Il risarcimento del danno nell`ambito del diritto amministrativo: spunti

Il risarcimento del danno nell’ambito
del diritto amministrativo: spunti di riflessione
(relatore: Dott. Giuseppe Ondei *)
Bergamo, 14 gennaio 2005
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
Bergamo 14 gennaio 2004
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INDICE
1. – Introduzione………………………………………………………………. pag. 3
2.- Il risarcimento del danno da provvedimento illecito …………………… “
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2.a - Premesse ………………………………………………………………..
2.b - Prima problematica: la necessità o no dell’impugnazione dell’atto
amministrativo asseritamente lesivo (la cd. pregiudizialità
dell’azione di annullamento). …………………………………………….
2.c - Seconda problematica: l’individuazione della lesione di interesse
legittimo - rectius dell’interesse meritevole di tutela - alla quale
consegue il diritto al risarcimento del danno e la natura della
responsabilità amministrativa. ……………………………………………
- La responsabilità precontrattuale …………………………………..
- La responsabilità contrattuale ………………………………………
- La responsabilità extracontrattuale ………………………………
- Conclusioni……………………………… ………………..
“
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2.d - Terza problematica: il nesso di causalità………………………………… “
2.e - Quarta problematica: l’elemento soggettivo (la colpa).
“
3. - Il risarcimento del danno patrimoniale…………………………………… “
3.a - Il risarcimento in forma specifica ………………………………………
“
3.b - Il risarcimento per equivalente………………………………………….. “
La prova del danno
“
3.b1 – Determinazione del danno per perdita di chances …………………… “
3b.2 - I criteri di quantificazione della perdita di chance …………………… “
4. - Il danno non patrimoniale ………………………………………………… “
4.a – Il danno alla persona prima del maggio 2003…………………………… “
Le sentenze della Corte di Cassazione del maggio 2003 ….. …………. “
4.b - La limitazione del danno non patrimoniale……………………………… “
4.c - L’illecito civile ed il danno morale ……………………………………….. “
4.e - Rapporti tra il danno biologico ed il danno da lesione di un
interesse inviolabile della persona costituzionalmente tutelato…………. “
5. - Il problema della quantificazione del danno non patrimoniale…………... “
5.a – Il danno biologico………………………………………………………….. “
5.b – Il danno non patrimoniale diverso dal danno biologico………………… “
6. – Ulteriori operazioni necessarie per l’esatta quantificazione del
danno patrimoniale e non patrimoniale…..……………………………… “
6.a - La rivalutazione……………………………………………………………. “
6.b - La riduzione per anticipata corresponsione……………………………… “
6.c - La capitalizzazione ………………………………………………………… “
6.e - Il ritardo nell’adempimento dell’obbligo di risarcire il danno.…………. “
7. - Breve accenno a talune ricorrenti questioni procedurali………………… “
7.a - Proponibilità della domanda di risarcimento del danno
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in sede di ottemperanza……………………………………………………. “
7.b- La domanda introduttiva del giudizio …………………………………... “
7.c - Competenza territoriale ………………………………………………….. “
7.d – La peculiare modalità di liquidazione del danno prevista
dall’art. 35 del d. Lgs 80/1998……………………………………………. “
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1. - Introduzione
1.a - Il cammino percorso dalla dottrina e dalla giurisprudenza in tema di illecito,
a proposito della individuazione del danno risarcibile, appare lungo ed a volte alquanto
tumultuoso e disordinato tanto da creare la netta sensazione che una sistemazione
organica e coerente di tale problematica sarà possibile solo una volta che il corso di
questa evoluzione si sarà quanto meno moderato. La velocità che il diritto vivente ha di
modificarsi è talmente elevata, e soggetta ad un’espansione quasi esponenziale, che le
ricostruzioni dottrinali stentano a tenere dietro all’evoluzione concreta e tendono
frequentemente a rifugiarsi nella esposizione casistica attraverso un procedimento
ermeneutico che pare abbia la sua essenza in un “farsi” mai definitivamente concluso.
La giurisprudenza di merito in materia – nel trentennio 1970/2000 - è stata
veramente creativa e vulcanica nell’individuare nuove categorie di danni da risarcire,
soprattutto di natura non patrimoniale, mentre la Corte di cassazione e la Corte
costituzionale, lungi dal regolamentare tale giurisprudenza con autorevoli e precise
indicazioni nomofilattiche e costituzionali – “per ricondurre a razionalità e coerenza il
tormentato capitolo della tutela risarcitoria”, si sono spesso pronunziate con arresti tra
loro contrastanti in modo da creare ulteriore disorientamento all’operatore giuridico.
Dal 1999 al 2003, però, la giurisprudenza di legittimità in tema di danno
risarcibile ha vissuto un periodo veramente “rivoluzionario” che ha sconvolto sin dalle
fondamenta il sistema, se sistema vi era.
Così, per fare qualche esempio, non certo esaustivo, si consideri che nel 1999 le
sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 500, superando una
giurisprudenza “pietrificata”, hanno definito il danno risarcibile espressamente come
“lesione non solo di un diritto soggettivo ma, più ampiamente, di un interesse e per
l’esattezza come la lesione dell’interesse del bene della vita al quale l’interesse leso,
secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega”
evidenziando, pertanto, come danno risarcibile non sia soltanto la lesione di qualsiasi
interesse costituzionalmente protetto ma anche la lesione di qualsiasi interesse rilevante
per l’ordinamento, cioè preso in considerazione da una norma o da un blocco normativo.
E ancora, sempre le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza del 21
febbraio 2002 n. 2.515, in tema di danni richiesti in relazione ad episodio di disastro
ambientale – Seveso -, sono giunte a riconoscere il danno morale, quale “danno-evento”,
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a persone sottoposte a continui controlli sanitari a causa del perturbamento psichico da
disagio e preoccupazione duraturi nel tempo; mentre con la sentenza 1 luglio 2002 n.
9.556 hanno incluso tra il novero dei legittimati attivi al risarcimento del danno non
patrimoniale le cd. “vittime di rimbalzo”, ossia coloro che risultano aver avuto una
particolare situazione affettiva con la vittima, non ritenendo ostativo il disposto dell’art.
1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso.
Ma è stato nel mese di maggio del 2003 che la Corte di cassazione ha
letteralmente scardinato il vecchio sistema del risarcimento del danno. Infatti, il 12
maggio sono state pubblicate tre sentenze (nn. 7781, 7782 e 7783) nelle quali è stato
affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile anche quando il criterio di
imputazione della responsabilità è quello degli artt. 2050-2054 c.c., mentre il 31
maggio 2003 sono state pubblicate le sentenze nn. 8827 e 8828 nelle quali è stata
riconosciuta la risarcibilità dei danni non patrimoniali quando sono lesi diritti
fondamentali della persona ma non sussiste la fattispecie di reato: pronunzie tutte che
hanno trovato una autorevole conferma nella sentenza 11 luglio 2003 n. 233 della Corte
costituzionale la quale, nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di
quello non patrimoniale, ha espressamente condiviso un’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. tesa a ricomprendere nell’astratta
previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di
valori inerenti alla persona, distinguendo il danno morale soggettivo, inteso come
transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; il danno biologico in senso
stretto, inteso come lesione dell’interesse costituzionalmente garantito all’integrità
psichica e fisica della persona conseguente ad un accertamento medico (art. 32 cost) e il
danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla
persona (spesso definito in dottrina e giurisprudenza come “esistenziale”1).
1.b - In tema amministrativistico, poi, vi è stato un autore che ha rilevato come
non sia azzardato affermare che due atti normativi ed una sentenza (il d. lgs. 31.3.1998
n. 80, la l. 21.7.2000 n. 205, e la sentenza Cass., sez. un., 22-07-1999, n. 500) hanno
avuto, sull’assetto del contenzioso tra cittadini e pubblica amministrazione, e con
particolare riferimento al risarcimento del danno, “la stessa rivoluzionaria incidenza che
il fuoco, la ruota e l’alfabeto hanno avuto nella storia dell’umanità” in quanto il
combinato disposto di questi atti normativi e giudiziari ha determinato il passaggio da
un sistema nel quale:
(a) la lesione di interessi legittimi era irrisarcibile;
(b) la giurisdizione sulle domande risarcitorie di diritti soggettivi lesi dalla p.a. spettava
al giudice ordinario (salve le ben circoscritte ipotesi di giurisdizione esclusiva);
ad un nuovo sistema, nel quale per contro:
(a) la lesione di interessi legittimi è risarcibile;
(b) la giurisdizione sulle domande risarcitorie proposte nei confronti della p.a. è
concentrata quasi interamente dinanzi al giudice amministrativo.
Il ribaltamento del sistema non è stato tuttavia indolore: abbandonati i vecchi
1
Corte Cost. sent. n. 233/2003 in G.U. del 16.7.2003 - I serie speciale n. 28 - pagg. 17 e ss.
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princìpi, sia sul piano processuale (riparto di giurisdizione), sia su quello sostanziale
(accertamento e liquidazione del danno), l’impressione è che, da un lato, le riforme
legislative non siano state del tutto coerenti con i fini divisati, e non siano riuscite a
sostituire al vecchio sistema un quadro organico e coerente, determinando così
l’insorgere di una serie di problemi interpretativi e contrasti giurisprudenziali; dall’altro
lato, che l’attribuzione al giudice amministrativo della aestimatio e della taxatio del
danno abbia comportato, per una sorta di forza inerziale, l’applicazione alla materia in
questione di princìpi, orientamenti e prassi messi a punto con riferimento al diverso
giudizio di annullamento.
Tutto ciò ha comportato due ordini di conseguenze nocive. Anzitutto l’oggettiva
ambiguità del dato normativo ha determinato il formarsi, sulle medesime questioni (ad
esempio, la pregiudizialità o meno dell’annullamento dell’atto amministrativo rispetto
alla domanda risarcitoria), non già di due, ma talora di una mezza dozzina di
orientamenti diversi, ovviamente favorendo il moltiplicarsi delle liti.
In secondo luogo, il polarizzarsi dell’attenzione su questioni oggettivamente
rilevanti (come la richiamata “questione della pregiudizialità amministrativa”), ha fatto
sì che altre questioni, forse meno centrali ma altrettanto rilevanti per la tutela del
danneggiato, siano state trascurate dalla “nuova” giurisprudenza amministrativa in
materia risarcitoria e dalla dottrina amministrativista: si consideri, per esempio, la
problematica relativa al computo del danno da ritardato adempimento dell’obbligazione
risarcitoria, o quella inerente il rapporto tra onere della prova e facoltà del giudice di
disporre una consulenza tecnica d’ufficio, o ancora quella relativa all’accertamento del
nesso causale tra omissione e danno ed al correlato giudizio controfattuale.
Ora le novità sopra illustrate comportano tante e tali ricadute nella pratica
quotidiana che l’esame delle stesse richiederebbe intere giornate di studio.
Mi limiterò, dopo aver svolto alcune premesse generali, ad accennare dapprima
a talune problematiche in tema di danno patrimoniale, poi ad alcune problematiche di
danno non patrimoniale ed infine ad alcune delle più frequenti questioni processuali
correlate al risarcimento del danno.
2.- Il risarcimento del danno da provvedimento illecito.
Riferimenti normativi:
I)
art. 7 comma 3 e 4 l. 6.12.1971 n. 1034, come modificati dall’art. 7,
comma 1, lettera c, l. 21.7.2000 n. 205: “il tribunale amministrativo
regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte
le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche
attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti
patrimoniali consequenziali. Restano riservate all'autorità giudiziaria
ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità
dei privati individui, salvo che si tratti della capacità di stare in
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II)
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giudizio, e la risoluzione dell'incidente di falso”;
l’art. 35, comma 1, d. lgs. 31.3.1998 n. 80 “il giudice amministrativo,
nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone,
anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento
del danno ingiusto”.
2.a - Premesse
La l. 21 luglio 2000 n. 205, modificando l’art. 7 l. 1034/71, nel chiaro intento di
concentrare dinanzi ad un unico giudice la cognizione delle controversie relative
all’annullamento dell’atto e quelle risarcitorie, ha, da ultimo, previsto che il giudice
amministrativo, «nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni
relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in
forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali». La lettera della legge
— che configura la questione risarcitoria come attinente ad un diritto patrimoniale
consequenziale — è destinata a suscitare contrasti interpretativi.
