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Occhiello/ Verso l’Europa dei popoli e delle Chiese
Titolo/ I confini dell’Europa
La battaglia per dare un’anima all’Europa sarà lunga. Per i cristiani, quello di
saldare la storia temporale con la storia della salvezza, è più di un impegno. Per
questo la scelta che abbiamo di fronte, tra unità politica sopranazionale e area
per la sola utilità mercantile, è una scelta epocale.
Non ci potrà essere un’Europa di pace e vera democrazia se non ci sarà una
riflessione profonda intorno alle sue radici culturali e storiche
di Corrado Belci *
Mi pare utile, in premessa, tener presente un rischio: che molti percepiscano la
costruzione dell’Europa soprattutto come un fatto economico. Questa sensazione si è
formata nel tempo per tre ragioni che oggi si sommano. La prima ragione è che,
storicamente, il processo di integrazione europea ha dovuto imboccare “la via
economica” all’unità, anziché percorrere direttamente quella delle istituzioni
politiche. La seconda ragione è che la cultura del mondo moderno – «il contesto
contaminato dal secolarismo e assoggettato al consumismo», come lo definisce
l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa, – tende a assumere
come dominante, nella vita dell’uomo, la dimensione economica.
Ma il rischio è, oggi, ancora aumentato, perché a questa riduttiva impressione propria
di molti europei, si aggiunge un interesse in alcune parti del mondo (questa è la terza
ragione) al formarsi di un’Europa molto dilatata territorialmente, caratterizzata da
forti connotati commerciali, ma dal profilo politico del tutto evanescente.
Andrea Bonanni, in un suo saggio su La Repubblica, l’ha definita «l’Europa troppo
larga che piace all’America». È un interesse rappresentato dalle forze che
preferiscono un mondo unipolare – cioè guidato politicamente da una sola
superpotenza – a un mondo multipolare, fondato su un equilibrio internazionale
rispettoso delle diverse culture e civiltà, dotato di un’autorità mondiale che sia
presidio dei valori diversi e superiori alla sfera della potenza.
Nel primo caso – il mondo unipolare – la caratteristica è la forza dominante di una
nazione, nel secondo caso – un mondo multipolare – è prevalente il dialogo e lo
sforzo di comprensione fra i popoli.
Due prospettive per l’Europa
Anche per l’Europa, oggi si fronteggiano due prospettive, una detta “sovranista”,
l’altra “comunitaria” (o federalista), che sono tra loro radicalmente diverse.
La prima prospettiva (quella “sovranista”) tende a conservare nelle mani degli stati
nazionali la più esclusiva sovranità nella politica estera, nella politica della difesa o
della sicurezza, spingendo quanto fin qui si è realizzato nell’economia comune verso
un’area di libero scambio, un’Europa “degli affari”, inconsistente come soggetto
politico nel mondo.
È questo l’obiettivo dei neo-nazionalismi e dello spirito mercantilistico. Ciampi, nella
sua battaglia per l’Europa politica, ricorda che «la suggestione mercantilistica propria
dell’Efta» è stata respinta «dai governanti e dai popoli europei perché avrebbe di fatto
circoscritto la Comunità Europea ad una zona di libero scambio», mentre è stata
affermata «l’importanza di una integrazione che mantenga l’essenza
dell’impostazione originale». Il Presidente della Repubblica dice queste parole, con il
linguaggio proprio dei capi di stato, perché sa bene che la suggestione mercantilistica
torna oggi a insinuarsi lungo l’itinerario europeo.
La seconda prospettiva (quella “federalista”) punta, invece, a completare il processo
di integrazione finora attuato per giungere finalmente alle istituzioni politiche di
un’Europa federale.
Questo obiettivo si ottiene devolvendo alcune “quote di sovranità” nazionale anche
alla politica estera comune e alla politica comune della difesa, a una più completa
direzione comune dell’economia e della politica fiscale, come è richiesto dagli stessi
vertici della Banca Centrale Europea.
