TRASMISSIONE ATTRAVERSO LA PAROLA E/O I SEGNI: LA SORTE DEI SIMBOLI CRISTIANI di don Daniele Gianotti La riflessione qui delineata — che vuole essere poco più che una proposta di spunti per il confronto, dato anche il tempo opportunamente misurato che le viene assegnato —, assumerà un andamento dialettico, alla “sic et non” medievale, nel tentativo di suggerire che, nel nostro contesto, la sorte dei simboli cristiani è a rischio mentre, per altro verso, si profilano anche condizioni propizie per una simbolica rinnovata. Assumersi il rischio di collocarsi entro questa ambiguità costituisce, ovviamente, la scommessa alla quale siamo oggi invitati. 1. LA TOMBA DEL SIMBOLISMO RELIGIOSO? Il problema di una simbolica cristiana va oltre la prospettiva soltanto liturgica: si può dire che senza simboli la vita di una comunità credente è impossibile. Non sembra azzardato, quindi, sostenere con A. Dulles1 che l’attuale crisi di fede è, in gran parte, una crisi di simboli: è il venir meno di un insieme simbolico riconosciuto, non semplicemente a livello generale, ma anche nell’ambito stesso delle comunità cristiane. Dobbiamo dire che nel nostro contesto non c’è spazio per il simbolo? Non si tratta certamente di questo; anzi, paradossalmente, la crisi simbolica attuale avviene mentre c’è una “fame di simbolo”, perché la cultura della (post)modernità, mentre vive in pieno la crisi della razionalità e delle forme “forti” di pensiero, volentieri — e spesso in forme ambigue — si appella agli aspetti emozionali, affettivi, immaginativi… C’è chi ritiene che siano le religioni storiche — e il cristianesimo prima di tutto — a non essere capaci di raccordarsi con il bisogno di simboli che è uno dei segni della nuova religiosità: Le religioni storiche, con il corredo della loro simbologia che la liturgia ribadisce, rischiano, nel tentativo di tutelare se stesse, di divenire la tomba del simbolismo religioso, che comunque vive e fa storia, lasciando nel suo passato tutte quelle forme religiose che, irrigidite nella dottrina, hanno perso il linguaggio dell’anima e quindi di Dio, che non si è mai rivelato nei “fatti” che la religione assume a suo sostegno, ma sempre e solo nelle “esperienze” dell’anima di cui la ragione diffida e diffidando relega nell’irrazionalità2. 1 Cfr. A. DULLES, Models of the Church. Expanded Edition, New York, Image Books-Doubleday, 1987, p. 21. 2 U. GALIMBERTI, Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 201. 1 Si può ovviamente dissentire da questi rilievi; per certi versi, anzi, si deve dissentire. Ma non è inutile ascoltare queste voci, che ci ricordano come la ricerca del simbolo e (quanto meno) le forme storiche della fede cristiana non vanno necessariamente di pari passo. Detto questo, occorre subito mettere in rilievo almeno alcune delle ambiguità che rendono insoddisfacente la sosta — che pure oggi appare a molti desiderabile — nell’area del simbolico: — è, molto spesso, una sosta superficiale: se ne può vedere un’immagine nello zapping televisivo o nella pratica del link, tipico del mondo Internet; è frettolosa, non si prende il tempo di interiorizzare; analogamente a quanto avviene, per lo più, per la conoscenza artistica, che spesso è scambiata e confusa con un puro passare davanti alle opere d’arte di un museo, ma senza che ci sia vero approfondimento: c’è un guardare, un ammirare eventuale, ma non un’adesione, una partecipazione3; — l’eventuale sosta nel simbolico non riesce poi a collegarsi adeguatamente con la questione della verità e del bene: si sperimenta la difficoltà di raccordare l’esperienza del simbolo con la ricerca del vero (la questione di un logos della realtà) e del bene (problema etico); il rischio è quindi quello di una riduzione in chiave estetizzante, che non contribuisce però a creare l’unità esistenziale; — può darsi che questo dipenda dal fatto che si vanno radicalmente modificando le condizioni stesse della nostra esperienza del mondo (come sempre accade quando si ha a che fare con trasformazioni culturali e tecnologiche di grande rilievo) senza che, peraltro, si riesca a discernere bene le linee della trasformazione