Si pensi, per esempio, al riconoscimento di uno spazio per la giurisdizione del
giudice ordinario in relazione alle controversie risarcitorie che non possano essere
considerate consequenziali rispetto all’annullamento di un atto. A tacere del caso in cui
l’annullamento non sia stato, o non possa più essere giurisdizionalmente, pronunciato va
ricordato il caso del danno da ritardo nell’emanazione del provvedimento2 o il caso di
risarcitoria del terzo nei confronti dell’amministratore o del funzionario sempre di
competenza del giudice ordinario3.
O, ancora, si pensi a:
** Cass., sez. un., ord. 2 maggio 2003, n. 6719, (Foro it., 2003, I, 1685), che ha
affermato la spettanza al giudice ordinario delle vertenze «meramente risarcitorie», in
riferimento all’art. 33 d.leg. 80/98 e successive modifiche, identificandole con quelle
promosse da soggetti diversi dai destinatari dei provvedimenti lesivi e, perciò,
espressione di una tutela distinta e non integrativa rispetto a quella impugnatoria. La
2
v., sul punto, E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2000, 599 ss.; A. ROMANO
TASSONE, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in Giust. it., http://giust.it a cura di G.
VIRGA; F. FRACCHIA, Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in F. CARINGELLA-M.
PROTTO, Il nuovo processo amministrativo dopo la l. 21 luglio 2000 n. 205, Milano, 2001, 606.
3
v., comunque, Cass., sez. un., ord. 27 novembre 2002, n. 16827, id., Rep. 2002, voce Impiegato dello
Stato, n. 520; nel senso che la domanda risarcitoria proposta contro un soggetto privato spetti sempre al
giudice ordinario, v. già Cass., sez. un., 10 marzo 1999, n. 113/SU, id., Rep. 2000, voce cit., n. 661 (in
argomento, cfr. anche Cass. 18 febbraio 2000, n. 1890, id., 2001, I, 3291, con nota di M.P. GIRACCA,
Responsabilità civile e pubblica amministrazione: quale spazio per l’art. 2049 c.c.?. Nello stesso senso,
implicitamente, Cass. 25 novembre 2003, n. 17914, id., Mass., 1580, che sottolinea che la responsabilità
degli amministratori e dei funzionari rispetto ai terzi segue la disciplina propria e pertanto per valutare
l’elemento soggettivo richiama, per le amministrazioni locali, l’art. 58 l. 8 giugno 1990 n. 142 (ma oggi
l’art. 93 d.leg. 18 agosto 2000 n. 267 rinvia in generale anche per gli amministratori e il personale degli
enti locali alla disciplina dettata per gli impiegati civili dello Stato), e, per le amministrazioni statali, gli
art. 22 e 23 d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3, che escludono una responsabilità nel caso di colpa lieve
(conforme, sul punto, Cass. 18 giugno 2003, n. 9709, cit.. Ditalché le vertenze risarcitorie proposte nei
confronti dell’amministrazione e quelle proposte nei confronti degli amministratori e dei funzionari
possono ben avere esiti differenti.
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sentenza, in tema di danni subiti da risparmiatori per effetto di carenze nell’attività di
vigilanza dell’amministrazione, ha ritenuto che le domande risarcitorie dei risparmiatori
contro l’autorità di vigilanza siano tuttora di competenza del giudice ordinario e non
siano assorbite dalla giurisdizione esclusiva prevista dall’art. 33 d.leg. 80/98, come
modificato dall’art. 7 l. 205/00. Questa pronuncia, che si richiama anche a Cass. 3
marzo 2001, n. 3132, cit., sembra però configurare il pregiudizio alla posizione del
risparmiatore come lesione di un suo diritto di credito, piuttosto che di un suo interesse
legittimo.
** Cass., sez. un., 10 giugno 2003, n. 9219, che in ipotesi di danno non dipendente
dall’esercizio di poteri dell’amministrazione («che si estrinsecano in atti amministrativi
di cui si contesti la legittimità»), ha ritenuto che la responsabilità dell’amministrazione
dovesse essere fatta valere davanti al giudice ordinario; anche nel caso in esame, però,
l’interesse leso (attinente al trattamento di quiescenza) era qualificato dalla Cassazione
come diritto soggettivo.
** Cass., sez. un., ord. 11 febbraio 2003, n. 2065, con riferimento a provvedimenti di
nomina o di conferma del direttore generale di un’Asl (precedenti all’art. 18 d.leg. 29
ottobre 1998 n. 387), ove dopo aver qualificato il rapporto con i direttori generali come
lavoro autonomo, distingue la domanda di impugnazione dell’atto amministrativo (di
nomina, di conferma o di non conferma), di cui ha affermato la spettanza al giudice
amministrativo, dalla domanda di risarcimento nella quale l’atto amministrativo rilevi
solo come violazione di obblighi contrattuali: per quest’ultima domanda è stata
affermata la giurisdizione del giudice ordinario (per il riparto di giurisdizione per le
vertenze risarcitorie in materia, dopo l’art. 18 d.leg. 387/98, cfr. Cass., sez. un., ord. 24
settembre 2002, n. 13918, ibid., 316);
Sulla base di queste pronunce sembra ipotizzabile la permanenza di uno spazio
per la giurisdizione ordinaria nelle vertenze risarcitorie che non siano integrative di una
tutela impugnatoria. Ma nelle pronunce della Cassazione sopra segnalate si tratta di uno
spazio eterogeneo, nel quale confluiscono elementi diversi: vertenze nelle quali il danno
non sia riconducibile a un potere amministrativo (es. danno da attività materiale relativo
a materia per la quale non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo), o rispetto alle quali il potere amministrativo non rilevi come tale, o
nelle quali l’esercizio o meno del potere amministrativo sia ritenuto la fonte del danno
ma in concreto il danno risulti dissociato dalla possibilità di impugnazione. Inoltre in
tutti questi casi emerge una tendenza della Cassazione a identificare, all’origine della
domanda risarcitoria devoluta al giudice ordinario, la lesione di un diritto soggettivo più
che di un interesse legittimo.)
In ogni caso restano di competenza del giudice ordinario: a) nell’ambito dei
pubblici servizi, le controversie relative ai rapporti individuali di utenza con soggetti
privati, quelle meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose e
quelle in materia di invalidità (art 33 comma 2 lett. e) d.lg.vo n. 80/98 novellato); b)
nella materia dell’uso del territorio, le controversie riguardanti la determinazione e la
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corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura
espropriativi o ablativa (art. 34 c. 3 lett.b) del citato decreto legislativo, come novellato
dalla legge n. 205/2000); c) il risarcimento per la c.d. acquisizione usurpativa, mancante
invece della dichiarazione di pubblica utilità (il Consiglio di Stato si è pronunciato in
favore della giurisdizione del giudice ordinario - sez. IV^ 9 luglio 2002 n.3819 –
rilevando che tali condotte non possono essere ricondotte al concetto di gestione del
territorio e da ultimo v. cds 27.9.2004 n. 63294 che ha dichiarato il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo anche riguardo alla domanda di risarcimento
danni da occupazione appropriativa); d) i danni conseguenti ad illegittime sanzioni
amministrative ex l. 689/81.
Quanto innanzi esposto, trova, tra l’altro, conferma nella sentenza della corte
costituzionale n. 204/2004 che ha chiaramente ed inequivocabilmente precisato che con
l’introduzione della giurisdizione del g.a. in tema di risarcimento dei danni il legislatore
non ha voluto creare una nuova categoria di giurisdizione esclusiva bensì, e soltanto,
estendere la competenza del g.a. dalla legittimità dell’atto anche alla connessa questione
del risarcimento del danno.
*******************
Posto quanto sopra mette conto ora iniziare ad affrontare alcuni problemi di
natura generale inerenti il risarcimento del danno.
2.b - Prima problematica: la necessità o no dell’impugnazione dell’atto
amministrativo asseritamente lesivo (la cd. pregiudizialità dell’azione di
annullamento).
E’ noto il contrasto ormai radicale tra il Consiglio di Stato e la Corte di
cassazione a sezioni unite in ordine alla necessità o meno dell’impugnazione del
provvedimento amministrativo ai fini dell’esperimento della tutela risarcitoria per
lesione di interessi legittimi.
La famosa sentenza Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500/SU, (Foro it., 1999, I,
2487) ragionando sull’autonomia del diritto al risarcimento dei danni rispetto
all’annullamento del provvedimento lesivo, aveva escluso qualsiasi necessità
dell’impugnazione del provvedimento amministrativo ai fini dell’esperimento della
tutela risarcitoria per lesione di interessi legittimi. Più di recente, sul punto specifico,
anche cass. s.u. 26.5.2004 n. 10180; - ( “… a norma dell'art. 7, comma terzo, della
legge n. 205 del 2000, il Giudice amministrativo ha, altresì, il potere, anche nelle
controversie che rientrano nella giurisdizione generale di legittimità, e non solo in
quelle attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, di condannare
l'amministrazione al risarcimento del danno, in tal modo concentrandosi in un unico
giudizio le questioni relative all'annullamento degli atti illegittimi e quelle attinenti al
ristoro dei danni da questi determinati, senza che all'uopo sia necessaria in via
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In Foro italiano 2004 parte III col 542 e ss..
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pregiudiziale la declaratoria di illegittimità del provvedimento, ed eliminandosi altresì
il pericolo di contrasto tra giudicati.”) e Cass., sez. un., 22 febbraio 2002, n. 2624,
hanno confermato l’impostazione seguìta da Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500/SU.
(ma contra v. cass. 11.6.2003 n. 9366).
Il Cons. Stato, ad. plen., 26 marzo 2003, n. 4, sostiene, invece, la necessità del
previo annullamento dell’atto lesivo ai fini della pronuncia sul risarcimento dei danni
(c.d. principio della «pregiudizialità»).(v. anche c.d.s sez. IV 19.7.2004 n. 5196, c.d.s.
sez. V 22.6.2004 n. 4359, c.d.s. sez. VI 18 maggio 2004 n. 3188; c.d.s. sez. VI
18.6.2002 n. 3338, Tar Lazio 13.6.2003 n. 5737, Tar Marche 17.3.2003 n. 101 e Tar
Lombardia - Milano sez. III 11.3.2003 n. 435);5 e all’annullamento in sede
giurisdizionale è equiparato l’annullamento disposto dalla stessa amministrazione, in via
di autotutela: cfr. Tar Veneto, sez. III, 9 aprile 2001, n. 971, id., Rep. 2001, voce
Responsabilità civile, n. 243.
Contra, però, recentemente c.d.s. sez. III 22.7.2004 n. 13619 – (che seppur con
riferimento ai giudizi pendenti al 30.6.1998 ma esponendo principi generali conformi al
dictum delle sezioni unite della cassazione ha così statuito: “In relazione ai giudizi
pendenti alla data del 30 giugno 1998 - e perciò con riferimento al regime previgente
alle innovazioni del sistema di riporto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice
amministrativo apportate con il D.Lgs n. 80 del 1998 e dalla successiva legge n. 205 del
2000 -, nel caso in cui venga introdotta dinanzi al giudice ordinario una domanda
risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. nei confronti della Pubblica Amministrazione per
illegittimo esercizio di una funzione pubblica, anche la lesione di un interesse legittimo,
al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante,
può esser fonte di responsabilità aquiliana, e, quindi, dar luogo al risarcimento del
danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell'attività illegittima
della P.A., l'interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse
risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo; in questi casi, il giudice
adito potrà procedere direttamente ad accertare l'illegittimità del provvedimento
amministrativo nell'ambito della verifica della riconducibilità della fattispecie
sottoposta al suo esame alla nozione di fatto illecito delineata dall'art. 2043 cod. civ. ,
non essendo più ravvisabile la pregiudizialità del giudizio di annullamento dell'atto
dinanzi al giudice amministrativo, in passato costantemente affermata in quanto solo in
tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, unica situazione giuridica
soggettiva la cui lesione si riteneva tutelabile dinanzi al giudice ordinario.”), TAR
Lombardia sez. Brescia 24.2.2003 n. 283 e Tar Marche 23.2.2004 n. 67).