Per completare questo passaggio, occorre adottare procedure sempre più basate sul
metodo della maggioranza e sempre meno sui paralizzanti, obblighi della unanimità,
cioè sul diritto di veto di ognuno dei 15 (domani 25) stati aderenti.
È questo il traguardo federale e comunitario, quello vaticinato dai padri fondatori, ed
è sui nuovi passaggi di questo faticoso percorso che si sono svolti i dibattiti nella
Convenzione e ora proseguono nella Conferenza Intergovernativa.
Il cammino verso l’unità europea
Per avere chiara la portata culturale, ideale e politica della scelta è bene ricordare
l’inizio del cammino verso l’unità europea. Non a caso esso fu avviato da tre statisti
democratici cristiani, De Gasperi, Adenauer e Schuman, e da esponenti
dell’umanesimo socialista quali Monnet e Spaak.
A sinistra, i comunisti avversavano l’unità politica europea, perché il loro schema
ideologico evocava il timore che si formasse un agglomerato capitalistico di
dimensione continentale. A destra, i nazionalisti erano contrari per paura di veder
colpito l’idolo dello stato nazionale assoluto; e gli industriali conservatori lo
osteggiavano per timore di perdere il protezionismo.
L’obiettivo ben chiaro dei padri fondatori era l’unità politica dell’Europa. Essi
avevano percepito la necessità di una svolta epocale. Si doveva spezzare la spirale dei
nazionalismi generatori di guerre, il che non significa cancellare la nazione, ma vuol
dire non farne il valore supremo, tale da schiacciare la persona umana e i suoi diritti;
si doveva eliminare il razzismo, combattere la xenofobia e alimentare – come
richiamò il Sinodo dei Vescovi nel 1999, citato da Giovanni Paolo II nella Ecclesia in
Europa – le «aperture, le riconciliazioni, le collaborazioni e gli scambi, insomma la
coscienza europea, affinché nella legittima unità economica e politica in Europa sia
garantito il primato dei valori etici e spirituali», cioè i «segnali che aprono alla
speranza».
Non deve trarre in inganno il fatto che i primi passi si siano fatti con il trattato sulla
Comunità del carbone e dell’acciaio, poiché lo scopo di quella prima integrazione era
di realizzare un controllo comunitario sulle materie prime dalle quali derivava il
processo degli armamenti nazionali. Vista con gli occhi di allora, era, dunque, una
scelta politica, un primo presidio della pace.
Il passo successivo doveva essere quello della Comunità Europea di Difesa, la Ced,
cioè la creazione di un comune esercito europeo: la via politica alla sicurezza
dell’Europa, che allora era “dei Sei”, i Paesi fondatori. Se la strada fosse stata quella
non sarebbe mai sorto l’equivoco di un’Europa meta esclusivamente economica.
È utile risentire l’indicazione del vero obiettivo dell’unità europea con gli accenti di
quel tempo, anche per misurarne adesso la lungimiranza. Lo si può fare attraverso
alcuni passi di un discorso di Alcide De Gasperi, di fine giugno del 1953, più di
cinquant’anni fa, a Palazzo Barberini: «Noi abbiamo accettato la proposta francese
della Comunità di Difesa, cioè dell’organizzazione di un esercito comune europeo,
non semplicemente per le ragioni gravi, ma pur sempre contingenti della difesa, ma
perché la Comunità di Difesa è destinata a diventare, sia pure entro determinati limiti,
comunità politica ed economica…La verità è che la Ced costituisce la garanzia più
organica e più solida immaginabile della pace in Europa, è il primo grandioso
tentativo, non di sostituire, ma di integrare, con una comunità più larga, la vita delle
principali nazioni europee…Quando insistiamo per la Ced non seguiamo un sogno
fantastico, non predichiamo misure di guerra, ma tendiamo con tutte le nostre forze
alla pace…L’Europa non è un’iniziativa tattica nostra benché dei grandi italiani sia
l’ispirazione universalista, noi faremo in modo che essa diventi argomento e
strumento costitutivo e definitivo di pace».