in atto; se è vero, come si sostiene, che il mondo delle comunicazioni di massa (soprattutto nella versione recente dell’intreccio tra telecomunicazioni e informatica) rende impossibile una vera condivisione della realtà4, allora anche la ricerca del simbolico è destinata ad arenarsi: perché il simbolo nasce e si trova a casa appunto lì dove c’è un’esperienza condivisa: non basta di certo sostituire l’immagine alla parola, per ricostruire il simbolo. Tutto ciò non rende comunque inutile, è vero anzi il contrario, la ricerca di una rinnovata simbolica cristiana: avendo comunque l’avvertenza che i simboli non si costruiscono a tavolino, richiedono invece una paziente lettura della realtà, domandano una Cfr. P. VALADIER: “Una società pluralista favorisce l’indifferenza religiosa per altre ragioni: non solo essa pone sullo stesso piano tutti i sistemi di credenza e tutte le ideologie; essa favorisce inoltre la mescolanza permanente di tutte le idee ponendosi a distanza da ognuna di esse attraverso la loro spettacolarizzazione. Chiunque può sfogliare il Corano in libreria, o testi su Visnù, andare a trascorrere qualche giorno in un monastero zen, vedere in televisione i pellegrini in viaggio verso la Mecca. Guardare, paragonare, eventualmente ammirare, ma non partecipare, ancor meno aderire. Ora, questa spettacolarizzazione è tanto perniciosa per l’adesione religiosa quanto può esserlo per esempio nel campo dell’affettività o dell’arte: gli svolazzi superficiali del flirt simulano l’amore, ma gli rimangono completamente estranei, il via vai febbrile dei turisti nei musei li può convincere di aver visto dei Rembrandt o dei Van Gogh perché hanno scattato qualche foto: sono rimasti al di fuori dell’arte, come probabilmente della società che visitano. Arte, amore, religione nascondono il loro segreto allo spettacolo; esigono la frequentazione, la partecipazione, l’entrata progressiva in un universo che esprime senso. La spettacolarizzazione distacca, moltiplica i punti di vista, esige l’insolito, in definitiva banalizzato. La religione (come l’amore) unisce, impegna ad approfondirsi, promette la novità ma nella fedeltà, apre all’universale ma particolarizzando” (La Chiesa chiamata in giudizio. Cattolicesimo e società moderna, Brescia, Queriniana, 1989, pp. 74s). 4 Cfr. ancora U. GALIMBERTI, Orme del sacro, cit., pp. 210s. 3 2 “coltivazione” (anche in questo senso si tratta di un problema culturale) capace di discernimento, di rinnovata attenzione ermeneutica, di paziente confronto, ecc. Ci si può chiedere se non potrebbe giovare, in vista di questa “coltivazione”, un modo diverso di articolare il rapporto fra alcuni aspetti dell’esperienza cristiana e la “pressione comunicativa”, o piuttosto “informativa”, nella quale ci troviamo. Se le rapide osservazioni fatte fin qui hanno qualche senso, si dovrebbe dire che il simbolo si dischiude veramente solo in un contesto di iniziazione. Ora, le forme ed esperienze dell’iniziazione sono quasi completamente scomparse, nel nostro contesto culturale — non solo in area cristiana. La ripresa — certo criticamente rinnovata — di ciò che è stata, nell’antica prassi sacramentale, la disciplina arcani, potrebbe suggerire orientamenti da non scartare, quando si tratta di ripensare le condizioni della comunicazione nell’ambito cristiano e, in questo contesto, di ricuperare le potenzialità del simbolo. Non si tratta certo di privilegiare l’esoterismo, ma di discernere ciò che può essere esposto senza troppi problemi all’effetto mediatico nelle sue varie forme, rispetto a ciò che invece rimanda a un ambito di esperienza e conoscenza non scindibile “dall’intensità di una comunicazione personale del senso e di una esperienza pratica della libertà”5. 