascesa di un settore e il declino di un altro nella guerra fredda. Per molto tempo quest’ultima, così come il confronto russo-americano, fu in gran parte senza grande interesse. Bisogna ricordare che l’ascesa dell’islam o dell’islamismo a partire dalla fine degli anni ’70 rappresenta il segno principale del ritorno della dicotomia della guerra fredda, che non rappresentava più la scissione principale nell’ideologia mondiale. Basando la loro dottrina politica sul corano, criticando sia la democrazia liberale e il comunismo (i due Satana, secondo la qualifica che era riservata a loro), i gruppi islamici cominciarono ad opporsi ai regimi che consideravano i sudditi dell’occidente. La rivoluzione Iraniana del 1978/1979, nella quale i gruppi islamici contribuirono notevolmente a rovesciare la dittatura dello Scià sostenuta dagli Stati Uniti, incitò i giovani mussulmani a riunirsi in questi movimenti negli altri paesi, quando anche il loro messaggio politico e religioso era diverso da quello dell’Ayatollah Khomeyni. La guerra condotta dai sovietici in Afghanistan si rivelò un terreno fertile per i gruppi islamici radicali, i quali curarono i rifugiati e, malgrado i loro discorsi anti-occidentali, beneficiarono del sostegno degli Stati Uniti e dei regimi arabi conservatori per il fatto della loro importanza nelle lotta contro i sovietici ( fu in Afghanistan che Ben Laden, nato in Arabia Esaudita, si fece una reputazione di convinto combattente antisovietico). Mikhail Gorbatchev fu eletto segretario generale del partito comunista sovietico nel 1985, in un’epoca in cui il blocco sovietico conosceva una situazione economica disastrosa, gli Stati Uniti aumentavano i loro sforzi per classificare l’URSS come l’impero del male e combattere Mosca nel mondo e la dove i fondamenti ideologici della guerra fredda erano ancora forti, malgrado il discorso combattivo di Reagan. Gorbatchev conosceva l’importanza dei problemi, ma non aveva nessun progetto definito che potesse diventare operativo. Al di la di questo, G. cercò di allentare le tensioni con gli Stati-Uniti e l’Europa Occidentale, al fine di guadagnare tempo per riorganizzare l’economia sovietica. Le iniziative prese da G. portarono ad una serie di accordi aventi come obiettivo quello di limitare la corsa agli armamenti nucleari, anche oltre quello che era stato previsto durante la distensione. Questo atteggiamento portò l’amministrazione Reagan a ritenere che il comunismo sovietico si ritirava dalla scena internazionale. Pertanto Reagan non esitò a ridurre i rischi di conflitto nucleare dato che la storia, in definitiva, era dalla parte degli Stati-Uniti. Questo cambio di marcia non fu di grande aiuto per G. Nel 1986/1987, l’incidente nucleare di Chernobyl e la resistenza incontrata nell’ambito del suo stesso partito lo costrinsero a rendere più radicale la sua politica, nell’ambito della ricerca di una “perestroika” (ristrutturazione), accordando nel contempo una certa forma di libertà di espressione (glasnost-trasparenza). Alla fine del decennio, l’Unione Sovietica e la guerra fredda parvero entrambi impegnate in un cambiamento radicale e rapido. Pertanto, le rivoluzioni del 1989 si verificarono in un momento in cui la struttura fondamentale delle relazioni internazionali, attivata dalla fine degli anni 1940 e l’inizio degli anni 1950, cessò la sua funzione. Le nuove poste in gioco sulle quali si confrontavano negli anni 1980 le due superpotenze, ma soprattutto l’Unione Sovietica, andavano verso profondi cambiamenti nelle relazioni internazionali. Tuttavia ciò non fu sufficiente a spiegare il dramma del 1989 o le cause di avvenimenti accaduti nell’Europa centro–orientale. Un Continente che Cambia : L’Europa Degli Anni 1980 Nell’ambito delle grandi sfide del sistema internazionale della guerra fredda, un’evidente atmosfera di cambiamento coinvolse il continente europeo negli anni 1980. In effetti la divisione dell’Europa parve sempre più artificiale agli occhi degli europei e la sottomissione e la dipendenza da parte di un controllo esterno risultò sempre più facile da accettare. Il totalitarismo sotto tutte le sue forme cadde in un discredito generale in buona parte 248 dell’Europa durante gli anni 1970 e 1980. D’altronde all’inizio degli anni 1980 si cominciarono a cercare delle soluzioni economiche per i numerosi problemi di cui soffriva allora il continente “stagnante”. Questi cambiamenti e queste strategie avevano tuttavia un ruolo diverso dai due lati di quella che era ancora la cortina di ferro. L’Europa occidentale e il progetto europeo negli anni 1980 L’integrazione europea aumentò velocemente nell’Europa occidentale a partire dalla metà degli anni ’80. Si può affermare che questo movimento fu la conseguenza di due fasi evolutive importanti. Dapprima l’Europa occidentale aveva conosciuto negli anni ’70 una sua rivoluzione democratica. La Spagna, il Portogallo e la Grecia si erano infatti liberati dai loro regimi autoritari. La morte di Franco nel 1975 ,la caduta della dittatura portoghese un anno più tardi e la fine della giunta di colonnelli in Grecia quello stesso anno 1974, avevano aperto la via ad un allargamento verso sud della CEE. La Grecia fece il suo ingresso nella CEE nel 1981 e la Spagna e il Portogallo vi aderirono nel 1986. I nuovi Paesi divennero i 12. Pochi rivelarono che la Groenlandia lasciò la CEE in quello stesso momento. Questo ampliamento verso il sud fu sintomatico della seconda principale evoluzione dell’Europa occidentale: la ripresa del progetto europeo a metà degli anni 1980. Più precisamente, i negoziati dell’Atto Unico Europeo (AUE) entrarono in vigore nel 1987; questo prevedeva la costituzione di un mercato unico europeo pienamente integrato nel 1992. Come viene detto nel testo l’obiettivo dei firmatari era “realizzare uno spazio nel quale le persone, le merci e i capitali circolino liberamente in condizioni simili a quelle prevalenti all’interno di uno Stato membro”. Ma andava ancora più lontano. L’AUE comprendeva delle misure miranti a stimolare la cooperazione politica e a trasferire le competenze degli stati membri verso le istituzioni centrali europee. In breve, l’AUE fu il precursore del trattato di Maastricht del 1992 e l’antenato dell’UE. L’AUE diede il segnale di un cambiamento radicale in Europa occidentale alla fine degli anni 1980. Se l’inizio del decennio aveva visto l’invenzione del termine “eurosclérose” per indicare l’economie dell’ovest del continente, la sua disoccupazione a due cifre e la rete politicamente varia degli Stati nazione, la seconda metà del 1980 conobbe un miglioramento della situazione economica e un rafforzamento della cooperazione politica. Poco importa sapere se queste evoluzioni furono strettamente legate o no. Il fatto è che nel 1989 “l’euforia” aveva sostituito, anche solo per un momento, ”l’éurosclérose” e “l’éuroscepticisme”. L’Europa orientale I: il ristagno economico L’integrazione rafforzata dell’Europa occidentale e la sua ripresa economica contrastarono fortemente con lo stato delle economie del blocco sovietico. Di fatto, la vera “éurosclérose” fu precisamente quella dei paesi che parteciparono alle rivoluzioni del 1989. Negli anni ’80, l’Europa centrale e l’Unione sovietica si trovavano infatti in una situazione di ristagno economico cronico. Alcune cifre permettono di illustrare questo punto. Prendiamo in esame il tasso di crescita economica. Le cifre del blocco sovietico prima del 1989 non presentavano nessuna affidabilità, ma ne deriva la tendenza generale seguente. Negli anni 1950 e1960, i Paesi dell’Europa orientale conobbero una crescita il cui tasso (cioè il tasso di crescita del PIB per abitante) si pose in media tra il 5,5 e il 7,6% annuo. Questi tassi erano superiori a quelli dell’ovest e sembravano indicare che il sistema di economia pianificato manteneva le promesse: condizioni migliori di vita per tutti. La situazione si evolve negli anni ’70, quando la maggior parte dei paesi registra un PIB per abitante inferiore al 3%. Questo rallentamento aumenta negli anni ’80: la crescita non raggiunge l’1% nella maggior parte di paesi e talvolta risulta negativa 249 in certi altri paesi. Nel 1989, l’Ungheria rileva un tasso di crescita del –1%, mentre la Romania si mantiene sul livello negativo di –11%. D’altronde si deve notare che queste percentuali non tengono conto del ruolo del mercato nero, che rappresentava spesso la sola fonte di approvvigionamento di prodotti di base per numerosi cittadini. La forte inflazione degli anni ’80 si tradusse sul mercato nero con un aumento rapido del tipo di vita. Secondo le stime, gli stipendi diminuirono in pratica, nella prima metà degli anni ’80, del 17% in Polonia,del 25% in Yugoslavia e in proporzioni ancora più importanti in Romania. Come spiegare questa situazione? Globalmente le cifre citate presentano una crescita economica sofferente un modello di sviluppo economico che, dopo essere stato trasformato in sistema statale, presentava una rigidità che lo rendeva incapace di rinnovarsi. In altri termini i paesi dell’Europa Orientale ripresero alla fine della Seconda Guerra Mondiale un modello di sviluppo sovietico, che generò una certa forma di crescita economica quando la concezione staliniana di socialismo in un solo paese fu sostituita da quella di socialismo in un solo blocco. L’industrializzazione forzata e l’accento messo sulla creazione di un’industria pesante, che non aveva mai rappresentato una componente essenziale nelle economie dell’Europa Centro Orientale impiegavano una manodopera abbondante in nuovi impieghi; non è quindi affatto sorprendente che le stesse abbiano registrato tassi di crescita globali abbastanza elevati. Tuttavia le industrie di consumo non godettero si nessuna crescita significativa. Questi due fattori produssero da soli le condizioni per un ristagno economico e notevole scontento. Negli anni ’60 e ’70 era ancora possibile contenere i problemi dell’industrializzazione con diverse valvole di sicurezza. Il sistema conobbe qualche adattamento di fortuna e leggeri successi a breve termine grazie a una decentralizzazione economica limitata. In secondo luogo, le sovvenzioni sovietiche mantenevano le economie dei paesi dell’Est europeo, permettendo loro di importare fonti di energia e materie prime a basso prezzo, mentre esportavano verso l’URSS la loro produzione industriale che non sarebbe stata competitiva in nessun altro mercato. In terzo luogo, gli scambi internazionali cominciarono a svilupparsi leggermente con i paesi dell’Occidente negli anni ’70, spesso grazie ai capitali occidentali. Ma questo triplo rinforzo si disgregò negli anni ’80. Alcuni consideravano infatti la decentralizzazione come una protesta inquietante del sistema politico in vigore; le stesse autorità politiche rifiutarono qualunque rimaneggiamento all’interno di questo sistema. Il rimaneggiamento delle sovvenzioni versate dall’Unione Sovietica alle economie dei Paesi dell’Est in seguito alle crisi del petrolio degli anni ’70 fu un fattore senza dubbio determinante. I sovietici infatti avevano tratto vantaggi dall’aumento dei prezzi del petrolio vendendone più ad Ovest, ciò permetteva loro di incassare valute forti. Questo meccanismo durò fin che i prezzi restarono elevati: i benefici ottenuti permettevano di finanziare l’Europa orientale. La caduta brutale del prezzo del petrolio nel 1983/84 ridusse le riserve sovietiche di valuta forte. L’Unione Sovietica chiese allora all’Europa dell’Est di pagare le importazioni del petrolio al prezzo di mercato o simile; fu la fine delle sovvenzioni. Nell’ambito di un sistema di baratto sul quale si basava l’economia del blocco sovietico, ciò significava in pratica che i paesi dell’Europa dell’Est erano obbligati a fornire più merci in cambio della stessa quantità di petrolio. Un esempio spiega questa situazione: nel 1974 all’Ungheria bastava scambiare 800 autobus Ikarus per ottenere un milione di tonnellate di petrolio sovietico; questa cifra passò da 2300 bus nel 1981 poi a 4000 unità nel 1988. Si verificò così quello che si potrebbe chiamare una “inflazione del baratto”. Si deve notare che il ribasso del prezzo del petrolio ebbe ripercussioni esattamente inverse in Occidente: la fattura energetica diminuì, ciò favorì le industrie e le economie. Non ci si poteva augurare una situazione migliore per il funzionamento delle economie dell’Europa dell’Ovest e dell’Est sulla base di due sistemi totalmente distinti. 250 Inoltre siccome le riserve in valuta forte si riducevano nel blocco sovietico, gli europei occidentali, che avevano ritenuto che l’URSS avrebbe garantito in pratica il debito dei paesi dell’Europa dell’Est grazie agli scambi di petrolio in valuta forte, cessarono di fornire capitali a questi ultimi. Gli scambi Est-Ovest iniziarono ad affievolirsi. Il passivo in valuta forte dei paesi dell’Europa dell’Est aumentarono a dismisura nel corso degli anni ’70 e ’80, passando da 8,7 milioni di dollari nel 1970 circa 10 volte di più a metà degli anni ’80. Al momento delle rivoluzioni del 1989, numerosi paesi, fra i quali l’Ungheria la Polonia e la Bulgaria evidenziavano un debito estero totale superiore al valore annuale delle loro esportazioni. Così la cifra del debito estero della Polonia rappresentava il triplo delle sue esportazioni annuali. La morale di questa storia è che la decadenza del blocco sovietico negli anni ’80 fu un disastro per i regimi politici della regione. In definitiva il socialismo prometteva ricchezza per tutti, ora era evidente che non avrebbe più potuto garantirla. Come ha detto uno storico, “l’aumento del livello di vita, che aveva rappresentato un tempo un caratteristica così determinante della propaganda comunista, causava ormai imbarazzo, perché la pratica si contraddiceva all’ideologia, la teoria del pauperismo dei lavoratori formulata da Marx sembrava una descrizione più attinente il socialismo che il capitalismo”. Il contesto europeo si poteva così sintetizzare: mentre l’Europa Occidentale conosceva una ripresa del processo di integrazione e passava dal ristagno a una sorta di dinamismo, l’Europa Orientale subiva un processo inverso. Il livello di vita era cresciuto fino agli anni ’70, ma gli anni ’80 erano stato quelli del caos economico, dello sviluppo di un mercato nero molto inflazionista e dell’abbassamento del livello di vita. L’Europa Orientale II: la fine dell’isolamento e il desiderio di cambiamento. Parallelamente alle evoluzioni economiche e politiche che riguardavano l’Europa intera e riproponevano la questione della legittimità del sistema comunista, bisogna notare che il cambiamento del contesto europeo fu accompagnato da un aspetto supplementare: alla fine degli anni ’70 e durante gli anni ’80, la legittimità politica del regime del partito unico fu messa a dura prova. Due esempi illustrano questa situazione. In primo luogo, l’organizzazione della CSCE (Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa). Gli accordi di Helsinki del 1975 avevano introdotto nuove norme internazionali che, anche se non erano rispettate dalla totalità dei 35 governi che avevano partecipato alla stesura, rappresentavano un manifesto al quale gli oppositori del regime totalitario potevano far riferimento per rivendicare la libertà di espressione, la libertà di riunione e altre esigenze di questo tipo. L’esistenza del cosiddetto “Paniere III” fu forse ancora più importante, perché permetteva di ricordare , ad esempio, ai governi sovietici, polacchi o cechi che avevano firmato un patto che garantiva il rispetto di un certo numero di libertà fondamentali dell’individuo. Negli anni che seguirono la firma degli accordi di Helsinki, la bandiera dei diritti dell’uomo fu così innalzata dalla Carta 77 in Cecoslovacchia, il movimento solidarietà in Polonia e diversi gruppi di controllo nella Germania dell’Est, in Unione Sovietica e in altri paesi. Questi movimenti erano stati coordinati ma nacquero spontanei nel momento della decadenza morale del regime comunista, mentre si verificava il marasma economico. Di fatto, come ricorda il giornalista Martin Walker gli accordi di Helsinki divennero l’arma segreta dell’Occidente, una bomba a orologeria posta nel cuore dell’Impero Sovietico. In secondo luogo, l’accesso all’informazione e alla sua diffusione aumentarono. La firma degli accordi di Helsinki ha un significato, ma la capacità di diffusione è altro. Come dichiarò lo stesso Gorbatchev in un discorso del 1989 pronunciato davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, “oggigiorno è impossibile per una società restare in un vaso chiuso”. Questa situazione ebbe, ad esempio, come conseguenza pratica negli anni ’80, la scomparsa dell’oscuramento delle stazioni radio occidentali nella maggior parte dei paesi dell’Europa dell’Est. La BBC, Deutsche Welle, Voice of America e Radio Vaticano 251 incrementarono così in modo rilevante il numero dei loro ascoltatori. La televisione ebbe un ruolo ancora più importante sia direttamente sia attraverso le video-cassette. I Tedeschi dell’Est, i Cechi e gli Slovacchi riuscivano così a vedere la televisione della Germania Ovest, gli Estoni potevano seguire la televisione finlandese e gli Albanesi la televisione italiana, mentre numerosi Bulgari riuscivano a captare la trasmissioni turche. Numerose furono le ripercussioni di questa situazione. Offriva alle popolazioni dell’Europa Orientale un’altra fonte di informazione. Nessuna stazione radio né rete televisiva è esente dall’essere imparziale, ma sembra che i radiodiffusori occidentali offrissero almeno una fonte di informazione contraddittoria, senza dubbio più affidabile. Inoltre, nel 1989, la televisione e la radio ebbero un ruolo considerevole diffondendo informazioni sugli avvenimenti accaduti negli altri paesi dell’Europa Centrale e Orientale; la notizia delle proteste in Polonia e in Ungheria spinse senza dubbio i cittadini degli altri Stati a seguire questo esempio. Il fatto che gli europei dell’est fossero stati esposti a quello che si potrebbe chiamare “l’effetto di scintillamento” ha avuto un ruolo importante, addirittura determinante. Le trasmissioni diffuse dalle reti televisive occidentali mostravano uno stile di vita diverso, delle società ricche di beni di consumo, che nei paesi dell’Europa orientale si trovavano solo al mercato nero a prezzi elevati, sempre che fosse possibile procurarseli. In altri termini, l’Occidente esercitava una forma di attrazione sulle popolazioni dell’Est, ciò spiega, ad es.,come i Tedeschi dell’Est abbiano intensamente desiderato recarsi nella Germania occidentale. La diminuzione delle restrizioni negli spostamenti in seguito agli accordi di Helsinki rientra in questo contesto. Nel 1988, ad es., le restrizioni negli spostamenti erano notevolmente ridotte per i bulgari, gli ungheresi e i polacchi. Questa situazione non risultava essere la stessa in tutti i paesi: gli albanesi non potevano lasciare il territorio nazionale e i rumeni erano costretti a rigide limitazioni. Sta di fatto che i cittadini di un certo numero di paesi dell’Europa dell’Est non conoscevano l’Occidente solo attraverso le immagini televisive e le trasmissioni radiofoniche, ma potevano in numero sempre maggiore visitarlo personalmente. Analizzati a uno a uno, che significato avevano questi diversi elementi? Gli eventi del 1989 avevano un carattere inevitabile, conseguenza della recessione e del marasma economico, di numerosi altri problemi strutturali che nuocevano alla legittimità del sistema socialista e della possibilità che avevano le popolazioni dei paesi interessati di constatare e imparare che esistevano altri sistemi economici e politici dove regnava abbondanza di beni di consumo? Non esattamente. Si può piuttosto dire che tutte queste cause erano indubbiamente indispensabili allo scoppio delle rivoluzioni del 1989, ma che non erano sufficienti. Ci voleva anche un fattore complementare. 1989 : il fattore umano Di fatto, mentre la congiuntura generale condiziona uno sconvolgimento e ne fissa i parametri, questo è innanzi tutto causato dall’azione degli individui. Ma ultimo punto degno di nota è l’elemento umano che ha influenzato i fattori che hanno provocato gli avvenimenti del 1989. In primo luogo, M. Gorbatchev obbligato a lasciare l’Europa orientale abbandonata a se stessa. Quali potessero essere le sue motivazioni lui fece la scelta giusta. Non c’è dubbio che la sua fosse la condotta da perseguire. Gorbatchev passerà alla storia come una specie di “perfetto perdente”, ma in definitiva riconosce il diritto all’Europa orientale di scegliere il proprio destino, la fine della dottrina di Breznev e l’inutilità di sostenere dei dirigenti come Honecker, ha preparato il terreno alle rivoluzioni. Come gli studenti cinesi lo capirono a loro spese nell’estate 1989, c’era un altro modo di reagire davanti a questa situazione. Secondariamente, i riformatori dei partiti comunisti di molti paesi dell’Europa centrale e orientale non erano obbligati ad accettare l’inevitabilità di questo cambiamento. Non tutti i 252 dirigenti furono accondiscendenti, ad es., Ceausescu in Romania e Honecker in RDA. furono numerosi a prendere questa decisione, come il governo di Grosz in Ungheria contribuire a mettere fine a un sistema comunque concepito in maniera egoista ricompensarli. Scelsero invece disimpegnarsi nella via delle riforme, da loro gestite, ma finirono per sfuggire al loro controllo. Ma e a per che In terzo luogo, i principali detrattori del regime comunista, Walesa, Havel e gli altri non erano tenuti a mettere a repentaglio la loro esistenza. La loro esperienza personale complessiva, cioè la storia individuale e il passato del loro paese, avrebbe dovuto metterli in guardia contro questa contestazione. Decisero, al contrario, di rimettere in dubbio la struttura del potere conducendo una lotta che nel 1989 sembrava ancora troppo scorretta . In quarto luogo, le migliaia di persone che manifestarono contro il regime del partito unico chiedendo risarcimenti per le ingiustizie subite e reclamando l’instaurazione della democrazia, non erano costretti a mettere a repentaglio la loro vita e a rischiare personalmente. Di fatto, molti morirono durante i combattimenti. Persino nel 1989, gli spiriti sembrarono non perdere mai di vista che i movimenti a favore della democrazia non trionfavano ovunque; Gli studenti manifestanti in piazza Tienanmen a Pechino vissero quella esperienza nel giugno di quell’anno. Le rivoluzioni del 1989 furono in definitiva una conseguenza della ribellione dei numerosissimi cittadini dell’Europa centrale e orientale, stanchi e insoddisfatti delle carenze economiche e dell’oppressione politica, i quali avevano cominciato a pensare che l’Unione sovietica e Gorbatchev non avrebbero intrapreso nulla per fare fallire, come per il passato, le loro rivendicazioni politiche. In altri termini, sebbene importanti evoluzioni del sistema e cambiamenti strutturali avessero creato le condizioni per un cambiamento, furono finalmente le popolazioni che lo provocarono. Conclusione : esame retrospettivo dell’anno 1989 Nel 1992, alcuni anni dopo le rivoluzioni del 1989 e un anno dopo lo scioglimento dell’Unione sovietica, lo storico Walter Laquer ha formulato due osservazioni sul periodo del dopoguerra in Europa (centrale e orientale). Egli sottolinea, innanzi tutto, che “la storia dell’Europa del dopoguerra rassomiglia a un film hollywoodiano un po’ fuori moda, animato da ogni tipo di tensione e di conflitto, ma che si conclude con un epilogo felice e sorprendente”, rileva un certo scetticismo al riguardo di quello che accadrà dopo questo “felice epilogo”, che all’epoca era molto recente. “Trattandosi dell’Unione sovietica e dell’Europa orientale, è facile elencare i sistemi politici, sociali e economici che hanno fallito. Ma è impossibile attualmente dire che cosa accadrà loro”. Di fatto, contrariamente a un film hollywoodiano, l’anno 1989 non segnò la fine della storia. Ne sappiamo di più oggi, quindici anni dopo queste rivoluzioni? Sappiamo che è succeduto al totalitarismo della guerra fredda? Abbiamo un’idea di ciò che accadrà a questo paese dominato per tanto tempo da un’ideologia, un sistema politico e una pressione militare imposte dall’estero? Si e no. Sappiamo certamente che la fine della guerra fredda e lo scioglimento dell’Unione sovietica e le rivoluzioni del 1989 hanno avuto un ruolo notevole nella formazione della mondializzazione attuale e hanno reso ogni ritorno alla bipolarizzazione precedente praticamente impossibile. Ma noi ignoriamo così come Laquer nel 1992 verso quale destino si incammina il mondo e quale avvenimento drammatico del tipo 11 settembre 2001 potrebbe orientare la storia verso una nuova direzione, ancora sconosciuta. 253 Tuttavia sappiamo che gli avvenimenti del 1989 ebbero considerevoli ripercussioni a livello regionale. Così, il 1989 ha permesso il 2004 e forse il 1995, cioè la prima apertura verso i paesi neutri che erano l’Austria, la Finlandia e la Svezia. L’apertura verso l’integrazione europea è senza dubbio una delle principali conseguenze del 1989. Questo permetterà di arrivare a un’unione più stretta tra questi paesi? E’ un altro quesito. Forse potremo avere la risposta tra 15 anni. Inoltre gli abitanti dei paesi interessati dagli avvenimenti del 1989 hanno conosciuto una radicale trasformazione della loro esistenza. Questi cambiamenti sono stati globalmente positivi. Quali che siano i problemi attuali e la loro gravità, certamente appaiono insignificanti rispetto a quelli precedenti il 1989, dove regnavano la dittatura totalitaria, la polizia segreta, una gestione economica carente e la recessione. Per concludere il 1989 appare come un momento di cambiamento storico radicale, di sconvolgimento imprevedibile dalle conseguenze enormi, che fu condizionato da fattori strutturali ma scatenato dall’azione degli individui. Questa evoluzione fu pienamente positiva? No, beninteso. Era impossibile cancellare semplicemente l’impronta lasciata da due generazioni di regime comunista precedute da conflitti devastatori. La memoria storica dei cittadini avrebbe potuto tranquillamente condurre a richieste di risarcimento perfettamente giustificate, ciò che a volte accadde. Non ci si poteva tuttavia aspettare che la transizione da un modello economico a un altro avvenisse senza traumi. Di fatto le economie del vecchio blocco sovietico crollarono negli anni immediatamente successivi il 1989. L’Ungheria ad es., registrò una crescita positiva solo nel 1994. Eppure il 1° maggio 2004, numerosi paesi del vecchio blocco sovietico, l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca, così come tre Stati che facevano parte dell’Unione sovietica, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, divennero membri dell’Unione europea. Se questa idea fosse stata proposta ad un qualunque ben informato osservatore del 1989, è probabile che costui avrebbe provato disprezzo o divertimento. Concludendo ,il 1989 fu una sorpresa, uno choc e una serie di avvenimenti regionali che modificarono il corso della storia europea e,in definitiva, mondiale. Bisogna sottolineare che il 1989 fu molto più di questo. Poco importa, tutto sommato, che queste rivoluzioni non siano state previste da nessuno, se si pensa a ciò che ci dicono sui fattori imponderabili della storia e il ruolo attivo degli individui, che quello dei semplici osservatori, nello svolgimento degli avvenimenti. Alla fine, l’importanza delle rivoluzioni del 1989 ci ricordano quello che scriveva in altri tempi Gorge Kennan, probabilmente il principale artefice di quella dottrina della politica estera americana che preannunciava la fine dell’Unione sovietica e del comunismo negli anni 1940: “Non esiste situazione critica in cui può trovarsi un uomo che non possa essere attenuata dalla sua audacia, se lo stesso è attento nel coltivarla. La posta in gioco consiste nell’esaminare le possibili soluzioni, poi dare prova di coraggio e di determinazione necessari per passare all’azione”. Nel 1989 furono moltissimi quelli che accettarono questa sfida. Ecco un momento storico che merita di essere ricordato. 