Francesca Socrate
L'immagine dell'Ottocento sulle scene di fine secolo
Un'inedita e imponente operazione comunicativa accompagna tra il 1899 e il
1901 il passaggio del secolo in Italia: la stampa quotidiana e periodica si impegna con
centinaia di articoli, editoriali, numeri speciali e inserti a costruire una narrazione
pubblica dell'Ottocento tesa a restituirgli un senso e un'identità, al di là della crisi che da
tempo lo aveva investito. Le parole chiave di questa operazione sono le conquiste della
scienza, l'affermazione dei principi di nazionalità e di libertà, l'avanzamento delle
nuove classi sociali: al di là di ogni smentita sono questi i tratti con cui la stampa
italiana raffigura l'Ottocento nel momento della sua fine, trovando in un più o meno
facile progressismo la strada per ridurre la crisi in atto a una fase di passaggio, a un
momento di transizione, a un fisiologico riflusso "di un'onda destinata destinata per
forza a risalire", in virtù della spinta irreversibile del progresso, appunto.
D'altronde questa operazione, di cui mi sono occupata in un mio lavoro recente,
era stata preceduta lungo tutto il secolo da un'ampia riflessione sull'Ottocento e sui suoi
caratteri distintivi, riflessione che, a partire dalla metà degli anni '80, si era andata
intrecciando, in Italia e non solo, con il discorso sulla "crisi", fosse essa politica o
riguardasse l'intero corpo sociale (tema che aveva trovato posto nelle riviste delle nuove
scienze sociali, in quelle letterarie e culturali in genere, nel dibattito politico, e, per un
pubblico più vasto, nei giornali, tra editoriali, commenti, rubriche1).
A partire da queste premesse, messa di fronte al teatro italiano di fine secolo
(teatro di parola, intendo), pensavo di poter misurare quanto e come esso avesse risposto
a quella necessità, così evidentemente manifestata nell'operazione massmediatica al
passaggio tra i due secoli, di dare un senso all'Ottocento nella sua fase finale e,
soprattutto, di offrire una risposta alla crisi che per più di un decennio fu al centro della
consapevolezza comune.
Sono domande che dovrebbero innanzitutto essere fatte in chiave comparativa:
così come la celebrazione massmediatica non è un fenomeno solo italiano - ma
coinvolge con la stessa intensità, anche se con contenuti e esiti diversi, i paesi europei
tutti e gli Stati Uniti -, cosa succedeva sotto questa luce sulle scene d'oltralpe? In
Francia, innanzitutto, ma poi in Germania, in Inghilterra, per non parlare delle altre e
importantissime all'epoca nuove produzioni teatrali, a cominciare dalla Norvegia o dalla
Russia (penso a Ibsen, naturalmente, o a Cechov e Gorkij, tra i primi).
Una necessità, questa della comparazione, che rimane al momento una pista di
ricerca, tanto più necessaria visti i primi risultati che ho ottenuto dall'analisi della realtà
teatrale italiana.
Perché nel campione di produzione teatrale in prosa che ho esaminato in questa
prima fase della mia ricerca (e da cui ho escluso l'importante genere del teatro dialettale
che ha all'epoca un suo proprio registro e un suo particolare pubblico e che meriterebbe
1
Per la consapevolezza della crisi nel ceto politico italiano già nella seconda metà degli anni '80, v. F.
Cammarano, Crisi politica e politica della crisi: Italia e Gran Bretagna 1880-1925, in P. Pombeni (a cura
di), Crisi, legittimazione, consenso, il Mulino, Bologna 2003, pp. 81-131.
1
quindi un'analisi a parte) un risultato sembra certo: quel teatro italiano dimostra una
sordità assoluta, o un'indifferenza assoluta a questi temi.
Fra i drammi e le commedie che ho passato in rassegna non c'è traccia di
considerazioni sul tempo presente, né su quello passato, né sulle caratteristiche, in
positivo o in negativo non importa, della fase storica che si stava attraversando. Non c'è
personaggio che esprima giudizi, si interroghi o solo nomini l'epoca in cui vive e il
secolo che sta finendo. Nessuna traccia esplicita, dichiarata, così come non vengono mai
pronunciate da nessuno dei personaggi chiamati sulla scena le parole chiave del discorso
sulla crisi, a cominciare da quelle più inflazionate, "progresso" e "crisi", appunto. Il
repertorio lessicale dei personaggi teatrali è fatto di altre parole.