Del resto, la tesi della pregiudizialità dell’annullamento rispetto alla pronuncia sui danni era già
maggioritaria nella giurisprudenza amministrativa: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2002, n. 6685,
ibid.; Tar Sicilia, sez. I, 22 novembre 2002, n. 3967, Foro amm.-Tar, 2002, 3798, con nota di DELFINO;
Cons. Stato, sez. IV, 20 giugno 2002, n. 3368, <www.giustizia-amministrativa.it>; sez. VI 18 giugno
2002, n. 3338, Foro it., 2003, III, 311; Tar Sicilia, sez. I, 10 giugno 2002, n. 1503, <www.giustiziaamministrativa.it>; Tar Campania, sez. I, 27 marzo 2002, n. 1651, ibid.; Cons. Stato, sez. IV, 15 febbraio
2002, n. 952, ibid.; Tar Friuli-Venezia Giulia 23 aprile 2001, n. 179, Foro it., Rep. 2001, voce Giustizia
amministrativa, n. 918; Tar Campania, sez. I, 19 settembre 2001, n. 4485, ibid., n. 919; 7 giugno 2001, n.
2638, ibid., voce Responsabilità civile, n. 269; 8 febbraio 2001, n. 603, ibid., n. 271 (e Urbanistica e
appalti, 2001, 666, con nota di CARANTA, Il ritorno dell’irresponsabilità); Tar Friuli-Venezia Giulia 26
luglio 1999, n. 903, Foro it., Rep. 1999, voce Giustizia amministrativa, n. 578; Tar Puglia, sede Lecce,
sez. I, 16 aprile 1999, n. 418, ibid., n. 969.
5
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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Da ciò emerge la conferma del rischio che si prospettino due modelli di
responsabilità differenti, affinati rispettivamente dal giudice ordinario e da quello
amministrativo, senza possibilità che la Suprema corte intervenga per uniformare gli
indirizzi dei due plessi giurisdizionali. Infatti questa situazione deriva dalla scelta
legislativa di attribuire le controversie risarcitorie alla giurisdizione del giudice
amministrativo: tale scelta ha come conseguenza la limitazione della possibilità di
ricorrere in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato per soli motivi
attinenti alla giurisdizione (art. 111 Cost.).
Certamente la tesi sostenuta dalle sezioni unite della corte di cassazione sembra
giuridicamente più corretta in quanto la pronuncia del giudice sulla domanda di
risarcimento dei danni non comporta la necessità di un accertamento in via principale
sicché anche l’esistenza dell’interesse legittimo della cui lesione si tratta non
rappresenta un fatto costitutivo dell’azione risarcitoria (rectius, del diritto al
risarcimento del danno fatto valere in giudizio), ma rappresenta solo un punto
pregiudiziale rispetto alla decisione sui danni e alla luce di quanto disposto dall’art. 34
c.p.c., la cognizione delle questioni pregiudiziali avviene normalmente in via
incidentale; deve avvenire in via principale solo quando vi sia una richiesta delle parti (a
condizione che essa sia compatibile con la giurisdizione adita) o una specifica
prescrizione di legge.
Ora ai fini della decisione sulla domanda risarcitoria «la lesione dell’interesse
legittimo non è effetto giuridico di per sé necessariamente condizionante l’esistenza
dell’illecito aquiliano»: se così fosse, infatti. l’art. 2043 c.c. avrebbe carattere di norma
«primaria», e non di norma «secondaria» a presidio di una diversa posizione soggettiva.
E del resto nella logica di una responsabilità fondata su una norma «primaria», il
distacco logico fra l’accertamento dell’interesse legittimo (che si suppone essere stato
leso) e l’accertamento del diritto al risarcimento diventa più evidente; l’interesse
legittimo è semplicemente un antecedente (non il «fatto costitutivo» in senso tecnico, e
neppure una «condizione necessaria») rispetto all’obbligazione risarcitoria. Il «fatto
costitutivo» (anche ai fini dell’identificazione dell’azione) è invece quel certo evento
storico che determina il danno.
Seguendo la stessa logica, nel diritto comunitario la Corte di giustizia ed il
Tribunale di primo grado hanno affermato ripetutamente che l’azione risarcitoria
prevista oggi dagli art. 235 e 288, 2° comma, del trattato è autonoma rispetto all’azione
di annullamento, con la conseguenza che, in linea di principio, l’irricevibilità del ricorso
per l’annullamento non pregiudica il ricorso per il risarcimento del danno.6
Considerazioni analoghe valgono per il diritto francese, ispirato, in tema di
responsabilità dell’amministrazione, al principio della piena autonomia della tutela
6
Cfr. Trib. I grado 10 luglio 1997, causa T-38/96, Foro it., Rep. 1998, voce Unione europea, n. 528; 13
dicembre 1995, cause riunite T-481/93 e T-484/93, id., Rep. 1997, voce cit., n. 513; Corte giust. 17
dicembre 1981, cause riunite 197-200, 243, 245 e 247/81, id., 1982, IV, 418, con nota di L. DANIELE.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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risarcitoria rispetto a quella impugnatoria. L’affermazione di questo principio non ha,
però, impedito al Conseil d’Etat di dichiarare inammissibile la domanda risarcitoria
proposta senza che sia stato impugnato l’atto lesivo, quando il ricorrente pretenda, a
titolo di risarcimento, ciò che gli sarebbe spettato in forza dell’annullamento del
provvedimento.7
E anche la tesi che la pregiudizialità troverebbe ugualmente applicazione, per il
«principio fondamentale di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, a cui
presidio è posto il breve termine decadenziale di impugnazione dei provvedimenti
amministrativi», e in base all’«assenza di autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a
quella d’annullamento dell’atto», sancita dalla l. 205/00 e riconosciuta, più in generale,
in tutti i casi in cui l’ordinamento configuri «l’onere di contestare la conformità al
diritto di determinate situazioni mediante l’impugnazione di atti o comunque reagendo
entro termini di decadenza» trova agevole smentita nelle seguenti considerazioni: I) il
«principio fondamentale di certezza» invocato dal Consiglio di Stato si riconnette
specificamente alla tutela impugnatoria rispetto al provvedimento, e non si capisce come
possa essere esteso a tutele strutturalmente diverse, che non mettano in discussione la
vigenza e l’efficacia del provvedimento; II) il riferimento nella l. 205/00 al risarcimento
dei danni come a un diritto «consequenziale» (rispetto all’annullamento) si spiega
agevolmente con esigenze di coerenza con la formulazione delle disposizioni del t.u.
delle leggi sul Consiglio di Stato (cfr. art. 30 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054), ma non
sembra avere un valore pregnante; III) appare per lo meno dubbia la vigenza di un
principio generale secondo cui, quando sia fissato dalla legge un termine di decadenza
per la contestazione di un atto, decorso tale termine sarebbe preclusa anche la tutela
risarcitoria. La Cassazione, per lo più, richiama genericamente, a conferma di questo
principio, la giurisprudenza in tema di licenziamenti e di impugnazione di delibere
assembleari e condominiali, senza però citare precedenti specifici: cfr., invece, Trib.
Roma 1° agosto 1994, Foro it., Rep. 1996, voce Società, n. 876; Trib. Perugia 26 aprile
1993, id., 1994, I, 261 (sulla possibilità di un’azione risarcitoria, scaduto il termine
fissato dall’art. 2504 quater c.c. per la pronuncia di invalidità della delibera di fusione di
una società); Trib. Torino 3 giugno 1986, id., Rep. 1988, voce cit., n. 430
(sull’ammissibilità della domanda risarcitoria proposta dopo la scadenza del termine per
l’impugnazione di una delibera di scissione o di fusione che sia annullabile); Cass. 2
marzo 1999, n. 1757, id., Rep. 1999, voce Lavoro (rapporto), n. 1885, e Pret. Firenze 13
marzo 1990, id., Rep. 1990, voce cit., n. 1619 (sull’ammissibilità della domanda di
risarcimento per equivalente, proposta dal lavoratore che non abbia impugnato
tempestivamente il licenziamento; le due pronunce precisano entrambe che una
soluzione diversa sarebbe stata accolta invece nel caso di domanda di reintegrazione in
forma specifica).
7
V. AUBY e DRAGO, Traité de Contentieux administratif, Parigi, 1984, II, 524; si pensi al
provvedimento che neghi al cittadino la concessione di un contributo.
Ma vedi anche nel diritto tedesco il§ 839, Abs. 1 e 3, BGB in tema di responsabilità derivante
dall'esercizio di pubbliche funzioni, secondo la quale la pretesa nei confronti dell'amministrazione va
respinta se la vittima del pregiudizio ha intenzionalmente o colposamente omesso di mitigare il danno non
ricorrendo agli altri rimedi giuridici offerti dal sistema.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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Ma a prescindere da quanto sopra indicato notevoli sono le conseguenze pratiche
a seconda della tesi seguita.
E così per esempio:
a) in tema di prescrizione dell’azione di danno decorrente in un caso dal fatto
lesivo (ma rectius dalla conoscenza del fatto lesivo) e nell’altro dall’annullamento
dell’atto (Secondo Tar Puglia, sez. II, 7 aprile 2003, n. 1608, <www.giustizia-amministrativa.it>, il
termine dovrebbe essere computato dalla sentenza di annullamento, perché non avrebbe senso gravare la
parte dell’onere di proporre l’azione risarcitoria, prima che il giudice possa comunque pronunciarsi su di
essa; secondo Tar Puglia, sez. II, 18 luglio 2002, n. 3401 (Foro amm.-Tar, 2002, 3753, con nota di
MARI) il termine dovrebbe essere computato dalla sentenza di annullamento «definitiva», ossia, nel caso
di annullamento disposto o confermato dal Consiglio di Stato, dalla data del deposito della decisione di
tale organo; Tar Lazio, sez. II, 14 giugno 2001, n. 5244, Foro it., Rep. 2001, voce Prescrizione e
decadenza, n. 19, precisa che è necessario il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento (con
riferimento a domanda di risarcimento per illegittimo diniego di concessione edilizia). Cfr. anche Tar
Sicilia, sede Catania, sez. I, 2 maggio 2002, n. 798, <www.giustizia-amministrativa.it>. Nel senso che la
prescrizione del diritto al risarcimento potrebbe decorrere solo dal passaggio in giudicato della sentenza di
annullamento del provvedimento illegittimo, si era espressa la giurisprudenza civile prima di Cass., sez.
un., 22 luglio 1999, n. 500/SU, cit., quando però l’annullamento del provvedimento illegittimo era
ritenuto condizione necessaria per la tutela risarcitoria, perché il risarcimento dei danni era ammesso solo
nel caso di lesione di diritti soggettivi e solo l’annullamento avrebbe potuto ripristinare il diritto estinto
dal provvedimento amministrativo: cfr. Trib. Roma 13 febbraio 1997, Foro it., Rep. 1998, voce
Responsabilità civile, n. 218; Cass. 5 marzo 1994, n. 2187, id., Rep. 1995, voce Prescrizione e decadenza,
n. 25 (che esclude espressamente che sia sufficiente, per la decorrenza del termine di prescrizione, la
sentenza di annullamento non ancora passata in giudicato, ancorché esecutiva ai sensi dell’art. 33 l.
1034/71); 2 giugno 1992, n. 6664, id., Rep. 1992, voce cit., n. 13. Per la giurisprudenza civile, dopo la
svolta del 1999, cfr. anche Cass. 28 marzo 2000, n. 3726, id., Rep. 2000, voce cit., n. 38, secondo cui il
ricorso al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento di un provvedimento determina, ai sensi
degli art. 2943, 1° comma, e 2945, 1° e 2° comma, c.c., l’interruzione della prescrizione per il diritto al
risarcimento del danno, fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza di annullamento.).