254 34. 1989: la fine della guerra fredda ed il crollo dell’Unione Sovietica Alexei Filitov Riflettendo sul “ crollo dell’Unione sovietica”, sono giunto alla conclusione che sarebbe convenuto ampliare l’argomento in modo da presentare una sintesi equilibrata delle variabili sia interne sia esterne al processo che è culminato con questo avvenimento e che è stato trattato in modo molto diverso da differenti gruppi sia nel mio paese sia all’estero. Così ho deciso la nuova versione del titolo della mia esposizione. Quest’ultima verterà sui seguenti punti: - la correlazione tra la fine della guerra fredda ed il crollo del regime e dello Stato sovietico; i meccanismi oggettivi e soggettivi che sottendono questi due fenomeni; le alternative possibili e le “possibilità mancate”. Inizierò con una citazione tratta dall’estratto di un articolo pubblicato da un celebre storico tedesco su una rivista: “Dieci anni dopo la fine della guerra fredda, il bisogno di riesaminare questo conflitto, che iniziò con l’affermazione delle superpotenze all’indomani della seconda guerra mondiale e terminò con il crollo dell’Unione sovietica, si rende sempre più necessario.”(Loth, 2003, p.157) La formulazione del problema non dà adito a nessuna obiezione, ma la stesura scelta dallo storico della rivista per questa frase introduttiva può generare confusione. In effetti, sembra lasciar intendere da una parte che la guerra fredda sia continuata due anni dopo la caduta del muro di Berlino ed il summit di Malta (questi due avvenimenti, risalenti ai mesi di novembre e dicembre 1989, sono generalmente considerati come quelli che ne segnano la fine), e dall’altra che l’Unione sovietica abbia cessato di esistere due anni prima che la bandiera rossa, che sventolava in cima alla torre del Cremlino, fosse sostituita dalla bandiera tricolore russa. Numerosi sono coloro (ivi compreso questo autore) che contesterebbero le due conclusioni citate. Questa osservazione vale altrettanto per la tacita interpretazione del rapporto causa effetto: sembra più ragionevole (in ogni caso è questa la tesi che io difendo) supporre che il processo di “estinzione” della guerra fredda abbia condotto al crollo dei sistemi di tipo sovietico in Europa, poi infine a quello dell’Unione Sovietica stessa, e non il contrario. Questa confusione può spiegarsi in buona parte con la semantica. Le nozioni di “conflitto mondiale”, di “competizione Oriente-Occidente” e di “guerra fredda” sono troppo spesso utilizzate in modo intercambiabile, perfino quando designano realtà differenti. L’antagonismo planetario dei due sistemi socio-politici, “Oriente” contro “Occidente”, “socialismo” contro “capitalismo”, “totalitarismo” contro “mondo libero”, ecc. - questa enumerazione potrebbe essere continuata a volontà - risale almeno al 1917 (certi autori lo giudicano di gran lunga anteriore e ne fanno risalire l’origine al tempo della Rivoluzione francese) e rappresentò un vero e proprio gioco “a somma zero”: uno dei due campi doveva prevalere sull’altro. La tesi della “convergenza”, formulata per la prima volta nel 1944 dal filosofo, sociologo ed emigrato russo Pitirim Sorokin, apparve un pio augurio, generato da uno spirito d’alleanza anti-hitleriano, piuttosto che la base di un’analisi approfondita della situazione mondiale. Il fenomeno della guerra fredda è abbastanza diverso, sia nella durata sia nella forma. Si può legittimamente considerarlo come un’espressione specifica di un conflitto “Oriente Occidente” (benché le relazioni, per esempio, tra l’Unione sovietica e la Iugoslavia fra il 1948 ed il 1953, tra l’URSS e la Cina alla fine degli anni ‘60 e negli anni ’70 oppure ancora fra la Cina ed il Vietnam alla fine degli anni ’70 possano, anch’esse, mettersi facilmente in questa categoria). Se si pensa che sia caratterizzato dalla bipolarità generata dalle due “superpotenze”, 255 il periodo della guerra fredda può estendersi dal 1945 (le conferenze di Yalta e Potsdam) fino alla metà degli anni ’60 (quando De Gaulle in Occidente e Mao in Oriente sfidarono i leaders dei rispettivi campi). Se viene considerato come una corsa sfrenata agli armamenti, soprattutto nel campo delle armi d’alta tecnologia ABC (bombe atomiche, missili, guerra chimica e batteriologica), si possono far risalire gli inizi intorno al 1948 (fino a questa data, la smobilitazione fu estremamente rapida da entrambe le parti, i bilanci militari crollarono, gli effettivi rimasero ridotti e la riserva di bombe atomiche degli Stati Uniti, i quali avevano allora il monopolio di questa “arma vittoriosa”, rimase stazionaria) mentre le ultime manifestazioni potrebbero riferirsi al periodo fra il 1963 (trattato d’interdizione degli esperimenti nucleari) ed il 1968 (trattato di non-proliferazione), oppure al 1972, al 1979 (SALT-1,2) oppure ancora al 1987 (trattato INF). Tutti gli accordi per limitare la corsa agli armamenti furono il risultato di concessioni reciproche e nessuno di essi autorizzava una delle due superpotenze a cantar vittoria. D’altra parte, la lista dei pretendenti alla corona d’alloro dei vincitori è sufficientemente lunga: la Francia e la Cina, così come l’insieme dei vecchi paesi satelliti dei due blocchi, ma soprattutto la Finlandia e la Iugoslavia, che giunsero fin dall’inizio a disimpegnarsi da questo confronto. E’ tuttavia possibile chiedersi se la loro riuscita sia più legata all’esistenza della guerra fredda o alla sua fine. Il caso della Iugoslavia pende piuttosto a favore della prima spiegazione. Qualunque sia la risposta, trattandosi di fazioni avverse, gli avvenimenti storici del 1989 si caratterizzano prima di tutto per il loro rispettivo ritiro dal campo di battaglia: una specie di “pace senza vittoria”, per riprendere l’espressione utilizzata dal presidente Wilson nel suo discorso al Senato del 22 gennaio 1917 (Jonas, 1984, p.121). Ma torniamo all’argomento che ci interessa. Se il campo dell’Unione sovietica non può essere considerato come il perdente della guerra fredda (per lo meno non più sconfitto degli Stati Uniti), come si spiegano i loro differenti destini durante il periodo posteriore a quest’ultima? L’Unione sovietica si è scissa, la rilevanza internazionale che occupava come Stato, passando alla Federazione di Russia, è risultata di importanza inferiore (è il minimo che si possa dire), mentre il suo antico avversario, gli Stati Uniti, ha conservato e, si può dire, confermato il suo status di “superpotenza”. Ma questo risultato non era garantito in anticipo quando la guerra fredda finì, cioè nel 1989. Alcuni Sovietici avevano immaginato che i “dividendi della pace” avrebbero stimolato, dopo un’insensata corsa agli armamenti, l’economia sovietica che, una volta sollevata dalle spese militari improduttive, non avrebbe mancato di dimostrare i vantaggi insiti nella natura corrotta del sistema capitalista. Ho detto “avevano immaginato”, ma sarebbe più giusto dire “avevano sperato”. Poiché si trattava piuttosto, in questo caso come in quello dell’idea di convergenza, di un pio desiderio. A dire il vero, questa percezione della situazione era anche la mia, a quell’epoca, proprio mentre, avendo avuto l’occasione di recarmi in Occidente, contrariamente alla maggior parte dei miei compatrioti, avrei dovuto mostrarmi meno incline a sogni impregnati di tanta ingenuità. Ricordiamoci, per consolarci, che alcuni specialisti occidentali molto perspicaci condividevano delle illusioni in merito alle prospettive di riforma del sistema di tipo sovietico. Citerei a questo proposito l’allocuzione pronunciata da Arthur Schlesinger Jr in occasione del seminario sovietico-americano del 27 giugno 1990 sulle origini della guerra fredda: “Il comunismo, nella forma praticata nell’Unione Sovietica ed imposta nell’Europa orientale, cioè un regime assolutista fondato sulla dittatura di un credo infallibile, di un partito infallibile e di un dirigente infallibile, rappresenta molto semplicemente e chiaramente un disastro economico, politico e morale. Il dibattito politico fra l’Est e l’Ovest è stato vinto dalla democrazia. L’economia di mercato ha vinto sul piano economico. L’avvenire riserva ancora delle difficoltà, ma il dibattito essenziale è chiuso. Come spiegare il trionfo della democrazia? Dipende dalla maggiore flessibilità di un sistema politico ed economico libero, dalla sua migliore capacità di adattarsi alle trasformazioni 256 provocate dall’interminabile rivoluzione delle scienze e delle tecnologie. Il comunismo, preservato da qualsiasi dibattito, da qualsiasi divergenza e da qualsiasi ironia, fossilizzato in un’ideologia rigida, statica e moralizzatrice, non ha saputo adattarsi al cambiamento e questo fallimento ha comportato un risentimento, una resistenza e, infine, una rivolta. Il resto del mondo augura al comunismo di riuscire a liberarsi dalle proprie costrizioni. Se l’insieme delle nazioni ricava degli insegnamenti dalla guerra fredda, potremo forse godere in anticipo di un periodo d’armonia senza precedenti, per lo meno in Europa.” Ancora oggi, lo stile e le caratteristiche interpretative globali di questo capolavoro sono impressionanti. L’accento posto sullo scacco ideologico del regime sovietico, come pure l’accenno troppo breve dei fenomeni geopolitici ed economici, tradiscono tuttavia la stessa presa di posizione ottimista: il principio d’infallibilità era obsoleto, “il dibattito, la divergenza e l’ironia” erano di moda ed il successo del “comunismo” era assicurato se fosse riuscito a “liberarsi dalle proprie costrizioni”. In un articolo pubblicato, dopo la disintegrazione completa del sistema sovietico e dell’Unione sovietica stessa, in un numero speciale della rivista Diplomatic History, consacrata alla fine della guerra fredda, lo specialista americano omise ben inteso di formulare gli auguri per il successo del “comunismo” e di annunciare un “periodo d’armonia” (Schlesinger, 1992, pp.49,53). Il mio personale contributo, in quello stesso numero di Diplomatic History, testimonia al contrario le grandi speranze che all’epoca nutrivo ancora. Come mette in evidenza, molto a proposito, il direttore della pubblicazione della collezione di saggi pubblicata tempo fa in Diplomatic History, “per Filitov, il conflitto ha in realtà rallentato l’evoluzione storica verso la democrazia politica e l’economia di mercato, sia in Unione sovietica sia altrove. E’ giusto affermare che Filitov, ed in una certa qual misura LaFeber, considerano che la conclusione della guerra fredda segni un ritorno alla storia e non la fine di quest’ultima. Dopo aver ormai relegato in secondo piano questo grande conflitto, i Russi e le altre nazioni potranno riprendere il loro cammino verso le libertà politiche ed economiche che la guerra fredda aveva interrotto.” (Hogan, 1992, p.4) In realtà, all’epoca non avevo esitato ad utilizzare delle formule che oggi reputo inadeguate per la redazione di quell’articolo. La tesi che vi proponevo affermava che senza la guerra fredda “il trionfo dell’economia di mercato e della democrazia sarebbe avvenuto molto prima e che il suo costo sarebbe senz’altro stato inferiore” (Filitov, 1992, p.56). Ci penserei senza dubbio due volte oggi alla scelta della parola “trionfo” per descrivere la situazione del mondo del dopo guerra fredda, in particolare poiché si tratta del mio paese, anche se il solo accenno al “costo” delle riforme non era veramente nell’aria all’epoca della redazione di questo articolo, nel 1991. Le raccomandazioni pratiche che formulavo all’indirizzo delle repubbliche sovietiche (che esistevano ancora in quel momento), consigliando loro di approfittare dell’esperienza della NATO per creare la loro nuova struttura difensiva, allora suonavano perfino come parole vuote ed utopistiche. Tuttavia anche oggi non rinnegherò nel mio bilancio della guerra fredda di aver tenuto poco in considerazione, contrariamente a Schlesinger, il fattore degli errori d’interpretazione per spiegare le cause e lo svolgimento di questo conflitto. La mia opinione concordava con quella di Schlesinger quando mettevamo l’accento sulle basi e le conseguenze istituzionali della guerra fredda. Non posso resistere un’altra volta alla tentazione di citare lungamente il suo articolo: “Negli anni ’50, a Washington, il dipartimento di Stato, il dipartimento della Difesa, la Central Intelligence Agency (CIA), il Federal Bureau of Investigation (FBI) ed il Consiglio nazionale di sicurezza concepirono la teoria dell’espansionismo militare dell’Unione sovietica come loro riserva di caccia. La guerra fredda conferirà a questi servizi ed ai loro responsabili potere, soldi, prestigio ed influenza pubblica. Secondo un 257 effetto proprio di qualsiasi burocrazia, ricoprirono una parte sempre più importante nel conflitto. Al di fuori del governo, i fabbricanti d’armi, gli ambienti politici, gli insegnanti, i pubblicitari, i personaggi pontificanti e i demagoghi consacrarono le loro carriere e fortune alla guerra fredda. Col tempo, i servizi nemici incaricati della guerra fredda giunsero ad una specie di tacita collusione oltre la cortina di ferro. La più gran truffa della guerra fredda fu senza dubbio la commedia che recitarono regolarmente i generali e gli ammiragli, annunciando la superiorità del campo avverso per ottenere l’aumento dei propri budget. Come fece notare nella primavera del 1963 il presidente John F. Kennedy a Norman Cousins, capo redattore del Saturday Review, “i puri e duri dell’Unione sovietica e degli Stati Uniti si nutrono gli uni degli altri”. Sfortunatamente, le istituzioni non tolgono le tende né si eclissano in modo discreto. Le idee cristallizzate nelle burocrazie resistono ai cambiamenti. Una volta terminata la guerra fredda, ogni avversario si deve confrontare con il problema dello smantellamento di servizi solidamente stabiliti, generati e rinforzati da circa mezzo secolo di concorrenza scambievolmente proficua. Che si pensi semplicemente, a questo proposito, alle forze che presero parte alla cospirazione organizzata nell’agosto 1991 contro Gorbatchev.” (Schlesinger, op. cit., p. 49) Le mie stesse osservazioni, espresse in uno spirito polemico contro le interpretazioni che volevano fare della guerra fredda una lotta contro lo stalinismo, erano meno incisive (per non dire in un linguaggio conciso), ma aderivano globalmente allo stesso spirito: “La guerra fredda servì unicamente a rinforzare le strutture staliniste nel campo sovietico ed iniziò ugualmente, col tempo, a minare le fondamenta della società americana nel dominio dell’economia di mercato e della democrazia… Si può affermare che coloro che, in Occidente, parteciparono alla guerra fredda, non furono così desiderosi di “vittoria” o di “superiorità” quanto di mantenere un “nemico” costante, che servisse loro per uno scopo specifico. La guerra fredda in entrambi i campi tese a scalzare la democrazia ed, in generale, il buon senso e la razionalità in materia di politica” (Filitov, 1992, pp. 56,57). Alcuni critici potrebbero rimproverare ai due autori – l’Americano ed il Russo (a quell’epoca il Sovietico) – il loro tipo d’approccio “equidistante” dai principali avversari della guerra fredda. A dir la verità, mi ero sforzato di mettere in luce alcune distinzioni, per spiegare “il successo dell’Occidente ed il fallimento dell’Est” (ibid, p.58). Ripensandoci, oggi mi azzarderei a generalizzare di più la situazione, spinto in questo da un motto di spirito formulato una volta in risposta alla domanda a proposito se l’URSS possedesse il proprio complesso militar industriale (CMI): il verbo “possedere” è improprio, poiché l’Unione sovietica è un complesso militar industriale. Questo punto di vista può apparire leggermente esagerato, ma ha il merito di dare una spiegazione a numerosi interrogativi. Spiega in primo luogo perché e come l’Unione sovietica, nonostante la disparità delle condizioni di partenza ed una relativa penuria di risorse, abbia potuto realizzare e conservare una parità strategica con gli Stati Uniti e risparmiare così al mondo una terza guerra mondiale che, in assenza di una forza di dissuasione vicendevole, avrebbe potuto facilmente essere scatenata sotto l’apparenza di un “intervento umanitario” (per utilizzare la terminologia moderna). In secondo luogo spiega il carattere intrinsecamente difensivo e reattivo dell’armamento e della politica straniera sovietici: il CMI sovietico non aveva alcun bisogno di una vittoria riportata sul “nemico” capitalista, gli occorreva unicamente che questo nemico esistesse, per giustificare e legittimare la propria esistenza. 258 In terzo luogo spiega l’enormità delle difficoltà incontrate dagli Stati della vecchia Unione sovietica nel loro passaggio da un modello di “mobilitazione” della società verso un tipo di società “normale”. Non si trattava di una questione di un nuovo spiegamento di risorse o “di un’assegnazione” di queste ultime, nel senso generalmente attribuito a questo termine. Mi viene in mente il commento formulato, se non vado errato, dai mass-media francesi riguardo alla catastrofe di Tchernobyl: “I Sovietici producono energia allo stesso modo in cui fanno la guerra, senza tener conto dei costi e dei rischi”. Il problema è che la popolazione sovietica non conosceva nessun altro modo, non solo di produrre, ma di vivere in generale. Per di più, il “modello di mobilitazione” sembrava loro giustificato e legittimato dalla loro storia, d’altronde non senza ragione. Mi asterrò qui dal citare un certo numero di fatti ben conosciuti: l’intervento dopo la rivoluzione d’ottobre, l’invasione hitleriana, la “diplomazia nucleare” degli Stati Uniti, ecc. Tuttavia questa generalizzazione non spiega la ragione per cui i dirigenti sovietici consentirono a mettere fine alla guerra fredda e, senza dubbio, presero perfino l’iniziativa di questo processo. Erano forse ciechi al punto di ignorarne le conseguenze evidenti? La scomparsa “dell’immagine del nemico” avrebbe privato d’ogni legittimità l’esistenza del CMI, il regime che si basava su questo e, in definitiva, la loro situazione personale di potere. Diverse ragioni geopolitiche, militari, economiche, sociali e, ben inteso, personali sono state avanzate per spiegare questo fenomeno. Formulerei alcune brevi osservazioni riguardo ad un certo numero fra quelle. Il “fattore cinese” è solitamente anteposto a molte ragioni geopolitiche: i Sovietici, di fronte ad una minaccia venuta dall’Est, si sarebbero inevitabilmente riavvicinati all’Occidente. E’ esattamente questo punto di vista che indusse il cancelliere Konrad Adenauer a credere a delle concessioni sovietiche sulla questione tedesca e ad un’eventuale riunificazione. Possiamo soltanto valutare gli elementi che diedero luogo a questa convinzione, ma è difficile considerarla fondata. L’esacerbarsi del conflitto relativo alle frontiere sino-sovietiche negli anni 1968-69 non sarebbe certamente stato sottovalutato nella descrizione della politica della distensione; non modificò tuttavia le caratteristiche essenziali della politica estera sovietica e meno ancora quelle del regime sovietico all’interno stesso del paese. Quando si produsse questo cambiamento, le relazioni con la Cina erano in realtà in via di miglioramento. Tuttavia, anche se si considera certa l’ostilità fondamentale tra questi due giganti comunisti, si può immaginare lo scenario spaventoso che si sarebbe presentato con una guerra fredda di logoramento (vedi a volte “calda”) “tripolare”, come la descrisse George Orwell in 1984, con questa prospettiva assennatamente riassunta in una battuta sovietica degli anni ’60: gli ottimisti imparano l’inglese, i pessimisti il russo ed i realisti il cinese. L’idea che i Sovietici avrebbero gettato la spugna a causa del rafforzamento della potenza militare americana sotto la presidenza di Reagan è troppo soggetta ad errore per essere presa sul serio. L’industria della difesa funzionava nell’insieme piuttosto bene in Unione sovietica ed era in grado di fare concorrenza con le stesse industrie dei paesi occidentali su un piano d’uguaglianza. E’ certamente possibile stabilire la diagnosi di una relativa frattura in materia d’innovazione di alta tecnologia, ma questo punto debole non presentava nessun carattere disastroso e i Sovietici nello stesso tempo rimediarono rapidamente e lo compensarono in parte, da un lato, con la produzione massiccia di armi più tradizionali e, d’altro lato, dal successo delle loro attività d’informazione. Sembra più pertinente di ricordare il ritardo subito dal consumo nell’economia sovietica. Le costrizioni e le difficoltà subite conseguentemente dalla gente “ordinaria” non preoccuparono tuttavia veramente la classe dirigente, poiché esse non provocarono nessuna contestazione massiccia. Un esperto competente spiega questa attitudine attraverso quattro ragioni: 259 “quelli che facevano parte di questa massa male informata si sentivano appagati in quanto” (1) il loro impiego era garantito; (2) il loro affitto era moderato; (3) avevano i mezzi per acquistare dei prodotti di base (anche se questi sembravano, per una ragione o per l’altra, sempre più difficili da trovare); (4) vivevano in un’epoca in cui nonostante innumerevoli difficoltà, il livello di vita non era “così deprecabile”, paragonato ai decenni precedenti:”( Condor, 2003, p.69) Questa spiegazione manca un po’ di consistenza. Se era “sempre più” difficile procurarsi dei prodotti di base, come si sarebbe potuto parlare di un paragone positivo con i “decenni precedenti”? E’ possibile che la mia memoria sia labile e che la mia esperienza di cittadino di una metropoli non sia giudicata rappresentativa, ma tutte e due mi portano a credere che il livello di vita continuasse a crescere anche se in maniera più moderata, e che la vera crisi si produsse in seguito con la perestroika . Questo stesso esperto conferma questa affermazione quando dichiara: “ è da notare che nessuno sciopero sia stato organizzato per esigere un reale miglioramento del livello di vita fino alla fine dell’era Gorbatchev ; si continuava al contrario a protestate contro il deterioramento delle condizioni di vita “normali”, che esistevano all’epoca dell’antico contratto, la cui esecuzione lasciava a desiderare.” (ibid, pp. 61 –62) Secondo lui, il cambiamento essenziale non venne dalla “massa male informata”, neppure dai “colti scettici”, ma dalle “élites privilegiate che servivano il regime (e) erano in grado di capire in che cosa consisteva l’esistenza al di fuori dell’URSS grazie al loro accesso ai media stranieri, ai rapporti a diffusione limitata dell’agenzia di stampa TASS, così come alle opere e alle riviste generalmente proibite” (ibid, pp.67-69). I fattori decisivi furono “l’arrivo al potere di Gorbatchev e la sua politica di glasnost (che preconizzava una più grande trasparenza dei media)”: “la società sovietica annegò sotto un flusso di informazioni che riguardavano la storia e l’attualità del suo paese, ma anche il mondo esterno che aveva la funzione di specchio riflettente la povertà e l’abbattimento dello “stile di vita sovietico”. I cittadini sovietici si resero conto immediatamente che, per il mondo “esteriore” l’esistenza quotidiana in URSS appariva implacabilmente lugubre e “grezza”. Il desiderio espresso dai dirigenti sovietici di vedere l’Unione Sovietica raggiungere i ranghi dei “paesi civilizzati”, cosa che implicava ben inteso il fatto che non ne facesse ancora parte, non migliorò di molto la situazione (ibid, p.69) Questa immagine è essenzialmente esatta, ma spiega abbastanza poco il perché le “élites privilegiate” presero la decisone di rinunciare ai loro privilegi (per lo meno per quanto riguarda il monopolio dell’informazione e di formulare una aspettativa che equivalesse ad un rifiuto dei settanta anni precedenti di “civiltà” sovietica. Per capire ciò che spinse queste “élites privilegiate” (o almeno una parte importante di loro) a schierarsi accanto agli “scettici” (o veri ed eventuali “dissidenti”) ed a smantellare la “cortina di ferro”, scelta di cui le conseguenze furono fatali al vecchio regime, conviene ritornare alla nozione di CMI sovietico e alle sue proprie caratteristiche . Contrariamente ai loro omologhi dell’Ovest, i membri del CMI sovietico (così come l’élite dirigente generale, solitamente nominata la nomenklatura) non potevano approfittare dei loro privilegi se non in modo estremamente limitato. Uno scrittore russo (le cui prese di posizione erano conservatrici e filo-staliniste) paragonò giustamente il posto che essi occupavano nella società sovietica a quello di Ostap Bender, eroe di un romanzo satirico scritto 260 da Ilya Il’f e Evgeniy Petrov, che accumulò un milione approfittando della atmosfera di corruzione che regnava all’epoca della NEP per scoprire poi che in realtà gli era impossibile spenderlo nel contesto del “socialismo” nascente (Mukhin, 2003, p.709) questo “grande truffatore” decise allora di convertire la sua fortuna in oro e gioielli e di passare la frontiera, ma fu depredato da un doganiere rumeno, cacciato dal suo paese, decise dopo tutto di iniziare una carriera di “upravdom” (responsabile di una infrastruttura edilizia, un posto generalmente legato ai traffici illeciti se non addirittura alla piccola delinquenza nell’economia statale). Il parallelo è evidente, quando anche i successori di Ostap Bender fecero fortuna legalmente e vollero convertire il loro denaro in dollari, e anche viaggiare all’estero. Ma ciò non era possibile per loro perché dipendevano dall’umore e dai capricci dei loro superiori gerarchici nel partito di Stato e i diritti dei “detentori segreti” (cioè la maggior parte dei membri del CMI) erano ancora più limitati. Questa situazione generò un malcontento e una frustrazione. Permettetemi di fare un esempio personale per illustrare questa affermazione. Nell’autunno 1983, una delegazione del Consiglio di distretto di Brezhnevski a Mosca, alla quale ero stato assegnato in qualità di interprete, fu invitata a visitare il distretto di Tower Hamlets a Londra, con la quale era gemellato. Due persone si videro vietare la partenza in missione: un ingegnere incaricato della rete cablata e il presidente del Comitato esecutivo del suddetto Consiglio, che avrebbero dovuto prendere in consegna la delegazione. Il primo era stato giudicato troppo poco affidabile e il secondo fu sanzionato dal primo segretario del Comitato del partito della città di Mosca, Victor Grishin, per le cattive condizioni della frutta e verdura immagazzinate da lui nel deposito del distretto. Nessuno dei due era men che meno un dissidente, ma erano probabilmente diventati dei partigiani di Gorvatchev, il cui programma si riassumeva in una idea abbastanza semplice: trasformare l’Unione Sovietica facendola passare dallo stato di “fortezza assediata” ad una situazione più “normale”. Questa “normalità” definisce correttamente la società che emerse dopo la caduta del regime sovietico e la scissione dell’Unione Sovietica? Certamente no. Non è sorprendente, se si tiene conto delle persone che iniziarono il processo della Perestroika. L’assenza di razionalità economica e di coscienza sociale, di trasparenza e di responsabilità, senza parlare di altri difetti, era il segno distintivo del CMI e della nomenklatura e diede la sua impronta naturale alla realtà postcomunista. Al contrario, le relative limitazioni imposte al CMI e ai dirigenti dei paesi di democrazia liberale dell’Ovest possono spiegare le transizione meno difficile di questi ultimi verso l’era posteriore al confronto tra i due avversari e il mantenimento dello statuto di super potenza degli Stati Uniti. In questo contesto si può comprendere perché il passaggio dal socialismo al capitalismo avvenne senza frizioni e urti nelle “democrazie popolari”. Queste non possedevano alcun CMI paragonabile a quello che aveva la vecchia URSS . E’ il caso di chiedersi se la “decomunistizzazione” e/o la liberalizzazione sarebbe