2. PAROLA/SEGNO, SUONO/VISIONE: LE MODIFICAZIONI DEL SENSORIO La ricerca del simbolico, abbiamo cercato di dire, è un impegno irrinunciabile, a patto di non lasciarsi prendere, per quanto possibile, dalle ambiguità che caratterizzano oggi la “fame di simboli”. Bisogna certo fare i conti anche col fatto che se per i cristiani la liturgia è stata per molto tempo uno degli ambiti fondamentali, nei quali trovavano luogo l’espressione e appropriazione simbolica della fede, non si deve dimenticare che oggi la “produzione di simboli” è dislocata in gran parte altrove: il mondo della moderna comunicazione di massa è indubbiamente uno dei luoghi più rilevanti, se non in assoluto il principale, ove avviene tale produzione; per forza di cose, bisogna confrontarsi con esso. Ora, quella che potrebbe apparire (e certo è, in buona misura) una difficoltà, può essere vista anche come una chance, che rende più favorevole la congiuntura attuale rispetto a quella passata — almeno per quanto concerne il passato dell’età “moderna”. Vorrei tentare di esplicitare brevemente il punto, a partire da una riflessione più generale intorno alla struttura e alle modificazioni del sensorio, che la tecnologia della comunicazione comporta. Intendiamo per “sensorio” (riprendendo il concetto in particolare dagli studi di M. McLuhan e di W. J. Ong6) l’insieme delle modalità con cui i nostri sensi organizzano l’esperienza, con le relative implicazioni sul piano culturale e sociale. Si può tentare di chiarire meglio cosa ciò significhi. È perfino diventato banale contrapporre una “cultura della parola” a una “cultura dell’immagine” e deprecare l’arretratezza di una predicazione (usiamo il termine in senso molto lato, non riferendoci 5 P. SEQUERI, Comunicazione, fede, cultura, in Rassegna di Teologia 40 (1999), pp. 827-840, qui p. 837. Ci riferiamo in particolare a M. MCLUHAN, La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico. Introduzione di G. Gamaleri, Roma, Armando, 1976 (ed. or. 1962); W. J. ONG, La presenza della parola, Bologna, Il Mulino, 1970 (ed. or. 1967); ID., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986 (ed. or. 1982). 6 3 solo alla predica) ancora legata prevalentemente alla parola, rispetto alla efficacia dell’immagine. Ma è così certo che la nostra sia una “cultura dell’immagine”? Tanto per citare un fatto tra i tanti che si potrebbero richiamare, come si conciliano, con l’idea di una “prevalenza dell’immagine”, i quaranta e passa milioni di telefonini che continuamente trillano per ogni parte d’Italia?7 Di fatto, sembra più proficuo provare a fare attenzione alla trasformazione del sensorio, che si sta compiendo ormai da tempo nella nostra cultura, e che costituisce la terza grande modificazione che conosciamo a questo proposito. La prima è quella che avviene con l’invenzione dell’alfabeto, e che interviene in epoca relativamente recente (circa 5000 anni fa) dopo che per decine di migliaia di anni la parola umana è stata affidata soltanto al suono; gioverà ricordare che ci sono culture e popoli che conoscono la scrittura solo da un secolo, forse anche meno: da un sensorio di tipo orale/aurale (bocca/orecchio), organizzato cioè prevalentemente intorno al suono, si passò a una fissazione scritta della parola, spostando così l’accento sulla vista; questa trasformazione capitale — e per noi difficilmente afferrabile in tutta la sua rilevanza, tanto siamo portati a identificare la parola con la parola scritta —, convisse molto a lungo con l’oralità; il contesto culturale di una cultura a oralità secondaria (nella quale, cioè, l’oralità è ancora molto forte, ma la scrittura è conosciuta e praticata) è quello in cui il cristianesimo nasce e si sviluppa per circa quindici secoli. La seconda grande trasformazione interviene con la stampa a caratteri mobili, cioè con la tipografia, dal XV sec. in poi: l’era tipografica porta al culmine una trasformazione del sensorio che fa leva non più principalmente sul suono, ma mette al centro la vista, e organizza tutto intorno ad essa: per strano che possa sembrare, l’età tipografica è per eccellenza l’età visiva, e il predominio visivo determina i nuovi orientamenti culturali (scienze, filosofia, arte), nonché le forme dell’esperienza cristiana, liturgia e spiritualità incluse: “Al cristiano [nel XVI sec.] non è chiesto di sapere né di dire, ma di vedere, di contemplare, di meditare e così di compatire. L’oggetto primario della meditazione è il Cristo sofferente” 8 ; la nuova architettura delle chiese in età post-tridentina