Un anno dopo, pochi giorni prima di morire, De Gasperi scriveva a Fanfani, allora
segretario della Democrazia Cristiana: «La Ced è la mia spina!» (9 agosto). E poi (14
agosto, 5 giorni prima della morte avvenuta il 19): «Se le notizie che giungono sono
vere ritengo che la causa della Ced sia perduta e ritardato di qualche lustro ogni
avviamento dell’Unione Europea».
Purtroppo la stessa Francia, promotrice del progetto, provvide, a opera di Mendes
France, a liquidare quella “via politica” all’unità europea nella sua Assemblea
Nazionale del 31 agosto 1954, dodici giorni dopo la morte di De Gasperi. Fu allora
che si adottò la “via economica”, più lunga e più insidiosa, che ha comportato
laboriose trattative tra gli stati, per mediare sullo scontro fra gli interessi messi in
discussione.
Agli occhi di tanta gente quelle lunghe “maratone notturne” di Bruxelles e quei
“divieti” degli euroburocrati apparivano come i sintomi di un fenomeno negativo,
sicché la Comunità Economica Europea non destava né entusiasmo né interesse
popolare. E ci sono ancora oggi esponenti governativi – come spesso e a ragione
lamentano Prodi, Monti e Padoa Schioppa – i quali, per paura di perdere voti nel
proprio stato, davanti a misure talvolta non popolari, invece di spiegarne la necessità,
amano giustificarsi dicendo «ce lo chiede l’Europa». Essi alimentano così, due
sensazioni diseducative: quella di far percepire l’Europa come un’entità “estranea” e
per giunta come una mera fonte di “divieti” e “proibizioni”.
L’oggi: l’Europa politica e l’Europa geografica
Ma adesso, dopo la creazione della moneta unica, che peraltro non tutti e 15 gli stati
hanno adottato, e l’allargamento a otto paesi dell’Est europeo (Boemia, Slovacchia,
Ungheria, Polonia, Slovenia, Estonia, Lettonia e Lituania) nonché a Cipro e Malta, la
scelta politica è diventata stringente.
È evidente che i confini dell’Europa unita politicamente non coincidono con i confini,
assai labili, dell’Europa geografica. E a quell’Europa “troppo larga”, di cui si diceva
prima, qualcuno intende persino attribuire improprie funzioni di strategia militare,
come avverte l’europarlamentare Guido Bodrato in una raccolta di saggi intitolata,
appunto, I confini dell’Europa. Egli indica, ad esempio, il pericolo che si voglia
«affidare alla Turchia il compito di presiedere il confine verso gli stati islamici…Gli
Stati Uniti non possono decidere al posto dell’Europa quali saranno i confini
dell’Unione Europea, come se la sicurezza e la pace possano essere affidate solo alle
alleanze militari».
Naturalmente questo non significa che si ipotizzi un continente politicamente diviso.
Anzi: una piena cooperazione politica fra tutti gli stati e tutti i popoli dell’Europa
geografica può realizzarsi solo se l’Occidente europeo, omogeneo nella cultura e
nella tradizione della democrazia parlamentare, si unifica mediante istituzioni
sopranazionali giuridicamente ben definite e diventa un soggetto politico mondiale.
Non c’è contrapposizione tra l’Europa politica e l’Europa dei popoli, se l’unità si
fonda sui principi democratici e non su istituzioni costruite solo sui vertici degli stati.