potuta avvenire in modo più “normale” cioè meno dolorosa. Azzardo una opinione personale, che nessuno qualificherebbe a torto conservatrice. Diciamo, in poche parole, che si basa sull’idea che le istituzioni del partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) avevano un potenziale democratico sufficiente, che avrebbe potuto essere usato (ma non lo fu) per riformare lo Stato e la società. In altri termini, il partito democratico avrebbe dovuto avere il ruolo di locomotiva della società vigilando affinché questo treno non deragliasse. Su che fondamenti si basa questa tesi? I membri del PCUS erano generalmente considerati come un gruppo di carrieristi e di servitori del regime. Questa affermazione è essenzialmente esatta, ma non rispecchia tutta la realtà. Le cellule del partito, almeno in certe università (di cui ho una precisa conoscenza) erano infiltrate (e talvolta dirette) da quelli che si chiamavano “i dissidenti intrasistemici”, le cui opinioni divergevano fortemente da quelle dei membri della nomenklatura (e che arrivavano talvolta a influenzare questi ultimi). E’ difficile dire se un impulso democratico venuto dalla “base” avrebbe potuto riformare l’insieme della struttura del partito in modo da smantellare il potere degli apparatchiks. Uno slittamento in questo senso si è però potuto osservare. Il mio collega dell’Istituto il dr Pyotr Cherkassov, ha appena terminato una monografia consacrata alla storia dell’IMEMO, un gruppo di riflessione fondato a Mosca, che presenta il racconto appassionante della lotta mortale tra l’organizzazione 261 del partito di questa istituzione e gli “apparatchiks” del Comitato Centrale e degli organi di Stato. Questi ultimi dominavano all’epoca di Brejnev e di Andropov, ma il loro trionfo (che non fu d’altronde mai totale) fu di breve durata. L’avvento della perestroika comportò profondi cambiamenti così, i candidati al posto di segretario di partito “raccomandati” dai “raikoms” (comitati di distretto) furono progressivamente silurati nelle elezioni e le cellule del partito ottennero il diritto di percepire per i propri bisogni la metà delle quote raccolte dai membri. Se il denaro è una sorgente di potere, questa innovazione poteva portare a una “diffusione del potere” ed a ciò che si potrebbe riportare una democratizzazione del partito. Questo processo poteva portare ad una democratizzazione della società? E’ difficile rispondere a questa domanda. Per i rappresentanti dei “dissidenti esterni al sistema”, la risposta era categorica e negativa: c’era un parallelo con l’apartheid dell’Africa del Sud, dove le regole democratiche erano garantite solo per una parte della popolazione, mentre la maggior parte di questa era esclusa dalla vita politica. Questo paragone era sbagliato. In un caso era impossibile cambiare il colore della pelle, mentre nell’altro l’accesso al partito era in linea di massima libero per quelli che desiderassero aderirvi, a condizione che facessero prova di responsabilità sociale. In questo senso, il PCUS sarebbe veramente potuto diventare il nucleo di una società civile nascente in URSS, la quale è ben lungi dall’essere una realtà nella Russia di oggi. In ogni caso, questa idea merita secondo me di essere esaminata come ipotesi. Più di cinquanta anni fa il pensatore marxista (e anti comunista) Fritz Stenberg procedette ad una analisi penetrante del regime sovietico, definendolo come una dittatura terroristica dotata di un immenso potenziale di trasformazione interna in una democrazia socialista. Prediceva allora che sarebbe stato sbagliato pensare che questa transizionerivoluzione avrebbe potuto prendere la forma di elezioni libere e di una bozza di parlamento in cui i diversi partiti avrebbero potuto essere rappresentati; secondo lui, i sindacati e le cooperative rurali avrebbero dovuto dare l’impulso decisivo (Stenberg, 1950, pp.214-16). Si sbagliava: la rivoluzione, seguendo in ciò un principio della storia russa, venne dall’“alto” e fu fortemente ostacolata dall’alleanza contro natura tra, da una parte, il CMI e la nomenklatura e, dall’altra parte, i “dissidenti esterni al sistema” ultraliberali, tramite le elezioni libere ufficiali. Ma se si considerano i propositi di Fritz Stenberg con un avvertimento contro l’introduzione prematura e artificiale di norme liberali e parlamentari, sembra giusto affermare che egli aveva ragione. Il primo esempio di questa pseudo democratizzazione della vecchia Russia confermò la sua analisi. Le elezioni del 26 marzo 1989 furono libere nella misura in cui praticamente ognuno poteva candidarsi e affiggere sui muri la sua foto e il suo “programma” per fare una buona impressione agli elettori. Tuttavia non è del tutto sorprendente che in questa strana situazione in cui nessun programma concreto era all’ordine del giorno per sostituire il ruolo già superato del PCUS e in cui il fascino personale di un candidato importava più delle sue idee o delle qualifiche, l’organo eletto, il Congresso dei deputati del popolo (la cui prima sessione ebbe luogo dal 25 maggio al 12 giugno 1989 e la seconda sessione dal 12 al 24 dicembre 1989), non ebbe alcun ruolo edificante e contribuì in pratica al caos politico ed economico generale. E’ difficile dire con certezza se la democratizzazione del PCUS sarebbe stata possibile, e se, in caso affermativo, questo partito democratizzato sarebbe riuscito a riformare l’Unione sovietica al punto da salvarla dalla disintegrazione; tutto lascia pensare che il fallimento del partito su questi due temi implicò inevitabilmente la morte dell’URSS. Alcuni autori attribuiscono lo sviluppo dello Stato sovietico multinazionale unificato a un risorgere di quello che loro chiamano il “regionalismo” (Akhieser,1997, pp. 653-63). Preferirei definirlo nazionalismo. Nelle sue Experiences (un’opera pubblicata nel1967 e che assomiglia a delle memorie), Arnold Toynbee qualificava il nazionalismo come l’ideologia più potente e più pericolosa del ventesimo secolo (ivi compreso, secondo lui, “il 90%” delle due altre ideologie: il “capitalismo” e il “comunismo”). Egli considerava che il solo rimedio contro gli effetti di 262 distruzione di questo sentimento consisteva nell’incoraggiamento dei matrimoni misti. Stranamente, il grande storico britannico non prendeva in considerazione un mezzo più pragmatico e più efficace per combattere i demoni degli eccessi nazionalisti: il principio e la pratica della sopranazionalità, la quale è parte integrante dell’idea e della realtà di integrazione europea (forse questa dimenticanza è dovuta unicamente alla sua nazionalità britannica, tenuto conto che le prospettive del Mercato Comune sembravano incerte a molti suoi compatrioti alla fine degli anni sessanta). Per ritornare al punto che ci interessa, conviene indicare che questo tipo di sopranazionalità era ugualmente applicato nella vecchia Unione sovietica. La nozione di “popolo sovietico considerato come una nuova comunità internazionale” non era per così dire una parola vana. Alcuni hanno affermato che questa formula era solo una impostura destinata a mascherare la dominazione della nazione russa, se non addirittura la “russificazione” completa dell’insieme delle altre nazioni “sovietiche”. Questo tipo di ragionamento mi pare così convincente come quello degli “ euroscettici”, che temevano che l’Europa unita fosse solo un’Europa tedesca. Certamente, le garanzie contro il diktat di uno Stato (o di un gruppo di Stati) in vigore nell’UE erano o sono abbastanza differenti da quelle che aveva un tempo l’Unione sovietica, questo non significa che quest’ultima non ne avesse nessuna. Esse erano essenzialmente rappresentate dall’abnegazione implicita e talvolta esplicita, se non addirittura istituzionalizzata, di cui facevano prova i Russi nel loro stile di vita, l’interazione delle culture (la cultura russa era più portata all’assorbimento delle caratteristiche specifiche delle altre culture nazionali piuttosto che all’espansione e alla “proiezione” della sua) e in particolare la struttura del partito. Il semplice fatto che esistessero dei partiti comunisti in Ucraina, in Bielorussia, ecc., mentre la Russia non ne possedeva nessuno, permise di rifiutare l’affermazione secondo la quale la dominazione del PCUS equivaleva a tenere i Russi alla briglia. Questo contribuì a forgiare l’ideologia dell’internazionalismo o, in altri termini, della “sopranazionalità”. Contrariamente, ogni misura tendente chiaramente ad esprimere la “russità”, anche in virtù dello slogan positivo “i Russi sono uguali alle altre nazioni sovietiche”, serviva alle tendenze centrifughe della vecchia Unione sovietica. A questo riguardo, la decisione di creare il partito comunista russo (PCR) fu totalmente disastrosa. La costituzione del Fronte unito dei lavoratori con un gruppo di comunisti ortodossi di Leningrado (oggi San Pietroburgo), predecessore del PCR (il suo Congresso costituente ebbe luogo nel giugno 1990), nel mese di giugno 1989 può essere considerata come il punto di partenza della disintegrazione dell’URSS (e non unicamente del PCUS). E’ altresì vero che la formazione dl PCR era legittimata da una sorta di referendum organizzato dal partito. Persino nel mio distretto di Mosca, che contava numerosi scettici, i due terzi dei suffragi si pronunciarono a favore del nuovo partito. Era questa l’espressione di una pratica democratica? Sarebbe più giusto il contrario: tenuto conto dell’assenza di dibattiti approfonditi e dell’abbondanza di spicciola demagogia e, bisognerebbe anche parlare di una manipolazione dello scrutinio. Comunque, il fatto che i comunisti della Russia abbiano ceduto senza difficoltà alle sirene del nazionalismo non fece loro onore. E questa scelta elimina ogni dubbio sulla possibilità di trovare un metodo più semplice e meno gravoso di accedere all’”economia di mercato e alla democrazia”. Ciò fu dovuto principalmente alla forte personalità del dirigente. Dopo tutto, De Grulle era riuscito a salvare la Francia in una situazione che molti giudicavano catastrofica. Gorbatchev non ci riuscì. Parecchie ragioni spiegavano il suo insuccesso. Ne citerò una sola: contrariamente a De Gaulle, egli non disponeva di una squadra disciplinata di consiglieri. Sono venuto a questa conclusione nel corso delle mie ricerche sulla politica sovietica considerando la riunificazione della Germania (la questione tedesca dopo la seconda guerra mondiale rappresenta il mio campo di specializzazione ). Mi compiaccio di ascoltare l’esposizione del prof. Görtemaker su questo argomento e spero mi sarà possibile fare alcune osservazioni. 263 I punti di seguito riportati riassumono: I. l’Unione sovietica non ha perso la guerra fredda; ha perso ben più: la lotta tra i sistemi socioeconomici e, conseguentemente, una buona parte della sua legittimità. II. La vittoria dell’Occidente non si deve a mezzi militari o ad attività sovversive dirette contro l’avversario della guerra fredda (questi due fattori l’hanno piuttosto ritardata), ma dal solo fatto dell’esistenza stessa dell’Occidente, per il fascino che esercitava la sua immagine sullo spirito delle classi dirigenti sovietiche e nella popolazione intera; III. Lo sviluppo dell’entità multietnica e largamente “sopranazionale”, che costituiva l’Unione sovietica, non è dovuto principalmente ai processi di democratizzazione e “dall’introduzione dell’economia di mercato” in quanto tali; furono questi in effetti la conseguenza della perdita di controllo di questi processi da parte della società e la vittoria concomitante del nazionalismo ( e in primo luogo del nazionalismo russo) che suonarono la marcia funebre all’URSS. 264 35 Eroi, “passati”, protagonisti e popolazione L’Ungheria nel 1989 Janos Rainer Già quindici anni o appena quindici anni sono trascorsi dal 1989. Questo anno appartiene in pratica già alla storia, mentre la pagina del 1989 e del processo di trasformazione non è ancora stata girata. Il 1989 è stato oggetto di numerose analisi, ma la maggior parte della società che ha vissuto quegli avvenimenti conserva ancora nella propria mente una grande profusione di ricordi personali. Da allora è cresciuta una nuova generazione che si accontenta di studiare questi avvenimenti; tuttavia anche per questi bambini , questa storia presenta una dimensione personale. Benché non l’abbiano vissuta all’epoca come un avvenimento storico e possano fare riferimento solo alla loro memoria di bambini, essi vivono fianco a fianco con genitori, nonni, conoscenti e amici i cui ricordi sono di tutt’altro ordine. Questo è il motivo per cui non posso esaminare il 1989 con lo sguardo di un semplice analista. Questa data fa parte anche della mia storia personale, troppo personale per permettermi di delineare gli avvenimenti. Sono addirittura incapace di ricostruire la storia completa di alcuni dei loro protagonisti. Permettetemi piuttosto di concentrarmi su un avvenimento particolare che occupò alcune ore di un giorno preciso. E’ certamente possibile fornire un’idea generale o una veduta d’insieme degli avvenimenti, ma spero che certi ingrandimenti permettano di rivelare dettagli che faranno rivivere il passato e lo renderanno più vicino al presente. Hanno un significato diverso, proprio come quel dettaglio di una fotografia nel film Blow Up di Michelangelo Antonioni (e nel racconto di Julio Cortazar da cui il film è tratto ) assume un altro senso, raccontando la propria storia. L’avvenimento che sto per evocare si è svolto il 16 giugno 1989 a Budapest, Hősök tere - la piazza degli Eroi. Si trattava di una cerimonia di addio ad un morto, Imre Nagy, ex primo ministro ungherese. Giustiziato, mediante impiccagione, giorno più giorno meno trentun anni prima, nel cortile di una prigione della periferia di Budapest, riposava da quella data in una sepoltura anonima nel cimitero di fronte al carcere. Fu inumata una seconda volta nello stesso posto in quel giorno di giugno. Budapest possiede due grandi piazze in grado di contenere una folla immensa, entrambe costruite tra il XIX ed il XX secolo: Una porta il nome di Lajos Kossuth, che guidò la rivoluzione del 1848 e la guerra d’indipendenza, ed è dominata dal Parlamento. Vi furono proclamate la prima, la seconda e la terza repubblica ungherese rispettivamente nel 1918, nel 1946 e nel 1989; vi si riunì in massa la popolazione di Budapest il 23 ottobre 1956 per protestare contro il regime stalinista. Un responsabile politico comunista si rivolse alla folla quel giorno: Imre Nagy che diventò Primo Ministro l’indomani mattina. Il suo governo fu sensibile alle rivendicazioni della rivoluzione e proclamò la fine del partito unico, la neutralità dell’Ungheria e la sua uscita dal Patto di Varsavia. Quella rivoluzione fu schiacciata dalle forze sovietiche il 4 novembre 1956, ma Imre Nagy non rassegnò le proprie dimissioni né aderì al controgoverno comunista di Janos Kadar. Fu pertanto accusato di alto tradimento e di sovvertimento del regime comunista, ragione per cui fu giustiziato. 318 Hősök tere - la piazza degli Eroi è un immenso monumento commemorativo dedicato alla memoria storica ufficiale dello stato ungherese. Mentre il Parlamento eretto in piazza Kossuth rappresenta la più importante istituzione dello stato ungherese, la piazza degli Eroi ripercorre mille anni di storia nazionale, così come questa era sentita agli inizi del XX secolo. Le statue equestri dei capi ungheresi che conquistarono i Carpazi si ergono al suo centro, dominate da Árpád: Ai lati, le statue di quelli che all’inizio del XX secolo erano considerati i più grandi re del paese seguono l'andamento del colonnato. Questo susseguirsi di sovrani inizia con santo Stefano, fondatore del regno cristiano ispirato a quelli dell’Europa occidentale e si concludeva un tempo con i monarchi della casa austriaca degli Asburgo che si impossessarono del trono ungherese nel XVI secolo. L’ultima rappresentazione era quella di Francesco Giuseppe, che aveva represso nel 1848 la lotta per l’indipendenza, ma aveva raggiunto un 265 compromesso con la classe dirigente ungherese due decenni dopo. Il memoriale raffigurava la fondazione dello stato ungherese, l’alleanza tra la nobiltà discesa dai capi delle tribù e i sovrani (cioè a partire dal XVI secolo gli Asburgo) e tramite questo la costituzione aristocratica ungherese. Al momento del crollo della doppia monarchia austro-ungarica nel 1918, l’ultimo gruppo di statue fu smantellato. Il primo maggio 1919, durante la breve dittatura bolscevica ungherese, l’insieme dei monumento fu ornato con drappi rossi. Sotto il regime autoritario di Miklós Horthy, che mise fine alla rivoluzione, le statue degli Asburgo furono rimesse al loro posto. Nel 1929 un monumento in pietra fu posto davanti al gruppo dei capi delle tribù in memoria degli eroi ungheresi della guerra, il cui epitaffio “1914-1918. Per le frontiere millenarie” faceva riferimento al trattato di Trianon del 1920. La fine della grande guerra significò per l’Ungheria ben più della scomparsa della doppia monarchia: la perdita dei due terzi del suo territorio e della metà della sua popolazione. Quel memoriale esprimeva l’obiettivo del regime di Horthy, la restaurazione del territorio storico dell’Ungheria: Trascorso un quarto di secolo , dopo il 1945, gli Asburgo furono nuovamente tolti e sostituiti dai dirigenti e dai capi di stato ungheresi (compreso Kossuth) che avevano lottato contro la monarchia asburgica: L’iscrizione del monumento in memoria degli eroi ungheresi fu cancellata e sostituita con un nuovo epitaffio che proclamava che questi avevano dato la loro vita per la libertà e l’indipendenza del popolo ungherese. Il ricordo storico dello stato aristocratico ungherese fu rimaneggiato nello spirito del programma delle autorità comuniste che avevano preso il potere dopo il 1945; la controversia non riguardava tanto delle statue precise, ma opponeva il monumento ed il potere che lo modificava. Il regime comunista era stato infatti imposto dalle truppe sovietiche che occupavano l’Ungheria contro la volontà della maggioranza della società ungherese. Tuttavia, lo stesso sistema comunista non volle abbandonare gli archetipi storici. Il primo maggio 1957, appena pochi mesi dopo la sconfitta della rivoluzione del 1956, Janos Kadar pronunciò un discorso in Hősök tere davanti a 250000 persone. L’oratore si pose di fronte a questo quadro storico, identificandovisi solo in parte, prendendo le debite distanze, dando le spalle alle statue che non erano state né smontate né sostituite. Poco dopo il primo maggio 1957, Janos Kadar dichiarò in occasione di una conferenza nazionale del partito comunista: “una grande parte delle masse laboriose si preoccupa non tanto delle questioni generali della politica, ma delle soluzioni efficaci ai problemi economici e culturali che incontra nella vita di tutti i giorni. Tantomeno si forma la sua opinione sul partito e sul sistema basandosi su questioni politiche”. Questo truismo a sostegno della “non troppa democrazia” divenne la base del “consolidamento di Kadar” che consisteva in un tacito accordo. Fin quando il loro livello di vita continuerà ad aumentare, lentamente ma in modo sicuro e prevedibile, le “masse laboriose” accetteranno le realtà della politica internazionale e dell’occupazione sovietica, senza rimettere in causa la legittimità del potere comunista e accetteranno che certe questioni politiche, comprese le strutture politiche della storia nazionale, siano proscritte. Il caso di Hősök tere mostra chiaramente che l’Ungheria possiede una forte tradizione di rappresentazione delle storie epiche del suo passato nazionale. Il regime di Kadar si è a lungo sforzato di rispettare la sua parte di accordo avvalendosi di grande accortezza. Le riforme operate alla fine degli anni 60 comprendevano elementi dell’economia di mercato, ma quel processo fu interrotto all’inizio degli anni 70 su ordine dell’Unione Sovietica e con grande sollievo da parte dell’apparato del partito ungherese. Quella decisione portò l’economia ungherese a perdere la sua capacità di adattamento all’evoluzione dell’economia mondiale, proprio quando le riforme avevano reso la prima maggiormente 266 dipendente dalla seconda. Alla fine degli anni 70, il livello di vita cominciò a stagnare, poi, verso la metà degli anni 80, a declinare. L’imprevedibile Gorbaciov, determinato ad intraprendere delle riforme, prese la direzione del partito sovietico nel 1985 provocando naturalmente un certo malessere nell’élite politica dell’Ungheria e degli altri paesi dell’Europa orientale. L’Ungheria presentava altri fattori di crisi specifici. Gli Ungheresi potevano paragonare il loro livello di vita, ad esempio, con quello della generazione precedente , buona parte della quale aveva perso tutto in occasione delle due successive catastrofi della prima metà del XX secolo, o con quello dei loro vicini ad est e a ovest. Circa 250000 persone erano fuggite all’ovest nel 1956 e la maggior parte di loro erano giovani. Centinaia di migliaia di Ungheresi furono nuovamente autorizzati ad andare all’estero all’inizio degli anni 60 egli emigrati poterono tornare a vedere le proprie famiglie. Finché il livello di vita rimase a metà strada tra quelli dell’est e quelli dell’ovest, il compromesso di Kadar funzionò. Quando, però, cominciò a perdere credibilità e minacciò (anche se molto lontanamente) di cadere ai livelli di quello dei Polacchi o dei Cecoslovacchi, lo scontento si diffuse. Questo si espresse prima tramite gruppi di opposizione, poi attraverso i giovani tecnocrati del partito e dell’apparato dello stato. Quei tecnocrati sapevano parlare con buon senso dei mali di cui soffriva il sistema comunista e delle riforme che bisognava attuare per porvi rimedio. Era loro interesse disporre di maggiore libertà di parola e ammorbidire il monopolio di comunicazione della classe dirigente. Le cause di quei mali,però, erano da ricercarsi in un passato del quale dividevano la mancanza morale con l’insieme del sistema . Il principale ostacolo era lo stesso Kadar. Impersonificava la sconfitta della rivoluzione del 1956, proprio quando i grandi successi del suo regime negli anni 60 e 70 dieci anni dopo erano solo più un ricordo. Solo l’opposizione democratica era in grado di sottolineare con chiarezza quello stato di fatto. Kadar fu rimosso dalla direzione del partito con l’aiuto di Gorbaciov nell’estate del 1988. I suoi successori ci tenevano ad instaurare un dialogo con la minoranza politicamente attiva e si mostrarono disposti a fare concessioni: riforme economiche, libertà d’espressione e di riunione parziale e una forma di riesame della situazione. Il peso più ingombrante era quello della personalità simbolica di Imre Nagy, giustiziato e privo di sepoltura. L’opposizione ungherese, fra cui i radicali che cercavano di spezzare completamente il sistema comunista, lo sentivano chiaramente. “I dirigenti del partito socialista operaio ungherese evocano anche loro una separazione del partito e dello stato, una forma di pluralismo socialista. Qualunque sia il significato di questi propositi, ognuno deve capire che nessuna vera apertura politica o conciliazione sarà possibile finché corpi privi di sepoltura ostruiranno la via di un compromesso” , dichiarò il filosofo Janos Kis, personaggio di primo piano dell’opposizione democratica in occasione della manifestazione del 16 giugno 1988. Quella stessa estate, un comitato spontaneo formato da ex condannati politici, il Comitato per la giustizia storica, fece con successo pressione sul partito comunista affinché si procedesse alla ricerca delle spoglie di Imre Nagy e dei suoi colleghi e che le loro famiglie fossero autorizzate a seppellirli. Il genio era ormai uscito dalla lampada. Nel febbraio 1989, il generale Jaruselski si sedette in Polonia al tavolo dei negoziati con Solidarnosc. In primavera, l’Ungheria vide la costituzione dei partiti politici che cominciarono a negoziare col partito socialista operaio ungherese: La stampa e la televisione evocarono sempre più il passato, i morti, la repressione ed il 1956. Le autorità si ritirarono poco a poco. 267 I funerali di Imre Nagy non potevano limitarsi al cerchio ristretto di una famiglia che dà sepoltura ad uno dei suo parenti. Fu così deciso che la cerimonia avrebbe avuto luogo in Hősök tere,la piazza della memoria nazionale ungherese. Gli attori della transizione democratica ungherese si riunirono così sulla spianata il mattino del 16 giugno 1989: Non c’erano tutti. La spoglia di Imre Nagy riposava in una bara, era stata scoperta dopo vari mesi di ricerche nell’angolo più lontano del cimitero di Budapest. Non era stato il vero spirito di Imre Nagy a riempire la piazza degli eroi: Nagy era appartenuto alla prima generazione di responsabili politici comunisti ungheresi: Aveva aderito al partito bolscevico nel 1918, durante la sua prigionia militare in Russia. Vari periodi della sua vita presentavano ancora zone d’ombra nel 1989 e fra queste il suo esilio in Unione Sovietica negli anni 30. Si conoscono le sue frequenti prese di posizione con i dirigenti del suo partito, in favore di una forma di comunismo dal volto umano. Era stato uno dei primi riformatori del partito, ma le sue idee non erano state accolte in occasione del suo primo mandato da Primo Ministro nel 1953-54. Non fu nemmeno un rivoluzionario nel 1956, benché fosse rimasto un sostenitore dell’indipendenza dell’Ungheria e più incline a tener conto della volontà potentemente espressa dalla società ungherese che della politica di Mosca. Fu un comunista, un comunista democratico nazionale se ciò non fosse una contraddizione di termini. Il paradosso fu risolto col suo processo e la sua esecuzione. Il 16 giugno 1989, il comunista Imre Nagy apparve agli occhi del pubblico come un martire del 1956, una vittima dei comunisti: Quelli che furono sepolti accanto a lui erano anche essi membri del partito comunista. Nemmeno il secondo protagonista presenziò alla cerimonia; a settantasette anni, invalido e condannato dalla malattia Janos Kadar si trovava nella sua villa sull’altra riva del Danubio: Come Nagy, aveva contribuito all’instaurarsi di un regime di tipo sovietico in Ungheria, ma contrariamente a lui non aveva mai dubitato della fondatezza del suo operato. Partecipò al governo rivoluzionario di Nagy nel 1956, ma poi accettò di diventare il Quisling ungherese. A lui si devono le esecuzioni di Nagy e di numerosi rivoluzionari, dal momento che la direzione sovietica, alla luce delle attuali conoscenze, non aveva preteso sanguinose rappresaglie. In seguito fu considerato il miglior riformatore dell’Europa orientale ed ottenne l’approvazione della maggioranza della popolazione ungherese. Tuttavia negli ultimi tempi fu terrorizzato da ogni idea di cambiamento e, nel 1989, dalla prospettiva di essere costretto a rispondere dei suoi atti. Le persone presenti in quel momento in piazza pensavano a Kadar come all’assassino della rivoluzione ungherese e della libertà, anche se nessuno si decideva a dirlo. La Piazza degli Eroi era stata sistemata per l’occasione. La scenografia ideata da Gabor Bachmann e Laszlo Rajk spostò l’attenzione dalla rappresentazione della storia dello stato ungherese verso un catafalco eretto sul lato sud, davanti al Museo delle Belle Arti. Rajk nacque nel 1949, ma suo padre, responsabile comunista , fu arrestato alcune settimane dopo e giustiziato dopo il primo grande processo spettacolare ungherese. Il figlio diventò un militante di primo piano dell’opposizione democratica ungherese negli anni settanta. La sistemazione della piazza fatta da Rajk sottolineava l’aspetto plebeo e di sinistra della rivoluzione del 1956 e creava una atmosfera di lutto atemporale. Semplici tendaggi bianchi e neri ornavano la piazza. Il simbolo della rivoluzione ungherese, una bandiera nazionale tagliata al centro, là dove c’erano i simboli sovietici, era appesa ad una struttura cadente, fatta di pezzi di ferro arrugginiti, che sembrava una gru. Alcuni ci videro un patibolo, altri l’albero maestro di una nave che affonda. Il 