Lo stesso CdS, però, con la sentenza 22.6.2004 n. 4359 ha dovuto prendere atto
che non sempre vi è un atto amministrativo da impugnare nei termini decadenziali e ha
operato una raffinata distinzione, che ha preso le mosse dai termini di prescrizione entro
i quali far valere il diritto al risarcimento. Si è così affermato che «il termine di
prescrizione inizia a decorrere dal giudicato di annullamento del provvedimento lesivo,
solo quando sia necessario il previo annullamento. Se, invece, non occorre il previo
annullamento di alcun atto, come nei casi di danno da ritardo, la prescrizione della
pretesa risarcitoria del danno arrecato a interessi legittimi inizia a decorrere da quando si
verifica l’evento produttivo di danno. Nel caso di silenzio-inadempimento in cui non
occorre il previo annullamento giurisdizionale di alcun atto amministrativo, la
prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere da quando si verifica il silenzioinadempimento» e, dunque, dallo scadere del termine assegnato con il necessario atto di
diffida, (v. in punto in senso conforme anche CdS, V, 16 settembre 2004, n. 5995).
b) in tema di determinazione del danno in quanto seguendo la tesi accolta dal
consiglio di stato la quantificazione è, in un certo senso, più agevole, mentre secondo la
tesi della corte di cassazione, nel caso di mancata rimozione dell’atto da parte della P.A.
vi sarebbe un obbligo di risarcimento del danno a fronte della permanente efficacia di un
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atto illecito e, comunque, il ricorso per risarcimento danni non potrebbe mirare
attraverso la forma della riparazione in forma specifica alla revoca del provvedimento.8
Inoltre, bisognerebbe verificare l’incisione sul nesso causale e sul quantum del
danno della mancata impugnazione dell’atto (per un cenno a tale problematica, v. Tar
Campania, n. 13066 decisione adottata nelle camere di consiglio del 24 aprile 2003 e del
26 giugno 2003, <www.giustizia-amministrativa.it>).
Infine seguendo la tesi del consiglio di stato si pone il problema se tra i
presupposti della giurisdizione amministrativa in tema di risarcimento del danno da
lesione di interesse legittimo vi è il solo annullamento giurisdizionale del
provvedimento dal quale la lesione viene fatta dipendere o vi può essere anche la
rimozione del provvedimento dalla stessa Amministrazione in via di autotutela, proprio
al fine di emendarlo dei vizi poi denunciati con l'impugnazione: in punto il consiglio di
stato recentemente ha dato risposta negativa (c.d.s. 22.6.2004 n. 4359 ma contra cds
18.6.2002 n. 3338) individuando nell’annullamento giurisdizionale il solo presupposto.
Sennonché è facile verificare che seguendo tale tesi il privato non può rivolgersi
al g.a., bensì al g.o, per ottenere il risarcimento dei danni subiti per la vigenza, seppur
limitata nel tempo, del provvedimento poi emendato in sede di autotutela. (es. i danni
per inizio ritardato dei lavori impediti dal provvedimento poi emendato).
2.c - Seconda problematica: l’individuazione della lesione di interesse
legittimo - rectius dell’interesse meritevole di tutela - alla quale consegue il diritto
al risarcimento del danno e la natura della responsabilità amministrativa.
Ogni violazione di un diritto soggettivo comporta il risarcimento del danno
mentre non ogni violazione di interesse legittimo comporta il risarcimento dei danni.
Come ben illustrato dall’ormai famosa sentenza delle S.U. della corte di
cassazione n. 500/99 una delle peculiarità dell’illecito dell’amministrazione risiede nella
necessità che, accanto alla lesione dell’interesse legittimo («azione non iure»), sia
ravvisabile pure il vulnus ad un interesse differente e meritevole di tutela («condotta
contra ius»). Ne consegue che non viene risarcita la (mera) lesione dell’interesse
legittimo, in evidente contrasto con il significato letterale dell’espressione «risarcimento
della lesione degli interessi legittimi», ormai entrata nel lessico comune degli addetti ai
lavori9.
8
In tal senso v. anche Trib. giustizia europea I grado 27 giugno 2000, causa T-72/99, id., Rep. 2001, voce
cit., n. 686; 4 febbraio 1998, causa T-94/95, id., Rep. 1999, voce cit., n. 647; 3 febbraio 1998, causa T68/96, ibid., n. 649; 24 settembre 1996, causa T-485/93, id., Rep. 1997, voce cit., n. 514.
9
V. F. FRACCHIA, Dalla negazione della risarcibilità degli interessi legittimi all’affermazione della
risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema corte lascia aperti alcuni
interrogativi, id., 1999, I, 3212; in argomento, v., altresì, Cass. 19 luglio 2002, n. 10549, id., Rep. 2002,
voce Responsabilità civile, n. 350; 3 marzo 2001, n. 3132, id., 2001, I, 1139, con nota di A. PALMIERI.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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Infatti una volta stabilito che la normativa sulla responsabilità aquiliana ha
funzione di riparazione del «danno ingiusto», e che è ingiusto il danno che
l’ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima, ma che va trasferito
sull’autore del fatto, in quanto lesivo di interessi giuridicamente rilevanti - quale che sia
la loro qualificazione formale, ed in particolare senza che assuma rilievo determinante la
loro qualificazione in termini di diritto soggettivo - risulta superata in radice, per il venir
meno del suo presupposto formale, la tesi che nega la risarcibilità degli interessi
legittimi quale corollario della tradizionale lettura dell’art. 2043 c.c.
La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di
altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra, infatti, nella
fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come
ingiusto.
Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli
interessi legittimi come categoria generale. Potrà, infatti, pervenirsi al risarcimento
soltanto se l’attività illegittima della pubblica amministrazione abbia determinato la
lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto
atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di
protezione alla stregua dell’ordinamento. In altri termini, la lesione dell’interesse
legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria
ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima
(e colpevole) della pubblica amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale
l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela
alla luce dell’ordinamento positivo. (es. l’«interesse meritevole di tutela»: esso può
essere costituito dal diritto di proprietà, ovvero dalla chance di vittoria nella gara per
l’affidamento dell’appalto).
Per quanto concerne gli interessi legittimi oppositivi, potrà ravvisarsi danno
ingiusto nel sacrificio dell’interesse alla conservazione del bene o della situazione di
vantaggio conseguente all’illegittimo esercizio del potere. Così confermando, nel
risultato al quale si perviene, il precedente orientamento, qualora il detto interesse sia
tutelato nelle forme del diritto soggettivo, ma ampliandone la portata nell’ipotesi in cui
siffatta forma di tutela piena non sia ravvisabile e, tuttavia, l’interesse risulti
giuridicamente rilevante nei sensi suindicati.
Circa gli interessi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso di illegittimo
diniego del richiesto provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, dovrà,
invece, vagliarsi la consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di
ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio
prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o
meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera
aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare
un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che,
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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secondo la disciplina applicabile, era destinata, in base ad un criterio di normalità, ad un
esito favorevole, e risultava, quindi, giuridicamente protetta.
-
La responsabilità precontrattuale –
All’orientamento della sezioni unite della cassazione tramite il quale si è
collocata la responsabilità della p.a. per lesioni di interessi legittimi all’interno dell’art.
2043 c.c. si è contrapposto un orientamento giurisprudenziale che tende, invece, a
ravvisare la responsabilità della p.a. da atto illegittimo all’interno della categoria
dell’illecito precontrattuale di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c.
Quest’ultimo orientamento costituisce lo sviluppo di quella dottrina e di quella
giurisprudenza che ebbero
ad ammettere la configurabilità di fattispecie di
responsabilità precontrattuale in capo alla pubblica amministrazione nel momento in cui
veniva superata la «pseudoproblematica» della discrezionalità amministrativa.
L’esercizio di poteri discrezionali non esclude il dovere di agire secondo buona fede,
trovando anzi in quest’ultima un limite invalicabile: «ciò che si chiede al giudice non è
di valutare se il soggetto si sia condotto da corretto amministratore, ma se si sia
condotto da corretto contraente, non di accertare se abbia bene o male apprezzato il
pubblico bisogno, ma se, nel comportamento conseguito a tale apprezzamento o ad esso
afferente, si sia comportato in modo da violare il principio posto nell’art. 1337 c.c.» .
In un primo tempo le ipotesi di applicabilità della responsabilità precontrattuale
sono state ridotte ad ambiti molto ristretti, coincidenti con «quella parte di attività
precontrattuale ritenuta meramente privatistica» . La possibile sussistenza di una culpa
in contrahendo veniva circoscritta ai casi in cui l’ente pubblico adotti quale modalità di
selezione del contraente la trattativa privata: operando iure privatorum
l’amministrazione, al pari di ogni privato, deve rispettare i precetti di cui agli art. 1337 e
1338 c.c. ed il suo comportamento è sindacabile dal giudice ordinario. Per quanto
concerne, invece, asta pubblica, licitazione privata ed appalto concorso, la
giurisprudenza distingueva a seconda che l’illecito fosse stato commesso prima o dopo
il momento dell’aggiudicazione. L’ammissibilità di ipotesi di responsabilità
precontrattuale veniva negata nella fase antecedente, considerata squisitamente
pubblicistica: in essa il privato, non avendo la qualità di futuro contraente, ma soltanto
quella di partecipante alla gara stessa, è titolare di un mero interesse legittimo al corretto
esercizio del potere di scelta ad opera della pubblica amministrazione; difettano, quindi,
le condizioni strutturali per il delinearsi di trattative tra soggetti qualificabili come
«parti» e di un reciproco diritto all’osservanza delle regole di buona fede. L’art. 1337
c.c. è stato, invece, ritenuto applicabile con riferimento a violazioni avvenute
successivamente all’aggiudicazione, a seguito della quale, in effetti, una «parte» può
dirsi sussistente: la scelta di un vincitore nel novero degli indistinti concorrenti consente
infatti l’individuazione di un soggetto specifico cui l’amministrazione si rapporta nella
fase relativa al perfezionamento e all’operatività del contratto.
Allo scopo di estendere gli angusti confini della tutela precontrattuale, la
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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dottrina prima e la giurisprudenza poi hanno proposto un’ipotesi ricostruttiva
alternativa, basata sul diverso presupposto secondo cui l’articolazione dell’evidenza
pubblica in un procedimento pubblicistico non ne esclude qualsiasi valenza privatistica,
sicché essa resta pur sempre collocata nell’ambito dell’autonomia privata. In questa
prospettiva gli atti di evidenza pubblica si caratterizzano quali atti amministrativi
negoziali, parte di un procedimento amministrativo, ma nello stesso tempo riconducibili
a specifici momenti di trattativa rilevanti ai sensi degli art. 1337 e 1338 c.c. Al privato
titolare dell’interesse legittimo al corretto espletamento delle procedure di gara deve,
pertanto, riconoscersi la contemporanea titolarità del diritto soggettivo a che le trattative
si svolgano nel rispetto del principio di buona fede.
L’assimilazione degli atti in cui si sviluppa il procedimento di evidenza pubblica
alle trattative che scandiscono la formazione privatistica del contratto nasce, pertanto,
come reazione alla giurisprudenza «pietrificata» della Corte di cassazione prima della
sentenza s.u. n. 500/99. L’esigenza di garanzia del privato viene, infatti, soddisfatta
tramite l’individuazione di un’altra posizione suscettibile di tutela risarcitoria: il diritto
al comportamento secondo buona fede di cui all’art. 1337 c.c.
Nel momento in cui, però, si riconosce la risarcibilità dell’interesse legittimo (o,
meglio, dell’interesse al bene della vita cui esso si correla) sorgono, inevitabilmente,
problemi di delimitazione e di coordinamento dell’illecito aquiliano elaborato dalla
Suprema corte con l’illecito precontrattuale di cui agli art. 1337 e 1338 c.c.
- La responsabilità contrattuale La difficoltà di trovare un comune denominatore che consenta un inquadramento
unitario e coerente della responsabilità per attività provvedimentale della p.a. è, poi,
accresciuta dal recente affacciarsi in una limitata parte della giurisprudenza
amministrativa (v. anche Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2003, n. 1945, <www.giustiziaamministrativa.it>, che in un articolato obiter affronta la questione in esame) della
tendenza ad ammettere il risarcimento al di là dell’effettiva spettanza del bene. La
responsabilità, infatti, sorgerebbe non dalla lesione dell’utilità finale cui legittimamente
aspira il privato, bensì dalla sola violazione degli «obblighi» procedimentali da parte
dell’ente pubblico, che comporta la lesione dell’affidamento del privato alla legittimità
dell’azione amministrativa.