mostra ampiamente questo privilegio del vedere, che porterà anche a “reinterpretare” l’architettura precedente (p. es. quella gotica), nata in un contesto sensoriale molto diverso. Noi, sembra di capire, ci troviamo nel cuore di una nuova radicale trasformazione del sensorio, determinata dalle modalità elettroniche: per molti versi, la nostra condizione sembra molto più simile a quella dell’epoca pre-tipografica, un’epoca, cioè, nella quale le forme visive della parola — e in genere dell’esperienza sensoriale — non sono così prevalenti come nell’era tipografica, ma lasciano molto spazio a una nuova oralità, che sta riorganizzando in modo ancora diverso il nostro sensorio. “La nuova era in cui siamo entrati ha ridato vigore all’orale e all’aurale. La voce, soffocata dalla scrittura e dalla stampa, ha preso nuovo vigore. Per la comunicazione a distanza, le lettere scritte sono accompagnate e largamente sostituite dal telefono, dalla radio e dalla televisione” 9 ; gli 7 F. COLOMBO, Il piccolo libro del telefono. Una vita al cellulare, Milano, Bompiani, 2001. P. DENIS, Le Christ étendard. L’Homme-Dieu au temps des réformes (1500-1565), Paris, Cerf, 1987, p. 17 (sottolineatura mia). A proposito delle trasformazioni della liturgia, M. MCLUHAN, La Galassia Gutenberg, cit., pp. 189-194, richiamando alcune osservazioni di L. BOUYER. 9 W. J. ONG, La presenza della parola, cit., p. 102. 8 4 stessi computer, che fino a pochi anni fa sembravano macchine visive e silenziose, stanno contribuendo sempre più alla “rivincita del suono”. Ma questo significa anche, tra l’altro, collocare l’uomo in un rapporto radicalmente nuovo con il tempo: “il senso della simultaneità è il segno della cultura orale primitiva e della cultura elettronica, il senso della sequenzialità (una - cosa - dopo - l’altra), insieme con un accento sulla causalità, è il segno della cultura chirografica e tipografica”10; è vero che cambiano radicalmente alcune condizioni, per cui la cultura primitiva, fondata sull’oralità, è simultanea perché non possiede alcun documento del passato, mentre, nel caso nostro, abbiamo a che fare con una simultaneità “che si fonda sulla più imponente massa di documenti mai esistita… rispetto a quello dell’uomo primitivo, il nostro senso di simultaneità è ipertrofico”11. È chiaro, dunque, che i paralleli fra i diversi contesti culturali nella storia vanno stabiliti con molte sfumature. Del resto, sarà bene ricordare subito un principio che Ong richiama molto spesso nei suoi studi: quando appare una nuova tecnologia (della parola, in questo caso), essa non soppianta mai completamente le tecnologie precedenti, ma le integra e le trasforma in vario modo; le trasformazioni del sensorio, quindi, sono cumulative, e non alternative, anche se introducono modalità molto diverse di esperienza. È chiaro, in ogni caso, che né la parola scritta né quella stampata soppiantano quella orale; né, d’altra parte, i metodi elettronici di comunicazione soppiantano la scrittura o la tipografia. Tuttavia, è importante cercare di cogliere le caratteristiche più rilevanti dell’organizzazione complessiva che il sensorio assume nelle diverse epoche, perché si ha lì una chiave rilevante di interpretazione della cultura. Quello che premeva di dire, in definitiva, è che il contesto culturale nel quale si colloca la ricerca e produzione di simboli andrebbe investigato non semplicemente a partire dal confronto tra singoli “mezzi” (parola, immagine…), quanto piuttosto sulla base della organizzazione complessiva del sensorio, che caratterizza una determinata cultura. Secondo McLuhan, si potrebbe così scoprire che le ere nelle quali si assiste a una riorganizzazione del sensorio — e tale appare, indubitabilmente, la nostra era — sono molto più creative, anche se indubbiamente più disorientate, rispetto a quelle nelle quali il sensorio ha raggiunto una configurazione stabile. È a partire da riflessioni come queste che si potrebbe interrogare, tra l’altro, la nostra prassi liturgica, come potenziale luogo di una “coltivazione del simbolo”: ci si potrebbe chiedere che cosa caratterizza una liturgia incentrata