Cosa vuol dire per l’Europa essere soggetto politico mondiale, anziché semplice area
di libero scambio? Non si tratta – come fingono di credere gli euroscettici – di
immaginare un’Europa antagonista o contrapposta agli Stati Uniti d’America. Il
rapporto di storica alleanza tra Europa e America, quando è basato sulla pari dignità,
non è in discussione. È in discussione, invece, la visione di un mondo presidiato da
una sola superpotenza e di conseguenza guidato secondo parametri prevalentemente
militari (la guerra preventiva anziché il diritto internazionale) cui fa da alternativa un
mondo multilaterale, fondato su più centri o poli di influenza culturale e politica, che
intrecciano il loro dialogo nella sede delle Nazioni Unite.
Pax americana e pari dignità
È evidente la connessione che esiste tra queste due visioni e la vera pace.
La prima visione può condurre a una “pax romana”, oggi una “pax americana”,
assicurata dalla forza delle armi e dal predominio di una nazione su tutte le altre.
La seconda visione intende costruire la pace sulla pari dignità, sul rispetto tra i grandi
e i piccoli, sulla cooperazione per lo sviluppo dei paesi più poveri, su una meno
offensiva disuguaglianza nel pianeta.
Il dilemma “Europa federale o area di libero scambio” si fa attualissimo con il
dibattito sul trattato costituzionale, dopo il progetto della Convenzione presieduta da
Giscard d’Estaing e la Conferenza Intergovernativa in corso per approvarlo o per
modificarlo. Ne parliamo, quindi, in termini problematici, seguendo i lavori di queste
settimane, in attesa delle effettive conclusioni attese, forse, entro l’anno.
Il testo all’esame della Conferenza intergovernativa (465 articoli) ha suscitato pareri
articolati, tra apprezzamenti realistici e critiche corredate da proposte di modifiche.
Appare evidente che la guida politica sarà bicefala (con due Presidenti, del Consiglio
e della Commissione). La Commissione Esecutiva ha spinto per ottenere taluni
emendamenti, soprattutto per iniziativa del suo Presidente, Romano Prodi, su quattro
aspetti che si possono così riassumere: a) le decisioni che si devono prendere
all’unanimità sono ancora troppe; b) c’è bisogno di un maggiore coordinamento
nella politica economica; c) occorre modificare la composizione della Commissione,
arrivando a 25 membri; d) si deve poter modificare la costituzione con una
maggioranza di cinque/sesti, anziché con l’unanimità.
Tuttavia anche Prodi, nel presentare alla stampa il parere della C.E., ha definito il
progetto di trattato «una buona base per i negoziati finali, un buon testo per l’Europa,
per i suoi popoli e per le istituzioni europee».
Il Parlamento Europeo ha approvato, alla fine di settembre, una Risoluzione
accompagnata da una “motivazione” che apprezza i passi importanti del testo verso la
democrazia, la trasparenza e l’efficienza; che indica gli aspetti che richiedono un
ulteriore monitoraggio e che “deplora” le lacune in materia di coesione economica e
sociale, di politica estera e di sicurezza, degli organi giurisdizionali, in gran parte con
riferimento alla mancata «soppressione dell’unanimità per taluni settori importanti in
seno al Consiglio europeo».
Tuttavia, in sede di valutazione generale, il Parlamento «ritiene che, nonostante taluni
aspetti deplorevoli già menzionati, il risultato dei lavori della Convenzione sia
positivo» e che «la Cig debba approvare senza modifiche sostanziali il progetto di
trattato». Questo per evitare di riaprire negoziati sugli equilibri faticosamente
raggiunti. Riaprendo la trattativa, infatti, si corre il pericolo di arretrare rispetto ai
risultati conseguiti, solo che si pensi alle posizioni della Gran Bretagna e della
Spagna che convergono con quelle dei paesi ex comunisti. Questi ultimi, appena
approdati alla loro reale indipendenza, guardano con diffidenza alla cessione di
“quote di sovranità” a una nuova realtà sopranazionale, che pure hanno considerato
un traguardo decisivo in termini di sicurezza e di sviluppo rispetto alla antica
sovranità limitata da cui si sono appena liberati.