E la stessa Corte di cassazione con la sentenza sez. I civ. 10.1.2003 n. 157 in
parte ha rimeditato la natura extracontrattuale della responsabilità della p.a., già
affermata con sentenza s.u. 500/99, osservando che “nel dibattito sull’eterno problema
del risarcimento da lesione dell’interesse legittimo s’insinua probabilmente oggi, a
differenza che in passato, il disagio di misurare il contatto dei pubblici poteri con il
cittadino secondo i canoni del principio di autorità, della presunzione di legittimità
dell’atto amministrativo e in definitiva emerge l’inadeguatezza del paradigma
amministrativo della responsabilità aquiliana”. In particolare soggiunge la corte di
cassazione “il contatto del cittadino con l’amministrazione è oggi caratterizzato da uno
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specifico dovere di comportamento nell’ambito del rapporto che in virtù delle garanzie
che assistono l’interlocutore dell’attività procedimentale diviene specifico e
differenziato” da qui la conclusione secondo cui “il fenomeno, tradizionalmente noto
come lesione dell’interesse legittimo, costituisce in realtà inadempimento alle regole di
svolgimento dell’azione amministrativa ed integra una responsabilità che è molto più
vicina alla responsabilità contrattuale nella misura in cui si rileva insoddisfacente ed
inadatto a risolvere con coerenza i problemi applicativi dopo la sentenza 500/99 s.u. il
modello , finora utilizzato, che fa capo all’art. 2043 c.c. con le relative conseguenze
sull’accertamento della colpa”.
I giudici della prima sezione concludono, quindi, per la risarcibilità del danno a
prescindere dalla spettanza del bene della vita osservando “l’interesse al rispetto di
queste regole, che costituisce la vera essenza dell’interesse legittimo, assume carattere
del tutto autonomo rispetto all’interesse al bene della vita: l’interesse legittimo si
riferisce a fatti procedimentali. Questi a loro volta investono il bene della vita che resta
però ai margini come punto di riferimento storico”.
In buona sostanza la corte di cassazione pare aderire alla tesi dottrinale che
qualifica la responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale come
responsabilità contrattuale nascente dell’inadempimento di un’obbligazione senza
prestazione, comunque non ricollegata alla lesione dell’utilità finale cui aspira il privato
ma derivante dalla sola violazione di quei particolari obblighi stabiliti ex lege ed il cui
rispetto è funzionale alla garanzia dell’affidamento del privato sulla legittimità
dell’azione amministrativa (tesi già presa in considerazione dalla sez. V del c.d.s. sent.
4239/2001) Nella tesi della “responsabilità da contatto”, l’incertezza circa la spettanza
del bene della vita che nella concezione accolta dalla sentenza n. 500/99 delle s.u.
preclude il risarcimento perde almeno in parte il suo originario rilievo: il danno
ristorabile, infatti, non è più ricondotto alla sola perdita dell’utilità sostanziale cui il
privato aspira ma prima ancora all’inadempimento del rapporto che si genera in
relazione all’obbligo imposto dalla norma.
In punto, va osservato che molto spesso la pretesa risarcitoria non ha ad oggetto
il pregiudizio derivante dalla violazione dell’obbligo di comportamento imposto
all’amministrazione a prescindere, quindi, dalla soddisfazione dell’interesse finale, ma
al contrario, attiene proprio al pregiudizio connesso alla preclusione
dall’amministrazione frapposta alla realizzazione del bene finale anelato. In ipotesi
siffatte, al giudice non è consentito eludere la domanda, pena un’inammissibile
vanificazione del principio di responsabilità dell’amministrazione, né tanto meno
accoglierla a prescindere dalla formulazione di un giudizio laddove possibile sulla certa
o statisticamente probabile spettanza del bene dell’utilità finale.
La responsabilità extracontrattuale
Da ultimo, però, la cassazione sembra aver riqualificato la responsabilità della
p.a. come extracontrattuale riportandosi alla tesi della sezioni unite del 1999 statuendo
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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che “In caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti della p.a. al
fine di stabilire se la fattispecie concreta integra un'ipotesi di responsabilità
extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. il giudice deve procedere, in ordine successivo,
a svolgere le seguenti indagini: a) accertare la sussistenza di un evento dannoso; b)
stabilire se l'accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla
sua incidenza su un interesse rilevante per l'ordinamento, tale essendo l'interesse
indifferentemente tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo),
dell'interesse legittimo (funzionale alla protezione di un determinato bene della vita, la
cui lesione rileva ai fini in esame) o dell'interesse di altro tipo, pur se non immediato
oggetto di tutela in quanto dall'ordinamento preso in considerazione a fini diversi da
quelli risarcitori (e quindi comunque non qualificabile come interesse di mero fatto); c)
accertare sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se
l'evento dannoso sia riferibile ad una condotta (positiva od omissiva) della p.a.; d)
stabilire se l'evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della p.a., non trovando al
riguardo applicazione il principio secondo cui la colpa della struttura pubblica
dovrebbe considerarsi sussistente "in re ipsa" in caso di esecuzione volontaria di atto
amministrativo illegittimo”. (cass. sez. III civ, 29.3.2004 n. 6199 ma v. anche cass. 25
novembre 2003, n. 17940 ove si è affermato che rispetto al danno derivante
dall’illegittima cancellazione da un albo per appaltatori, il provvedimento di iscrizione
non crea rapporti obbligatori e, per «la mancanza di un preesistente rapporto
obbligatorio», non può configurarsi alcuna responsabilità contrattuale (per la
prescrizione si applica pertanto l’art. 2947 c.c.).
La discussione sul punto è ancora aperta e coinvolge profili più generali in tema
di responsabilità civile. (V., in proposito, Cass. 11 giugno 2003, n. 9366, cit., che, con
riferimento alle procedure di evidenza pubblica, ha distinto fra responsabilità per lesione
d’interessi legittimi e responsabilità precontrattuale o da «contatto sociale», sostenendo
che quest’ultima non potrebbe valere là dove «relazioni e contatti rilevanti sono solo
quelli normativamente tipizzati attraverso regole di comportamento che la pubblica
amministrazione deve osservare».)
Una cospicua apertura rispetto alle tesi originarie del 1999 si riscontra anche in
Cass. 26 settembre 2003, n. 14333, (pronuncia che per vari profili risulta complementare
a Cass. 10 gennaio 2003, n. 157, cit.). Questa sentenza esclude che il risarcimento del
danno, per la mancata assegnazione di una destinazione urbanistica a un’area interessata
da un vincolo decaduto, possa essere commisurata a una aspettativa all’edificazione
dell’area, perché la decadenza del vincolo non determina alcuna pretesa qualificata del
proprietario a una destinazione edificatoria. La Cassazione precisa, però, che in questo
caso il risarcimento in astratto poteva ammettersi e sarebbe stato commisurabile «al
protrarsi dello stato di incertezza», riconoscendo così la possibilità di ammettere un
risarcimento anche per il pregiudizio a valori diversi rispetto al «bene della vita» inteso
nel senso tradizionale di un vantaggio materiale e finale. Pure la «certezza», in certe
situazioni, va considerata «bene della vita», anche se non ha la dimensione di un
risultato «finale». Discriminante, pertanto, non è più la configurabilità di una lesione a
un «bene della vita» inteso nel senso enunciato dalle sezioni unite nel 1999: anche se la
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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sentenza della Cassazione citata non arriva ad ammettere un generale «danno da ritardo»
e sembra attribuire rilievo decisivo alla situazione del proprietario, lo spazio della
responsabilità per lesione di interessi legittimi risulta sensibilmente ampliato.
Tra l’altro, anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo sez. II 2.8.2001 nella
causa 37710/1997 ha riconosciuto la sussistenza della violazione del principio della
proprietà qualora vi sia stata da parte della Pa. una continua rinnovazione dei vincoli
sulla stessa con una completa incertezza sull’utilizzazione edilizia del bene che ha
generato un peso speciale ed esorbitante.
Infine il c.d.s con la sentenza 20.1.2003 n. 204 ha espressamente statuito che in
tema di lesione di interessi legittimi pretesivi per effetto di provvedimenti illegittimi il
diritto al risarcimento del danno ingiusto presenta una fisionomia sui generis non
riconducibile al modello aquiliano dell’art. 2043 c.c. in quanto, al contrario
caratterizzata da alcuni tratti della responsabilità precontrattuale e di quella per
inadempimento delle obbligazioni, mostrando, così, nuovamente come la discussione in
punto non sia ancora definitivamente risolta.
Conclusioni
** In conclusione per verificare la natura contrattuale o extracontrattuale della
responsabilità della P.A. deve aversi riguardo alle due nozioni classiche: la
responsabilità contrattuale sanziona l’inadempimento dell’obbligazione quale dovere
specifico verso un determinato soggetto (creditore); la responsabilità extracontrattuale
scaturisce, invece, dalla violazione di norme di condotta che regolano la vita sociale e
che impongono doveri di rispetto degli interessi altrui, a prescindere da una specifica
pretesa creditoria. Alla luce di tali definizioni deve, quindi, valutarsi se la normativa sul
procedimento amministrativo si pone come regolamentazione generale della condotta
della pubblica amministrazione, o piuttosto configuri una posizione creditoria del
privato. Invero sembrerebbe più conforme ai principi ritenere che l’inadempimento ha
riguardo ad uno specifico bene della vita, e quindi, in diritto amministrativo, dovrebbe
riguardare l’oggetto dei singoli provvedimenti; si dovrebbe cioè poter dire che, ad es., il
cittadino ha una pretesa creditoria nei confronti della pubblica amministrazione rispetto
ad una domanda di concessione edilizia ovvero all’annullamento di una espropriazione;
se ciò fosse vero, allora effettivamente la responsabilità dell’amministrazione si
qualificherebbe per inadempimento e sarebbe di natura contrattuale. Ma ciò, appare
superfluo dirlo, eliminerebbe alla radice la categoria degli interessi legittimi, superando
radicalmente la nota dottrina che differenzia le norme, a questi fini, in norme di azione,
dirette essenzialmente all’Amministrazione e che individuano posizioni di interesse
legittimo, e norme di relazione che configurano diritti soggettivi.
Tuttavia non può negarsi che:
a) rispetto ai così detti atti vincolati, ove non v’è esercizio di discrezionalità
amministrativa ma accertamento della sussistenza dei presupposti, la posizione del
privato può essere avvicinata alla “pretesa” del creditore e l’illegittimo diniego della
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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pretesa, all’inadempimento contrattuale. (Ed in effetti in sede risarcitoria tali posizioni
ricevono soluzioni più facilmente accertabili e quantificabili);
b) con riguardo agli atti discrezionali presi all’esito di un procedimento
amministrativo la posizione della p.a. verso il cittadino interessato non pare certo
ricollegabile a quella del neminen laedere relativa a qualsiasi persona con la quale la p.a.
entri in contatto nell’esercizio delle sue funzioni.
Sicché a mio parere, con riferimento all’attività provvedimentale della p.a., la
tesi di cass. 153/2003 appare giuridicamente interessante in quanto strumento di
maggior effettività di tutela per il cittadino sol che si consideri che si allungano i tempi
di prescrizione dell’azione (10 anni invece che 5) e si facilita la prova dell’elemento
soggettivo (il creditore non ha l’onere di provare la colpa del debitore).
Si impone, però, l’avvertenza che, al fine di evitare una “overcompensation”,
ossia un eccesso di risarcimento del danno, che il danno “contrattuale” non si consideri
mai in re ipsa nella sola violazione delle norme procedurali ma vada provato anche
tramite presunzioni purché gravi precise e concordanti e, laddove si liquidi il danno da
perdita di chance, il danno da violazione delle norme procedurali sia ritenuto assorbito
dal primo.
In ogni caso vi deve essere una certa diffidenza nei confronti di quegli
orientamenti che tendono a svincolare l’illecito dalla lesione di un interesse legittimo,
correlandolo unicamente alla condotta antigiuridica dell’amministrazione, addirittura, al
limite, ritenendo l’illecito configurabile pur in presenza di un atto legittimo: v., sul
punto, Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2003, n. 1457, www.giustizia-amministrativa.it.10.
2.d - Terza problematica: il nesso di causalità.