16 giugno 1989 era un giorno feriale, ma circa 200000 persone assistevano alla cerimonia che fu trasmessa in diretta e per tutta la giornata dalla televisione di stato, senza l’accordo né del partito né del governo. Le orazioni funebri furono pronunciate da ex colleghi di Nagy scelti dal Comitato per la giustizia storica che erano stati condannati dopo la rivoluzione. Il governo ed il parlamento ungheresi, formati da un partito unico, chiesero al nuovo comitato per la giustizia storica di deporre la loro corona sul catafalco. Il partito comunista non mando 268 nessun rappresentante. Il comitato politico aveva dibattuto per ore sull’opportunità di imbandierare la sede del partito e, in caso di decisione positiva, sulla scelta delle bandiere. Alla fine si decise di esporre una bandiera nera e il tricolore nazionale, omettendo volontariamente il vessillo rosso del socialismo. Tre giorni prima della cerimonia del 16 giugno, il partito avevo intrapreso dei negoziati con una coalizione dei partiti di opposizione sulla questione della nuova costituzione, della legislazione del periodo di transizione e delle elezioni libere. La transizione che Rudolf Tokes battezzò come”rivoluzione negoziata” era appena iniziata. Gli oratori che si susseguirono sulla piazza evocarono i morti e la rivoluzione. Non pensavano ad una prosecuzione o ad una rinascita del 1956, ma ad una transizione pacifica che si proponesse di realizzare gli obiettivi del 1956. Regnava un’atmosfera di celebrazione , solenne e leggermente tesa. Risaliva ad appena qualche giorno prima la sanguinosa repressione degli studenti che manifestavano per la democrazia in piazza Tienanmen a Pechino. La polizia politica ungherese (sempre diretta da ufficiali comunisti antico stampo) stabilì un piano d’azione, per assicurare lo svolgimento pacifico dei funerali. Solo alcuni poliziotti furono visibili durante la cerimonia, perché il servizio d’ordine era stato assicurato da militanti dei partiti dell’opposizione, gli applausi e le acclamazioni furono rari e la folla rientrò a casa con calma, alla fine di una cerimonia di parecchie ore, per seguire alla televisione la sepoltura delle bare. Non ci fu nessun incidente. Il 16 giugno 1989 segnò una svolta..psicologica nel cambiamento di regime in Ungheria. Simboleggiò la scomparsa di un’epoca. Come scrisse alcuni mesi dopo il politologo Peter Kende, “il fattore morale rappresentò una delle cause principali della caduta del vecchio regime. Quella cerimonia funebre equivalse all’elevazione dell’ostia che fa fuggire il Maligno con un gemito.” Sembrò dopo quel momento che l'élite comunista del paese non avrebbe mai ripreso l’iniziativa. In realtà, la sua segregazione morale contribuì molto a favorire lo svolgimento pacifico del cambio di regime in Ungheria. La crisi generale del sistema sovietico, il ruolo di Gorbaciov ed altri fattori facilitarono in modo evidente l’evoluzione; ma atteniamoci alle caratteristiche specifiche del caso ungherese. Spieghiamo ora in poche parole en cosa quel giorno di giugno fece presagire il seguito degli avvenimenti in Ungheria durante e dopo la transizione. Tra quelli che erano presenti in Piazza degli Eroi figuravano tre dei cinque futuri primi ministri ungheresi a partire dal 1990: Jozsef Antall, Viktor Orban e Peter Medgyessy. Appartengono a tre generazioni diverse e la loro storia, lungi dall’essere normale è sotto molti aspetti caratteristica della transizione ungherese e del suo strano rapporto con il passato. Jozsef Antall è nato nel 1932. Suo padre era un alto funzionario del Ministero degli Interni prima e durante la seconda guerra mondiale, che si era occupato dell’alloggio e del mantenimento dei rifugiati polacchi. Dopo la guerra, Antall padre era diventato deputato del partito dei piccoli proprietari e ministro del governo di coalizione, posto che continuò ad occupare dopo la presa del potere da parte dei comunisti, fino al 1953. Voleva fare di suo figlio un uomo politico e lo mandò nel migliore istituto superiore religioso di Budapest. Jozsef Antall fu ammesso all’università nel 1950, diventò professore di storia ma dovette abbandonare l’insegnamento nel 1959 a causa di pressioni politico-poliziesche. Tuttavia non fu arrestato e continuò ad esercitare una professione intellettuale. Diventò vice conservatore di un museo alla fine degli anni 60 e conservatore negli anni 80. Benché fosse sottoposto per decenni a sorveglianza da parte della polizia - il suo miglior amico e compagno di classe era un informatore che rese conto di tutto quello che faceva per trenta anni - non prese parte a nessuna attività di opposizione diretta. Nonostante questo, 269 persone a lui vicine reputarono che avesse la stoffa dell’uomo politico. Competente in storia come in diritto, risoluto, Antall capeggiò durante l’estate e l’autunno 1989 la delegazione dell’eterogeneo e populistico Forum democratico ungherese ai negoziati con il partito comunista. Si mise a capo del movimento in autunno e fu nominato Primo Ministro quando questo diventò il primo partito del paese dopo le elezioni del 1990. Si sforzò di trasformare il Forum in un partito conservatore sul modello di quelli dell’Europa occidentale, senza riuscirci Morì di cancro nel 1993.. Viktor Orban nacque nel 1963 in una famiglia rurale del Transdanubio. I suoi genitori , però, non lavoravano più la terra. Suo padre era funzionario in una società mineraria, che fu privatizzata all’epoca del cambio di regime, il che gli permise di diventare un ricco proprietario. Suo figlio studiò diritto a Budapest negli anni ’80. partecipò alla creazione di un “circolo di riflessione” popolare, che prese il nome del filosofo politico Istvan Bibo che aveva servito nel 1956 nel governo di Imre Nagy. Quel circolo specialistico accoglieva regolarmente conferenze organizzate non solo da universitari, ma anche da importanti personalità dell’opposizione democratica. Nel 1988, Viktor Orban diventò il membro fondatore del FIDESZ, un partito radical liberale della gioventù. Fu il solo oratore a prendere la parola ai funerali di Nagy che non era e non poteva essere vissuto il 1956. Gli organizzatori della cerimonia gli chiesero di esprimersi a nome della gioventù ungherese; pronunciò il discorso più coraggioso e triste della giornata, chiedendo il ritiro delle truppe sovietiche e dichiarando che le bare contenevano anche l’esistenza della generazione cresciuta negli anni novanta, allusione alla difficoltà e al prezzo da pagare per il cambiamento del sistema. Negli anni 1990, Orban prese un’altra direzione e fondò un partito conservatore ungherese, strano miscuglio eclettico di democristiani di stile occidentale, di estremisti di destra sensibili all’autoritarismo degli anni fra le due guerre e di giovani pragmatici di una generazione ancora più recente della sua. Peter Medgyessy nacque nel 1941 in una famiglia della Transilvania: Suo padre era un diplomatico ungherese del periodo comunista, mentre lui frequentava negli anni 1960 la facoltà di scienze Economiche di Budapest, che era all’epoca il caposaldo della riforma del socialismo. Medgyssey fu ammesso in seguito nell’apparato dello stato e nel partito comunista. Fu rapidamente promosso nel Ministro delle Finanze, svolgendo però per alcuni anni in segreto una attività di funzionario del controspionaggio. Verso la fine degli anni 1980 divenne ministro delle Finanze, vice-primo ministro e membro del comitato centrale del partito socialista operaio ungherese. Operò accanto al Primo Ministro Miklos Nemeth all’introduzione dell’economia di mercato e lo accompagnò quando depose una corona sul catafalco di Imre Nagy. Nel 1989 non aderì al nuovo partito socialista. Divenne il direttore dalla filiale ungherese di una grande banca francese e un ricco finanziere. Nel 2002, fu scelto dal partito socialista, come esterno, per assumere la carica di primo ministro. Il regime di tipo sovietico in Ungheria crollò nel 1989. Elezioni libere furono organizzate l’anno successivo e, due anni dopo il funerale, le forze di occupazione sovietiche lasciarono il paese. L’economia fu riorganizzata sulla base dell’economia del mercato nel giro di qualche anno e si poté assistere ad una crescita a metà degli anni 1990 dopo una grave recessione. Misure decisive di trasformazione dell’economia furono prese nel 1995 dal ministro delle Finanze Lajos Bokros, che era stato autore di analisi pubblicate nei samizdat dell’opposizione negli anni 1980 con lo pseudonimo di David Ricardo. Il capo del governo dal 1994 al 1998, Gyula Horn, aveva preso le armi contro la rivoluzione del 1956, ma ebbe nel 1998 l’immenso merito di far precipitare, in qualità di ministro degli affari esteri, gli avvenimenti che contribuirono alla caduta del muro di Berlino, Visto da lontano, il cambiamento del regime ungherese fu una transizione pacifica e ordinata da una qualità ad un’altra, cioè da una versione edulcorata del sistema sovietico post-stalinista ad una democrazia liberale. Varie generazioni, però, ed una moltitudine di strategie entrarono a far parte delle sue storie individuali vicine. i valori ed i cattivi geni del periodo fra le due guerre, l’eredità morale del 1956, i successi del periodo di Kadar così come le critiche e le costatazioni dei momenti di crisi. 270 Lo stesso discorso vale per i veri protagonisti. Perché il 16 giugno 1998 i veri protagonisti dell’avvenimento furono le 200000 persone ammassate sulla piazza e i milioni di telespettatori che seguivano la sua trasmissione. Mille pensieri attraversarono la loro mente mentre guardavano la cerimonia. Solo qualche anno prima del 1989, la maggior parte della società ungherese non si era totalmente opposta al regime edificato sull'annientamento della rivoluzione. La catarsi del 16 giugno risvegliò ricordi di cui nessuno si ricordava da tempo: l’anno dell’instaurarsi del regime sovietico, il 1956 e le rappresaglie che ne seguirono. Per un breve istante, ciò che quasi tutti provavano apparve in un lampo dai vividi colori: vivere meglio, come gli Austriaci, per esempio. Se il passato implicava ormai che era impossibile riuscirci senza libertà né democrazia, erano pronti a crederlo. Importava poco che avessero vissuto bene dopo il 1956 (benché il loro livello di vita fosse stato inferiore a quello degli Austriaci) e che non si fossero preoccupati dei ricordi, dei crimini e dei criminali. Importava solamente quel giorno di lutto, che inglobava tutto. Dopo, il passato sarebbe sparito nella tomba con quèi corpi e non avrebbero più dovuto affrontarlo. Tutte quelle conclusioni si sono rivelate nel corso degli ultimi quindici anni in parte esatte ed in parte errate. Da una parte, la diversità delle nozioni e dei racconti del passato continua a svolgere un ruolo importante nella divisione politica ungherese, mentre la diversità dei ricordi occupa sempre il primo posto nei discorsi. D'altra parte, la natura pratica e pragmatica della maggior parte della società ungherese non è cambiata: Dodici anni dopo il 1989, mia figlia, liceale, ebbe come argomento per un tema la storia della sua famiglia nel XX secolo. Ecco cosa scrisse a proposito del periodo successivo al cambio di regime: “quel periodo ha modificato soprattutto l’esistenza di mio padre. Dal 1989 ha potuto dedicarsi in piena legalità a ciò che lo interessa: la rivoluzione de1956”. Questa osservazione, nella sua semplicità, mi sembra essere l’espressione della verità. La storia del 1989 non è conclusa. Raccontando le nostre storie personali, grandi e piccole, interrogandoci e riflettendo su quelle domande, contribuiamo a vegliare affinché il vero messaggio di quella giornata di quindici anni fa, cioè l’importanza di occuparsi del passato, l’importanza del nostro rapporto con la libertà e l’importanza della sorte degli individui nella storia, resti e tocchi quelli per i quali questo ricordo si cancella ogni giorno di più. 271 36 - La storia della caduta del comunismo – cantiere delle scienze socio-umane Lavinia Betea Il piano di ricerca: studio del caso - “la rivoluzione rumena” del 1989 Come risaputo, l'anno 1989 ha portato nell’Europa centrale e dell'Est il crollo del regime comunista e l'inizio di un processo complesso di trasformazione a livello individuale e collettivo. Ed è una affermazione banale dire che le condizioni precedenti della Romania erano diverse e che il trasferimento del potere è stato fatto in modo diverso “rispetto alle rivoluzioni di velluto„ degli altri paesi europei. Così, nel processo di crollo dei regimi comunisti in Europa, per cambiare il gruppo al potere, in Romania “si è messa in scena una rivoluzione tipica” (Karnoouh, 2000). Nella sua analisi che riguarda la rivoluzione della Romania, rispetto ai cambiamenti degli altri stati comunisti dell'Europa, Gabanyi (1999) ha segnalato le particolarità seguenti del trasferimento del potere: 1. È in Romania soltanto che è avvenuto un capovolgimento sanguinoso di regime, durante il quale 1.104 uomini sono stati uccisi e 3.352 sono stati feriti. 2. Si è fatto ricorso alla violenza non soltanto prima della fuga della coppia Ceausescu da Bucarest, ma ancora di più dopo questa (22 25 dicembre 1989). Lo scopo di quest'azione era di creare un’apparenza di legittimità nella conquista del potere da parte del nuovo gruppo dirigente e garantire questo potere attraverso i cambiamenti istituzionali e delle elite scelte. 3. E’ in Romania soltanto che il capo del partito, Nicolae Ceausescu e sua moglie, Elena Ceausescu sono stati messi a morte dopo un processo che rappresenta un retaggio dei processi staliniani. 4. Appena dopo questo ribaltamento della dittatura di tipo ideologico nazional-comunista, in Romania i comunisti riformisti hanno preso il potere. Le discussioni provocate dal carattere popolare e rivoluzionario della sommossa, le manipolazioni dell’informazione praticate dai mass media tra il 22 ed il 25 dicembre 1989, la legittimità della nuova elite che ha preso il potere, il processo dei coniugi Ceausescu e dei loro sostenitori associati, il ruolo dell’esercito e della vecchia Sicurezza (i servizi speciali) in tutta questo cambiamento e soprattutto negli attacchi terroristici, a seguito dei quali si è giustificato il ricorso alla violenza - hanno costituito (simultaneamente e successivamente) un insieme, di significati diversi e spesso contraddittori, di significati e nuovi significati della memoria sociale dei Rumeni. Nonostante l'abbondanza dei lavori dedicati al crollo del regime comunista e, implicitamente, alla rivoluzione sanguinosa della Romania, nessun studio elaborato sino ad oggi a questo riguardo è conforme alle teorie ed alle metodologie proprie delle scienze socio-umane. La nostra ricerca si svolgerà su due assi principali: 1. L'investigazione della formazione e della trasformazione dei significati e dei nuovi significati dovuti ad un avvenimento storico di una portata e di un'importanza considerevole, nel corso di una tappa circoscritta a 15 anni. 2. Lo studio dei rapporti tra le rappresentazioni sociali di certi fenomeni, istituzioni e caratteri, come: "La rivolta anti Ceausescu", "i servizi speciali comunisti", "la Sicurezza", "i terroristi 272 e gli eroi della rivoluzione" ecc., ed i fattori, (la propaganda, la commemorazione ecc.) che hanno contribuito alla trasformazione del contenuto di una certa memoria a significato sociale. Lo studio del caso raccomandato utilizzerà come metodologia fondamentale: 1. L'analisi del contenuto dei discorsi (ufficiale, dei giornali), e delle conversazioni registrate con "gli spettatori impegnati" negli avvenimenti. 2. L'intervista creativa con dei partecipanti agli avvenimenti del dicembre 1989. 3. Il metodo biografico, lo studio dei documenti e i racconti autobiografici. Con l'aiuto dei metodi di analisi socio-umana, utilizzati nel nostro studio, ci si riferirà alle teorie ed alle analisi psicosociologiche principali. Innanzitutto, la nostra attenzione sarà focalizzata sul fenomeno delle rappresentazioni collettive in quanto forma di conoscenza sociale. L'analisi della formazione e della trasformazione delle rappresentazioni sociali, concernente gli avvenimenti che si sono prodotti nel dicembre 1989 in Romania, ci permetterà di mettere in evidenza alcuni aspetti del rapporto tra il nucleo centrale ed i suoi elementi periferici, il ruolo del contesto e dell'ideologia nella formazione della memoria sociale. Con l'aiuto di queste rappresentazioni sociali, si metterà in rapporto la memoria individuale e la memoria sociale. Sentita come una forma di conversione e di manifestazione del pensiero sociale, la memoria sociale degli avvenimenti di dicembre 1989 sarà affrontata in quanto risultato di un approccio sociopolitico. Per quanto riguarda la formazione ed il cambiamento dei significati della memoria, una riflessione speciale sarà riservata al ruolo degli avvenimenti pubblici, alle commemorazioni, alle statue, alla nascita di alcune tradizioni destinate a mettere d’accordo il senso e/o i nuovi significati di alcuni ricordi. Nello studio che proponiamo, vogliamo riportarci ad una delle prospettive cognitive della memoria collettiva attraverso l'analisi della memoria di tipo "flash", (M. Conway, 1994), che gli "spettatori impegnati" hanno conservato delle dimostrazioni e delle proteste che avevano alla fine portato al crollo del regime comunista della Romania, o di certi momenti tesi di questa epoca (la fuga "di Ceausescu", "gli attacchi dei terroristi" ecc..) Si pensa ugualmente che l'analisi, del punto di vista delle teorie e delle metodologie psicosociologiche, di certi contenuti della storia recente, in questo caso della "rivoluzione rumena del 1989", fenomeno mondiale tra i più conosciuti tramite i mass media possa contribuire anche al chiarimento di un argomento storico molto discusso. Applicazione pratica: l'effetto “groupthink” nella rivoluzione rumena Bisogna aggiungere che nella Romania comunista, il "regime Ceausescu" (1965-1989) si è messo in evidenza attraverso il blocco e l'annientamento di ogni forma di resistenza attraverso il controllo esercitato dalla polizia politica sui cittadini e attraverso la censura dell’informazione alla quale questi potevano avere accesso. La spiegazione del fenomeno risiede nel fatto che il leader comunista ha detenuto il potere, il controllo dei media, della polizia repressiva per un lungo periodo di tempo. Nel 1965, con il pretesto di “sviluppare la democrazia", Ceausescu ha sostituito il vecchio Ufficio Politico con il Comitato Politico Esecutivo, il (CPEX,) organismo la cui struttura era allargata, (79 membri) e i cui poteri erano, in realtà, formali. Nel 1967, dopo avere preso il potere da due anni, Ceausescu aveva rinunciato al principio della separazione del potere 273 del partito e dello stato per diventare presidente del Consiglio di stato. Nel 1974, il leader del partito unico si è autoproclamato presidente della Romania. Era al tempo stesso il comandante supremo dell'esercito ed il dirigente delle organizzazioni collettive e di massa. Nel momento dell'apogeo del potere, è ricorso a "una dittatura di clan", in quanto le funzioni più importanti erano compiute da Ceausescu e da sua moglie da altri membri della famiglia e da un numero ristretto di collaboratori fedeli. Durante l'ultimo periodo del regime, i meccanismi del potere funzionavano così che non c'era nessuna altra alternativa di governo. Così, il principio della rotazione dei quadri seguendo il quale gli attivisti di livello superiore erano sostituiti molto rapidamente impediva l'esistenza di una relazione più stretta, capace di cristallizzarsi in una forma di opposizione. Dopo le celebri dichiarazioni contro l'invasione della Cecoslovacchia (1968) che hanno assicurato a Ceausescu un grande prestigio internazionale, con il pretesto di impedire il cambiamento del leader da parte dei sovietici, si è deciso che le elezioni del presidente vengano fatte dai membri del partito. Inoltre, prima degli ultimi congressi, ad ogni riunione del partito, uno dei punti all’ordine del giorno era “l'approvazione della candidatura” del compagno Ceausescu con funzioni di segretario generale del PCR. Di conseguenza, i delegati al congresso diventavano dei semplici messaggeri del mandato di quattro milioni di membri del partito che all'unanimità avevano approvato la rielezione di Ceausescu in quanto leader supremo. Così, la sua sostituzione dalla direzione del partito ed implicitamente dal paese era diventata impossibile da realizzare e sembrava che il suo potere avesse ricevuto il carattere di eternità. Il 25 dicembre 1989, durante la festa di Natale, Ceausescu e sua moglie sono stati fucilati dopo un processo farsa. Questo fatto significa un grande insuccesso della sua politica ed allo stesso tempo un brutto inizio per la società rumena di transizione. Al livello della politologia e del giornalismo, l'analisi del passato recente si ferma qui. Ma in termini psicologici, le cause della situazione descritta potrebbero essere spiegate per mezzo delle caratteristiche del gruppo dirigente, il Présidium CPEX del C.C. del P.C.R.. La struttura suprema di decisione e la direzione di tipo oligarchico istituite da Ceausescu spiegano a livello di rapporti di dirigenti la realtà politica e gli avvenimenti avvenuti nel dicembre 1989. Il modello "groupthink" adottato secondo I. Janis e L. Mann (1977) Quando si paragona la situazione della Romania ai movimenti riformatori dei paesi vicini, da una parte, e le caratteristiche ufficiali del CPEX dall’altra parte, la prima conclusione è quella di un insuccesso del gruppo dirigente. Il fenomeno potrebbe essere spiegato attraverso" l'effetto groupthink" secondo la teoria di I. Janis (1977). Conformemente a questa teoria concepita in seguito ad un studio delle relazioni dentro al gruppo dirigente e dell'efficacia delle decisioni adottate - tutte le decisioni politiche che hanno rappresentato un fallimento nella politica americana dopo la seconda guerra mondiale, sono state segnate da "l'effetto groupthink", gruppo che si caratterizza attraverso una sequenza tipica dei fatti descritti nel seguente schema,: Gli antecedenti 1. 2. 3. 4. Un livello elevato di coesione del gruppo dirigente; L’isolamento del gruppo dalle influenze esterne; Un leader potente, autoritario; L'assenza di norme e di procedure per esaminare le posizioni "per" o "contro" delle azioni alternative; 5. Lo stress elevato indotto dalle minacce esterne e la debole speranza di trovare una migliore soluzione rispetto a quella preferita dal leader. 274 Il forte desiderio di consenso (unità totale di opinioni) I sintomi “dell’effetto groupthink” 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. L'illusione di invulnerabilità; La convinzione nella moralità del proprio gruppo; I ragionamenti collettivi; La percezione stereotipa del gruppo avverso, l'incarnazione del male; L'autocensura dei dubbi o delle opinioni contrarie, (differenti); L'illusione dell'unanimità; La pressione diretta sui dissidenti; La designazione tacita "dei custodi" ideologici. Le conseguenze 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. L'inventario incompleto delle alternative; L'analisi incompleta degli obiettivi del gruppo; L'insuccesso della rivalutazione dei rischi delle elezioni preferite; L'insuccesso della rivalutazione delle alternative preferite; La ricerca precaria delle notizie pertinenti, fatta da esperti; Le distorsioni selettive nella trasformazione dell’informazione; L'insuccesso nello sviluppo dei piani adattati alle circostanze. La probabilità ridotta di un risultato di successo Per la sua validità in Romania, si considerano le notizie ricevute dagli sténogrammi pubblicati in occasione del processo dei 24 membri del Présidium CPEX (1991) e le memorie storiche scritte dagli "spettatori impegnati", (esempio: i membri CPEX, D. Popescu e P. Niculescu - Mizil, il vecchio capo della Cancelleria del C.C., S. Curticeanu ed il vecchio capo della sezione della stampa del C.C, C. Mitea). Conformemente a queste fonti, gli antecedenti dell'effetto tradotto in teoria risiede nelle attribuzioni del gruppo dirigente e nelle relazioni di lavoro stabilite dalla coppia Ceausescu che monopolizzava la decisione ed allo stesso tempo nel principio "della rotazione dei quadri" attraverso il quale il dittatore e sua moglie attribuivano delle differenti responsabilità ad un stesso subordinato in un breve intervallo di tempo. Le caratteristiche dell'adozione delle decisioni fatte dal CPEX sono state generalizzate a tutti i livelli di decisioni subordinate, (i comitati dipartimentali di partito attraverso i quali il collegamento con Ceausescu era mantenuto con l'aiuto di teleconferenze settimanali, locali, comunali e delle organizzazioni di base). Il principio dell'unanimità imposto nella vita politica rumena dopo l'instaurazione del culto della personalità, le procedure di selezione e di promozione degli attivisti di partito, l'adozione delle decisioni di elezione del leader nel congresso del partito attraverso i delegati che portavano i mandati delle organizzazioni politiche territoriali di riconferma del dirigente, rappresentano delle forti tendenze all'aspirazione del consenso al punto che in Romania il malcontento individuale non è riuscito a raggrupparsi intorno ad un nucleo unificatore. Si può affermare anche che è una situazione quasi simile a quella della Bulgaria, (dove tuttavia si nota un tentativo riformatore), perché la chiesa è rimasta completamente asservita al potere. I malcontenti dei rumeni sono stati espressi da quella che è stata chiamata in seguito "la sincerità di cucina", Iakoviev e Marcou, 1999. I fatti raccontati dal vecchio capo della Cancelleria del C.C. precisavano le relazioni del nucleo di potere (Curticeanu, 2000). Così i membri del CPEX erano designati direttamente dalla coppia Ceausescu. Il loro elenco letto solamente alla vigilia del congresso del partito, per essere approvato dai partecipanti, era diventato una sorpresa anche per le persone designate. I rapporti ed i materiali il cui il dibattito e la cui approvazione rappresentavano l'attribuzione dei membri del CPEX, erano messi a loro disposizione dopo l'entrata nella sala di seduta. Dopo 275 un'esposizione sintetica dei temi, sostenuta da Ceausescu, il leader traeva delle conclusioni come: ("Dubito che non siate di accordo di approvare..."). Il rapporto doveva essere presentato poi al congresso del partito ed approvato per i membri del CPEX senza che ne conoscessero la situazione ("voi vi annoiereste se le ascoltaste prima di riunirvi nella sala di seduta diceva Ceausescu) Nell'onnipotenza dell'ideologia rappresentata dal leader, le informazioni e le influenze sugli altri membri del gruppo, notizie giunte dell'esterno del paese, erano escluse. "Il controllo tecnico" di quelli che erano addetti nei meccanismi decisionali attraverso la polizia politica, aveva condotto - nello svolgimento degli avvenimenti del dicembre 1989 - alla informazione dei membri del CPEX trasmessa esclusivamente da Ceausescu. Le riunioni del gruppo dirigente sono caratterizzate secondo tutte le testimonianze, da uno stress straordinario. L'invocazione eccessiva dei comandamenti ideologici del leader del gruppo - la condizione primordiale del consenso del gruppo dirigente - porta alla situazione registrata nello sténogramma della seduta del CPEX del 17 dicembre 1989. Dopo l’informazione snaturata di Ceausescu sugli avvenimenti di Timisoara ("le azioni sono state pianificate dall'est e dall’ l'ovest riuniti per distruggere il socialismo"), la coppia Ceausescu si rivolge a quelli che avevano delle responsabilità in seno alle forze dell’ordine, imponendo, in realtà, in un modo militare, il rapporto dell'esecuzione degli ordini dati. Alla fine, il leader del gruppo decide: "Lotteremo fino all'ultimo e dobbiamo sottometterlo all'approvazione perché l'indipendenza e la sovranità sono conquistate e difese dalla lotta, perché se nel 1968 non avessimo agito così, ci avrebbero invaso come avevano fatto in Cecoslovacchia quando i sovietici ed i bulgari erano alla frontiera La valanga di avvenimenti che ha seguito il discorso di Ceausescu al balcone, (tenuto nella confusione del leader sulle cause degli avvenimenti in corso, la generalizzazione della rivolta, il crollo del regime dopo la fuga della coppia Ceausescu, rappresentano l'insuccesso dovuto a "l'effetto, groupthink” che ha per conseguenza la mancanza di un'alternativa di governo. La situazione aveva all'origine delle diverse cause chiamate "la telerivoluzione rumena" e " l'affare dei terroristi ". La post-valutazione delle alternative degli ex membri CPEX ha conosciuto uno snaturamento nell'apprezzamento delle difficoltà iniziali dopo la scoperta della decisione corretta. Alcuni di quelli che hanno preso la decisione si sono ulteriormente colpevolizzati per avere ignorato dei dati essenziali, facili ad osservare, colpevolezza che ha generato delle reazioni nevrotiche depressive o compensatorie. Così, dopo il processo degli ex membri del CPEX, alcuni sono morti o si sono suicidati (Giosan, Totu), gli altri hanno scritto le loro memorie attraverso le quali tentavano, principalmente, di giustificare le decisioni del gruppo di cui hanno fatto parte (Popescu, Niculescu-Mizil, Curticeanu). Conclusioni Le considerazioni esposte rappresentano una visione di insieme su un progetto più ampio che è in svolgimento. In ciò che abbiamo presentato ci siamo limitati all'esposizione della motivazione dell'approccio in modo interdisciplinare di questo avvenimento della storia contemporanea, alla presentazione della metodologia e del riassunto di un capitolo che prova che le teorie della psicosociologia affermano la loro validità in zone che sono impossibili da analizzare ricorrendo alla storiografia tradizionale. Certamente, l'estensione dell'analisi nella prospettiva dei cambiamenti sopraggiunti nella memoria sociale, delle rimanenze di rappresentazioni, degli stereotipi e dei cliché determinati da un mezzo-secolo di comunismo suppone un sforzo di lunga durata e di grande intensità, utile al, ricercatore e, implicitamente 276 allo storico preoccupato del passato recente e dai suoi effetti sul presente e sul futuro dei paesi europei ex-comunisti. 