E, soprattutto, il teatro parla d'altro. Mentre la collocazione temporale è
prevalentemente riferita a un presente indistinto, a un qui e ora circoscritto volta a volta
nello spazio di qualche borghese interno domestico.
Una sordità comune, legata alla peculiarità della forma teatrale, o invece una
sordità assordante perché denuncia un fenomeno specificamente italiano? Insomma, è
una specificità della realtà italiana o una specificità della forma teatro?
D'altronde mi sembra un elemento in questa luce indicativo il fatto che gli autori
teatrali fossero in quegli anni ben consapevoli delle questioni aperte dalle
trasformazioni in atto. Ne erano consapevoli, e ne discutevano.
Luigi Pirandello, già da tempo protagonista della vita culturale italiana ma
ancora lontano dalle sue prime prove di drammaturgo, nel '93, in Arte e coscienza
d'oggi2, dava una lettura acutissima della condizione di crisi del razionalismo
progressista, e delle sue certezze: "Par che tutta la miseria d'una storia secolare
aggruppatasi in un turbine voglia urtare, scrollare il vecchio mondo. E noi viviamo in un
tramenio vertiginoso che da tutti i lati ci preme, urta e logora. S'è voluto paragonare
questo momento della vita a qualche altro fosco attraversato dall'umanità; s'è voluto
finanche vedere non solo il tramonto d'un'intera concezione religiosa, politica e
filosofica; ma un crepuscolo dei popoli; non solo una fin de siècle, ma una fin de race".
In queste pagine esemplari sulla crisi di fine secolo, Pirandello si interrogava sulla
funzione dell'arte e si opponeva a un suo ruolo pedagogico: "Vorrebbero alcuni che
l'arte si facesse eco o portavoce della corrente democratica che a loro credere attraversa
presentemente la coscienza moderna. Altri vorrebbero che l'arte si mettesse a inneggiare
ai trionfi della scienza". Ma "guaj a noi", concludeva, pretendere questo dall'arte, "se
s'intendesse cioè in base a un criterio o ad un ragionamento edificar la nostra opera
artistica, che deve nascere spontaneamente dal sentimento. […] Io non so se la
coscienza moderna sia veramente così democratica e scientifica come oggi
comunemente si dice. […] A me la coscienza moderna dà l'immagine d'un sogno
angoscioso attraversato da rapide larve or tristi or minacciose, d'una battaglia notturna,
d'una mischia disperata […] Mi par che tutto in lei tremi e tentenni. […] sorgerà forse
anche adesso il genio che stendendo l'anima alla tempesta che s'appressa, al mare che
dilagherà rompendo ogni argine e ingojando le rovine, creerà il libro unico, secolare,
come in altri tempi è venuto". Certo, bisognerà aspettare il secondo decennio del secolo
perché questa disincantata e insieme drammatica presa di coscienza della crisi che si era
2
Luigi Pirandello, Arte e coscienza d'oggi, in Saggi, poesie e scritti varii, Mondadori, Milano 1960, pp.
891-906.
2
aperta nella cultura e nella civiltà ottocentesca trovi forme e parole nella sua produzione
teatrale. Ma il saggio ci parla di quanto circolassero, fra gli intellettuali dell'epoca, gli
interrogativi sulla capacità dell'arte di dare una sua risposta alla crisi.
Arte, e nel nostro caso, teatro.
Un altro esempio, anche se più modesto e successivo. Giuseppe Giacosa, nel
1901, nella sua veste di direttore del settimanale divulgativo "La lettura", scriveva della
necessità di ribadire le conquiste del secolo appena concluso: " un secolo che ha aperto
un nuovo evo, una nuova età nella storia delle civiltà umana", nonostante "i suoi fieri
nemici" (gli antiscientisti), e nonostante "il disagio del repentino mutamento,
l'inquietudine dell'insueta attività, la ruvidità dei moltiplicati contatti, lo stridore dei
nuovi congegni" che la modernità provocava ormai da tempo nei figli di quel secolo che
nelle sue parole l'aveva inaugurata. Contro i fieri nemici
e soprattutto il
disorientamento generale, Giacosa vedeva solo nell'arte la forza comunicativa capace,
sull'onda dell'emotività, di recuperare la presunta e orgogliosa fiducia dei decenni
precedenti. "Oh se potesse sorgere un poeta o un oratore di quelli che sanno parlare a
tutte le moltitudini, ai grandi ed agli abbietti, ai felici e ai derelitti dalla sorte…"3.