Il “danno” rileva sotto due profili: come evento lesivo (fatto dannoso) e come
insieme di conseguenze risarcibili (danni) (v. cass. 1.12.2004 n. 22.586).
Il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta e l’evento va
individuato alla stregua delle regole dettate dagli art. 40 e 41 c.p., secondo i criteri della
c.d. causalità di fatto o naturale, impostati sul principio della condizione sine qua non o
dell’equivalenza, con il correttivo del criterio della «causalità efficiente». Ciò vuol dire
che la responsabilità dell'autore del fatto materiale sussisterà ogniqualvolta egli abbia
10
Anche se nella controversia oggetto della predetta decisione, era stato censurato un diniego di
approvazione dell’aggiudicazione, ritenuto legittimo dal giudice in quanto assunto sul presupposto che
non sussistessero i fondi necessari per la realizzazione dell’opera e, ciò nonostante, era stata accolta la
domanda diretta ad ottenere un risarcimento del danno patito dall’impresa aggiudicataria. Va però
precisato che in quel caso la P.A. era già a conoscenza durante le fasi della gara della assenza di fondi ed
ha proceduto nella gara sino ad arrivare all’aggiudicazione poi non approvata sicché il fatto causativo del
danno non ha riguardato il diniego di aggiudicazione bensì la condotta colposa tenuta dalla P.A.
nell’indire una gara in carenza dei presupposti. Nessuna responsabilità, invece, si sarebbe potuto
addebitare alla P.A. laddove la carenza di fondi sia intervenuta in fase di approvazione
dell’aggiudicazione trattandosi in tal caso di impossibilità sopravvenuta di emettere il provvedimento di
aggiudicazione.
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apportato un contributo purchessia alla produzione dell'evento dannoso, quand’anche
assai modesto: e quindi anche se alla realizzazione del fatto dannoso abbia concorso la
condotta di altre persone, ovvero abbia concorso il caso fortuito o un evento naturale11
Una volta risolto il problema dell’imputazione dell’evento dovrà, invece,
procedersi alla ricerca del collegamento giuridico tra il fatto e le sue conseguenze
dannose, selezionando quelle risarcibili, rispetto a quelle non risarcibili. Il problema del
collegamento in questione va affrontato e risolto negli stessi termini in cui la suprema
corte lo ha affrontato e risolto in relazione alle ipotesi di propagazione intersoggettiva
delle conseguenze di uno stesso fatto illecito (cfr. tra le tante cass. 31.5.2003 nn. 8827 e
8828) ossia in base ai criteri della causalità giuridica, alla stregua di quanto prevede
l’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056, 1° comma, c.c.), che limita il risarcimento ai
soli danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito, ma che viene inteso,
secondo costante giurisprudenza,12 nel senso che la risarcibilità deve essere estesa ai
danni mediati ed indiretti, purché costituiscano effetti normali del fatto illecito, secondo
il criterio della c.d. regolarità causale temperata dal concetto di “rischio specifico”
creato da quel fatto13 (sul punto, v., da ultimo, sez. un. 9556/02, cit., in tema di danno
morale soggettivo sofferto dai congiunti della vittima di lesioni non mortali, che
conferma le argomentazioni della sent. 4186/98, cit. e anche c.d.s. sez. III 29.3.2004 n.
6199 che fa espresso accenno ai criteri della cd. “regolarità causale”)- Alla teoria della
causalità adeguata, intesa peraltro in un senso più vicino ai principi del c.d. “rischio
specifico”, sembra richiamarsi la prima giurisprudenza amministrativa che ha affrontato
l’argomento (TAR Veneto sez. II 31 marzo 2003 n.2166: nel diniego illegittimo di una
concessione edilizia, e quindi nel ritardo per il suo successivo rilascio, non si è ravvisato
un danno riconducibile al comportamento del comune in quanto il nesso di causalità
risultava interrotto dalla circostanza che per ottenere la concessione, successivamente
all’annullamento del diniego, è stato necessario modificare in parte il progetto.).
Una applicazione paradigmatica dei principi sopra esposti si può ravvisare, a
titolo di esempio, nel caso (oggetto di una recente ed importante decisione della
Suprema Corte14) di indebita imposizione di vincoli di inedificabilità su un fondo
privato, annullati in sede giurisdizionale, e, tuttavia, legittimamente e validamente
reiterati a distanza di diversi anni.
In questi casi, ove il proprietario lamenti la lesione di una situazione di interesse non
già “finale” (la perduta possibilità di edificare), ma “intermedia” (la perduta possibilità
di vendere il fondo prima che mutasse la sua destinazione urbanistica) ai fini del
risarcimento del danno lamentato dal proprietario occorrerà valutare:
11
Cfr.. Cass., sez. III, 10-12-1996, n. 10987, in Foro it. Rep. 1996, Responsabilità civile, n. 82; Cass.,
24-02-1987, n. 1937, in Arch. circolaz., 1987, 471.
12
Cfr. sent. 373/71, id., Rep. 1971, voce Danni civili, n. 15; 6676/92, id., Rep. 1993, voce Contratto in
genere, n. 337; 1907/93, ibid., voce Agenzia, n. 30; 5913/00, id., Rep. 2000, voce Responsabilità civile, n.
179.
13
Tale aggiunta si rende necessaria per evitare che si neghi alla vittima il risarcimento dal danno a causa
della sua eccezionalità.
14
Cass. 10.1.2003 n. 157, in Dir. e Giust., 2003, fasc. 6, 38.
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(a) se l'illegittima imposizione di vincoli di inedificabilità sia stata “causa” della
mancata vendita, ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p. (e così, ad esempio, se il fondo aveva un
suo mercato, oppure se le caratteristiche ne rendevano verosimile o addirittura probabile
la commerciabilità: è evidente, infatti, che un fondo caratterizzato da scoscendimenti o
paludi ben difficilmente sarebbe potuto essere venduto);
(b) se e quale danno sia derivato dalla mancata vendita, ai sensi dell'articolo 1223 cod.
civ. (e così, ad esempio, tale danno potrà ravvisarsi soltanto ove si possa
ragionevolmente ritenere che il presumibile prezzo di vendita dell'immobile, rivalutato
dal momento della commissione del fatto illecito al momento della decisione, sia
superiore al valore attuale del fondo).
In caso di omissione va evidenziato se la mancata emanazione del
provvedimento favorevole abbia causato l’evento, e, sempre operando una verifica ex
post, che l’atto non adottato avrebbe avuto un certo contenuto.
Questa valutazione prende il nome di "giudizio controfattuale", e non deve
essere compiuta sulla sola base di leggi statistiche o probabilistiche.
Così, ad esempio, ove esistesse una statistica in base alla quale una certa
condotta, se tenuta, in sette casi su dieci consentirebbe di evitare un certo danno, il
giudice non potrebbe sulla base di questa sola motivazione ritenere accertato il nesso
causale tra omissione e danno. Quel che invece rileva, ai fini di tale accertamento, è secondo le parole della cassazione - la “probabilità logica" che la condotta omessa, se
tenuta, avrebbe impedito il verificarsi del danno. Non, dunque, meri calcoli statistici
debbono presiedere all'accertamento del nesso causale nei delicta per omissionem
commissa, ma l'accertamento di una "alto grado di credibilità razionale dell'ipotesi
formulata sullo specifico fatto da provare”15.
Infine va ricordato che: a) in base ai principi civilistici, il fatto del terzo od il
fatto del danneggiato (es. la presentazione di un progetto inadeguato) possono
interrompere il nesso di causalità, quando si pongono come causa del danno
indipendentemente dalla causa originaria; b) la causa successiva ipotetica, sempre
secondo la dottrina civilistica, è poi quella che comporta la diminuzione del danno
risarcibile nella misura in cui altre cause non imputabili avrebbero ugualmente arrecato
il danno già prodotto dall’illecito; ciò per l’esigenza dell’ordinamento che il
risarcimento sia adeguato alla misura del pregiudizio effettivamente subito dal
danneggiato; sulla misura del risarcimento quindi incidono tutti i fatti successivi
all’illecito o all’inadempimento, fino alla determinazione negoziale o giudiziale del
danno.
15
: Cass. sez. un. pen. 11.9.2002 n. 30328, in Dir e giust., 2003, fasc. 35, 21, la quale ha composto il
precedente contrasto di giurisprudenza. Si badi che il dictum delle Sezioni Unite penali, avendo ad
oggetto la norma (art. 40 c.p.) che disciplina anche la causalità materiale nell’illecito civile, non potrà non
trovare applicazione anche con riferimento a quest’ultimo.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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Anche il concorso di colpa del danneggiato evidentemente concorre a diminuire
il risarcimento (art. 1227 I^ comma c.c.); e così il risarcimento non è dovuto per i danni
che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (art. 1227 II^
comma c.c.).
2.e - Quarta problematica: l’elemento soggettivo (la colpa).
Il Consiglio di Stato, partendo dal presupposto che la responsabilità della p.a. per
atti illeciti sia di natura extracontrattuale - ha espressamente statuito che “ …Il
risarcimento del danno non è una conseguenza autentica dell'annullamento di un atto in
sede giurisdizionale ma richiede la positiva verifica dei presupposti di legge, tra cui la
colpa dell'Amministrazione” (c.d.s sez. VI 14.11.2002 n. 6000 ma anche cass.
25.11.2003 n. 17.914 e cass. 10.8.2002 n. 12.144) e ancora “… il risarcimento del
danno non è una conseguenza automatica dell'annullamento giurisdizionale, ma
richiede la positiva verifica della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge:
oltre alla lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento
("danno ingiusto"), è necessario che siano accertati la colpa dell'Amministrazione
(intesa come violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
amministrazione, che si pongono come limiti esterni alla sua discrezionalità) e la
sussistenza di un danno recato al bene nonché il nesso di causalità tra illecito e danno”.
( c.d.s sez. IV 14.12.2002 n. 6921).
Ma giova, ora, svolgere alcune considerazioni di sistema in merito
all’accertamento del requisito dell’elemento soggettivo nella fattispecie di responsabilità
dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima, dando conto, in
particolare, del tormentato percorso evolutivo seguìto dalla giurisprudenza
nell’individuazione dei caratteri della colpa dell’apparato pubblico.
Com’è noto, l’impostazione giurisprudenziale tradizionale (cfr. ex multis Cass.
Civ., sez. III, 9 giugno 1995, n.6542), formatasi prima della sentenza delle Sezioni Unite
n.500 del 22 luglio 1999, risolveva la questione ritenendo la colpa dell’amministrazione
insita nell’esecuzione di un provvedimento amministrativo illegittimo. Secondo tale
ricostruzione, quindi, l’illegittimità dell’atto amministrativo portato ad esecuzione
integrava, di per sé, gli estremi della colpevolezza postulata dall’art.2043 c.c. per la
costituzione dell’obbligazione risarcitoria. La nozione di culpa in re ipsa si fondava, in
particolare, sul rilievo che la semplice adozione ed esecuzione di un provvedimento
illegittimo da parte di un soggetto dotato di capacità istituzionale e di competenza
funzionale ad operare nel settore di riferimento concretasse quella consapevole
violazione di leggi, regolamenti o norme di condotta non scritte nella quale si risolve la
colpa, secondo la definizione del suo contenuto essenziale fornita dall’art. 43 c.p. La
categoria concettuale della presunzione assoluta di colpa (chè di questo si tratta),
concepita dalla giurisprudenza anche per semplificare l’accertamento dell’illecito e per
favorire la tutela risarcitoria del privato danneggiato (altrimenti onerato di una prova
complessa e priva di parametri certi), è parsa, comunque, incompatibile con i principi
generali della natura personale della responsabilità civile e del carattere eccezionale di
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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quella oggettiva, risolvendosi nell’ingiusta assegnazione all’amministrazione di un
trattamento deteriore rispetto a quello degli altri soggetti di diritto.
Tali dubbi di coerenza sistematica della presunzione assoluta di colpa sono stati
risolti dalla Suprema Corte (con la nota sentenza a Sezioni Unite n.500/99), mediante il
superamento della teoria della culpa in re ipsa e la contestuale definizione di indici
identificativi della colpa, indicati nell’ascrizione all’amministrazione, intesa come
apparato, e non al funzionario agente, della “violazione delle regole di imparzialità, di
correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione
amministrativa deve ispirarsi e che…si pongono come limiti esterni alla
discrezionalità”.