277 37. La risposta degli Stati Uniti agli eventi del 1989 Wolfgang Krieger Qualsiasi riflessione su questo argomento deve cominciare come minimo con una breve trattazione della struttura del potere globale dell’America che, in teoria, da a Washington un gran numero di modi possibili di rispondere alle crisi internazionali. In pratica, tuttavia, il raggio d’azione globale dell’America rende le cose infinitamente complicate. Ogni passo deve essere considerato, in primo luogo, alla luce di potenziali contromisure da parte di oppositori potenziali o reali, in secondo luogo, con un occhio a come ogni mossa potrebbe essere interpretata dagli alleati dell’America, e in terza istanza, con riferimento alla potenziale escalation di ogni azione. E’ anche troppo facile mettere in moto una serie di reazioni che possono essere sfruttate dagli oppositori, fraintese dagli alleati e difficili da ribaltare o persino da controllare. In questo senso, la struttura di potere globale americana è sia un punto di forza che una responsabilità quando viene a trovare una risposta appropriata ad una crisi internazionale, in particolare se quella crisi – come quella che ha interessato la sfera sovietica d’influenza del 1989 – non può essere confinata geograficamente e in essa le grandi potenze hanno notevoli interessi. (In aggiunta all’Unione Sovietica la complicata Repubblica Popolare Cinese era continuamente nei pensieri dei decisionisti di Washington). A partire dalla seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno mantenuto non solo un certo numero di alleanze militari, soprattutto la NATO e l’alleanza col Giappone, ma anche una vasta rete di basi militari. Esse comprendono non solo attrezzature portuali, campi d’aviazione, depositi di munizioni, depositi di carburante e altre forniture, posti di comando, avamposti militari e attrezzature mediche – per menzionare solo i tipi più ovvi – ma anche un grande numero di attrezzature tecniche per le comunicazioni e per i servizi segreti. Molte di esse risalgono ad un uso bellico prima del 1945. In seguito lo sviluppo delle tecnologie militari e delle comunicazioni ha aggiunto schiere di nuovi tipi di installazioni. Le stazioni di comunicazione satellitare sono l’esempio più ovvio di quelle tecnologie post-belliche a cui, a partire dagli anni ‘80, ci si riferisce come a RMA (rivoluzione negli affari militari). Questa vasta rete di attrezzature è fondamentale per muovere e guidare gruppi di portaerei e sottomarini americani, le navi da spionaggio, le forze aeree e gli eserciti intorno al globo. In altre parole, anche se un’altra potenza, diciamo l’Unione Europea, avesse le sue portaerei, sottomarini, flotte di bombardieri, piattaforme missilistiche mobili, forze speciali e così via, questi assetti non potrebbero essere schierati attorno al globo e non sarebbero pronti per l’azione senza una infrastruttura paragonabile a quella americana. In Europa, tra i primi anni ‘50 e gli anni ‘90, gli Stati Uniti mantennero forze in uniforme per un totale di circa 320.000 uomini (in seguito uomini e donne), con circa 6.000 armi nucleari nei depositi – per menzionare solo queste due cifre di media (che naturalmente variavano di anno in anno). Incidentalmente, non ci sarebbe stato modo di mantenere queste forze stazionate oltre mare, la maggior parte in mezzo ai territori nazionali di nazioni alleate (circa 240.000 solo nella Germania Occidentale), senza l’esistenza di una rete politica economica e culturale che si muovesse in parallelo con questa struttura militare. Tutto attorno all’Europa Occidentale, queste forze erano disposte in schieramenti che lo storico norvegese, Geir Lundestad, ha definito “impero su invito”. Quello che lui vuol dire con questo termine è che le nazioni ospitanti hanno accettato questi dispiegamenti di forze statunitensi perché credevano che fossero nell’interesse della loro sicurezza nazionale. Al tempo stesso, tuttavia, c’era una costante esigenza di reinventare quelle alleanze. Gli alti e bassi delle relazioni sovietico-americane, la minaccia di un conflitto nucleare, l’atteggiamento talvolta “imperialistico” dimostrato dagli USA in Europa e nel resto del mondo ha prodotto delle innumerevoli crisi NATO, impulsi antiamericani e dimostrazioni sulle strade al grido di “yankee andatevene a casa”. 278 Spiegare perché questo “impero su invito” è durato così a lungo, perché ha superato così tante crisi, va oltre lo scopo di questa trattazione. Basti sottolineare che la politica militare da sola, persino la brutale minaccia della politica estera sovietica, non sono state sufficienti a disintegrare la NATO. C’è stata una rete di relazioni parallele che hanno tenuto le cose stabili. Oltre ai crediti e alle merci che sono arrivate in Europa Occidentale attraverso il piano Marshall, fondi segreti sono andati ad una lunga lista di unioni sindacali, partiti politici, organizzazioni civili e a leader anticomunisti per sostenere le loro lotte politiche. Il sostegno coperto della CIA per le elezioni italiane dell’aprile del 1948, è stato soltanto uno degli esempi più eclatanti del tempo, con molti altri interventi meno conosciuti che correvano in parallelo altrove. Il sostegno a Solidarnosc in Polonia durante gli anni 80 è stato forse l’ultimo maggiore esempio di questo segreto e non violento aiuto. Le spedizioni di armi americane ai Mujahedin, che combattevano l’occupazione sovietica in Afghanistan sono state organizzate dalla CIA più o meno nello stesso periodo. Fuori dall’Europa, particolarmente in Sud America, gli USA hanno talvolta dato sostegno segreto per supportare le attività di compagnie private americane in quei mercati. Basandosi su una vasta rete di investimenti statunitensi e di relazioni d’affari ben stabilizzate già prima della guerra, gli americani intensificarono notevolmente le loro attività di affari esteri subito dopo il 1945. Durante gli anni ‘60, così tanti investimenti privati americani giunsero in Europa che un importante giornalista liberale francese pubblicò un libro chiamato “Le defi americain” ( la sfida americana). Divenne immediatamente un best-seller. Ovviamente, toccò una corda nell’opinione pubblica dell’Europa Occidentale. Gli affari degli Stati Uniti stavano diventando un pericolo per la sovranità dei piccoli e medi paesi industrializzati? A differenza dei loro principali rivali, gli Usa inviarono un potente messaggio culturale in tutto il pianeta. Lo “stile di vita americano” (qualunque sia il suo esatto significato) divenne uno slogan. Milioni di persone in tutta Europa volevano ascoltare la pop-music e il jazz americano. Indossavano pantaloni jeans, guardavano films di cow-boys e ammiravano il benessere e lo stile di vita americano, o forse quello che pensavano di sapere riguardo ad esso. In contrasto, poche persone volevano adottare uno stile di vita sovietico, o ascoltavano musica folk Russa - poche persone a parte i russi. Non c’erano prodotti di consumo sovietici a stuzzicare le fantasie popolari. Entro la fine degli anni ’70, al più tardi, lo stile sovietico del “Socialismo” era stato completamente screditato. La stagnazione economica divenne persino più evidente, mentre i mezzi di comunicazione portavano lo stile di vita occidentale in un numero sempre maggiore di case nell’Europa Orientale ed anche in Unione Sovietica. E’ una questione molto dibattuta se il ruolo globale giocato dagli Usa possa essere propriamente chiamato “imperiale o egemonico”. Non ci sono dubbi che Washington abbia assunto una leadership globale, essenzialmente in ciò che si intende essere una lotta globale tra libertà e dittature totalitarie, o tra democrazia liberale e comunismo di stampo sovietico. Si comprese che i tutti i conflitti locali e regionali appartenevano a questo contesto non appena gruppi comunisti o alleati con Mosca ne furono coinvolti. Quando ci fu lo smantellamento Sino-Sovietico alla fine degli anni ‘50, la Cina venne considerata come una seconda sfida della medesima natura. Al tempo stesso, tuttavia, le successive amministrazioni Americane resero chiaro che esse avrebbero perseguito una politica di coesistenza pacifica con i Sovietici e, in seguito, con i Cinesi. Nel determinare La grande stratega dell’America contro il comunismo Sovietico, i presidenti americani Truman e Eisenhower scartarono in modo categorico qualsiasi idea di un attacco preventivo. Tali idee erano discusse da una minoranza di esperti militari in un momento in cui i Sovietici avevano cominciato il loro programma di armamenti nucleari ma non avevano ancora 279 raggiunto una capacità tale da permettere loro di lanciare un attacco nucleare diretto al territorio Americano. I due concetti che caratterizzavano largamente la politica statunitense erano “contenimento” e “deterrenza nucleare”. Il primo era essenzialmente, una tacita garanzia che i sovietici avrebbero potuto mantenere i loro guadagni territoriali e la vasta zona di influenza ottenuta con la fine della Seconda Guerra Mondiale. (In un certo senso, potrebbe essere chiamata una sorta di variazione al concetto di pacificazione portato avanti a partire dagli anni ‘30). Il secondo si rifaceva ad un concetto di egemonia statunitense perché, nel campo occidentale, solo gli Usa avevano le risorse per costruire un vero e proprio sistema globale di deterrenza nucleare. Dal 1961 in avanti, Washington e Mosca (sostenute dalla Gran Bretagna ma con l’opposizione di Francia e Cina) giunsero ad un concetto di “non-proliferazione “ nucleare, che avrebbero dovuto assicurare che il “grande gioco” di deterrenza nucleare doveva avere solo due maggiori giocatori ed esattamente le due superpotenze (come vennero chiamate d’ora in poi). A dire il vero, questo accordo globale non funzionò in modo adeguato. Esso diede origine ad un notevole spreco di denaro per gli armamenti. Inoltre non avrebbe mai potuto completamente assicurare che una guerra non sarebbe più scoppiata o come una conseguenza di incomprensioni o di giudizi sbagliati, o dovuta ad un sconsiderata leadership da parte delle due superpotenze. Sia a Washington che a Mosca c’era un paura ben radicata che i loro rispettivi alleati o persino i loro più distanti stati satelliti avrebbero spinto con l’inganno le superpotenze ad un confronto diretto. In questo modo si sviluppò un certo sentire comune, che portò ciascuna parte a concentrare le essenziali funzioni decisionali nei due centri metropolitani. Al tempo stesso, c’era in ciascuno dei due centri un’acuta prontezza a trarre vantaggio da qualsiasi debolezza mostrata dall’altra parte e a migliorare la propria posizione o tranquillamente o in modo palese. Entrambe le parti ritenevano che le molte crisi nel Lontano Oriente, nel Medio Oriente e in Africa offrissero tali opportunità. Relazioni USA-URSS da Reagan a Bush. Alla vigilia delle rivoluzioni internazionali del 1989, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica erano bloccati in un certo numero di conflitti che determinarono in larga parte l’atmosfera politica di quel periodo. Dopo la fine della guerra americana nel Vietnam, nel 1973-75, il collasso dell’impero portoghese, avvenuto nel 1974, fornì all’Unione Sovietica l’opportunità di allargare la sua influenza nell’Africa del sud. Dalle ex colonie portoghesi dell’Angola e del Mozambico, il Cremlino cercò di costruire un impero africano con cui poter esercitare pressioni sul Sud Africa e sul mondo arabo ricco di petrolio. Con il controllo sulle ricchezze minerarie dell’Africa, Mosca avrebbe guadagnato un enorme influenza economica da indirizzare contro l’Europa dell’ovest e il Giappone, i quali dipendevano in maniera cruciale dalle forniture di petrolio dei Paesi del Medioriente. Persino gli Stati Uniti avrebbero risentito delle conseguenze di una tale influenza sovietica appena conquistata sui prodotti chiave del mondo. Nell’America centrale, il Nicaragua e El Salvador erano due target essenziali riguardo al rovesciamento dell’ordine costituito sovietico. In collaborazione con la Cuba di Fidel Castro, i Sovietici cercarono di guadagnare un punto d’appoggio sul continente americano. Le truppe militari cubane e della Germania dell’est erano impegnate nelle guerre civili dell’Africa del sud. Il leader sovietico Leonid Brezhnev pareva aver individuato una strategia indiretta che forse sarebbe riuscita a minare la forza globale americana evitando nello stesso tempo la guerra tra le due superpotenze. Un altro lato della sua strategia era quello di coltivare simpatie con i partiti di sinistra di tutti i Paesi dell’Europa dell’ovest e anche al di là di questa, sia per la sua politica di “anticolonialismo” nel terzo mondo, sia per l’approccio “responsabile” di Mosca alla deterrenza 280 nucleare, in contrasto alla “sconsideratezza” ideologica e tecnologica americana. La politica dei diritti civili del Presidente Jimmy Carter incontrò ben poche simpatie tra i neo-marxisti dell’ovest, che avevano ormai largamente egemonizzato i discorsi intellettuali sin dalle rivolte studentesche del 1968. La lotta politica sullo schieramento in Europa di missili nucleari a medio raggio (la crisi INF) diede un duro colpo alla NATO anche se, in termini semplicemente militari, in gran parte non fu che una tempesta in un bicchiere d’acqua. Ma i Sovietici si spinsero troppo avanti quando, nel dicembre del 1979, invasero l’Afganistan con l’invio di numerose truppe. Era la prima invasione di quel tipo da parte dell’Armata Rossa dal 1945. Piò o meno nello stesso periodo, la lenta ma crescente lotta politica tra il regime di Varsavia e il sindacato indipendente dei lavoratori Solidarnosc, costrinse Mosca a una lacerante rivalutazione della sua politica nell’Europa dell’est. Come doveva rispondere il Cremlino a un movimento non violento ma chiaramente anticomunista? Doveva forse rischiare una guerra civile e un’operazione militare sovietica su vasta scala che si sarebbe rivelata forse molto più cruenta degli eventi accaduti in Ungheria nel 1956? O doveva cercare di conservare i vantaggi che il blocco sovietico aveva guadagnato dagli accordi di Helsinki del 1975, che erano stati così utili per convincere il pubblico occidentale delle qualità intrinsecamente pacifiche e benevoli del potere sovietico? Rimandando una netta risposta alla questione polacca, il Cremlino finì involontariamente per incoraggiare le forze dissidenti presenti su tutto l’impero sovietico. Mentre nessuno dei loro attivisti credeva che il potere sovietico fosse intrinsecamente benevolo, costoro furono sempre più certi che la politica sovietica fosse ormai bloccata in un dilemma politico. In un periodo in cui Brezhnev era ormai molto anziano, ed era poi stato seguito da due leader altrettanto anziani (Andropov e Chernenko), non ci si poteva certo aspettare nessuna decisione coraggiosa, anche se l’avventura militare in Afganistan si era trasformata in un disastro e nonostante la crescente sfida avanzata dai “gruppi di Helsinki” che erano spuntati dappertutto, sostenendo di possedere certi diritti civili pubblicamente dichiarati e sottoscritti dai loro governi nella capitale finlandese Mentre nei primi anni Ottanta il Cremlino era virtualmente senza una leadership effettiva, salirono al governo di Londra e di Washington due leader dichiaratamente anticomunisti. Uno era il primo ministro inglese Margaret Thatcher, decisa a varare un programma di riforme politiche ed economiche per salvare la Gran Bretagna dalla stagnazione economica. L’altro era il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, essenzialmente un repubblicano moderato quanto a convinzioni politiche, ma un radicale quando si trattava di sfidare i presupposti fondamentali in base ai quali gli Stati Uniti avevano condotto la loro politica interna ed estera dopo la sconfitta nella guerra in Vietnam. Entrambi i leader erano pronti a fornire massicce forniture di armi a tutte le forze locali del terzo mondo che si opponevano ai movimenti con chiare simpatie sovietiche. In Afganistan arrivarono persino a fornire armi di ultima generazione, in particolare i famosi Stinger, missili imbracciati da un uomo e in grado di colpire aerei in volo, che vennero usati non solo contro le truppe alleate di Mosca, ma direttamente contro i soldati e gli aerei sovietici. Parlarono apertamente a favore delle forze dissidenti attive all’interno del campo sovietico. (Quasi certamente, fornirono a quei gruppi denaro e supporti di vario genere). Nel marzo 1983, il presidente Reagan si spinse fino al punto di mettere in dubbio la saggezza della “comune distruzione assicurata”, il cui accordo strategico risaliva al 1972 (il Trattato ABC) secondo il quale le due superpotenze prevedevano la costruzione di un sistema di difesa missilistico, ritenendo che la comune vulnerabilità fosse il deterrente più valido e quindi l’aiuto più significativo alla pace mondiale. A quel punto Reagan propose un massiccio programma di ricerche, dal quale sperava di ottenere un sistema difensivo missilistico spaziale. Incredibilmente, Reagan si offrì persino di condividere il know-how di un tale sistema con i Sovietici, una volta che questo fosse stato messo in funzione dagli Americani. Il pantano afgano e il nuovo messaggio di confronto politico da parte di Londra e di Washington scosse la leadership del Cremlino alle sue fondamenta. L’economia sovietica presentava dei tassi di crescita molto bassi. La tecnologia sovietica era inguaribilmente arretrata 281 riguardo alla tecnologia dei computer, punto cruciale per la costruzione di nuove armi e per le comunicazioni globali. Cominciò così a formarsi un consenso sul fatto che fosse necessaria una nuova e coraggiosa leadership, una leadership dotata di nuove idee, se si voleva che il potere sovietico riuscisse a sopravvivere. Nell’aprile 1985, questa nuova leadership venne creata sotto Mikhail Gorbachev, che avanzò una nuova politica etichettandola sotto i nomi di “glasnost” e “perestroika”. Al fine di guadagnare il favore dei sovietici, Gorbachev propose più dibattiti aperti sui difetti dell’economia sovietica e sull’apparato statale sovietico che, secondo lui, aveva bisogno di una profonda riorganizzazione. Comunque, riforme del genere potevano essere finanziate solo se la spesa militare sovietica fosse stata ridotta da quei livelli eccessivi a cui era arrivata, di circa un 20% (o più?) del prodotto nazionale lordo. Ma ovviamente, un riorientamento del genere richiedeva un nuovo accordo strategico con l’Ovest. La nuova leadership del Cremlino sperava che nuovi rapporti avrebbero favorito un miglior accesso ai mercati del capitale occidentale e alle sue tecnologie. Con grande sorpresa da parte di molti occidentali, Gorbachev andò subito d’accordo con la Thatcher e con Reagan. Altri governi dell’ovest dovettero farsi largo a spintoni per potersi sedere al nuovo tavolo dei negoziati, dove la discussione sulla limitazione delle armi prese una direzione del tutto nuova. Incredibilmente, nel Trattato di Washington del 1987, l’Unione Sovietica accettò di distruggere tutti i suoi missili più avanzati SS-20 a medio raggio e permise, per la prima volta, che l’attuazione del trattato venisse accertata da ispezioni in loco. Non c’è dubbio che le relazioni est-ovest promettevano grossi cambiamenti. Ma in che direzione? Quali erano gli scopi a lunga scadenza di Gorbachev? Era, costui, essenzialmente un Brezhnev solo più giovane, deciso a fare cose ancora più temerarie, o stava per smantellare il repressivo sistema sovietico? Se la sua intenzione era quest’ultima, cosa sarebbe diventata l’Unione Sovietica dopo qualche anno di riforme? Quali sarebbero state le implicazioni per gli stati satellite? E quale direzione avrebbe infine preso la politica estera sovietica? Sembra che la maggioranza dei diplomatici di professione e di coloro che si occupavano di politica credesse all’ipotesi del “Brezhnev più giovane”. Costoro avevano consigliato alle potenze dell’ovest di adottare un approccio cordiale ma pragmatico del “restiamo a vedere ciò che succede”. Il presidente George H. W. Bush, che aveva assunto il potere nel gennaio del 1989, era circondato da consiglieri scettici sul “fattore Gorbachev”, e alcuni di questi lo erano più di altri. Era significativo il fatto che lo stesso Bush fosse piuttosto ottimista, ma che volesse comunque procedere con molta cautela. Non c’è dubbio che fosse anche intimidito dall’ala destra del suo Partito Repubblicano, che riteneva che Bush fosse segretamente un liberale. Così come andarono le cose, Bush ebbe meno tempo di costruire un suo programma di quanto avrebbe desiderato. Ciò fu dovuto alla popolarità sempre più crescente che Gorbachev riscuoteva tra il pubblico occidentale e, ancora più significativamente, tra quello dell’Europa dell’est, che sperava di sganciarsi definitivamente dal vecchio sistema sovietico. Mentre il leader sovietico stava ormai diventando un eroe politico del popolo, la squadra di Bush restava legata alle idee tradizionali sulla riduzione degli armamenti. Lo stesso Bush sperava di presentare ciò che lui definiva un “ardito” insieme di proposte. Ma non si sentiva certo a suo agio davanti all’entusiasmo suscitato da Gorbachev. Non riusciva proprio a capire come si potessero varare profonde riforme senza rischiare un altro fallimento simile a quello della Primavera di Praga del 1968, che aveva portato solo a una maggiore repressione. Se un simile movimento riformista fosse stato lanciato e avesse poi dovuto fallire - e questa volta non in un piccolo paese satellite, ma nella stessa terra sovietica! - il risultato sarebbe stato molto più destabilizzante che nel 1968. Era inevitabile per i Paesi dell’ovest restare a guardare, impotenti. I gruppi di Helsinki, che indubbiamente s’aspettavano un supporto da parte dell’Occidente, sarebbero stati sicuramente abbandonati, perché un aiuto del genere non poteva essere garantito in nessun modo. L’idea di Bush prese forma dopo settimane di discussioni. . Il suo punto nodale era valutare il reale valore delle intenzioni di Gorbachov su due problemi chiave: il controllo delle 282 armi e la politica sovietica nell’Europa orientale, con particolare riguardo per la Polonia e l’Ungheria. In quelle due nazioni i movimenti democratici avevano lottato tenacemente, ottenendo un certo successo. Nel dicembre 1988 il governo ungherese aveva annunciato un piano per legalizzare i partiti non comunisti e per introdurre politiche di riforma. In Polonia il governo comunista aveva iniziato a negoziare con la leadership di Solidarnosc. Bush definì i due obiettivi principali. Il primo era la riduzione delle forze convenzionali. Questa misura avrebbe ridotto la pressione che i Soviet potevano esercitare sui loro satelliti europei. Il secondo obiettivo era quello di premiare gli stati comunisti che stavano introducendo riforme veramente democratiche. Si trattava di un mutamento significativo rispetto alle precedenti pratiche occidentali, che avevano favorito gli stati che in qualche modo dissentivano dalla linea di politica estera di Mosca mantenendo al contempo regimi repressivi verso le popolazioni. Il regime rumeno di Nicolae Ceausescu costituiva un esempio particolarmente negativo del vecchio tipo di approccio. Bush delineò la sua strategia attraverso una serie di quattro discorsi nell’aprile e nel maggio del 1998. Elogiò la prontezza della Polonia nel tenere elezioni almeno semidemocratiche e promise sia prestiti USA sia alcune liberalizzazioni commerciali. Uno dei suo slogan era “Muoversi oltre il contenimento”, un altro era lo sfidare i sovietici a “guadagnarsi” da soli la strada verso un nuovo tipo di rapporto con gli Stati Uniti. Se voleva provocare un mutamento drammatico nelle relazioni oriente-occidente nel campo della sicurezza l’Unione Sovietica doveva abbandonare la sua strategia militare offensiva e trasformare il Patto di Varsavia in un’alleanza difensiva simile alla NATO: La reazione tra gli alleati dell’America nella NATO fu piuttosto varia. Molti capi di stato ritennero che le proposte di Bush fossero basate sul “vecchio tipo di pensiero”. La sua richiesta di modernizzare le forze militari NATO, in modo particolare il suo arsenale di missili a testata nucleare a breve gittata (modernizzazione Lance), incontrò una forte resistenza da parte del governo conservatore-liberale di Bonn, dove il ministro degli esteri, Hans-Dietrich Genscher, rifiutò totalmente di assecondare tale indicazione. A differenza di molti altri politici di primo piano Genscher era giunto alla conclusione che le intenzioni di Gorbachov fossero oneste e che gli si sarebbe dovuta offrire un’ opportunità. E’ abbastanza ovvio che Genscher era chiaramente conscio della popolarità di Gorbachov. Persino il cancelliere Helmut Kohl, che aveva mostrato grande coraggio nella battaglia politica per gli schieramenti INF nei primi anni Ottanta, non ebbe l’ardire di lottare per sistemi missilistici più moderni. Per contro Margatet Thatcher insisteva sulla modernizzazione nell’intento evidente di rendere la vita difficile alla Germania, nazione e dove i vecchi sogni di una relazione speciale con Mosca e perfino della rinascita di una Germania unificata stavano diventando sempre più popolari sia tra i conservatori che tra i socialisti dell’ala sinistra. (Questi ultimi speravano che in cambio Mosca domandasse il ritiro della Germania dalla NATO, ottenendo così la liberazione dal “giogo dell’America capitalista”) Al summit NATO verso la fine del maggio 1989 Bush si trovò in una posizione difficile. Molti, all’interno dell’alleanza, preferivano le proposte di Gorbachov a quelle provenienti da Washinghton. Bush decise di entrare nella “tana del leone”- la Germania dell’Est - per mostrare alla gente di non essere un guerriero freddo, difensivo e di vedute ristrette. In svariati discorsi durante il