fortemente sul “visivo” — come appare ancora, sotto tanti aspetti, la liturgia cattolica rinnovata dopo il Vaticano II — ma che, per altro verso (e per richiamare solo un aspetto fra gli altri), fa spazio largamente alle “lingue madri”, ritrovando così una forma di oralità sconosciuta da più di un millennio alla pratica liturgica. Si potrebbe anche verificare quali possibilità dischiude una pratica liturgica diversa, maggiormente incentrata sulla dimensione orale/aurale (si pensi, p. es., alla liturgia di Taizé): forse poco valorizzata, ma suscettibile di una più ampia attenzione; e 10 Ivi, p. 105 (con riferimento a M. MCLUHAN, La Galassia Gutenberg). Ivi, p. 106: si noti che tutto ciò è scritto da Ong nel 1967, quando la simultaneità mondiale dell’Internet era ancora di là da venire; del resto, i confronti che McLuhan stabilisce tra la cultura del manoscritto e l’era tipografica (cfr. p. es. La Galassia Gutenberg, pp. 181ss) mostrano con evidenza i nessi — pur in un contesto diverso — tra diversi problemi attuali (cfr. la questione del “diritto d’autore” per musica o testi, di fronte all’espansione di Internet) e la cultura pre-tipografica. 11 5 poi, ovviamente, si dovrebbe estendere l’analisi anche alle altre dimensioni del sensorio, che la liturgia utilizza poco, ma che, pure, non sarebbero da trascurare: perché vi sono sensi che chiedono di avvicinarsi (odorato, gusto) e altri che impongono una presa di distanza (la vista, in particolare); ve ne sono che impongono una discriminazione (il gusto), che suppongono una simultaneità (il suono, la parola), ecc. 12 . L’ulteriore sviluppo sarebbe naturalmente quello che va nella direzione dei “sensi spirituali” o, piuttosto, dell’elaborazione del profilo spirituale del sensorio, attenta alla prospettiva di una “estetica fine della forma cristiana, ma anche di un’arte profonda che intercetta la qualità spirituale dei sensi, del corpo, dell’uomo. Qui c’è un nuovo sguardo e un nuovo ascolto da ricreare semplicemente: non soltanto verità dogmatiche da mettere su tela o su pentagramma”13. In definitiva, si potrebbe considerare più ampiamente il contesto attuale, determinato da un sensorio sensibilmente diverso da quello fortemente visivo e “chiuso” dell’età “tipografica” che ci ha preceduto, come contesto “aperto”: “Viviamo in un’epoca che favorisce apertamente il pensiero proprio dei sistemi aperti, almeno in linea di principio, con lo stesso fervore con il quale le culture chirografiche e tipografiche del passato sostenevano il pensiero proprio dei sistemi chiusi”14; e questo dovrebbe essere un terreno particolarmente propizio alla coltivazione del simbolo, oltre che una condizione irrinunciabile per la fede: “Le grandi forze della vita psichica, il desiderio di conoscere, l’amore per il prossimo, la fede religiosa, e certamente la fede cristiana, non sono forze che favoriscono la chiusura, ma forze che spingono fondamentalmente verso l’apertura”15. Il terreno c’è, e non è affatto sterile: a noi il compito di coltivarlo, con l’aiuto dello Spirito. Nota bibliografica. Ai testi indicati nelle note, si possono aggiungere: H.U. V. BALTHASAR, Vedere, ascoltare e leggere nell’ambito della Chiesa, in Sponsa Verbi. Saggi teologici, II, Brescia, Morcelliana, 1972, pp. 455-471; ID., Guardare, credere, mangiare, ivi, pp. 473-483; I. GÓMEZ-ACEBO (cur.), Pregare con i sensi. L’esperienza di cinque teologhe, Milano, Paoline, 2000 (ed. spagnola or. 1997); P. SEQUERI, L’estro di Dio. Saggi di estetica, Milano, Glossa, 2000. 12 Qualcosa di questa analisi, non elaborata però nella direzione di una valutazione complessiva del sensorio, nelle eccellenti pagine di P. DE CLERCK, L’intelligence de la liturgie, Paris, 1995 (tr. it., purtroppo costellata di errori: L’intelligenza della liturgia, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 1999), pp. 54-63. 13 P. SEQUERI, La trasmissione della fede alle radici del progetto culturale, in Notiziario del Servizio Nazionale Progetto Culturale, n. 1 (dic. 2000), pp. 28-42, qui p. 41. 14 W. J. ONG, Interfacce della parola, Bologna, Il Mulino, 1989 (ed. or. 1977), p. 324. 15 Ivi, p. 355s. 6