Va, tuttavia, rilevato che la scarna descrizione degli elementi essenziali della colpa
rinvenibile nel passaggio della motivazione della sentenza n.500/99 dedicato alla
questione si rivela carente ed inidonea a fornire agli operatori paradigmi valutativi certi
ed al sistema una catalogazione concettuale definita. Infatti la Suprema Corte chiarisce,
innanzitutto, che l’indagine riservata al giudice deve riferirsi alla pubblica
amministrazione come apparato impersonale e non al funzionario che ha adottato l’atto
illegittimo.
Tale prima indicazione, se vale a svincolare l’accertamento giudiziale dai canoni
d’indagine utilizzati ordinariamente per la verifica della sussistenza della colpevolezza
in capo alle persone fisiche, non serve, tuttavia, in positivo, ad orientare l’indagine verso
un centro d’imputazione della responsabilità agevolmente individuabile e, soprattutto,
non offre sicuri criteri di giudizio nel compimento della disamina contestualmente
suggerita.
Le ragioni di tali difficoltà si risolvono, a ben vedere, sull’improprio riferimento
dello stato psicologico di colpevolezza all’organizzazione dell’ente, anziché alla
persona fisica legittimata ad esprimerne la volontà o ad esso legata da un vincolo di
subordinazione (come accade per le ipotesi di responsabilità, diretta e indiretta, degli
enti privati). La colpa d’apparato sembra, quindi, coincidere con la verifica di una
disfunzione della funzione amministrativa, determinata dalla disorganizzazione nella
gestione del personale, dei mezzi e delle risorse degli uffici cui è imputabile l’adozione
o l’esecuzione dell’atto illegittimo.
Sennonchè, se tale è il carattere essenziale della colpa d’apparato la stessa si
rivela impropriamente introdotta nella struttura dell’illecito, sia perché l’eventuale
disorganizzazione amministrativa e gestionale non è necessariamente causa
dell’illegittimità dell’atto, sia perché la stessa risulta essenzialmente estranea al profilo
psicologico dell’azione amministrativa immediatamente produttiva del danno e, quindi,
al campo d’indagine riservato al giudice chiamato a pronunciarsi sulla pretesa
risarcitoria.
Non solo, ma la descrizione (appena riferita) dei requisiti della colpa omette qualsiasi
considerazione e valorizzazione di circostanze esimenti, con ciò precludendo, di fatto,
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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proprio quella penetrante indagine della riferibilità soggettiva del danno alla colpevole
azione amministrativa che si raccomanda contestualmente al giudice del risarcimento.
Le ricostruzioni più recenti si sono, invece, basate, in antitesi all’indirizzo della
Suprema Corte, sul rilievo critico che il criterio della “…violazione delle regole di
imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della
funzione amministrativa deve ispirarsi…” (indicato nella sentenza n.500/99) si risolve,
se non attenuato da uno spazio di non colpevolezza (tuttavia non evidenziato dalla
Cassazione), nella tautologica affermazione della coincidenza della colpa con
l’illegittimità del provvedimento, con surrettizia reintroduzione della tesi che si è
dichiarato di voler abbandonare.
In una delle prime e più importanti pronunce che si sono occupate della
questione (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n.3169) è stata condivisa la concezione
oggettiva della colpa suggerita dalla Cassazione, che si basa cioè sull’apprezzamento dei
vizi che inficiano il provvedimento, ma sono stati mutuati dalla giurisprudenza
comunitaria diversi indici valutativi quali “…la gravità della violazione commessa
dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali
rimesse all’organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e
dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento”. In applicazione di tali
canoni di valutazione, il giudice deve, quindi, formulare il giudizio sulla colpevolezza
dell’amministrazione, affermandola quando la violazione risulta grave e commessa in
un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale
da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento
viziato e, viceversa, negandola quando l’indagine presupposta conduce al
riconoscimento di un errore scusabile (per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali,
per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della
situazione di fatto).
In una successiva pronuncia (Cons. St., sez. V, 6 agosto 2001, n.4239), sono stati
ulteriormente chiariti i caratteri della responsabilità della pubblica amministrazione da
attività provvedimentale e, accedendo ad una ricostruzione dogmatica della stessa in
termini di responsabilità da contatto sociale qualificato, si è precisato che, in analogia
alle forme di accertamento giudiziale dell’illecito contrattuale o precontrattuale (e, in
particolare, del criterio di imputazione del danno definito dall’art.1218 c.c.), la
responsabilità dell’amministrazione per l’adozione di un atto illegittimo può presumersi,
sotto il profilo dell’ascrivibilità del pregiudizio ad una condotta colposa dell’apparato.
In esito alla presupposta catalogazione concettuale della natura della responsabilità
dell’amministrazione, svincolata dalla struttura e dalla disciplina dell’illecito aquiliano,
è stato, quindi, ammesso il privato alla mera allegazione del danno patito e della sua
riconducibilità eziologia all’adozione od all’esecuzione di un provvedimento viziato ed
imposto all’amministrazione l’onere di dimostrare la propria incolpevolezza per mezzo
della deduzione di elementi di fatto e di diritto idonei a documentare la ricorrenza di un
errore scusabile e, quindi, a dimostrare l’assenza di colpa nel proprio operato.
Tale semplificazione probatoria viene, in particolare, giustificata e legittimata non tanto
con il ricorso a presunzioni semplici, pure limitatamente invocabili nell’accertamento
dell’elemento soggettivo, ma con una distribuzione dell’onere della prova che, sotto un
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profilo sostanziale, appare rispondere ad esigenze di garanzia e di favore per la
posizione processuale del privato e, sotto un profilo di coerenza logico-sistematica
dell’ordinamento processuale, si fonda su una lettura dell’illecito dell’amministrazione
in termini analoghi a quelli propri dell’inadempimento di un’obbligazione contrattuale o
dei doveri di correttezza ravvisabili nella fase delle trattative (e, quindi, tipici della
responsabilità precontrattuale). In tale ottica, viene superata l’equivalenza,
precedentemente riconosciuta dalla stessa giurisprudenza amministrativa, colpaviolazione grave, ritenendosi, di contro, che quella enunciazione teorica si risolva in
un’inammissibile limitazione della responsabilità dell’amministrazione ai soli casi di
colpa grave (ma in difetto di una previsione positiva in tal senso) e che, quindi, anche la
sussistenza di un vizio non macroscopico possa implicare responsabilità
dell’amministrazione nella colpevole inosservanza dei pertinenti canoni d’azione.
Siffatta ricostruzione teorica è stata, poi, confermata sia dalla giurisprudenza
amministrativa (Cons. St., sez. VI, 20 gennaio 2003, n.204), sia da quella ordinaria
(Cass. Civ., sez. I, 10 gennaio 2003, n.157) che, in conformità alla riferita elaborazione
concettuale, hanno condiviso l’assimilazione della responsabilità dell’amministrazione
per attività provvedimentale (segnatamente per lesione degli interessi c.d. pretensivi) a
quella contrattuale per violazione di diritti relativi, con le implicazioni già evidenziate in
tema di accertamento della colpa.
Recentemente, però il cds con la sentenza sez. IV 6.7.2004 n. 5012 ha dissentito
dalla ricostruzione che ha fatto applicazione dei principi che presiedono alla
responsabilità contrattuale per inadempimento al fine di giustificare l’affermazione della
presunzione relativa di colpa e l’ascrizione all’amministrazione dell’onere di dimostrare
la propria incolpevolezza reputando, di contro, che le condivisibili esigenze di
semplificazione probatoria sottese all’impostazione criticata possono essere parimenti
soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina
della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle
regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della
lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, ma utilizzando, per la
verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt.2727 e 2729
c.c.
In tale ottica, il privato danneggiato, ancorchè onerato della dimostrazione della colpa
dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi
indiziari – acquisibili, sia pure con i connotati normativamente previsti, con maggior
facilità delle prove dirette - quali la gravità della violazione (qui valorizzata quale
presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto), il carattere
vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di
riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento. Così che, acquisiti gli
indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi
(pure indiziari) ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice,
così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n.500/99, apprezzarne e
valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza
dell’amministrazione. Il cds ha, poi, spiegato che la rilevata semplificazione dell’onere
probatorio (a carico e a discarico) appena descritta impone di definire i caratteri che
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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devono possedere gli elementi addotti a propria discolpa dalla pubblica
amministrazione, a fronte della produzione degli indizi a suo carico, perché la situazione
allegata integri gli estremi dell’errore scusabile e consenta, perciò, di escludere la colpa
dell’apparato amministrativo riferendosi a tal fine alla giurisprudenza comunitaria
(Corte Giustizia C.E., 5 marzo 1996, cause riunite nn.46 e 48 del 1993; 23 maggio 1996,
causa C5 del 1994) che, pur assegnando valenza pressoché decisiva alla gravità della
violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere, il grado di chiarezza e
precisione della norma violata e la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla
questione esaminata e definita dall’amministrazione, nonché la novità di quest’ultima,
riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione
della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni.
Esclusa la correttezza di ogni riferimento, pure in astratto invocabile, al livello
culturale ed alle condizioni psicologiche soggettive del funzionario che ha adottato
l’atto, risulta, in proposito, accettabile il criterio della comprensibilità della portata
precettiva della disposizione inosservata e della univocità e chiarezza della sua
interpretazione, potendosi ammettere l’esenzione da colpa solo in presenza di un quadro
normativo confuso e privo di chiarezza; restando, altrimenti, l’amministrazione soggetta
all’inevitabile giudizio di colpevolezza nella violazione di un canone di condotta
agevolmente percepibile nella sua portata vincolante.
Secondo il cds la ricostruzione appena esposta soddisfa al contempo, le esigenze
di superare l’inaccettabile equazione illegittimità dell’atto-colpa dell’apparato pubblico,
surrettiziamente reintrodotta con la sentenza n.500/99, di valorizzare gli aspetti obiettivi
della condotta antigiuridica dell’amministrazione, di restituire coerenza sistematica alla
regola di riparto dell’onere della prova da applicarsi nello schema di responsabilità in
questione e, in definitiva, di agevolare le parti (rispettivamente interessate)
nell’adempimento del dovere di dimostrare la colpa, in prima battuta, o la sua
mancanza, negli estremi dell’esimente dell’errore scusabile.
Da ultimo va citata la sentenza del cds sez. I 23.7.2004 n. 13.801 la quale ha
precisato che i requisiti soggettivi dell'illecito sono qualificati dal dolo o dalla colpa. e
non identificabili con la mera illegittimità dell'atto annullato, ma anche con il
comportamento non solo dell'ente ma anche dei suoi funzionari e dipendenti purché il
comportamento sia imputabile all’amministrazione.
Una possibile eccezione al principio che illegittimità non equivale ad illiceità
occorrendo anche la sussistenza della colpa può ravvisarsi nel caso di illegittimità
dell’atto per eccesso di potere in quanto l’eccesso di potere esercita rispetto al potere
amministrativo la stessa funzione che la colpa ed il dolo esercitano rispetto
all’autonomia privata sicché ai fini risarcitori l’eccesso di potere ha un’immediata
rilevanza attenendo alla valutazione del fatto amministrativo ed all’interesse sostanziale
del privato coinvolto nel procedimento; la necessità della prova ulteriore della mancata
diligenza riguarda, invece, gli altri due vizi di illegittimità ossia l’incompetenza e la
violazione di legge.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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Recentemente il cds con sentenza sez. V 17.7.2004 n. 5162 ha ravvisato colpa
nell’atteggiamento della p.a. che, da un lato, ha dato celere esecuzione ad una sentenza
con cui il Tar ebbe ad annullare gli atti di aggiudicazione di gara riaggiudicando i lavori
all’impresa ricorrente senza attendere l’esito definitivo del giudizio e, dall’altro lato,
nonostante la pubblicazione del dispositivo della decisione del cds di riforma del
pronunciamento di primo grado, abbia deciso di attendere le motivazioni di detta
sentenza facendo così sfumare le possibilità di reintegrazione in forma specifica
mediante subentro.