È auspicabile che le conclusioni cui arriverà la Conferenza Intergovernativa siano
aperte al proseguimento del cammino verso l’unità politica, verso l’attuazione di
un’Europa personalista e costruita su un’economia sociale di mercato, anziché
un’Europa individualista e liberista.
L’Europa e le sue radici
È qui che s’innesta il discorso sul rapporto tra Europa politica e cristianesimo,
Europa-istituzione e Chiese. Sono note a tutti le ripetute, insistenti, accorate
sollecitazioni del Pontefice, perché la Costituzione riconosca esplicitamente le radici
cristiane dell’Europa. In effetti, come ricorda una meditazione del cardinale Achille
Silvestrini del 2001 a Camaldoli, vi è un’unità dell’Europa che si fonda sugli
elementi culturali «delle due grandi tradizioni latino-germanica (occidentale) e
bizantino-slava (orientale), entrambe coessenziali alla costruzione dell’Europa».
Invece né la Carta di Nizza né la bozza di Costituzione Giscard contengono alcun
riferimento alle radici cristiane dell’Europa.
Si è ripresentato, in sede di costituzione continentale, il problema che suscitò un
appassionato dibattito all’assemblea costituente italiana, allorché Giorgio La Pira
propose di inserire un emendamento così formulato: «In nome di Dio il popolo
italiano si dà questa Costituzione». Come è noto, poi, cedendo alle pressioni di
Benedetto Croce, lo ritirò per non provocare divisioni sul nome di Dio, in omaggio
alla laicità dello Stato e in considerazione del marcato carattere personalistico e
comunitario, derivante dalla dottrina sociale della Chiesa, dei principi fondamentali
della Costituzione stessa.
Si deve riconoscere che è una materia delicata, posta dal rispetto all’ordine proprio
degli stati al contesto di un’Europa multirazziale, di orientamenti diversi e di diverse
fedi, che in sede istituzionale ne deve tenere conto. Per queste ragioni la discussione
attiene al richiamo esplicito e formale «alle radici cristiane dell’Europa», ma anche
alla sostanza dei valori di riferimento nel trattato costituzionale.
È evidente che l’insistenza di Giovanni Paolo II nel richiamare le radici cristiane
dell’Europa esprime soprattutto la preoccupazione del Pontefice sia per il diffondersi
del relativismo morale sia per l’accanimento di un esasperato laicismo refrattario
anche all’evidenza storica.
In uno scritto del giugno 2003 mons. Giordano Frosini, nel sottolineare come
l’Europa sia «in preda a una crisi di pensiero, al buio della ragione, alla notte delle
idee forti che l’hanno sostenuta nel corso della sua storia bimillenaria», ricorda come
il concetto di persona sia proprio «di uno specifico cristiano maturato nella riflessione
dei grandi teologi e filosofi cristiani». Ma non è forse vero che in tutto il mondo
occidentale, per credenti e non credenti, per la gente di ogni confessione e
orientamento, per tutti insomma, la storia antica definisce le sue ere distinguendole
nei secoli “avanti Cristo” e “dopo Cristo”? Si tratta di criteri scientifici universali
della storia, non certo di manifestazioni di confessionalismo.
Ma il richiamo esplicito alle radici cristiane dell’identità europea, nella situazione
attuale si è rivelato impraticabile per la non omogeneità culturale delle diverse
componenti storiche, come ha dimostrato il voto del Parlamento europeo. Esso ha
visto gli stessi appartenenti alle aree protestanti e ortodosse non sostenere il richiamo
proposto.
I valori della nostra Europa
Ma ci sono altri aspetti che attengono al rapporto Europa-cristianesimo. C’è il tema
delle libertà religiose, ma anche il modo di intendere il rapporto tra la “istituzione
civile” Europa e le varie Chiese e le comunità cristiane esistenti nel suo ambito. Una
cosa è infatti il rispetto della libertà di culto, derivante dalla indipendenza e sovranità
delle due “sfere”, civile e religiosa. Cosa diversa è considerare le Chiese come vere e
proprie interlocutrici dell’Unione Europea «che operano con uno specifico spessore
istituzionale» per utilizzare in positivo «l’impegno di promuovere a tutti i livelli della
vita delle chiese una cultura effettiva del dialogo e della collaborazione» come
afferma la Charta Oecumenica firmata a Strasburgo il 22 aprile 2001 dal Consiglio
delle Conferenze Episcopali d’Europa e dalla Conferenza delle Chiese europee.