Non poteva allora essere il teatro a svolgere questo ruolo di veicolo di emozioni
e partecipazione identitaria ai valori del secolo? Il teatro che per di più parlava anche a
chi leggeva poco, non solo i giornali ma anche i romanzi?
Evidentemente no, se poi proprio Giacosa aveva appena dato al teatro la sua
notissima commedia borghese sul tema della famiglia, Come le foglie (rappresentata per
la prima volta al Manzoni il 31 gennaio del 1900), cui sarebbe seguita l'analoga Il più
forte (rappresentata per la prima volta al teatro Alfieri di Torino il 25 novembre 1904
dalla compagnia Gramatica-Talli-Calabresi).
Ma vediamo più da vicino di quale produzione teatrale sto parlando.
L'arco temporale, intanto: tratto il periodo che coincide con quella che già
all'epoca veniva percepita come fase di crisi, tra la seconda metà degli anni '80 fino ai
primissimi del Novecento. Il periodo cioè che vede diffondersi in Europa e quindi anche
in Italia, con la rapidità di una moda, l'espressione fin-de-siècle, segnale di una svolta
nella cultura e nella sensibilità comune4, e che si chiude con l'avvio della soluzione
giolittiana vissuta dai contemporanei come la via d'uscita dalla fase più critica della vita
nazionale. Nel 1901 si concludeva, come ho detto, anche la celebrazione massmediatica
del passaggio del secolo.
Il genere: la commedia, la tragedia o il dramma in lingua, in quell'italiano
definito da Asor Rosa una "lingua media […] a metà fra il parlato e il letterario"
adottata in quei decenni dal romanzo e dal teatro naturalista5.
3
G. Giacosa, Elogio del secolo XIX, in "La lettura", febbraio 1901.
Già nel 1886 in Francia si discute se l'espressione sia un'ennesima moda passeggera che ha preso il
posto di "decadente" o "degenerato", mentre il 17 aprile 1888 al teatro di Château-d'Eau, a Parigi, si
rappresenta una pièce in quattro atti intitolata appunto Fin de siècle , opera di F. de Jouvenot e H. Micard
(G. Ducrey, Introduction générale a Romans fin-de-siècle. 1880-1900, Paris 1999, pp. viii-ix). La sua
circolazione in Europa è documentata da Walter Laqueur, Fin-de-siècle: Once More with Feeling, in
"Journal of Contemporary History", 31, 1996.
5
A. Asor Rosa, La storia del «romanzo italiano», in F. Moretti (a cura di), Il romanzo. Storia e
geografia, Einaudi, Torino 2002, vol.III, p. 279.
4
3
E tra le innumerevoli opere teatrali di questo tipo composte in quel periodo, le
più rappresentate e più discusse6, quelle di maggiore successo e di più lunga durata sulla
scena, quelle cioè replicate più a lungo o rappresentate più spesso, quelle insomma che
possiamo dire rispondessero maggiormente insomma all'orizzonte di aspettativa del
pubblico, a cui i critici dedicavano più spazio nelle loro cronache teatrali, e che avevano
trovato i loro luoghi consacrati in alcuni importanti teatri cittadini: dal Manzoni di
Milano, all'Alfieri e al Gerbino di Torino, al Niccolini di Firenze, al Valle, all'Argentina
e al Costanzi di Roma, al Sannazaro e al Fiorentini di Napoli (ma l'elenco non finisce
qui).
Gli autori: i nomi ricorrenti, i protagonisti di questa produzione teatrale sono
Giuseppe Giacosa, Gerolamo Rovetta, Marco Praga, i due Antona-Traversi, Giannino e
Camillo (ma soprattutto il secondo, avendo ottenuto il primo solo qualche sporadico
successo), e poi Enrico Annibale Butti, Roberto Bracco, Sabatino Lopez, ancora agli
inizi, e le prime cose teatrali di D'Annunzio. Insomma, a parte D'Annunzio e forse
Bracco, il gruppo lombardo, dei milanesi veri o "di adozione", come li definiva Camillo
Antona-Traversi7.
6
Mi riferisco alla memorialistica e alla letteratura specifica (soprattutto sulle riviste di teatro) che
offrono informazioni importanti e significative, nonché alle rubriche teatrali su quotidiani (spesso
giornaliere) e altri periodici.