suo viaggio chiese di porre fine alla divisione della Germania, “un’Europa unita e libera”. Offrì alla Germania una posizione speciale come “partner nella leadership” (con gli Stati Uniti) e dichiarò il suo sostegno all’unità della Germania a condizione che si potesse mantenere la stabilità internazionale. Alcuni giorni dopo, il 3 e 4 giugno, la Cina assistette al “massacro di Tienanmen”. Alle forze armate fu ordinato di caricare una grande folla di studenti e di cittadini che si erano radunate nella piazza più grande di Pechino per chiedere che venissero attuate riforme e che si ponesse fine alla corruzione all’interno del regime comunista. Questo evento ebbe ramificazioni davvero globali per due motivi: il primo riguardava il futuro del movimento 283 riformatore della Cina ed il secondo concerneva l’impatto che una misura così repressiva avrebbe avuto sul fragile piano riformatore negli altri stati comunisti. All’inizio degli anni ’90 la Cina si era avviata verso un suo particolare percorso in direzione delle riforme. L’idea di Deng Xiaoping, lo spirito guida che stava dietro a tutto il processo, era basata sulla graduale transizione verso un’economia di mercato ma non prevedeva una democratizzazione a livello politico. I poteri del partito comunista cinese non sarebbero stati ridotti, sebbene alcuni dei suoi leaders corrotti fossero stati rimossi dal loro ufficio e persino processati. Gli zeloti riformisti all’interno del partito sarebbero stati trattati piuttosto brutalmente. Fu proprio contro l’ostinato rifiuto di prendere in considerazione le riforme politiche che gli studenti iniziarono a protestare nell’aprile del 1989. Per questa ragione si sviluppò rapidamente un movimento di protesta che attrasse ampie simpatie tra i giovani funzionari di partito. Le loro richieste trovarono eco perfino all’interno delle forze armate. La risposta del governo fu inizialmente cauta. Vi furono negoziazioni tra i funzionari del governo ed i leaders della protesta allo scopo di trovare una soluzione pacifica. Durante la visita di Gorbachov a metà maggio alcune delle sue apparizioni pubbliche vennero disturbate. Alcuni eventi dovettero perfino essere cancellati. A quel punto la direzione del partito sentì la necessità di asserire la propria autorità. Alcune unità militari leali furono richiamate a Pechino per porre fine a queste crescenti rivolte pacifiche. Si trattò di un evento sanguinoso e cruento che suscitò sdegno in tutto il mondo. Ma la leadership comunista cinese non porse le sue scusa. Ovviamente questa misura fu presa con l’esplicito consenso di Deng Xiaoping. Come doveva reagire l’amministrazione Bush di fronte a questi fatti? Il Presidente Bush, che un tempo era stato ambasciatore USA a Pechino, si impegnò strenuamente per lo sviluppo ulteriore delle relazioni USA-Cina. Vi era stato in febbraio per una breve visita in seguito al funerale dell’imperatore del Giappone Hirohito. Si riteneva che la Cina fosse sulla buona strada per diventare una grande potenza sia in termini economici che militari. La si considerava un mercato vasto ed in rapida espansione che offriva agli Stati Uniti opportunità di ricchezza . Era inoltre ritenuta una specie di polizza assicurativa in caso di massiccia inversione di tendenza da parte dell’Unione Sovietica. Sebbene Bush dovesse scendere a patti con lo stato d’animo del Congresso e sanzionare la Cina per il suo atto barbarico, egli cercò tuttavia di mantenere aperto il canale della comunicazione. Infatti inviò Brent Scowcroft, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, in missione segreta a Pechino allo scopo di mostrare il suo profondo desiderio di appianare rapidamente le cose. I leaders cinesi che incontrarono Scowcroft gli dissero in chiari termini che erano profondamente scettici nei confronti delle politiche riformatrici di Gorbachov e che si sarebbero attenuti alla loro agenda. Le riforme economiche avrebbero avuto la precedenza e quelle politiche le avrebbero seguite in una fase successiva. Gli eventi di Tienanmen costituirono un modello sul modo di trattare il movimento democratico. Questo interrogativo fu veementemente discusso in tutto il mondo. Significativamente, Gorbachov diede anche pubblicamente il suo supporto alla leadership cinese. I suoi colleghi orientali della linea dura fecero altrettanto. Nella Germania dell’Est l’uso delle forze armate contro i manifestanti fu salutato con particolare calore. Il capo dello stato, Enrich Honecker, ed il suo capo dei servizi segreti, Erich MielKe, che erano entrambi molto critici nei confronti delle politiche riformatrici di Gorbachov, dimostrarono particolare soddisfazione. Essi avevano persino cominciato a mettere al bando le pubblicazioni ufficiali di Mosca nelle quali venivano magnificate le riforme di Gorbachov. La linea del partito ufficiale di Berlino Est fu che quelle riforme non erano necessarie nel loro paese. Il socialismo stava funzionando bene, grazie. Il governo della Germania dell’Est era finito sotto forte pressione in conseguenza delle politiche riformiste del Soviet. Vari gruppi riformatori chiedevano non solo la fine del potere monopolizzatore del partito comunista ma un ritorno alla nazione-stato tedesca, l’unificazione con lo stato della Germania dell’Ovest. Migliaia di persone chiedevano visti per l’emigrazione. 284 Il loro numero crebbe drammaticamente quando, il 2 Maggio, la recinzione di filo spinato tra Austria ed Ungheria venne smantellata nel corso di una cerimonia officiata dai due Ministri degli esteri che fu trasmessa in TV. Per molto tempo un’ampia maggioranza di tedeschi dell’Est aveva avuto l’abitudine di guardare la TV della Germania Federale. Grazie ad essa potevano vedere l’enorme differenza nelle possibilità di consumo e nel tenore di vita. Vi era ora qualcosa di unico ed insolito da guardare in Tv: il capo supremo del Soviet che, attraente come un star popolare, nei mesi di giugno e luglio se ne andava in giro per la Germania dell’Est, la Francia e davanti al Consiglio d’Europa. Ovunque andasse lui ed il suo programma di riforme erano accolti con crescente entusiasmo. Il vecchio encomio “imparare dall’Unione Sovietica è imparare ad essere vittoriosi” assumeva un significato totalmente nuovo. Il 10 luglio il president Bush visitò la Polonia, cenò con Lech Walesa, il fondatore di Solidarnosc, nella sua modesta abitazione di Gdansk, parlò al Parlamento Nazionale (Sejm) e lavorò privatamente per persuadere il leader comunista, generale Jaruzelski, affinché proponesse il nome di Walesa nelle elezioni presidenziali polacche. Il giorno dopo Bush arrivò in Ungheria, dove parlò all’Università Karl Marx di Budapest. Solo tre settimane prima, il 16 luglio, una folla di 250.000 persone aveva presenziato alla nuova inumazione di Imre Nagy, il tragico leader delle riforme del 1956. In entrambi i paesi le speranze che questa volta le manette comuniste venissero tolte per sempre erano altissime. Per essere certo che Gorbachov non monopolizzasse l’attenzione in questa “primavera delle nazioni” - come fu ribattezzata dallo storico britannico Michael Howard - a Parigi Bush assistette alle celebrazioni per il 200° anniversario della Rivoluzione Francese nel giorno della presa della Bastiglia (14 luglio). La sua strategia consisteva nell’incontrare Gorbachov solo dopo aver individuato una politica coerente e sostenuta dai suoi alleati principali. Si stava organizzando un summit da tenere possibilmente a Malta verso la fine di novembre. Per alcune oscure ragioni il comitato di programmazione preannunziò che il meeting si sarebbe tenuto al largo della costa maltese sulle due navi da guerra usate per il viaggio dei due leaders. Questa rivelazione si rivelò disastrosa sia perché il maltempo rese difficile passare da un vascello all’altro sia perché l’insolito luogo di incontro sembrò evidenziare che c’era qualcosa di particolarmente problematico ed imbarazzante nel meeting stesso. In realtà Bush e Gorbachov si erano già incontrati ed erano ansiosi di far sì che il meeting avesse un esito positivo. Quello che nessuno dei due poteva prevedere erano gli sviluppi drammatici che la situazione in Europa orientale avrebbe avuto proprio prima del loro incontro programmato. Il 7 ottobre il capo di stato sovietico visitò Berlino Est per contribuire a celebrare il 40° anniversario del secondo stato tedesco. I festeggiamenti si rivelarono fonte di grande imbarazzo per la leadership della Germania Est perché la folla iniziò a gridare “Gorby,Gorby” nell’intento evidente di mostrare il proprio entusiasmo per il piano di riforme di Gorbachov. Analogamente la gente comune espresse la propria profonda insoddisfazione verso i suoi leaders, che ancora rifiutavano di adottare qualunque parte del programma della perestroika. Ma come potevano i governanti di uno stato satellite impedire che il loro popolo inneggiasse al leader dell’ Unione Sovietica? Concepite da Erich Honecker come un grosso trionfo nella sua vita politica, le celebrazioni divennero rapidamente fonte d’ imbarazzo. Nessuna manifestazione di trionfalismo poteva far dimenticare alla gente che durante l’intera primavera ed estate del 1989 migliaia di tedeschi dell’Est avevano fatto i bagagli e lasciato il paese. Alla fine le autorità concessero visti d’uscita ad alcuni di loro. Altri finsero di andare in vacanza in una delle vicine nazioni “socialiste” e lì trovarono rifugio nelle ambasciate della Germania Ovest. Questi eventi avvenivano sotto l’attenta osservazione delle telecamere della televisione occidentale ed ogni sera venivano trasmessi dai principali canali televisivi della Germania Ovest , che potevano essere ricevuti e visti in molte abitazioni della Germania Est. 285 Esisteva una via d’uscita per il regime della Germania dell’Est? L’Unione Sovietica avrebbe fornito il supporto per le misure repressive da prendere contro il movimento dissidente? Il fatto non era assodato ma la leadership della Germania Est stava certamente tentando di trovare una soluzione. Il 18 ottobre Honecker fu obbligato a fare un passo indietro. Un gruppo di leader più giovani era pronto a prender in mano la situazione ed introdurre alcune nuove misure politiche, incluso un regime meno restrittivo in materia di emigrazione. Questi giovani leaders speravano di ottenere il sostegno di Mosca e forse perfino un certo supporto da parte di altre capitali occidentali. Dopotutto molti, in Europa, più o meno apertamente erano a favore della continuazione della divisione della Germania. Mentre il presidente Bush era a favore dell’unificazione tedesca, il primo ministro Margaret Thatcher gli aveva fatto chiaramente sapere che non gradiva affatto ciò che lei considerava un drammatico cambio nella politica Europea. Il presidente francese Mitterand era indeciso. Non voleva mettere a rischio l’amicizia franco-tedesca ma non era neppure incline a vedere una Germania più ampliata. Se la Germania Est fosse stata l’unica nazione in crisi nel blocco sovietico il vecchio modo di intervenire avrebbe potuto avere la meglio. Nell’economia della Germania Est sarebbe stato riversato più capitale occidentale in cambio di maggiori concessioni politiche, mentre i quattro poteri avrebbero potuto conservare la loro influenza politica sulla repubblica di Bonn. Ma nel 1989 la rivoluzione aveva un carattere transnazionale ed era diretta contro lo stile socialista in tutte le sue forme. Si trattava davvero di un ritorno delle identità dell’Europa centrale ed orientale. L’unità tedesca non poteva pertanto essere tenuta fuori dall’agenda di quella rivoluzione, specialmente se i tedeschi dell’est la chiedevano ed i Soviet la tolleravano. Entrambe le condizioni si verificarono quando nell’autunno del 1989 i tedeschi dell’ Est cominciarono a scendere in piazza ed a condurre la loro “rivoluzione pacifica”, capeggiata a Lipsia dalle dimostrazioni del lunedì, e quando il Kremlino diede ordine al governo della Germania Est di non prendere alcuna contromisura armata. Nel novembre 1989, con la “rivoluzione di velluto” in Cecoslovacchia, la Germania Est si trovò ad essere completamente circondata da governi non comunisti. Conclusioni Prima della fine dell’anno era ancora ben lungi dall’essere chiaro come queste rivoluzioni antibolsceviche sarebbero andare a finire. Il presidente Bush e la sua amministrazione non avevano ancora stabilito una relazione di completa fiducia con il Kremlino di Gorbachov e la questione dell’America Centrale costituiva ancora un punto di divisione tra le due potenze. Il summit di Malta era stato un successo in termini di “atmosfera” ma non aveva prodotto alcun risultato tangibile. Bush era ansioso di mantenere le sue buone relazioni con la leadership cinese di Pechino ed in effetti la informava segretamente su tutti gli aspetti del summit di Malta. Ma uno di essi riguardava una risposta soddisfacente alle rivoluzioni europee. Era ancora poco chiaro in che modo le istituzioni internazionali, soprattutto la NATO, il Patto di Varsavia, la Comunità Europea (più tardi divenuta Unione Europea) ed il Comecon, dovessero essere trasformate per accogliere i nuovi governi post-comunisti europei. Il preannunziato ritiro delle forze armate sovietiche ed americane doveva essere analizzato alla luce della nuova ed emergente architettura della sicurezza europea. In altre parole la maggior parte delle istanze nazionali ed internazionali erano ancora irrisolte alla fine del 1989. Per l’amministrazione Bush la questione più spinosa consisteva nello scoprire se il presidente Gorbachov avesse o meno un piano sul come guidare l’Unione Sovietica attraverso tutti quei cambiamenti rivoluzionari. Quali erano le sue “reali intenzioni”? Che cosa poteva fare Washinghton per scoprirle? Il 1989 aveva aperto interrogativi senza precedenti sul futuro politico dell’Europa ed in senso lato sulle relazioni internazionali a livello globale. I cittadini dell’Europa centrale ed orientale avevano dimostrato chiaramente che tipo di vita sociale rifiutassero e quali fossero le loro richieste per il futuro. Alcune risposte erano state date a livello nazionale od erano in via di 286 essere definite. Ma la struttura complessiva del futuro economico e politico dell’Europa rimaneva dolorosamente incerta. 287 38. La riunificazione della Germania Manfred Gortemaker Erano trascorsi più di 15 anni dalle drammatiche scene del 1989, quando la storia era quotidianamente rivoluzionata dagli eventi. Sono state fatte molte ricerche per trovare spiegazioni rendere il quadro più chiaro. Abbiamo ottenuto l’accesso agli archivi. Abbiamo potuto intervistare un ampio numero di testimoni oculari e di quei politici che hanno deciso il corso degli eventi. Abbiamo letto le loro relazioni. Ed abbiamo fondato istituti di ricerca come lo Zentrum fur Zeithistorische Forshung di Potsdam, che tratta quasi esclusivamente la storia del passato recente, talora con risultati sorprendenti. Ad esempio si riteneva piuttosto seriamente che la DDR non fosse una dittatura ma semplicemente una durchherrschte Gesellshaft, ovvero una “società accuratamente governata” e che nella DDR fosse stato lo stalinismo a fallire, e non il socialismo. E’ giusto dire, comunque, che prima del 1989 nessuno, specialmente in Occidente, era preparato al collasso della DDR e che molti, nell’Europa Occidentale come in quella Orientale, non erano lieti di assistere a tale evento. Ciò era particolarmente vero in Francia, dove esisteva spesso una paranoia nei confronti di una Germania riunificata. Ma l’inquietudine era diffusa non ultimo nel Regno Unito dove il primo ministro Margaret Thatcher avrebbe preferito non vedere affatto la riunificazione della Germania ma, nel caso ciò fosse avvenuto, avrebbe voluto porre il processo sotto una qualche forma di controllo internazionale. Perfino in Germania molti esperti non vedevano la cosa di buon occhio. Solo mesi dopo il collasso della DDR vi furono insistenze affinché la questione della Germania non fosse più legata alla riunificazione ma che piuttosto fosse vista come il problema di due stati che giungevano ad un accordo all’interno del quadro della stabilità Est-Ovest e della sicurezza europea. Il redattore del settimanale tedesco Die Zeit, Theo Sommer, ad esempio, annotò non più tardi del settembre 1989: “Non ci siamo avvicinati di un centimetro alla riunificazione rispetto all’anno scorso, od a cinque o dieci anni fa (..). Il problema dell’unità della Germania non è più bollente che mai. Al contrario: esso sta nella parte posteriore del piano di cottura della politica mondiale ed il fuoco sotto la pentola è spento:”(Die Zeit, 29 settembre 1989): Sembra che solo gli americani fossero giunti ad accettare veramente la Repubblica Federale Tedesca come un pilastro responsabile dell’Occidente democratico e che pertanto avrebbero salutato la riunificazione tedesca come il compimento delle politiche post-belliche e come una vittoria dell’Occidente nella Guerra Fredda con l’Unione Sovietica. Comunque un ufficiale francese anziano annotò che la posizione americana era dovuta solo al fatto che “gli americani sono così scadenti in storia e sono così ingenui da credere che persone come i tedeschi possano mai cambiare” (citato da J:E:Mroz in Gortemaker, 1994, p:viii) Restano quindi gli interrogativi più importanti: perché il crollo della DDR è stato quasi per tutti una sorpresa ? Cosa è stato a causarlo così rapidamente? E soprattutto che cosa lo ha provocato? In questo capitolo cercherò di spiegare perché l’improvvisa riunificazione della Germania non è stata il risultato di politiche accuratamente preparate a Bonn ma piuttosto un effetto collaterale del crollo del comunismo dominato dal Soviet nell’Europa dell’Est seguito da un autentico sollevamento della gente nella Germania dell’Est. Spiegherò che la rivoluzione è stata resa possibile dalle politiche moderate di Mikhail Gorbachov e le azioni dei vicini stati del Patto di Varsavia, in particolar modo la Polonia e l’Ungheria, e che gli eventi che hanno per così dire “interrotto il digiuno” nella Germania dell’Est non erano di natura “germanica” ma 288 simili a quelli espressi in altre nazioni dell’Est europeo che erano a quel tempo sotto la dominazione del Soviet. E cercherò di discutere il fatto che se la Germania dell’Est è stata effettivamente schiacciata dal peso e dal potere del cancelliere federale Helmut Kohl, questo è avvenuto dopo, e non prima, la liberazione dal regime comunista. 1. Germania dell’Est, Europa dell’Est ed Unione Sovietica La DDR è stata posta in essere all’interno della struttura dell’impero sovietico nell’Europa dell’Est costituito dopo la II Guerra Mondiale. Senza l’aiuto sovietico non sarebbe stato possibile fondarla. E senza l’appoggio sovietico la DDR non sarebbe sopravvissuta. Nel corso di tutti i suoi 40 anni di esistenza il regime del PSU (Partito Socialista Unitario) non è mai riuscito a guadagnarsi la legittimazione da parte della stragrande maggioranza dei suoi cittadini. Perfino Markus Wolf nelle sue memorie ammette che il regime non era stato mai accettato completamente da più di un terzo della popolazione - e di solito da un numero di persone molto inferiore (Wolf, 1991). E Wolf lo dovrebbe sapere bene: è stato a lungo il capo della Hauptverwaltung Aufklarung, l’organizzazione spionistica della DDR all’interno del Ministero per la Sicurezza Sociale di Erich Mielke. Fino al momento in cui fu costruito il Muro di Berlino, nel 1961, un totale di 2,7 milioni di cittadini era fuggito dal paese e si era rifugiato nel campi profughi della Germania Ovest - circa il 14% della popolazione della RDT nel 1949: Questo era anche ciò che rendeva la DDR diversa dalle altre nazioni dell’Europa dell’Est e non le rendeva possibile permettersi libertà e mancanza di repressione. La Polonia rimaneva Polonia e l’Ungheria rimaneva Ungheria anche senza il regime comunista. Ma senza il comunismo garantito dal Soviet alla Germania dell’Est, la RDT era quasi certa di fondersi con l’Occidente prospero e dominante ed avrebbe cessato di esistere come stato. Durante la Guerra Fredda l’appoggio sovietico non fu mai messo in discussione. Quando la tensione calò e Willy Brandt si imbarcò nella sua nuova “Ostpolitik” alla fine degli anni ’60, comunque, la RDT dovette affrontare il dilemma di soppesare l’ambìto valore di cooperazione e riconoscimento internazionale contro il pericolo di permettere all’Occidente di minare la sua coesione interna con il cosiddetto “scambio di gente, informazioni ed idee” (Nawrocki,1985). Pertanto la politica di détente (detensione), non la Guerra Fredda, costituirono la prima seria minaccia all’esistenza della DDR: Da un punto di vista occidentale, i tentativi della Germania dell’est di contenere gli indesiderati effetti collaterali della distensione attraverso una politica di demarcazione e il rafforzamento della sicurezza dello stato, costituivano una violazione dello spirito di cooperazione, come per l’ovest l’aumento di contatti personali e la particolare natura delle relazioni intra-tedesche erano pregi sostanziali e non difetti del processo della distensione. Willy Brandt, in particolare, aveva compiuto grandi sforzi per difendere la sua politica come mezzo per creare un ponte, piuttosto che un allontanamento o una divisione, tra l’Est e l’Ovest (Brandt, 1969). La sua politica era stata improntata all’apertura di nuove possibilità per un “cambiamento attraverso un riavvicinamento”, come aveva dichiarato Egon Bahr nel luglio 1963 all’Accademia Evangelica a Tutzing, sottolineando piuttosto gli aspetti dinamici che statici della politica (Bahr, 1988, pp. 325-30). Lo stesso punto di vista era stato espresso da un altro architetto della nuova Ostpolitik, Peter Bender, che si era dichiarato a favore di una “distensione aggressiva” nel titolo di un libro pubblicato nel 1964 (Bender, 1964). La questione adesso era se avrebbero prevalso le forze dinamiche della politica, portando magari a una rivoluzione democratica nella GDR e a una qualche forma di riunificazione, o se la leadership della Germania dell’est sarebbe stata in grado di contenere gli indesiderati effetti destabilizzanti della distensione e trasformarla in un veicolo per il riconoscimento internazionale con un’accettazione e una prosperità interne. Lo sviluppo della Ostpolitik, la distensione e le relazioni intra-tedesche, durante gli anni Settanta e anche negli anni Ottanta, avrebbero fornito una risposta a queste domande. 289 Nei primi anni Settanta, la leadership della Germania Democratica sembrava fiduciosa del fatto che le implicazioni potenzialmente pericolose dell’accettazione dei termini della Ostpolitik da parte della Germania dell’Ovest potessero essere tenute sotto controllo. Sotto il Segretario Generale Leonid Brezhnev, il governo sovietico fornì un deciso supporto, e i benefici di un riconoscimento internazionale e di una cooperazione con l’Ovest erano troppo importanti per lasciarseli sfuggire. Eppure, verso la fine del decennio e nei primi anni Ottanta, sussistevano già i primi segni di una crescente instabilità sociale che trovarono una loro espressione sotto diverse forme: l’espulsione dei cittadini della Germania Democratica, in particolare intellettuali e artisti; la formazione di una opposizione della base, iniziata con il movimento pacifista “Schwerter zu Pflugscharen” e i gruppi ambientalisti, che in seguito conversero tutti sulla Chiesa Protestante della Germania dell’Est; nonché il crescente numero di persone che chiedeva il visto d’uscita o che si presentava alle ambasciate occidentali per ottenere un permesso per lasciare il Paese. L’esempio più eclatante fu Ingrid Berg, una nipote del Primo Ministro della Repubblica della Germania Democratica Willi Stoph; il 24 febbraio 1984 si rifugiò nell’ambasciata della Germania dell’Ovest, a Praga, dove altri 14 tedeschi dell’est avevano già chiesto asilo. Nell’ottobre dello stesso anno, l’ambasciata dovette persino essere momentaneamente chiusa quando più di 100 cittadini della Repubblica della Germania Democratica cercò rifugio nei suoi locali. Fatti simili accaddero anche a Bucarest, a Budapest e a Varsavia (Martin, 1986, pp. 55-7). Una delle ragioni per le quali così tanti tedeschi dell’Est cercavano disperatamente di uscire dalla Repubblica della Germania Democratica era perché avevano perso qualsiasi speranza di ottenere delle riforme in un futuro abbastanza prossimo. Secondo un’indagine dell’istituto di ricerca sulle comunicazioni Infratest di Monaco e dell’Università di Wuppertal, le ragioni per cui 2000 emigranti (Aussiedler) della Repubblica Democratica tedesca avevano deciso di lasciare la Germania dell’est erano la “mancanza di libertà di opinione”, la “repressione politica” o le “limitazioni alle possibilità di viaggiare”. Le ragioni economiche pare avessero giocato un ruolo minore nella loro decisione di emigrare, anche se la motivazione di fondo era costituita da un insieme di diversi fattori (Martin, ibid., pag. 98). La frustrazione della popolazione della Germania dell’est riguardo all’assenza di riforme nella Repubblica Democratica Tedesca veniva amplificata dagli esempi di cambiamento da parte della Polonia e dell’Ungheria e persino da parte della stessa Unione Sovietica. Il fallimento della leadership SED di implementare riforme simili contribuì significativamente alla perdita di speranza tra i cittadini della Repebblica Democratica Tedesca, che fornì alla fine la base per la rivoluzione della Germania dell’Est del 1989. In particolare, gli sviluppi avvenuti in Polonia ebbero un effetto destabilizzante sulla GDR fin dall’estate del 1980, quando una sommossa di operai si fece sempre più grave nei cantieri di Gdansk e di Gdynia, e il movimento Solidarnosc si presentò come una pericolosa sfida al governo del partito comunista (Fils, 1988, pp. 43-54). I disordini nella vicina Polonia distrussero la fiducia della leadership della GDR e portarono molti dipendenti pubblici a chiedersi se quella sensazione di calma interna che era stata imposta al Paese durante gli anni Settanta potesse ancora essere mantenuta. Scioperi di protesta per tutto il Paese e l’organizzazione di sindacati indipendenti da parte degli operai della Germania dell’Est sembravano ben poco probabili, anche se non impossibili. Il 30 gennaio 1980, il SED Politburo decise di porre fine alla libera concessione del visto per la Polonia e di imporre rigide condizioni nei movimenti tra i due stati. La demarcazione verso l’Ovest adesso veniva completata da una delimitazione anche verso l’Est. All’interno della GDR, il Ministro della Sicurezza dello Stato Erich Mielke giurò pubblicamente che avrebbe aumentato in tutto il Paese l’attività degli organismi deputati alla sicurezza nazionale. Ciò si rendeva necessario, sottolineò, per combattere “i piani e le macchinazioni disumane e antisocialiste” delle forze controrivoluzionarie (Neues Deutschland, 17 ottobre 1980). Ma i tumulti scoppiarono ugualmente e l’influenza che le riforme della Polonia ebbero sugli altri Paesi dell’Europa dell’est divenne evidente quando in Ungheria iniziò un acceso dibattito sul “Comunismo Gulash” di Janos Kadar e sugli obiettivi fondamentali del futuro economico e politico del Paese (Tokés, 1984, pp. 6-8) e quando simili discussioni iniziarono 290 anche in Cecoslovacchia - luogo della “Primavera di Praga” del 1968. Comunque, i veri problemi della GDR iniziarono e la situazione cambiò drasticamente quando il 10 marzo 1985 Mikhail Gorbachev divenne il nuovo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Nonostante vari cambiamenti nella tattica e nella condusione politica sotto Stalin, Khrushchev, Brezhnev, Andropov e Chernenko, l’URSS era stata un bastione dell’ortodossia leninista. Per la leadership comunista della GDR, la continuità nella natura del governo sovietico aveva significato innanzitutto stabilità. Il conservatore Cremlino, temendo cambiamenti rivoluzionari e sollevazioni democratiche, si era assicurato, attraverso la sola presenza delle truppe sovietiche, l’uso della forza fisica e delle pressioni psicologiche, il potere del SED come forza governativa della Germania dell’est. Il ruolo delle 380.000 truppe sovietiche di stanza nella Germania dell’est erano servite tanto a mantenere il SED al potere quanto a fornire una sicurezza esterna per il Patto di Varsavia. Fintantoché il comportamento sovietico non metteva in dubbio la funzione disciplinare della presenza dell’Armata Rossa - che implicava costantemente il fatto di essere sempre pronti ad usare la forza per prendere di petto l’opposizione, com’era avvenuto nel 1953 nella GDR, nel 1956 in Ungheria e nel 1968 in Cecoslovacchia - né la stabilità della GDR né l’esistenza dell’impero sovietico nell’Europa dell’est erano in gioco. Tutto ciò cambiò quando Gorbachev salì al potere, anche se non nel giro di una notte. Il nuovo leader sovietico non possedeva un piano generale di riforme al di là degli slogan glasnost e perestroika. Il suo approccio era quello di sviluppare gradatamente, come un processo in corso dipendente dalle sfide che esigevano azioni improvvisate, un concetto per la trasformazione della politica sovietica. Mentre Gorbachev sembrava possedere un’idea generale - o meglio, una visione - di una modernizzazione economica assolutamente necessaria e di riforme politiche nell’Unione Sovietica, così come una generale disponibilità per un ritorno alla distensione e al controllo degli armamenti nell’Ovest, le sue prime mosse politiche verso i Paesi dell’Europa dell’est rimasero contraddittorie. Professioni di diversità si alternarono a una richiesta di unità. Eppure, Gorbachev fece ben poco per scoraggiare aperti dibattiti sui cambiamenti politici ed economici. Infatti, anche solo trattenendosi dall’applicare la tradizionale pressione sovietica, in pratica incoraggiò tali dibattiti (vedere Gorbachev, 1987, pp. 73-8; Palmer, 1990, pp. 6-13). Nella GDR, Erich Honecker accolse favorevolmente gli sforzi di Gorbachev per un rinnovamento della distensione Est-Ovest, ma disse che non c’era alcun bisogno di maggiori aperture o di riforme economiche nella GDR (McAdams, 1988, p. 51). In seguito, Honecker ammise che la nuova politica di Gorbachev era stata per i comunisti della Germania dell’Est una grossa sorpresa. Diversamente dalle loro controparti dell’Europa dell’Est, Honecker e la leadership del SED riaffermarono il loro “corso corretto”, sia passato che presente, e apparentemente non sentivano alcun bisogno di riforme. Honecker insisté perché la GDR non venisse obbligata ad adottare il modello sovietico, e che le fosse permesso di sviluppare il socialismo “con i colori della GDR”. Il membro del SED Politburo, Kurt Hager, il principale ideologo del partito, arrivò persino a dichiarare in un’intervista alla rivista della Germania dell’ovest, Der Stern, che “una politica volta a imporre sulla Germania il sistema sovietico sarebbe falsa; una tale politica non corrisponde alle attuali condizioni della Germania”. E, riferendosi alla visione di Gorbachev di una Comune Casa Europea, Hager aggiunse con un certo sarcasmo: “Se il tuo vicino decide di cambiare la tappezzeria in casa sua, ti sentiresti obbligato a fare altrettanto?” (Der Stern, 9 aprile 1987). Così l’autoisolamento della GDR aumentò. Dopo la demarcazione contro l’Ovest negli anni Settanta e la delimitazione contro la Polonia nel 1980, il SED adesso si isolò persino dalla stessa Unione Sovietica. Eppure, quel crescente isolamento della leadership contrastava fortemente con la crescita politica della popolazione della GDR, soprattutto dei giovani, per i quali Gorbachev non era una minaccia ma un simbolo di speranza. La perdita di contatto con la sua stessa sfera interna da parte del SED, così come con il mondo circostante - inclusa l’Unione Sovietica - sarebbe presto diventato uno dei fattori principali del suo tracollo, quando un crescente numero di tedeschi dell’est cominciò a chiedersi su cosa si poteva ancora sperare. 