C’è, infine, il terzo aspetto, forse il più rilevante, ed è quello dei contenuti e dei
valori. Anche per l’Europa si pone una scelta netta: quella di essere dominata dal
cosiddetto “pensiero unico”, cioè dal mercato come regolatore supremo non solo
della dimensione economica, ma dell’intera vita dell’uomo; oppure quella di avere
un’anima personalista e solidarista, essere, sì, una istituzione sopranazionale, ma non
solo un’entità tecnica, ordinatrice e neutra, bensì orientata alla centralità dell’uomo,
della sua pienezza sociale e culturale, della cooperazione e della pace.
Della sostanza, più che delle parole, si preoccupa anche il giornalista-scrittore
cattolico Angelo Bertani, richiamando su il quotidiano Europa, come esempio,
un’iniziativa presa da molti autorevoli docenti dell’Università Cattolica, guidati dai
prorettori Campiglio e De Natale, che non ha avuto, purtroppo, l’eco meritata. Si
tratta di un testo che varrà per il futuro quale che sia l’esito finale della Conferenza
Intergovernativa. È il seguente: «L’Unione Europea ripudia la guerra come strumento
di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali; consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le
Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Gli interventi di politica economica, monetaria e commerciale dell’Unione
perseguono l’obiettivo di eliminare gli squilibri di ogni tipo che esistono tra i diversi
paesi del mondo. Identico obiettivo viene perseguito negli orientamenti espressi
dall’Unione Europea in qualsiasi organismo internazionale. L’Unione interviene
affinché le risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo dagli stati membri e dal
bilancio comunitario corrispondano ai parametri indicati dalle organizzazioni
internazionali».
Come si vede, è guardando ai contenuti che si può misurare la vera coerenza degli
orientamenti politici con i valori cristiani, appunto quelli contenuti nella Assemblea
sinodale del 1999, nella Charta Oecumenica del 2001 e nella esortazione apostolica
Ecclesia in Europa del 2003; evitando il rischio che sotto il carattere nominale
dell’aggettivo “cristiano” possano insinuarsi poi comportamenti pratici di segno ben
distante dalla dottrina sociale della Chiesa.
La battaglia per dare un’anima all’Europa sarà lunga, per i cristiani – in un certo
senso – senza fine, com’è l’impegno per saldare la storia temporale con la storia della
salvezza.
Forse non c’è testo più espressivo per cogliere il filo della relazione tra l’Europa e il
cristianesimo di quello che Paolo VI indirizzò il 25 luglio 1975 a mons. Agostino
Casaroli, delegato speciale del Papa per la firma dell’atto finale di Helsinki. «Al
culmine di questa storia lunga e spesso tormentata», scriveva Papa Montini, «grazie
alla varietà degli apporti che ciascun popolo di questo continente col suo proprio
genio le ha conferito, l’Europa ha un patrimonio ideale che rappresenta un’eredità
comune, questa si basa essenzialmente sul messaggio cristiano annunziato a tutte le
sue popolazioni che lo hanno accolto e fatto proprio e comprende, oltre ai valori sacri
della fede in Dio e del carattere inviolabile delle coscienze, il valore dell’uguaglianza,
della fraternità umana, della dignità del pensiero consacrato alla ricerca della verità,
della giustizia individuale e sociale, del diritto concepito come criterio di
comportamento nei rapporti tra i cittadini, le istituzioni e gli stati. Noi qui parliamo di
stati, in questa riunione di Helsinki, ma noi vorremmo guardare più precisamente ai
popoli che formano la realtà vivente di questi stati, la loro ragion d’essere, il motivo
della loro azione. Ci sono centinaia di migliaia di uomini e di donne, giovani e
anziani che aspirano a vivere dei rapporti sempre più sereni, liberi e umani, cioè a
godere della pace e della giustizia. Desiderano certamente sentirsi rassicurati dalla
garanzia della sicurezza di ciascun stato, ma sono nello stesso tempo incoraggiati
dalla riaffermazione del rispetto dei diritti legittimi dell’uomo e delle sue libertà
fondamentali, fra i quali la Santa Sede si compiace di vedere sottolineato in modo
specifico la libertà religiosa».