7
C. Antona-Traversi, La verità sul teatro italiano dell'Ottocento, Udine, 1940, opera pubblicata postuma
- Camillo Antona-Traversi morì nel 1934 - che costituisce una dichiarata autodifesa del teatro naturalista
di fine Ottocento contro il giudizio seccamente negativo espresso da Silvio d'Amico nel suo Teatro
Italiano (Treves-Treccani-Tuminelli, Milano-Roma 1932). Scriveva Antona-Traversi nelle pagine
introduttive: "Tutti sanno, del resto, che io non intendo scrivere né la storia del teatro italiano nell'800, né
quella del teatro italiano nel '900; sì bene di rendere, e far rendere giustizia ai miei cari colleghi, così
malmenati dal d'Amico. […] Silvio d'Amico ci ignora. Non ricorda, o nessuno gli ha mai parlato delle
dure battaglie da noi sostenute, con fede, coraggio, costanza, per imporre al pubblico italiano - adusato ad
andar in giuggiola all'apparire sulla scena degli idillj campestri, dei bozzetti marinareschi, dei drammi
medievali […] e a sdilinquire davanti al Ridicolo, alle Due dame, al Suicidio di Paolo Ferrari - un teatro
fatto d'osservazione e di verità, emanazione diretta dei casi della vita" (pp. 7, 11). Quando parla di
"milanesi d'adozione", Antona-Traversi si riferisce alla diversificata provenienza dei componenti del
gruppo lombardo, dal piemontese Giacosa, al bresciano Rovetta, al toscano Sabatino Lopez, al napoletano
Butti, le cui opere furono spesso rappresentate per la prima volta al Manzoni di Milano (come i primi due
noti drammi della trilogia Gli Atei, La corsa al piacere e Lucifero, che ebbero il loro debutto
rispettivamente il 28 febbraio e 12 dicembre 1900; il terzo, Una tempesta, sarà messo in scena nel 1903).
Bracco invece, napoletano come Butti, per quanto protagonista anpure che lui della nuova commedia
borghese, produsse però testi teatrali d'altro genere, tra verismo ed esasperazione farsesca, che non
riuscirono ad ottenere un successo analogo agli altri suoi lavori; critico teatrale del "Capitan Fracassa",
Bracco era inoltre legato in quegli anni agli ambienti intellettuali della capitale, di quella Roma
intellettuale ed eclettica in cui si muoveva da tempo D'Annunzio, che si affacciava allora nel teatro con le
sue prime tre tragedie (La città morta e La Gioconda, del 1898, seguite dalla Gloria nel 1899)
profondamente diverse per tematiche, stile e registro drammatico dal naturalismo del gruppo lombardo,
da lui peraltro ovviamente disprezzato. Quanto a Giovanni Verga, dal 1872 trasferitosi a Milano dove
visse quel periodo integrandosi negli ambienti letterari della città e legandosi appunto al gruppo di
Giacosa e Arrigo Boito, a parte il grandioso successo di Cavalleria rusticana del 1884 e la grande
attenzione dimostrata nei suoi confronti dagli ambienti letterari, non riuscì, con i suoi lavori teatrali
successivi (In portineria, del 1885, La lupa, del 1896, e soprattutto con Caccia al lupo e Caccia alla
volpe, rappresentate in contemporanea rispettivamente al Manzoni di Milano e all'Alfieri di Torino il 15
novembre 1901), a convincere il pubblico, poco interessato evidentemente al suo tentativo di teatro
verista e intimista.
4
Le tematiche e il registro stilistico e poetico: dicevo che il teatro, questo teatro di
prosa e in lingua, parla d'altro.
Parla di famiglia, matrimonio, amore, adulterio. Sono questi i temi, o meglio il
tema, la famiglia, che viene posto al centro della produzione teatrale dell'epoca. Non
che i suoi autori non ricorressero ad altre forme di teatro8. Ma quelli che ebbero maggior
successo, e costituiscono un corpus cospicuo e compatto attorno a un tema comune,
sono i numerosissimi drammi e le numerosissime commedie che raccontano, con
un'ispirazione più o meno rigorosamente naturalistica, gli interni domestici di famiglie
borghesi minacciate, o direttamente investite, dall'insidia vera o presunta dell'adulterio
(adulterio sempre femminile, d'altronde, tranne in un caso: quello di Un'avventura di
viaggio del 1887 di Bracco, dove è il marito ad essere infedele e la moglie, per
riconquistarlo, finge di consumare un'adulterio nella sua garçonnière riuscendo così a
riconquistare, in uno scambio di confessioni e dichiarazioni d'amore reciproche, il suo
amore e la sua promessa di fedeltà).