291 L’impatto dell’“accerchiamento riformista” della GDR ad opera delle mosse crescenti verso una più ampia democrazia e pluralismo nell’Europa dell’est, difficilmente potrebbero venire enfatizzato. Incoraggiati dagli stessi tentativi di Gorbachev di una riforma interna, questi Paesi furono liberi di muoversi verso direzioni del tutto nuove quando, durante la sua visita a Praga nell’aprile del 1987, il ripudio di Gorbachev della Dottrina Brezhnev li liberò dal timore di un intervento sovietico. Diversamente da Leonid Brezhnev, che nel 1968 aveva schiacciato i moti di Praga con la forza militare, Gorbachev accettò l’idea di una diversità dichiarando: “Siamo ben lontani dall’invitare gli altri a copiarci. Ogni Paese socialista ha le sue specifiche caratteristiche, e i partiti fraterni determinano la loro linea politica in base alle condizioni della loro nazione. (…) Nessuno ha il diritto di reclamare uno status speciale nel mondo socialista. L’indipendenza di ogni partito, la sua responsabilità verso la propria gente e il suo diritto di risolvere i problemi dello sviluppo del Paese in maniera del tutto sovrana sono per noi principi incontestabili.” (Pravda, 11 aprile 1987) Un nuovo confronto nell’aprile e maggio del 1988 tra gli operai in sciopero delle acciaierie e dei cantieri navali e il regime del Generale Jaruzelski in Polonia, così come l’espulsione di Janos Kadar in Ungheria, avvenuta il 9 maggio 1988, lasciarono ben presto capire che le parole amichevoli di Gorbachev non erano rimaste inascoltate. Entro la fine del 1988 restava da vedersi solo per quanto tempo ancora la GDR sarebbe rimasta una tranquilla isola di ortodossia in un mare turbolento di strutture politiche, economiche e ideologiche ormai pronte al cambiamento. 2. L’implosione della GDR All’inizio del 1989, al nervosismo della leadership della GDR sulle politiche di Gorbachev della glasnost e della perestroika, e sui tentativi di riforme nell’Europa dell’Est, si aggiunse il problema delle crescenti agitazioni nella stessa Germania dell’est. Comunque, quando la situazione esplose, o piuttosto implose, nel 1989, l’improvviso scoppio di insoddisfazione dimostrò con tutta la sua forza che la passata stabilità era stata una condizione solo superficiale e che la sostanza della società della GDR da lungo tempo stava attraversando drammatici cambiamenti che erano sfuggiti sia agli esperti dell’Ovest che ai politici dell’Est. A parte le proteste e le dimostrazioni piuttosto spettacolari e decisamente visibili del movimento pacifista, dei gruppi ambientalisti e di vari intellettuali, c’erano almeno altre due espressioni di dissenso all’interno della società della GDR che, nel 1989, vibrarono un colpo fatale al regime del SED: la questione degli Uebersiedler e il crescente flusso di rifugiati, così come le dimostrazioni di massa che si intensificarono in un crescente numero di città della Germania dell’Est. Il problema dei rifugiati era già da tempo un argomento scottante. Ma quando il nuovo governo ungherese decise il 2 maggio 1989 di aprire le sue frontiere con l’Austria, gli eventi sfuggirono al controllo. Quando il SED Politburo si riunì, due giorni dopo, il 4 maggio, per un normale incontro e il ministro della Difesa Heinz Kessler riferì l’“informazione ben fondata” che aveva ricevuto dal suo addetto militare a Budapest, e cioè che il governo ungherese stava riducendo le installazioni, anche se il controllo alla frontiera sarebbe continuato, i membri del Politburo provarono un senso di sollievo e proseguirono con la loro riunione e la discussione dei vari argomenti all’ordine del giorno sulle prospettive per l’industria del potassio nella GDR (Cordt Schnibben, Der Spiegel, 16 aprile 1990). Gunter Schabowsky, un membro sia del Comitato Centrale del Sed sia del Politburo, che era presente a quella riunione del 4 maggio, in seguito si ricordò di essersi subito reso conto della “forza esplosiva” che lo smantellamento ungherese della Cortina di Ferro avrebbe potuto avere per la Repubblica Democratica Tedesca ma, come molti altri membri del Politburo, aveva preferito ignorare il suo presentimento poiché la vivace spiegazione del generale Kessler gli aveva fornito un confortevole alibi (Schabowski,1991, p.221) 292 Tuttavia 120.000 tedeschi dell’Est avevano già archiviato applicazioni d’uscita entro la primavera del 1989 e l’apertura della cortina di ferro da parte dell’Ungheria il 2 maggio incoraggiò immediatamente altri a fare lo stesso o - addirittura peggio alla vista del governo della Repubblica Democratica Tedesca - presero un rotta diretta via Ungheria ed Austria verso la Repubblica Federale. Il 19 agosto circa 660 cittadini della Repubblica Democratica tedesca usarono un pic-nic della PAN-EUROPEAN UNION vicino Sopron, al confine tra Ungheria e Austria, per la loro spettacolare fuga ad occidente, mentre le guardie del confine ungherese guardavano attentamente dall’altra parte e non intervennero. Nel Politburo della Sed, Gunter Mittang accusò gli ungheresi di “tradimento al socialismo”. Un ministro deputato per gli affari esteri della Repubblica Democratica Tedesca, mandato a Budapest come rappresentante del Sed “per calmare le acque” tornò a mani vuote. Gli ungheresi non erano più sotto controllo e, inoltre, apparentemente non avevano più intenzione di riguadagnarlo. La marcia su Budapest confermò solo il peggio. L’emissario riportò che il ministro degli esteri ungherese Gyula Horn, era “la forza trainante dietro lo sviluppo”, mentre i militari continuavano ad essere “fedeli alle aspettative della Repubblica Democratica Tedesca”, ma non più uniti. Honecker, perciò ordinò al suo ministro degli affari esteri, Oskar Fisher, di sondare Mosca se un incontro sul Patto di Varsavia avrebbe potuto essere organizzato per disciplinare gli Ungheresi. Ma Gorbachev declinò. Era passato il tempo in cui un distacco dalla linea generale avrebbe potuto essere corretto da una pressione della maggioranza. La repubblica democratica tedesca era sola. Entro un mese, il numero di Tedeschi dell’Et che avevano attraversato l’Ungheria e l’Austria per passare alla Repubblica Federale salì a più di venticinquemila. Il 10 Ottobre, il ministro per le relazione tra le due Germanie in Bonn riportò che, durante i primi nove mesi del 1989, un totale di 110.000 tedeschi dell’Est si erano ristabiliti nella Repubblica Federale, con o senza il consenso dell’autorità della Repubblica Democratica Tedesca. Circa 32.500 residenti della Repubblica Democratica Tedesca si erano registrati nei centri di accoglienza della Germania Occidentale nel solo settembre. Tuttavia l’esodo dei cittadini della Repubblica Democratica Tedesca verso l’Occidente fu solo un catalizzatore del cambiamento. Le dimostrazioni pubbliche contro il regime furono potenti come il movimento dei rifugiati nel segnalare l’opposizione sempre crescente al regime SED. Si erano tenuti regolarmente dimostrazioni il giorno sette di ogni mese a partire da giugno, attirando l’attenzione sulle manipolazioni dell’elezioni locali il 7 Maggio. In aggiunta, dimostrazioni settimanali di lunedì cominciarono a Leipzig lunedì 4 settembre, dopo che circa 1.200 persone si erano riunite a pregare per la pace nella Chiesa Nikolai e avevano cercato di marciare verso Market Square nel centro della città, cantando richieste di libertà di spostamento e il diritto all’assemblea. Entro i primi di ottobre le dimostrazioni del lunedì erano diventate una tradizione consolidata e il punto focale dell’opposizione nella Repubblica Democratica Tedesca. Il numero dei partecipanti era cresciuto a circa 5.000 il 25 settembre, e a 20.000 il 2 ottobre. Incoraggiate dal successo ottenuto dalle dimostrazioni e dalla mancanza di reazione da parte del governo, nacquero una serie di organizzazioni politiche: il 26 agosto fu fondata la SPD nella DDR, il 10 settembre New Forum , il 12 settembre nacque Democrazia Ora ed il 14 fu la volta di Il Risveglio Democratico (Neue Chronik, DDR, Vol. 12, pp. 18-20). La leadership del SED ora si trovava a dover affrontare tanto il problema dei rifugiati quanto quello di un’ opposizione interna sempre più potente alimentata da dimostrazioni di massa e da gruppi politicamente organizzati. Le celebrazioni per il 40° anniversario della DDR il 7 ottobre misero in chiara evidenza la necessità di un cambiamento sostanziale quando Gorbachov, che era stato invitato a presenziare ai festeggiamenti, utilizzò questa opportunità per dichiarare, durante un incontro con il Politburo della SED a Niederschonhausen Castle, che il tempo a disposizione stava terminando e che: “ Abbiamo una solo scelta: andare avanti risolutamente”. Secondo il protocollo Gorbachov affermò testualmente: 293 “Credo che sia molto importante non mancare il momento giusto e non sprecare un’opportunità. (...) Se restiamo indietro la vita ci punirà. (…) Questo è il momento di decisioni importanti. Devono essere decisioni a lungo raggio, devono essere ben ponderate per generare buoni frutti. Le nostre esperienze e quelle di Polonia ed Ungheria ci hanno convinti: se il partito (comunista) non risponde alla vita, sarà condannato. Abbiamo solo una scelta: andare avanti risolutamente, altrimenti saremo battuti dalla vita stessa” (Berlino-Niederschonhausen, 7 Ottobre 1989, p. 99. Per la DDR era in realtà già troppo tardi. Le dimissioni di Erich Honecker da Segretario Generale del SED il 16 ottobre e la sua sostituzione da parte di Egon Krenz poterono alleviare la tensione solo in minima parte. Il movimento dei rifugiati e le dimostrazioni di massa proseguirono. Il 6 novembre 500.000 persone si riunirono a Lipsia, 60.000 ad Halle, 50.000 a Karl-Marx Stadt (Dresda), 10.000 a Cottbus e 25.000 a Schierin. Il giorno seguente l’intero governo della DDR si dimise e l’8 novembre anche il Politburo diede le dimissioni come gruppo. Fu sostituito da una nuova leadership formata principalmente da elementi antiHonecker del regime precedente, tra i quali spiccavano Egon Krenz, Hans Modrow e Gunter Schabowski. Modrow, infine, fu nominato nuovo primo ministro della DDR. In questo quadro globale l’abbattimento del Muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre, sebbene drammatico e simbolico non fu null’altro che uno dei molteplici gradini in discesa verso il declino ed il collasso finale della DDR (Krenz, 1990). Ma la riunificazione della Germania,che era parsa sino ad allora una prospettiva lontana da quando erano iniziati i fondamentali cambiamenti nell’Europa Orientale e nell’ unione Sovietica,ora diventava una possibilità concreta quando gioia ed euforia furono espressi sul muro di fronte alla porta di Brandeburgo.Ora tutto il mondo capiva che era in atto una rivoluzione e che si stava creando una nuova consapevolezza nazionale del popolo tedesco,anche se l’unificazione non era stata la richiesta principale dei milioni di persone le cui dimostrazioni avevano messo in ginocchio la Germania orientale. L’ex Segretario di Stato statunitense ,Henry Kissinger,indicò un futuro gia’ visibile,quando in un articolo di Newsweek del 4 Dicembre citò il ministro degli Esteri austriaco del XIX secolo,Conte di Metternich, che aveva scritto: “La politica è come una commedia in molti atti che si sviluppa inesorabilmente una volta che il sipario si è alzato. Dichiarare quindi che la rappresentazione non andra’ avanti e’ un’assurdita’.La commedia sara’ portata a termine o dagli attori o dagli spettatori che saliranno sul palcoscenico.” E Kissinger aveva ragione: dopo che gli accordi della Guerra Fredda erano stati indeboliti dall’allentamento della tensione fra gli stati e furono alla fine abbandonati dai” leaders” dell’Europa dell’ Est e dell’Unione Sovietica,la RDT aveva poche possibilità di sopravvivenza.Il nuovo Primo Ministro,Hans Modrow fu tra i primi a capire quanto fosse difficile la situazione,particolarmente in termini economici.Nel Gennaio 1990 anticipò la data delle elezioni generali da Maggio a Marzo,affermando che la RDT avrebbe potuto cessare di esistere a Maggio.Il 1° Febbraio presento’ un piano per una confederazione delle due Germanie, denominata”Per la Germania,Patria riunita”,(Modrow 1991.pp184-5).Alcuni giorni dopo,il 6 Febbraio,sollecito’ il governo federale di Bonn a pervenire ad una rapida soluzione per un unione della moneta fra i due stati tedeschi,sapendo che se i tedeschi orientali non avessero avuto il marco tedesco avrebbero tentato di ottenerlo. Le proposte sorprendenti del capo di governo della Germania Orientale ,fatte nello spazio di due settimane,chiarirono oltre ogni dubbio che la RDT non poteva piu’continuare ad esistere.Il regime comunista aveva potuto sopravvivere soltanto come laboratorio dell’impero sovietico.Ora ,circondato dagli stati riformisti dell’Europa Orientale, costretto ad aprire i confini 294 per permettere ai tedeschi orientali di viaggiare liberamente e a confrontarsi con Gorbachev al Cremino,il regime comunista non aveva piu’ futuro.Semplicemente non era in grado di far fronte alle realta’ di liberta’.Poteva soltanto arrendersi e permettere alla sua gente di unirsi alla Repubblica Federale,come la maggior parte dei tedeschi orientali desiderava da 1945. 3. Il ruolo della Repubblica Federale Fino alla fine del novembre 1989 il governo della Germania Occidentale era stato molto cauto a non sfruttare o approfittarsi della delicata situazione che si era sviluppata nella parte orientale del paese e che avrebbe potuto facilmente esplodere in maniera incontrollata. Nel suo annuale Discorso alla nazione dell’8 novembre, un giorno prima dell’apertura del muro il Cancelliere Kohl dichiarò che la Repubblica Federale era preparata a sostenere le riforme implementate dalla nuova leadership della RDT.Invitò il regime comunista al governo della RDT ad abbandonare il suo monopolio di potere , permettere partiti indipendenti e assicurare libere elezioni. Bonn sarebbe stata disposta ,disse Kohl a discutere” una nuova dimensione di assistenza economica” alla RDT,se ci fosse stata una riforma completa del sistema economico,la rimozione della pianificazione economica burocratica e lo sviluppo di un libero sistema di mercato.(Kohl,1989 a,pp.1058-9). Anche dopo l’apertura del muro,in un altro discorso davanti al Bundestag il 16 novembre Kohl rimase scettico.Invece di indulgere all’euforia sulle possibilità di riunificazione della Germania,egli semplicemente riportò i fatti dei recenti sviluppi interni in un’analisi sobria e concisa e confermò che la Repubblica federale avrebbe “ naturalmente rispettato qualsiasi decisione che il popolo della RDT avesse preso in libera autodeterminazione” (Kohl,1989,b,p.1108).Tutti i membri del Parlamento,Verdi inclusi applaudirono.Alcune ore dopo,comunque, l’Ambasciatore statunitense Vernon A.Walter disse ad alcuni funzionari di Bonn:”Io credo nella riunificazione.Chiunque parli contro di essa sarà spazzato via politicamente.” ( Teltschik,1991,pp32-3).Il giorno seguente il governo di Bonn ricevette il testo di un discorso che Gorbachev aveva fatto davanti agli studenti di Mosca il 15 novembre che si riferiva alla riunificazione.Infine il 21 novembre,Nikolai Portugalov,un esperto sovietico si presentò in Cancelleria a Bonn e consegnò una nota manoscritta,frettolosamente tradotta in tedesco,in cui il Governo Sovietico poneva domande precise sulla cooperazione fra i due stati tedeschi e in particolare sulla riunificazione,sull’adesione della RDt alla Comunità Europea e sull’ingresso nelle alleanze e sulla possibilità di un trattato di pace.In una conversazione con Horst Teltschik,il consigliere di politica estera del Cancelliere ,Portugalov aggiunse”Come potete vedere noi stiamo riflettendo attentamente sopra ogni aspetto della questione tedesca,persino……..l’inimmaginabile”(ibid,pp.43-4). Teltschik era naturalmente elettrizzato ,altrettanto il Governo della Germania Occidentale.Evidentemente le considerazioni della leadership sovietica sulla riunificazione tedesca avevano progredito molto più di quanto Bonn avesse fino ad allora supposto-anche oltre quello che allo stesso governo federale fosse concesso di pensare. Così le risposte di Teltschik alle domande sovietiche avevano dovuto mantenersi evasive e circospette. Ma naturalmente, egli informò immediatamente il Cancelliere e organizzò un incontro che ebbe luogo il 23 novembre in Cancelleria.Qui Kohl e i suoi consiglieri decisero di sviluppare una strategia per il progetto di riunificazione,il famoso “Piano di dieci punti” che fu incorporato in un discorso che Kohl avrebbe pronunciato al Bundestag il 28 novembre –non in un rilevante Nuovo Appello sullo Stato della Nazione,ma all’interno di un dibattito programmato sul bilancio. La proposta di Kohl per una confederazione tedesca equivalse ad un grande terremoto.Era la prima volta dagli anni sessanta che un cancelliere tedesco parlava in pubblico della possibilità di riunificazione,dicendo che “ la riunificazione, la riacquisizione dell’unità dello stato tedesco”rimaneva l’obiettivo politico del governo federale”(Kohl,1989c,pp.D7323).Riferendosi agli aspetti esterni del suo programma Kohl aggiunse: 295 “Il futuro della Germania è quello di adeguarsi alla futura costruzione dell’Europa Unita. L’Occidente deve sostenere il processo di pace secondo il proprio concetto di un ordine di pace permanente europeo.Si chiede alla Comunità Europea di avvicinare gli stati riformisti dell’Europa centrale,orientale e meridionale con flessibilità e disponibilità.Questo naturalmente include la RDT.Il governo federale perciò approva la rapida conclusione di un accordo commerciale e di cooperazione con la RDT. Questo potrebbe allargarsi e assicurare l’entrata della RDT nel mercato comune,prospettive del 1992 incluse.”(ibid.,pD733). Ovviamente il Cancelliere continuò ad essere cauto,cercando di evitare qualsiasi cosa che potesse ulteriormente destabilizzare il già traballante equilibrio politico dell’Europa centrale. La sua idea prefigurava soltanto cambiamenti a lungo termine e mirava a creare una struttura europea per ogni fase verso l’unificazione tedesca.Ma quando visitò la RDT tre settimane dopo e si presentò alla folla davanti alle rovine della Frauenkirche(la chiesa delle donne) a Dresda il 19 dicembre, si rese conto velocemente che i tedeschi orientali non volevano un cambiamento a lungo termine,ma immediato,che il tempo si stava esaurendo in fretta e che soltanto la riunificazione tedesca avrebbe soddisfatto le richiesta dei tedeschi orientali.Infatti i partecipanti alle regolari dimostrazioni del lunedì avevano già cambiato i loro slogan da”Noi siamo il popolo”in”Noi siamo una nazione” nei primi giorni di dicembre. Kohl stesso che era stato influenzato dalle emozioni a Dresda,concluse il suo discorso proclamando:” Dio benedica la madrepatria tedesca.”(Kohl,1989 d,p.1262) Successivamente,la proposta del Primo Ministro Modrow”Per la Germania, patria unita” e la sua richiesta di un'unica moneta furono accolte dal governo di Bonn come passi nella giusta direzione. Tuttavia il Cancelliere Kohl non era più disposto a rispettare un governo che non era stato eletto liberamente dai tedeschi orientali e decise di aspettare il risultato delle elezioni parlamentari del 18 marzo 1990 prima di continuare le trattative con la RDT. Egli fu soddisfatto quando L’Unione Cristiano Democratica della Germania est sotto la guida di Lothar de Maizière,con il 48.1% dei voti riportò una vittoria a valanga sul Partito Socialdemocratico tedesco che ricevette soltanto il 21.8% e sui movimenti dei cittadini che riportarono un deludente 2.9%. In realtà fu una vittoria di Kohl che aveva dato ai tedeschi orientali l’impressione che il suo governo e il suo partito a differenza di molti appartenenti all’opposizione socialdemocratica,erano inclini a tener fede alle decennali promesse di solidarietà nei confronti dei loro concittadini dell’est. Al contrario il Primo Ministro della regione dello SAAR Oskar Lafontaine nominato il 19 marzo dal comitato esecutivo del PSD (SPD) come candidato del partito alla carica di cancelliere nell’elezione del Bundestag indette per il 2 dicembre 1990, aveva ripetutamente fatto appello ad una “cauta transizione “ verso una moneta unica con la RDT(GDR) che richiedeva una “ attenta preparazione” indicando così di essere contrario alla corsa verso l’unificazione.(Frankfurter Rundschau,20 marzo 1990). Tuttavia era la strategia di Kohl non quella di Lafontaine che stava per prevalere. L’annuncio dell’ultima ora del cancelliere,soltanto cinque giorni prima dell’elezione di :una conversione 1:1 dei depositi di risparmio si rivelò cruciale nel sovvertire il risultato previsto del voto. Kohl fece pesare la sua autorità e il potere finanziario della Repubblica Federale per aiutare il proprio partito a vincere le elezioni.Il risultato fu un forte richiamo ad una rapida riunificazione e ad una economia di mercato, così come l’indicazione delle promesse persuasive di Kohl , del Partito Cristiano Democratico e dei colleghi dell’Unione Socialista cristiana( CSU) che avevano detto ai tedeschi dell’est che soltanto i conservatori cristiani avrebbero potuto fornire il denaro necessario per far rifiorire la sofferente economia del paese e creare una Germania unificata senza inutili ritardi. Infatti, l’ampio consenso per il Partito Cristiano democratico(CDU) o più precisamente per i partiti sostenuti dal governo di Bonn e dal cancelliere Kohl fu”in realtà una sentenza di morte per la RDT che veniva rapidamente 296 assorbita dalla grande e ricca Germania Occidentale”, annotava Serge Schmemann (New York Times 19 marzo 1990,p.A1). In breve:” Kohl si fece avanti all’ultimo momento, soltanto dopo che la RTD era finita sia politicamente che economicamente,ma quando lo fece, lo fece con grande efficacia. Sarebbe ingiusto dire che la Repubblica Federale abbia spinto verso il processo di riunificazione in modo aggressivo o prematuro,prima che il popolo della Germania dell’est l’avesse accettato. Ma una volta che la decisione fu presa- dal governo Modrow e dall’elettorato del 18 marzo- il cancelliere Kohl non esitò a prendere la guida e condurre il processo di unificazione nella direzione da lui voluta. 