Completezza e delicatezza si fondono nel testo magistrale di questo Papa, dal
pensiero profondo, forse in parte ancora inesplorato. Qui davvero l’Europa può
trovare un’anima, che ancora il suo trattato costituzionale sembra non riuscire a
cogliere. Qui le giovani generazioni possono scoprire l’ispirazione sublimata dei
padri fondatori, la grandezza profetica e la passione cristiana di Alcide De Gasperi,
finalmente celebrato per questa formidabile equazione Europa eguale pace, lanciata
come intuizione suprema e conclusiva della sua vita.
Ecco, ancora una volta possiamo misurare quali opposte realtà possano esserci dietro
la parola “politica”. Nel linguaggio qualunquistico (ahimè, tanto diffuso) si intende
una scorciatoia per la conquista e l’esercizio del potere per interessi personali, spesso
non puliti. La politica può essere, è vero, anche questa deturpazione moralmente
riprovevole. Ma questo fatto non solo non può diventare un alibi dei cristiani per
sottrarsi al loro impegno civile, ma deve essere un ulteriore stimolo a ricordare che,
rettamente intesa e praticata, «la politica è una maniera esigente di vivere l’impegno
cristiano al servizio degli altri», secondo la nota definizione di Paolo VI.
È la motivazione etica che la ispira a determinare se essa è carità (cioè donazione) o
tornaconto (cioè egoismo). E la vigilanza su se stessi non è mai troppa, perché il
potere è tentatore persino al di là del danaro: talvolta fa credere di essere
personalmente depositari esclusivi di chissà quali missioni importanti, che inducono a
perseguirlo con puntigliosa ostinazione.
Su questo tema Alcide De Gasperi rivolgeva parole edificanti alla figlia, poco prima
di morire, prima – scrive Maria Romana – «di rassegnare le dimissioni nelle mani del
Signore» : «Il Signore ti fa lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e vita,
poi quando credi di essere necessario, indispensabile al tuo lavoro, ti toglie
improvvisamente tutto. Ti fa capire che sei soltanto utile, ti dice ora basta, puoi
andare. E tu non vuoi, vorresti presentarti al di là con il tuo compito ben finito e
preciso. La nostra piccola mente umana ha bisogno delle cose finite e non si rassegna
a lasciare ad altri l’oggetto della propria passione incompiuta».
Sembra l’ispirato consiglio con cui perseguire l’obiettivo dell’Europa: occorre
spendersi senza chiedersi quale generazione vedrà l’opera compiuta. La scelta che
abbiamo di fronte – e che hanno di fronte soprattutto le giovani generazioni –, la
scelta tra unità politica sopranazionale e area per la sola utilità mercantile, è una
scelta epocale.
È, certo, una scelta da assumere sul terreno proprio della politica. Ma non è una scelta
solo tecnica, giuridica, istituzionale; risulta assai evidente la differente qualità etica
che motiva l’una e l’altra strada, assai diseguale è lo spessore storico dei due
obiettivi, diverso è il grado di coerenza che l’una o l’altra offrono a chi vuol fare
politica secondo i valori cristiani.