Ma torniamo ai temi: non solo la centralità del tema della famiglia contrassegna
palesemente il teatro dell'epoca, dando luogo a quella che viene chiamata la commedia
borghese, ma per converso si restringe rispetto al passato la presenza sulla scena di altri
generi (dal dramma storico, alle commedie di derivazione goldoniana che venivano
sostituite dalle pochades, al teatro dialettale, al teatro come si diceva "di idee", ovvero a
tesi).
(Un computo del numero delle rappresentazioni e delle repliche nei diversi teatri
cittadini potrebbe essere a questo fine molto interessante e oltrepassare il dato di fatto
del predominio della commedia borghese per individuare il diverso grado di accoglienza
da parte del pubblico. Da quanto ho potuto verificare finora, almeno per alcuni teatri
una ricerca di questo tipo sembra possibile. Ben più difficile mi sembra provare a
ricostruire la tipologia sociale del pubblico a seconda del periodo, della dislocazione
geografica, e dei vari livelli delle sedi teatrali).
8
A cominciare proprio da Giacosa, che è anche autore di drammi in versi d'argomento medievale come il
Trionfo dell'amore, o Il Conte Rosso, o Il fratello d'armi, lavori in cui "era confettato in poesia un
medioevo accademico alla Marchangy, come usava in Francia innanzi il 1820", commentava Carducci
(cit in C. Antona-Traversi, La verità cit.. p. 79). E così I Parassiti di Camillo Antona Traversi sui fasci
siciliani, opera di grande successo (la prima fu tenuta al Costanzi di Roma il 24 luglio 1899). Per non
parlare di Principio di secolo di Rovetta (rappresentato la prima volta all'Alfieri di Torino il 17 ottobre
1896 con la compagnia di Ermete Zacconi, con Irma Gramatica, Antonietta Moro-Pilotto, Ugo Piperno,
Libero Pilotto), di argomento patriottico potremmo dire, incentrato sulla preparazione dell'insurrezione
milanese del 20 aprile 1814, e che si conclude con il linciaggio del ministro delle Finanze del Regno
d'Italia Carlo Prina, e in cui le vicende amorose dello stesso Prina con la marchesina Ippolita d'Arco sono
l'occasione dell'unica scena d'amore del dramma, mentre tutto ruota attorno al cinismo dei nobili
filoaustriaci e al loro inganno a spese dei patrioti lombardi. E, sempre di Rovetta, il più noto
Romanticismo, altro dramma patriottico ambientato nel 1854 attorno all'attività clandestina di un gruppo
di mazziniani lombardi. Romanticismo, rappresentato per la prima volta il 10 dicembre 1901 all'Alfieri di
Torino, avrà un successo iniziale notevole, dimostrato soprattutto a Roma dove, replicato nel giugno 1902
al teatro Costanzi, susciterà una partecipazione attiva del pubblico, con "applausi fragorosi" alla scena del
rito di adesione alla Giovane Italia del nobile Lamberti, e fischi contro l'altro nobile del dramma, il conte
Reitz, quando questi fa il suo giuramento di fedeltà all'imperatore d'Austria ("La Gazzetta piemontese",
12-12 dicembre 1901). Ma dopo il successo iniziale, Romanticismo sarà dimenticato e sarà rilanciato poi
nel maggio del 1915 "per dotare di uno sfondo risorgimentale, noto e condiviso, il conflitto con l'Austria",
e il 12 agosto 1917 inaugurerà il teatro in guerra, quando sarà rappresentato al fronte in contemporanea
con altre due commedie umoristiche (M. Isnenghi, Giorgio Rochat, La Grande Guerra, 1914-1918, La
Nuova Italia, Milano 2000, p.262). E poi, di nuovo, verrà rappresentato a Trieste nel 1919 (M. Praga,
Cronache teatrali, Treves, Milano 1920-26, 8 voll. II).
5
La commedia borghese dell'ultimo quindicennio del secolo fu forse anticipata
nel 1867 da I mariti di Achille Torelli: un grande e prolungato successo, salutato come
la prima tappa di un rinnovamento del teatro italiano, la commedia raccontava
l'educazione coniugale della frivola aristocratica Emma da parte del marito, un onesto e
solido borghese, l'avvocato Fabio, in un ambiente di aristocratici corrotti, infedeli,
oziosi. Insomma, una commedia poco naturalistica e molto didascalica, in cui la
tensione drammatica non era tanto all'interno della famiglia tra mariti traditi e donne
infedeli, quanto tra la morale aristocratica e quella borghese (sull'onda del successo
della commedia e della sua vena pedagogica, il governo propose a Torelli una pensione
annua per dedicarsi al lavoro teatrale9).