4. Conseguenze dell’unita’ tedesca La storia del Reich fin dal 1871 sembrava provare che una Germania unita era semplicemente troppo grande e dinamica per qualsiasi sistema statale stabile europeo e che la tendenza tedesca ad una aggressività politica non fosse semplicemente l’espressione del legittimo perseguimento di interessi nazionali tedeschi,ma anche un segno riprovevole del carattere proprio della nazione tedesca. Ricordando settantaquattro anni di unità tedesca,due guerre mondiali,il nazismo e 65 milioni di persone uccise o dalla guerra o nei campi di concentramento,si disse che il potere politico,economico e militare della Germania minacciasse inevitabilmente l’indipendenza e il benessere dei suoi vicini e che il carattere tedesco avesse reso la Germania non solo aggressiva all’estero ma anche incline al totalitarismo in patria. Dopo la Seconda Guerra Mondiale,la divisione della Germania e l’egemonia sovieticoamericana sull’Europa sembrava aver risolto il cosiddetto problema tedesco. Dividendo e contenendo il potere e l’ambizione tedeschi,tenendo a freno cosi’ la minaccia tedesca e al sicuro il popolo tedesco da se stesso,si pensava che l’Europa e il mondo fossero al sicuro dai tedeschi una volta per tutte. I ricordi del Reich storico sbiadirono ,e l’idea della riunificazione tedesca fu oscurata dall’integrazione progressiva delle due ex entità tedesche nelle loro rispettive alleanze e dallo sviluppo delle relazioni fra i due stati. La nuova Ostpolitik di Willy Brandt condusse alle normali relazioni di buon vicinato di cui si parla nel trattato di base fra la Repubblica Federale e la RDT del 1972. La Germania e i tedeschi non sembravano più essere una minaccia all’ordine internazionale,e il mondo si abituò alla realtà di una Germania divisa. Ora,dopo il 1989, la Germania è nuovamente unita.Anche se la storia tende a non ripetersi,sorge la domanda su quali potrebbero essere le conseguenze. Alla luce dei drammatici cambiamenti in corso dal 1989,l’intero assetto politico,economico,sociale e militare viene preso in esame.Mentre la parte orientale del continente ha alla fine ristabilito i suoi legami con l’Occidente,l’Europa nel suo insieme sta tentando di trovare una nuova identità,riabilitare il suo passato,definire i suoi confini e sviluppare nuove strategie e strumenti per un futuro migliore.In altre parole,la fine della Guerra Fredda non è”la fine della storia”,come suggeriva in un articolo Francis Fukuyama. E’ vero l’opposto:l’unificazione della Germania,la liberazione dell’Europa Orientale dal comunismo di stampo sovietico e il collasso dell’Unione Sovietica hanno scritto un nuovo capitolo nei libri della storia europea. Il ruolo della Germania all’interno di questo processo di ristrutturazione dell’Europa è ancora molto in discussione. Molto tempo prima che l’unificazione della Germania diventasse una realtà,in un incontro del Forum dei Diritti Umani della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE) il 5 Giugno 1590 a Copenhagen,il Ministro degli Esteri della Germania Occidentale,Hans-Dietrich Genscher,dichiarò che il governo federale desiderava”rendere il destino della Germania parte del destino d’Europa. Genscher citò anche l’affermazione di Thomas Mann ”noi vogliamo una Germania europea e non un’Europa tedesca “. Il giorno dell’unificazione,il 3 Ottobre 1990 ,il Cancelliere Kohl confermò nel suo “Messaggio a tutti i governi del mondo “che la Germania con la sua ritrovata unità nazionale 297 voleva “servire la pace nel mondo e promuovere l’integrazione dell’Europa”. E il Presidente Richard von Weizsaecher affermò , durante la cerimonia di stato del Giorno dell’Unità alla Filarmonica di Berlino, che l’unificazione tedesca era”parte di un processo storico pan-europeo che mirava alla libertà di tutte le persone e ad un nuovo ordine di pace sul nostro continente”. La percezione di una Germania post- unificazione saldamente ancorata alla stabile struttura di un “pan-europeismo” era certamente lo scenario più favorito sia fra i tedeschi che i non tedeschi. La domanda se uno scenario di una riduzione nelle tensioni fra gli interessi nazionali aumentasse l’integrazione europea e il fiorire della libertà e della democrazia, era, comunque,realistica. D’altra parte la seconda percezione della Germania dopo l’unificazione che prevedeva un ritorno ad insorgenze nazionalistiche in patria e ad una politica di stampo bismarchiano all’estero,aveva i suoi lati negativi: la Germania si sarebbe davvero allontanata dall’Occidente avendo riscoperto gli antichi legami con la Russia e l’Est?Avrebbe seriamente cercato di ricoprire ancora il vecchio ruolo di mediatrice fra Est e Ovest o contrapporre l’Est e l’Ovest per il proprio vantaggio? Avrebbe potuto dimentica re le tragiche lezioni della storia tedesca ed europea del XIX e XX secolo?Avrebbe potuto ripetere gli errori del passato? La Germania Unita si trova nel centro d’Europa e non può sfuggire agli effetti della trasformazione dell’ordine europeo dopo il1989-90.Dovrà contribuire a rendere possibile la transizione dell’Europa orientale e sud-orientale da sistemi dittatoriali repressivi e da economie a pianificazione statale in democrazie pluralistiche e in economie di libero mercato. Perciò la Germania non potrà più procedere al riparo delle politiche mondiali,come nel caso dei quarant’ anni di predominio sovietico –americano. Le viene richiesto ora di ricercare e trovarsi un nuovo ruolo quasi in ogni settore. Ora sembra plausibile che il futuro della Germania difficilmente sarà caratterizzato da un ritorno a modelli del passato. L’esercizio di equilibrio politico che il Reich tedesco compì durante il periodo guglielmino sotto il Cancelliere Bismarck e i suoi successori fra il 1871 e il 1918, e durante la Repubblica di Weimar- escluso il corso nazionalsocialista sotto Hitler- non era né ragionevole né possibile nello scenario internazionale alle soglie del XXI secolo.Mentre l’unificazione del Reich nel 1871 aveva portato all’isolamento per tutta la fine del XIX secolo e agli inizi del XX secolo con risultati disastrosi,l’unificazione della Germania nel 1990 fu raggiunta sulla base di stabili e continui legami istituzionali con l’Occidente e con l’accettazione dei paesi confinanti. Mentre il Reich precedente era stato creato dalla guerra ed era vissuto – e/o in qualche modo poteva essere stato costretto a vivere – in opposizione all’ordine esistente con dispute sui confini e contrasti sui divergenti interessi nazionali,la Germania unita del 1990 non solo rinunciava a qualsiasi pretesa storica o legale sugli ex territori tedeschi ,ma era stata creata tramite negoziati nella fase “ due più quattro” e dalla sua istituzione veniva ad essere parte integrale della comunità internazionale. Il mantenimento dei legami con le istituzioni multilaterali non era soltanto una convinzione,comunque,ma anche qualcosa che riguardava l’interesse nazionale.Sia una politica incerta “Shauelpolitik” fra l’Est e l’Ovest ,sia il tentativo di stabilire una posizione di egemonia si erano dimostrati errori fatali.Lo stretto legame della Repubblica Federale con l’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale,d’altra parte, aveva favorito la prosperità economica e la stabilità politica.Un cambiamento di corso ed un ritorno ad una politica nazionalistica al di fuori di istituzioni consolidate erano così altamente improbabiliassolutamente fuori questione. L’idea di ringiovanire la “Reichsgedanke” trasformando la Repubblica Federale in un quarto Reich dopo l’unificazione rimase il sogno di pochi.Il sorgere di un nazionalismo in Germania - così come nella maggior parte degli altri paesi europei agli inizi degli anni 90,specialmente all’Est- non fu in realtà il risultato di una nuova affascinante ideologia o l’espressione di un segreto desiderio di una grande parte del popolo,ma il risultato del collasso 298 del comunismo e un effetto di un disordine sociale ed economico come conseguenza della rivoluzione del 1989. Infatti, l’”europeizzazione” della questione tedesca prevalse.Non solo aiutò a rendere l’unificazione della Germania più chiara agli stati confinanti,ma attenuò anche le difficoltà di venire a patti con il passato,sia nazista sia della polizia segreta orientale(Stasi)siccome il dibattito sull’unicità del terrore nazista,paragonato per esempio ai crimini dello stalinismo,fu ora seguito da penose rivelazioni e da un acceso dibattito interno sui meccanismi e sulle pratiche della polizia segreta della Germania orientale. La dimensione europea dell’unificazione tedesca fu sottolineata dal ministro degli esteri Hans –Dietrich Genscher,all’inizio della prima conferenza due- più- quattro di Bonn il 5 maggio 1990, quando sostenne che ,piuttosto di creare problemi all’Europa, l’unificazione della Germania avrebbe avuto” un ruolo nell’assicurare una nuova e duratura stabilità”.Inoltre, Genscher aggiunse, che il governo tedesco considerava “ la trasformazione di questa percezione della storia europea in una politica per la Germania e per un’Europa gradualmente unita essere la missione europea della Germania mentre ci avviciniamo alla fine di questo secolo.” Quella missione non è cambiata e si espresse adeguatamente dell’Unione Europea che avvenne il 1 maggio 2004. 299 nell’allargamento Bibliografia pp.366/367/368 300 39. Il manifestarsi delle differenze nazionali, 1989 – 1992: la divisione della Cecoslovacchia Sfondo storico circa la questione Slovacca La Cecoslovacchia nasce il 28 Ottobre 1918 come conseguenza della Prima Guerra Mondiale: L’unione dei Cechi con gli Slovacchi fu attuata in base alla similarità delle loro due lingue. Il ceco e lo slovacco sono infatti così correlate da risultare reciprocamente comprensibili.. Questo fatto aveva portato già nel XIX secolo, soprattutto da parte ceca, alla conclusione che cechi e slovacchi erano soltanto i due rami di una unica nazione “Cecoslovacca”. Lo stato cecoslovacco fu salutato favorevolmente sia dai cechi sia dagli slovacchi: tuttavia essi non intendevano questa unità nazionale nello stesso modo. Infatti, mentre per i cechi il nuovo stato era solo un ristabilimento del regno medioevale di Boemia allargato ad est, per la maggior parte degli slovacchi il nuovo stato era piuttosto l’unione di due nazionalità inquadrate in una unica struttura nella forma di una federazione di entità autonome. Il fatto più importante era che gli Slovacchi possedevano una propria coscienza nazionale e non si considerarono mai né cechi, né cecoslovacchi. Nel periodo 1918 – 1938 la Slovacchia fu soltanto una unità amministrativa all’interno della Cecoslovacchia, senza alcun speciale statuto di entità autonoma. I movimenti autonomisti erano comunque forti ed ebbero finalmente successo il 6 Ottobre 1938 come conseguenza dell’indebolimento dello stato dopo il “diktat” di Monaco. Sei mesi dopo la Cecoslovacchia cessò di esistere quando la restante parte della Boemia e la Moravia furono annesse al Reich tedesco; al contempo la Slovacchia fu proclamata formalmente indipendente sotto la protezione della Germania. La Cecoslovacchia fu ricostituita nel 1945 e la Slovacchia divenne nuovamente una entità autonoma; la sua autonomia fu tuttavia gradualmente ridotta, dapprima nel 1946, ed ulteriormente a seguito del golpe militare comunista del 1948. La nuova costituzione “Socialista” ridusse l’autonomia della Slovacchia praticamente a zero ( Rychlik, pp. 180 – 200). Le richieste slovacche per una federazione furono formalmente accettate come parte della “Primavera di Praga” , il movimento riformista cecoslovacco del 1968. La Legge Costituzionale No. 143/1968 del 27 Ottobre 1968 ( “Atto Federativo Cecoslovacco”) istituì sul territorio della precedente Repubblica Socialista Cecoslovacca due “nuovi” stati nazionali: la Repubblica Socialista Ceca e la Repubblica Socialista Slovacca. Entrambe le repubbliche erano dotate di un proprio sistema legislativo ed esecutivo: c’erano pertanto il Parlamento Ceco ( denominato Česká národní rada – ČNR, ossia “Congresso Nazionale Ceco”) ed il Parlamento Slovacco ( denominato Slovenská národná rada - SNR, ossia “ Congresso Nazionale Slovacco”) così come anche un Governo Ceco ed un Governo Slovacco. (Questi parlamenti e governi furono denominati entità nazionali, mentre le autorità che governavano la Federazione avevano la denominazione di entità federali ). Secondo il preambolo dell’ “Atto della Federazione Cecoslovacca” entrambe le repubbliche, sia la Ceca, sia la Slovacca, risultavano teoricamente due stati totalmente sovrani che delegavano spontaneamente parte della loro sovranità ad organi federali: l’Assemblea 301 Federale ed il Governo Federale. Il Governo Federale poteva prendere decisioni soltanto in un ambito strettamente definito. L’Assemblea Federale si articolava su due Camere: la Camera del Popolo e la Camera delle Nazioni. La Camera del Popolo veniva eletta sulla base della rappresentatività proporzionale in tutto il paese,. cosicché la Repubblica Ceca (avendo una popolazione più numerosa) aveva un numero di deputati maggiore della Repubblica Slovacca. La camera delle nazioni aveva invece lo stesso numero di rappresentanti: ogni repubblica eleggeva 75 deputati. La promulgazione delle leggi richiedeva la maggioranza in entrambe le camere, mentre per la promulgazione di leggi costituzionali era necessaria una maggioranza di almeno i tre quinti in entrambe le camere. Il sistema costituzionale prevedeva un unica e specifica norma speciale: il cosiddetto “veto di minoranza” ( zázak majorizace ), I deputati cechi e slovacchi alla Camera delle Nazioni votavano separatamente. Tutte le leggi costituzionali e molte altre mozioni richiedevano una maggioranza (una maggioranza qualificata per le leggi costituzionali) sia da parte dei deputati cechi sia dei deputati slovacchi. La maggioranza (o la maggioranza qualificata) di entrambe le parti della camera veniva sempre calcolata sulla base dei 75 deputati, quindi non solo di quelli effettivamente presenti in aula al momento del voto. Il veto di minoranza significava che i deputati cechi non potevano “prevaricare” i voti della rappresentanza slovacca. D’altra parte risultava anche che 31 deputati, eletti nella Camera delle Nazioni in una singola Repubblica, potevano bloccare qualsiasi legge o qualsiasi deliberazione laddove era richiesta la maggioranza qualificata dei tre quinti (ad esempio l’elezione del Presidente). Il altri termini, la Federazione Cecoslovacca era basata sul principio del consenso delle rappresentanze ceca e slovacca: tuttavia, se non si raggiungeva tale consenso, non vi era alcuna soluzione costituzionale e nessuna altra vis d’uscita. Il passaggio della legge costituzionale relativa alla federazione avviene dopo l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia dell’Agosto 1968. Essa divenne effettiva il 1° Gennaio 1969 in presenza della cosiddetta “normalizzazione”, cioè contestualmente alla graduale eliminazione delle riforme democratiche della primavera del ’68 ed alla restaurazione della dittatura comunista. Il 17 Aprile 1969 Gustáv Husák,il comunista slovacco padre della federazione e protetto da Mosca sostituì A. Dubček (anche lui slovacco). Egli eliminò presto ciò che rimaneva del movimento riformista del 1968. La federazione non fu abolita ma in realtà negli anni 19691989 la struttura federale ebbe una rilevanza minima. Dal Dicembre 1970 una serie di leggi limitò seriamente le prerogative delle repubbliche in favore della Federazione (vedi Legge Costituzionale No. 125/1970). I parlamenti federali Ceco e Slovacco non avevano alcuna rilevanza, né l’avevano le elezioni in cui gli elettori avevano la “scelta “ di un unico candidato. Così come i parlamenti anche i governi (federale e statale) erano mere cinture di trasmissione per il Partito Comunista Cecoslovacco. Il Partito Comunista non era di tipo federale: ciò significava che le decisioni politiche erano prese a Praga. Per tutte queste ragioni la federazione ebbe uno strano impatto sulle relazioni CecoSlovacche. 302 I Cechi vedevano la federazione solo come una processione senza fine di funzionari slovacchi ai ministeri federali e come un trasferimento di risorse dal bilancio federale alla Slovacchia. Gli Slovacchi erano altrettanto insoddisfatti dei Cechi poiché la federazione non soddisfaceva le loro aspettative. Gli Slovacchi volevano che le questioni slovacche fossero decise a Bratislava, non a Praga. Si aspettavano anche che la federazione desse alla Slovacchia maggiore visibilità sullo scenario mondiale. Nessuna di queste aspettative si realizzò. Il mondo esterno continuò a vedere la Cecoslovacchia come uno stato ceco, infatti gli aggettivi ceco e cecoslovacco erano spesso intercambiabili nelle lingue straniere. La Rivoluzione di Velluto e la questione slovacca La caduta del regime comunista in Cecoslovacchia (17 Novembre 1989) riaprì la questione delle relazioni ceco-slovacche, un problema con cui la Cecoslovacchia aveva dovuto confrontarsi dal momento della sua costituzione nel 1918. Nel Novembre 1989 vennero fondate due diverse organizzazioni: Il Popolo Contro la Violenza (VPN) in Slovacchia ed il Civic Forum (OF) nelle regioni ceche. Ci furono anche tentativi di fondare dei Civic Forums in quelle aree in cui i cittadini possedevano tradizionalmente forti sentimenti pro-Cecoslovacchia, specialmente nel Košice (centro amministrativo della Slovacchia orientale), ma essi non sopravvissero e furono in seguito inglobati nel VPN. OF e VPN stipularono un accordo secondo il quale ciascun movimento sarebbe stato responsabile dei cambiamenti democratici nella “propria” repubblica e che essi avrebbero soltanto coordinato la loro politica. Per questo motivo l’OF si focalizzò sui cambiamenti nel governo federale mentre il VPN si concentrò sul governo nazionale slovacco. E’ significativo il fatto che il governo nazionale ceco non era a questo punto la principale preoccupazione dell’OF. Dopo il Novembre 1989, la sovranità della Slovacchia era un punto della piattaforma politica di ogni partito politico in Slovacchia; le differenze fra di essi riguardavano solo il grado di autonomia che essi richiedevano per la Slovacchia. A questo proposito il VPN e il Partito Democratico erano partiti moderati che sostenevano la modifica della già esistente Federazione Cecoslovacca, mentre il Partito Democratico Cristiano (KDH), guidato dall’ex cattolico dissidente Jan Čarnogursky, aveva propositi più radicali. Il più radicale a questo proposito era il Partito Nazionale Slovacco (SNS) di Vit’azoslav Moric e Jozef Prokeš, che proponeva una connessione Ceco-Slovacca non troppo vincolante. Sia nel KDH che nello SNS c’erano molti sostenitori di uno stato slovacco indipendente, ma nella prima metà del 1990 persino l’SNS non aveva ancora formalmente avanzato questa richiesta. Nel frattempo i comunisti cechi e slovacchi prendevano gradualmente strade diverse ed era nato un Partito Comunista Slovacco indipendente (KSS), in seguito Partito della Sinistra Democratica (SDL), la cui adesione al programma nazionale slovacco testimoniava che i comunisti slovacchi erano ben inseriti nel nuovo scenario politico. La Guerra del “Trattino di Congiunzione” e la nuova divisione del potere All’inizio del 1990 il primo palese conflitto Ceco-Slovacco ebbe luogo nel Parlamento Federale. 303 A seguito dei cambiamenti politici e socio-economici che si erano verificati dal Novembre 1989 il giorno 23 Gennaio 1990 il Presidente Václav Havel propose che il nome ufficiale di “Repubblica Sociale Cecoslovacca” venisse mutato ufficialmente, a far data dal 1960, in “Repubblica Cecoslovacca.”. Alexsander Dubček, nuovo presidente dell’Assemblea Federale, accettò la proposta come iniziativa presidenziale e, secondo quanto stabilito nella Costituzione e nell’Atto di Confederazione del 1968, lo inviò ai comitati dell’Assemblea Federale ed all’esame di entrambi i consigli nazionali. Il Consiglio Nazionale Slovacco si oppose al cambiamento richiedendo a sua volta che il nuovo stato fosse chiamato “Federazione Ceco-Slovacca”: in questo modo il mondo avrebbe compreso che la Cecoslovacchia non era un formata da un solo stato bensì da due. Questa proposta fu sostenuta da una forte maggioranza della popolazione slovacca, ma fu respinta dalle regioni ceche. Per i cechi il nome “Cecoslovacchia” evocava gli amari ricordi del periodo della post-Monaco (o Seconda) Repubblica durante il quale tempo tale era stata la denominazione ufficiale del paese. La maggior parte dei cechi non capivano perché il trattino di congiunzione fosse così importante per gli Slovacchi. Il 29 Marzo 1990, dopo lunghe discussioni, l’Assemblea Federale approvò la Legge Costituzionale No. 81/1990. Il nuovo nome, considerato essere un compromesso, stabilì le due seguenti forme ufficiali: “Repubblica Federale Cecoslovacca” in lingua ceca e “Repubblica Federale Cecoslovacca“ in lingua slovacca. Tuttavia questo compromesso non soddisfaceva gli slovacchi perchè non mostrava al mondo esterno l’esistenza degli slovacchi ( era infatti chiaro che la versione slovacca sarebbe stata usata soltanto in Slovacchia). Ci furono immediatamente dimostrazioni in Slovacchia e, per la prima volta, comparvero slogan a favore di una Slovacchia indipendente. Il VPN aveva accettato il nuovo nome durante le delibere dell’assemblea federale, così ora gli slovacchi che erano contrari accusavano il partito di tradimento degli interessi nazionali slovacchi. Alla fine i deputati cechi dell’Assemblea federale cedettero. Il 20 Aprile 1990 un’altra legge costituzionale (101/1990) proclamò il nome ufficiale di Repubblica Federativa Ceca e Slovacca ( “ČSFR” in entrambe le lingue). Il nome non ufficiale, Cecoslovacchia, e l’aggettivo “cecoslovacco” sarebbero stati scritti in una sola parola in ceco ma con un trattino di congiunzione in slovacco. La cosiddetta guerra dl trattino di congiunzione (“hyphen”) indicò che le successive discussioni non sarebbero state semplici e che la parte slovacca avrebbe proposto una federazione il meno vincolante possibile. Le prime libere elezioni si tennero l’8 e il 9 giugno1990. Le elezioni si basavano sul principio della rappresentanza proporzionale ma i partiti che non avessero ottenuto almeno il 5% dei voti (3% nelle elezioni del parlamento slovacco) non avrebbero avuto seggi in parlamento. In Slovacchia il VPN vinse con il 29%, seguito dal KDH’s con il 19.2 %, dal SNS’s con il 13.9%, dal KSS-SDL’S con il 13,3% e dalla Coalizione Ungherese con l’8,7%. Il Partito Democratico e il Partito Ambientalista dei Verdi (SZ) entrarono a far parte non solo del Consiglio nazionale Slovacco ma anche dell’Assemblea Federale. 304 Nella Repubblica Ceca vinsero il Civic Forum ed il Partito Popolare (ČSL, di fatto il Partito Cattolico), che aderì alla coalizione unitamente al piccolo Partito Cristiano Democratico (KDS). Inoltre ottennero seggi in parlamento anche il Partito Comunista, il Movimento per l’Autogoverno della Democrazia; ebbe pure seggi in parlamento l’Associazione per la Moravia e la Slesia (HSD-SMS) che proponevano una federazione a tre soggetti tra Boemia, Moravia e Slovacchia . Il nuovo governo federale era costituito da una coalizione fra VPN e Civic Forum con il supporto dei partiti di centro–destra ceco e slovacco (la coalizione di ČSL-KDS e KDH) ed era guidato da Marian. Čalfa del VPN, che era già stato primo ministro nel precedente governo federale. Il governo ceco era nuovamente guidato da Petr Pithart ma la guida del governo slovacco cambiò : Milan Čič fu sostituito dall’ex ministro degli interni slovacco, Vladimir Mečiar ( VPN). I negoziati fra i governi non ne furono condizionati e continuarono. Ci furono anche negoziati fra il presidente del Consiglio Nazionale Slovacco František Mikloško (VPN, ma KDH dopo il 1992) e la sua controparte nella Repubblica Ceca, Dagmar Burešová e i loro vicepresidenti. Negoziati ufficiali fra i governi ceco e slovacco avvennero l’8 - 9 Agosto 1990 a Trenčiaské Teplice. Continuarono il 10 e l’11 Settembre a Piešt’any, il 27 settembre a Kroměřìž e il 28 ottobre a Slavkov, dove partecipò anche il presidente Havel .Il 5 novembre 1990 le relazioni ceco-slovacche furono l’argomento dei negoziati fra i primi ministri di tutti tre i governi. Quattro giorni dopo, Pithart e Mečiar si incontrarono ancora a Luhačovice. Poiché un accordo sostanziale si rivelò impossibile, i rappresentanti dei partiti di governo, con il Presidente Havel e i rappresentanti di tutti tre i governi, il 28 Ottobre 1990 emisero una dichiarazione che enfatizzava la loro volontà di mantenere la ČSFR. Le parti ceca e slovacca concordarono che sarebbe stata riconsiderata la divisione dei poteri e di conseguenza si sarebbe trovata una soluzione definitiva. la formulazione finale della divisione dei poteri avvenne alla presenza del Presidente Havel e dei tre premiers al castello di Praga il 12 novembre 1990. La proposta venne poi valutata dai Consigli Nazionali e passata all’Assemblea Federale. Nella versione della legge sulla divisione dei poteri presentata all’Assemblea Federale, il Consiglio Nazionale ed il Governo Ceco proposero numerosi cambiamenti (alla proposta del 12 novembre 1990). In questo contesto il praesidium allargato del governo slovacco, guidato da Mečiar, giunse improvvisamente a Praga il 6 dicembre 1990. Mečiar presentò un ultimatum a Pithart:se la legge sulla divisione dei poteri non fosse stata adottata nella sua versione originale, cioè se il Consiglio nazionale Ceco o l’Assemblea Federale avessero modificato la bozza di stesura della legge, il Consiglio Nazionale Slovacco avrebbe dichiarato la supremazia delle leggi slovacche sulle leggi della federazione. Questo avrebbe significato di fatto la paralisi e la disgregazione della Repubblica Federale Cecoslovacca. La parte slovacca enfatizzò inoltre che l’Assemblea Federale non aveva titolo per interferire nei negoziati Ceco-Slovacchi. I partiti del governo ceco, specialmente il Civic Forum, diedero istruzioni ai propri deputati di votare la versione originale della legge che fu adottata il 12 Dicembre come emendamento costituzionale 556/1990. La nuova legge della divisione dei poteri riduceva in modo significativo il potere degli organi centrali (federali). In contrasto con l’emendamento costituzionale del 1968, che sanciva 305 la Federazione, questa legge eliminava la prerogativa esclusiva della Federazione in politica estera e per la difesa, la qual cosa avrebbe consentito la possibilità futura di stipulare trattati internazionali separati, ed inoltre anche la possibilità di costituire forze armate facenti capo ad ogni singola repubblica. Questa legge non rimuoveva comunque il nocciolo del problema e rappresentava perciò soltanto un compromesso temporaneo. Mentre i cechi consideravano l’emendamento come la loro massima concessione per gli slovacchi rappresentava soltanto il primo passo verso il conseguimento del loro scopo finale: il raggiungimento di una organizzazione o di una Confederazione Ceco-Slovacca molto aperta per mezzo della quale la Slovacchia potesse raccogliere i benefici del proprio riconoscimento di stato a pieno titolo, mantenendo peraltro tutti i vantaggi di uno stato comunitario. I Negoziati Ceco-Slovacchi del 1991/1992 Nel 1991, il mutato paesaggio politico nella Repubblica Ceca e nella Repubblica Slovacca trasformò l’atmosfera dei negoziati. Il 24 Febbraio 1991 il Civic Forum si frantumò nel movimento di centro-destra di Václav Klaus’s (Partito Civico Democratico – ODS) e nel movimento di centro-sinistra di Jiři Dienstbier’s (Movimento Civico – OH). Subito dopo le elezioni del Giugno 1990 il Partito Nazionale Slovacco dichiarò che il suo scopo finale era la completa indipendenza della Slovacchia: Nello stesso periodo sorsero diversi partiti minori e movimenti che evocavano apertamente le tradizioni dello stato totalitario Slovacco del 19391945.e del Partito Autonomista Popolare del periodo bellico. Il 3 Marzo 1991 la lotta tra Vladimír Mečiar e la leadership del VPN, soprattutto con Fedor Gál, il rappresentante della sua ala liberale, causò una crisi acuta all’interno del VPN. Sotto il patrocinio del VPN Mečiar fondò la propria piattaforma: “Per una Slovacchia Democratica”. Un mese più tardi si separò definitivamente dal VPN, creando il Movimento indipendente per una Slovacchia Democratica (HZDS). Il 23 Aprile 1991, il consiglio di presidenza del Consiglio Nazionale Slovacco revocò a Mečiar la carica di Primo Ministro del governo slovacco come pure a tutti i suoi sostenitori i quali si rifiutarono di rispettare le decisioni della leadership del VPN. Il governo venne così riformato con Ján Čarnogurský, presidente del KDH, vhe divenne il nuovo Primo Ministro. Čarnogurský, era favorevole all’indipendenza della Slovacchia ma, vista la situazione contingente, non considerava questa questione la più urgente. Secondo lui la Slovacchia sarebbe diventata indipendente soltanto dopo l’ingresso della Cecoslovacchia nella Comunità Europea. In contrasto con i rappresentanti del VPN che sostenevano un vincolo statale durevole con i Cechi, Čarnogurský considerava la Cecoslovacchia come una formazione temporanea, e non faceva segreto di ciò. Mentre negoziava con Petr Pithart, ,un ex dissidente, Carnogursky pretese che la creazione di una coabitazione ceca e slovacca dovesse fondarsi su un trattato legalmente vincolante fra le due repubbliche,l’accettazione del quale avrebbe dovuto precedere l’adozione di qualsiasi nuova costituzione. Durante il 1991,i negoziati ceco-slovacchi continuarono. Dapprima, Dagmar Buresova,presidente del Consiglio Nazionale Ceco,rigettò l’idea di Carnogurky di un trattato fra le due repubbliche.Alla fine,la parte ceca lo accettò come una iniziativa politica.Al contrario,la parte slovacca pretese che il trattato avesse un carattere vincolante,il che significava ,in effetti, che avrebbe dovuto assumere la forma di un tra