Per un orizzonte cristiano e per dare il suo contributo al mondo di oggi l’Europa deve
essere una fonte di accoglienza, di dialogo, un partner che sia paritario con
l’America, indispensabile all’integrazione dell’Occidente, un’autentica sorgente della
pace nel mondo, un centro per la promozione di una politica della cooperazione allo
sviluppo di segno decisamente diverso.
Non è accettabile per una visione cristiana che il 20 per cento della popolazione del
mondo possieda l’80 per cento delle risorse e l’80 per cento viva con il restante 20
per cento. Altro che recinti contro l’immigrazione!
L’ora dell’Europa deve essere l’ora nella quale i cristiani sono chiamati a misurare la
coerenza tra i principi sociali professati e la politica praticata. In questo campo le
paure sono troppe e troppi anche i silenzi. In due righe il compianto vescovo Helder
Camara ha colto il senso di tante reticenze su questo punto: «Quando dico che aiuto i
poveri mi battono le mani. Quando denuncio le cause della povertà dicono che sono
comunista».
Parole sante, da mettere anche nel motore della futura Europa. Un’impresa, quella
dell’Europa politica, che richiede la solidarietà nello spazio tra i popoli del continente
e la solidarietà nel tempo fra le generazioni. È un’impresa grande, un’opera fatta
davvero per i cristiani.
* Corrado Belci, giornalista e saggista, è stato parlamentare della Dc per quattro
legislature, e direttore del quotidiano Il Popolo. Ha pubblicato numerosi libri sulla
storia del movimento cattolico e sulla politica italiana
box 1
Il testo per l’Unione
Il testo della Conferenza Governativa richiama i valori classici della democrazia e
integra nel trattato la Carta dei diritti fondamentali; stabilisce la prevalenza del diritto
dell’Unione Europea su quello degli Stati membri; conferisce all’Unione un’unica
personalità giuridica; ridefinisce le competenze esclusive e concorrenti tra Unione e
Stati. Per gli organi la revisione del triangolo Consiglio Europeo, Parlamento e
Commissione: prevede che la sfera di co-decisione del Parlamento Europeo sia
generalizzata; crea un Presidente permanente per due anni e mezzo rinnovabile una
volta e un Ministro degli Esteri; stabilisce una Commissione formata da 15 membri
(compreso Presidente e Ministro degli Esteri), scelti a rotazione paritaria tra i Paesi,
più altri 15 senza diritto di voto; infine, la regola dell’unanimità solo dopo il 2009
lascerà il posto a una maggioranza qualificata (maggioranza degli Stati per i 3/5 della
popolazione) in 36 settori, ma rimarrà per la politica estera e per quella fiscale.
Box 2
All’origine di tutto
«Se affermo che all’origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo, non
intendo con ciò introdurre alcun criterio confessionale esclusivo nell’apprezzamento
della nostra storia. Soltanto voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella
morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana con il suo
fermento di fraternità evangelica, con il suo culto del diritto ereditato dagli antichi,
con il suo culto della bellezza affinatosi attraverso i secoli, con la sua volontà di
verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria…»
Alcide De Gasperi
Box 3
Il contributo delle confessioni cristiane
Nella sua terza parte, dedicata alle obbligazioni sociali, nei punti da 7 a 12, la Charta
Oecumenica indica in modo specifico gli impegni sociali, culturali e ambientali delle
Chiese: per contribuire a plasmare l’Europa, per riconciliare popoli e culture, per
salvaguardare il creato, per approfondire la comunione con l’ebraismo, per curare le
relazioni con l’Islam, per l’incontro con altre religioni e visioni del mondo.
In questo testo, la pace, l’attenzione ai poveri del mondo, la solidarietà, la nonviolenza, il rispetto delle diversità e delle minoranze, insomma la persona umana
come epicentro dell’universo, bilanciano in modo decisivo e in controtendenza le
gravi tentazioni del dominio della logica economica, «forse il più grave dramma in
cui è scivolata sempre più l’umanità» nel tempo presente.
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