Così il momento d'avvio di questo genere così fortunato nell'ultimo quindicennio
del secolo può essere considerato il febbraio 1887, quando fu messa in scena al Valle di
Roma la commedia in tre atti di Giacosa Tristi amori, ovviamente sul dramma del
triangolo amoroso tutto svolto tra il tinello e il salotto dell'appartamento della coppia
Scarli, avvocato lui, custode della casa e madre amorevole lei, giovane di studio presso
il marito, l'altro. Di fronte allo svelamento dell'adulterio, la rinuncia comune degli
amanti alla fuga in nome dei doveri di madre e di moglie della protagonista). La prima
rappresentazione fu un fiasco, l'autore "pianse come un vitello", come racconta Camillo
Antona-Traversi 10, ma già un mese dopo Tristi amori trionfava a Torino e poi a Milano,
destinata a essere replicata per anni (nel gennaio 1900, dopo la rappresentazione al
Manzoni di Milano, il critico teatrale del "Corriere della Sera" Giovanni Pozza ancora
scriveva di una "bellissima commedia di straordinaria efficacia" e di "un pubblico preso
da verità, poesia e vigore drammatico"11).
Da allora, anno dopo anno, i teatri di prosa terranno a battesimo e replicheranno
una produzione ridondante di drammi e commedie ossessivamente incentrate sul
matrimonio, e claustrofobicamente rinchiuse negli interni domestici, opera degli autori
che ho elencato poco fa.
I protagonisti di questi interni sono quasi esclusivamente borghesi
(professionisti, o uomini della finanza, e perfino imprenditori - moltissimi gli avvocati,
naturalmente -; e per le donne analoga è la provenienza familiare). I nobili, se
compaiono qua e là, hanno due sole scelte: o quella di considerarsi ed essere considerati
anche loro borghesi perché convinti interpreti dei valori del lavoro, dell'onestà e della
fedeltà coniugale (come ad esempio l'amante di Emma in Tristi amori, che, in una lite
col padre conte Arcieri esplode a un tratto, "Mi sento così poco nobile, io! Non ho che
virtù borghesi. So lavorare, amo il lavoro, non ho ambizione, mi compiaccio della vita
intima. Un po' di tranquillità e la certezza del domani mi bastano"), o sono
rappresentanti di un mondo del passato, corrotto ma incapace di attentare nella sostanza
al luogo centrale del dramma, ovvero la famiglia (lo stesso conte Arcieri è un donnaiolo,
furfante e dissipatore, ma la sua funzione nell'intreccio narrativo è limitata ai guai
finanziari che la sua condotta procura al figlio).
Quanto ad altre classi sociali, esse fanno la loro apparizione solo, e comunque
molto raramente, come personaggi di contorno, privi peraltro di un profilo sociale
definito. Mentre, se sono le protagoniste femminili ad avere origini non propriamente
9
S. Ferrone, Introduzione, in ID. (a cura di), La commedia e il dramma borghese dell'Ottocento, Einaudi,
Torino 1979, t. I, pp. 330-1.
10
C. Antona-Traversi, La verità cit., pp. 4, 79.
11
"Corriere della Sera", rubrica "Corriere teatrale", 26 gennaio 1900.
6
borghesi, allora il tema del matrimonio e dell'infedeltà si intreccia a quello, di chiara
derivazione da Zola, della disonestà morale come destino di ogni giovane donna a corto
di denaro e di protezioni familiari, destino che può essere drammaticamente rifiutato
(con il suicidio, come nel caso della protagonista della fortunatissima commedia di
Camillo Antona-Traversi, Le Rozeno, rappresentata la prima volta al Valle di Roma nel
dicembre 1891 tra la diffidenza e la curiosità del pubblico per "il troppo ardimento e le
troppe nudità" della pièce, per usare le parole con cui la Duse aveva rifiutato di
interpretarla, e che nel giro di poche repliche, e di "sicure lievi ma ben pensate
modifiche" alle scene troppo disinvolte, riscuoterà un notevole e duraturo successo), o
destino che può invece rivelarsi paradossalmente vincente (così nella Trilogia di
Dorina di Gerolamo Rovetta, del 1891, dove la protagonista, orfana di un direttore
d'albergo, dopo una convinta ascesa di cortigiana, ottiene finalmente l'amore
incondizionato, e la richiesta di matrimonio, dal suo ancora giovane primo amante).
A questo punto, una domanda: il ricorrere del tema della famiglia, del
matrimonio e dell'adulterio, tema appunto che invade la scena teatrale italiana di fine
Ottocento sospingendo ai suoi margini altri soggetti, che rapporto ha con la questione
della crisi di fine secolo che avvelena l'aria per tutti, che ha incrinato nel senso comune
le positive certezze del passato?
La risposta, o meglio l'ipotesi su cui intendo ancora lavorare, è che il teatro ha
trovato allora, nella commedia (e nel dramma) borghese, una sua propria forma,
adeguata alle sue precipue logiche drammaturgiche, ma insieme capace di catalizzare le
ansie e le attese del suo pubblico.
La famiglia nella sua veste moderna, quale istituzione basata su un contratto,
ovvero su un libero accordo tra individui, è una delle forme simboliche della modernità,
e in quella fase di profondo smarrimento essa si offri come il luogo capace di
rappresentare meglio di qualunque altro la crisi ma insieme anche la capacità di
ricomporla.
La famiglia basata sul matrimonio, infatti, a) rappresenta un modello
paradigmatico delle istituzioni cardini della società moderna, b) ha un carattere
intrinsecamente contraddittorio e ambiguo; e, soprattutto, c) attraversava in quel
momento anch'essa la sua crisi, sottoposta com'era alle prime contestazioni, tra la realtà
dei movimenti emancipazionisti, l'ingresso delle donne nel lavoro, il processo di
costruzione di una nuova immagine femminile che trovava nel nome di Nora un suo
riconosciuto simbolo.
Mi spiego meglio.
Contrariamente all'adulterio, oggetto di narrazione letteraria fin da Omero, alla
fine dell'Ottocento la famiglia è un tema relativamente recente della fiction. Essa era
entrata nella letteratura con il romanzo borghese e del romanzo aveva costituito il tema
centrale. Fino ad allora "la famiglia, scriveva Ariès, sussisteva tacitamente, incapace di
suscitare un sentimento abbastanza vigoroso da ispirare un poeta o un artista.". Sarà
quindi il nuovo modello di famiglia creato dalla civiltà urbano-industriale,
standardizzato e regolato istituzionalmente nei suoi modelli di convivenza, che la
letteratura, e il romanzo in primo luogo, metterà per la prima volta al centro delle sue
narrazioni, con tutte le sue implicazioni sociali e domestiche.
7
Perché? Tony Tanner, nel suo bellissimo L'adulterio e il romanzo. Contratto e
trasgressione12, lo ha spiegato raccontando come "il romanzo borghese [quello cioè che
domina la narrativa europea tra 800 e primo 900] nasca e muoia mantenendo al suo
centro l'importante tema del matrimonio", e rintracciandone il motivo nella natura
intrinsecamente contraddittoria e ambigua del modello familiare moderno.
La famiglia è un'istituzione ambigua, dice Tanner: deve innanzitutto distruggersi
alla scopo di ricostituirsi: la sua continuità implica una serie di scioglimenti.
E' inoltre l'unità fondamentale che tiene insieme la società, garantendone la
stabilità e l'ordine, ma insieme è un rifugio dalla società, guscio protettivo contro una
realtà esterna minacciosa e aspra.
La famiglia è un'istituzione ambigua, ancora, perché mentre a partire dalla
tradizione romantica e individualista essa è assurta a luogo in cui l'individuo può
realizzare compiutamente la propria vita sessuale e affettiva, raggiungendo così la
felicità personale o almeno l'equilibrio interiore, essa è anche, insieme, la negazione
dell'individualismo: le norme vincolano e condizionano la libertà dei firmatari del
contratto in nome della conservazione della famiglia stessa ("Non è l'individualismo che
si è affermato, ma la famiglia stessa", ancora Ariès).
E' proprio questa ambiguità che ha posto la famiglia al centro del romanzo
ottocentesco, soprattutto europeo e americano: ogni volta con contenuti diversi e
funzioni discorsive diverse. Inquietanti, nel senso che ogni volta raccontano i sentimenti
e i comportamenti eversivi nei confronti della famiglia (sentimenti di distacco, rottura, o
comunque negativi). Ma anche profondamente conservatrici, a difesa dei valori e dei
comportamenti socialmente legittimati.
Ma se la famiglia, questa famiglia, è una forma simbolica della società moderna,
allora non è pretestuoso supporre che in Italia, in quel contesto, essa compaia nel teatro
come il registro privilegiato per parlare della crisi. Forte di una tradizione letteraria
ormai consolidata in ambito europeo e americano, carica di valenze simboliche
strettamente intrecciate nell'Ottocento italiano con il discorso sulla nazione che aveva
nutrito l'esperienza risorgimentale e successivamente quella postunitaria 13, la famiglia
costituì il luogo che poteva dire l'inquietudine, rappresentare la nuova consapevolezza
della fragilità dell'universo normativo che regolava la società (e la famiglia appunto), e
rispondere (o cercare di rispondere) al suo conseguente desiderio di rassicurazione.
Anche perché, come ho già detto, la famiglia sembrava attraversare anch'essa
una crisi profonda, minacciata com'era nel suo sistema normativo e nel gioco fisso della
complementarietà dei ruoli dalla realtà delle trasformazioni sociali e culturali.
In questa luce è quindi facile capire perché nelle commedie e nei drammi che
venivano rappresentati in quel quindicennio la protagonista sia la donna, molto spesso la
moglie infedele (ma anche la figlia, che si ribella alla volontà paterna o materna in nome
di desideri diversi e suoi propri).
Moglie infedele o figlia disobbediente all'autorità genitoriale, ma con le sue
ragioni. Per quanto, al di là delle ovvie differenze di toni e sensibilità, gli autori della
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Marietti, Genova 1990.
A.M.Banti, La nazione del Risorgimento, Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita,
Einaudi, Torino 2000 e I. Porciani, Famiglia e nazione nel lungo Ottocento, in "Passato e presente", 57,
2002, pp. 9-39.
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nuova commedia borghese italiana dimostrino una propensione chiaramente
conservatrice che ribadisce la necessità del rispetto delle norme matrimoniali
consolidate, queste figure di donne si arricchiscono di sfumature e la loro infedeltà, la
loro ribellione, è sempre il risultato di una inadeguatezza del personaggio maschile
(marito o padre, o fratello che sia).
Anche quando l'uomo ha dalla sua le opposte ragioni del suo ruolo sociale, e fa
fatica ad esprimere tenerezza e passione, ineducato com'è ai sentimenti, perché il suo
compito fuori dall'interno domestico, nell'arena sociale, consuma tutte le sue capacità ed
energie.
Anche gli amanti, appassionati o pusillanimi che siano, non hanno in questa
commedia borghese italiana un grande spessore: arrivati alla donna chiusa nel suo
interno domestico attraverso la mediazione del pater familias o della rete parentale,
sono giovani, a volte coltivano passioni artistiche o letterarie, ma sono destinati a farsi
da parte o per interventi esterni, o con un gesto nobile che ristabilisca l'ordine familiare
(in pochi casi), o, più spesso, semplicemente perché la loro passione è ormai consunta.
Sono le donne, invece, i personaggi più tormentati e coinvolgenti, nelle loro
lacerazioni tra il diritto individuale (alla felicità e all'amore) e le norme
istituzionalizzate dal contratto matrimoniale, tra la natura e la società. Nel momento in
cui i ruoli assommati nella figura di moglie (quello di femmina biologica, quello di
figlia (o sorella) ubbidiente, quello di compagna fedele, quello di madre responsabile,
quello di cristiana devota) si divaricano, le donne sono al centro, anzi, il centro del
dramma. Sono loro che, con l'adulterio desiderato o consumato, attaccano le regole
portanti del matrimonio, e quindi dell'ordine sociale, rivelandone la fragilità. Ma sono
sempre loro che vivono, in quella commedia borghese italiana, l'ambivalente desiderio
di rottura e ricomposizione, raggiunta quest'ultima spesso sul finale quando, tra
compromessi e catartici perdoni, la famiglia ritrova la sua funzione di garante della
continuità biologica e della stabilità sociale.
Dissimulatrici o meno che siano (straordinario è in questo senso il personaggio
della Moglie ideale di Marco Praga, del 189014, una appassionata, decisa, sincera
bugiarda), le donne sulla scena rispecchiano con la loro doppiezza lo smarginarsi delle
certezze di quella fine di secolo.
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La prima, al Teatro Gerbino di Torino l'11 novembre del 1890 fu subito un grande successo,
applaudito anche da Giovanni Pozza sul "Corriere della Sera", ma poco dopo, nella replica fiorentina, fu
attaccato dall'autorevole critico teatrale della "Nazione", Giulio Piccini. La moglie ideale è comunque una
delle commedie più rappresentata e replicate all'epoca.
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