** Infine va ricordato che la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la
P.A. non può far ricorso all’art. 2236 c.c. che limita la responsabilità alla sola colpa
grave (o dolo) per il professionista intellettuale chiamato a risolvere problemi tecnici di
speciale difficoltà; infatti la norma riguarda rapporti contrattuali tra committente e
prestatore che si ritiene non ricorrano in caso di interessi legittimi (cds sez.V 2.10.2002
n. 5174). Tuttavia questa giurisprudenza deve sicuramente essere rivista in
considerazione della emergente responsabilità da contatto di natura contrattuale e,
comunque, il cds con la sopra citata sent. 5012/2004 ha ritenuto condivisibili i
riferimenti, da più parti suggeriti, al criterio di imputazione soggettiva della
responsabilità del professionista di cui all’art.2236 c.c. che, riconnettendo il grado di
colpevolezza richiesto per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria alla difficoltà dei
problemi tecnici affrontati nell’esecuzione dell’opera, introduce un parametro di
ascrizione del danno che tiene conto del grado di complessità delle questioni implicate
dall’esecuzione della prestazione e che attenua la responsabilità del prestatore d’opera
quando il livello di difficoltà risulti rilevante. La medesima ratio sottesa alla richiamata
disposizione civilistica può, infatti, ravvisarsi nelle fattispecie nelle quali la situazione
di fatto esaminata dal funzionario comporta la risoluzione di problemi tecnici
particolarmente rilevanti ed in cui, in definitiva, l’accertamento dei presupposti di fatto
dell’azione amministrativa implica valutazioni scientifiche complesse o verifiche
difficoltose della realtà fattuale. A fronte, infatti, di una situazione connotata da
apprezzabili profili di complessità secondo il c.d.s. , può ritenersi giustificata, in
analogia con la disciplina della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale,
un’attenuazione di quella dell’amministrazione che la circoscriva alle sole ipotesi di
colpa grave.
*************************************
3. - Il risarcimento del danno patrimoniale
Vasta è la problematica relativa al risarcimento del danno patrimoniale: nella
presente lezione si cercherà di evidenziare alcuni tra gli aspetti più ricorrenti nella
pratica.
3.a - Il risarcimento in forma specifica.
Risarcimento in forma specifica e risarcimento per equivalente costituiscono
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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forme alternative di ristoro di cui la prima ove praticabile, di regola elimina l’area del
danno da risarcire per equivalente ovvero la riduce al solo danno emergente o al lucro
cessante per il periodo anteriore alla reintegrazione in forma specifica.
Una parte della dottrina sostiene che con l’inciso “anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica” di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998 il legislatore
ha inteso introdurre nel nostro ordinamento un’azione di adempimento simile a quella
prevista nell’ordinamento tedesco che consente di agire in giudizio per ottenere la
condanna dell’amministrazione all’emanazione di un atto amministrativo: in tal caso,
però, il potere di ordinare all’amministrazione un facere, consistente anche
nell’emanazione di atti amministrativi, sussisterebbe a condizione che si tratti di attività
vincolata e non di attività con significativo tasso di discrezionalità.
A tale orientamento, che presuppone l’introduzione attraverso il rimedio della
reintegrazione in forma specifica di un’azione di adempimento esercitata nei confronti
della P.a.,se ne contrappone un altro che appare preferibile in quanto maggiormente
coerente con la natura risarcitoria o riparatoria dell’istituto dell’art. 2058 c.c..
Infatti ammettere che la reintegrazione in forma specifica costituisca il mezzo
per impartire un ordine alla P.A. di emanare un determinato provvedimento o quanto
meno di provvedere in un determinato modo finisce per attribuire all’istituto caratteri
che non corrispondono, in realtà, alla vera e propria tutela aquiliana ma ottengono assai
più della tutela ripristinatoria.
Tale ricostruzione presuppone un concetto di reintegrazione in forma specifica
del tutto diverso da quello affermatosi in sede civilistica sulla base dell’art. 2058 c.c.. In
sede civilistica il risarcimento in forma specifica consiste nella diretta rimozione delle
conseguenze devianti dall’evento lesivo tramite la produzione di una situazione
materiale corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il
fatto illecito produttivo del danno. Sempre nell’ottica civilistica la reintegrazione in
forma specifica rimane un rimedio risarcitorio (o comunque riparatorio) ossia una forma
di reintegrazione dell’interesse e succedanea rispetto al contenuto del rapporto
obbligatorio e non va confusa con l’azione di adempimento (diretta ad ottenere la
condanna del debitore all’adempimento dell’obbligazione) né con il diverso rimedio
dell’esecuzione in forma specifica quale strumento per l’attuazione coercitiva del diritto
e non mezzo di rimozione diretta delle conseguenze pregiudizievoli. La forma specifica
non è né una forma eccezionale né una forma sussidiaria di responsabilità ma uno dei
modi attraverso i quali il danno può essere risarcito, la cui scelta spetta al creditore salva
l’ipotesi di eccessiva onerosità o l’oggettiva impossibilità.
Nel processo amministrativo il legislatore ha chiaramente inserito l’inciso
“anche attraverso la reintegrazione in forma specifica” all’interno della disposizione
che prevede il risarcimento del danno sicché lo stesso dato letterale esclude ogni
interpretazione che ponga l’istituto al di fuori di un’alternativa risarcitoria. Lo strumento
risarcitorio, del resto, sia per equivalente che in forma specifica , si caratterizza per
l’imposizione al debitore (l’amministrazione) di una “prestazione” diversa in
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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sostituzione di quella originaria .
Se l’amministrazione era tenuta al rilascio di un determinato provvedimento,
l’adozione di quell’atto costituisce il contenuto primario della “prestazione” cui la P.a
era tenuta e non assume una funzione risarcitoria. Peraltro quando la legislatore ha
voluto configurare la possibilità da parte del giudice amministrativo di ordinare un
facere all’amministrazione lo ha espressamente fatto come nell’ipotesi di cui all’art. 25
l. 241/90 (“… il giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione
dei documenti richiesti…”).
L’adozione da parte dell’amministrazione di un determinato atto amministrativo
attiene più ai profili di adempimento e di esecuzione che non a quelli risarcitori:
riportare anche tale fase nell’ambito della reintegrazione, e quindi della tutela
risarcitoria, vuol dire estendere a tale fase tutti i limiti di tale tutela che sono più rigorosi
rispetto quelli previsti per l’esecuzione. Si pensi solo che mentre la reintegrazione in
forma specifica richiede una verifica in termini di onerosità ai sensi dell’art. 2058 c.c.,
tale verifica non è richiesta in relazione alle forme di esecuzione in forma specifica per
le quali può rilevare la sola sopravvenuta impossibilità.
Ne consegue che sulla base della disciplina vigente non appare ammissibile una
domanda tesa, nella sostanza, a ordinare all’amministrazione l’emanazione di
provvedimenti amministrativi anche se di carattere vincolato e che l’unica forma di
risarcimento in forma specifica nel diritto amministrativo trova applicazione in alcuni
casi di diritto “oppositivo” (es. riconsegna e ripristino del bene illegittimamente sottratto
al privato; consegna di cosa uguale a quella illegittimamente distrutta; riparazione
materiale di danni cagionati in esecuzione di un provvedimento illegittimo). (cfr. in tal
senso c.d.s sez. VI 18.6.2002 n. 3338 e c.d.s. 18.12.2001 n. 6681 ove si afferma che
“L'art. 35, D.lgs. n. 80 del 1998, a norma del quale il giudice amministrativo dispone il
risarcimento del danno, anche in forma specifica, va integrato con le regole civilistiche
di cui all'art. 2058 cod. civ., in base al quale il risarcimento in forma specifica è
ammesso: 1) su domanda di parte; 2) ove possibile; 3) e sempre che non comporti un
eccessivo onere per il debitore.”)).
Non può ignorarsi, tuttavia, che c.d.s. 18.12.2001 n. 6681 ha espressamente
previsto che “…il risarcimento per perdita di chance può avvenire in forma specifica o
per equivalente: il risarcimento in forma specifica consiste nella riammissione in gara
del concorrente escluso, ovvero nella ripetizione della procedura; nel caso di illegittimo
affidamento di appalto mediante trattativa privata, il risarcimento in forma specifica
consiste nella indizione di pubblica gara per l'appalto in questione”; e c.d.s. sez. VI
4.9.2002 n. 4435 ha addirittura previsto che i costi di partecipazione alla gara qualificati
come danno emergente in caso di condotta illecita della stazione appaltante vanno, in
via prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica, mediante rinnovo delle
operazioni di gara e solo ove tale rinnovo non sia possibile, vanno ristorati per
equivalente.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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In ogni caso va ricordato che la prevalente giurisprudenza di merito è favorevole
alla tesi che consente all’amministrazione un facere in particolare in materia di
aggiudicazione dell’appalto al secondo classificato una volta accertata l’illegittimità
dell’ammissione del primo (cfr. TAR Lombardia - Brescia 23.4.2002 n. 787 e Tar
Toscana 27.2.2001 n. 336).
Interessante, poi, è la sentenza del Tar del Veneto 25.3.2003 n. 2078 ove si rileva
che “Ai sensi dell'art. 35, D.L.vo 31 marzo 1998, n. 80, il giudice amministrativo, nelle
controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone il risarcimento del
danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica; e ciò gli
conferisce, in funzione dell'effettività della tutela, il nuovo potere di attribuire al
ricorrente il bene o l'utilità pretesa e ingiustamente negata dall'amministrazione, e non
soltanto un ristoro per equivalente; pertanto, la condanna dell'amministrazione a
disporre l'aggiudicazione definitiva, quale forma specifica di tutela del detto interesse
sostanziale, è conforme a quanto stabilito dall'art. 35, cit. e rispettosa dei principi
stabiliti dall'art. 2058, Cod. civ., non operando nel giudizio risarcitorio, avente ad
oggetto posizioni di diritto soggettivo, la regola tradizionale secondo cui in materia di
pubbliche gare, fino a che l'aggiudicazione definitiva non sia intervenuta, lo
svolgimento della procedura di scelta del contraente non comporta l'obbligo di
concludere, in ogni caso, il contratto, se questo non è più considerato rispondente
all'interesse pubblico successivamente all'aggiudicazione”.
O il Tar Campania 4.2.2003 n. 638 che ha statuito che l'annullamento
dell'illegittima esclusione da una gara pubblica comporta il diritto al risarcimento in
forma specifica ove l'accoglimento del gravame intervenga in tempo utile a restituire in
forma specifica all'impresa interessata la chance di partecipare alla gara; o, infine, Tar
Lazio 2.7.2003 n. 5822 secondo il quale la P.a. è sempre tenuta alla rinnovazione degli
atti di gara venuti meno per effetto della decisione giurisdizionale, fermo restando che la
rinnovazione è possibile quando la procedura non si è ancora conclusa, ovvero, in caso
contrario, se l'appalto non ha già avuto integrale esecuzione, o non sia in fase di
esecuzione troppo avanzata, o, infine, non sussistano ragioni di urgenza tali da ritenere
eccessivamente oneroso per l'Amministrazione la ripetizione della gara.
3.b - Il risarcimento per equivalente.
Il risarcimento del danno per equivalente - che è da considerare una forma di
risarcimento del danno sussidiaria rispetto a quella in forma specifica16 - assume
particolare rilievo in campo amministrativo alla luce della recente sentenza
dell’adunanza plenaria del cds 18.10.2004 n. 10 nella quale si è chiaramente rilevato che
laddove la pretesa risarcitoria consequenziale concerna interessi pretensivi non può che
essere soddisfatta per equivalente17.
E’ appena il caso di osservare come il risarcimento per equivalente possa concorrere con quello in
forma specifica per gli aspetti complementari non risarciti da quest’ultimo.
17
L’affermazione del l’adunanza plenaria – come ben osservato da Oberdan Forlenza in Guida al diritto n.
47/2004 pag. 180 - meriterebbe un’ulteriore approfondimento del problema sia in quanto essa, nella sua
16
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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Detta forma di risarcimento si compone secondo la definizione offerta dall’art.
1223 c.c. del danno emergente e del lucro cessante: e cioè della diminuzione reale del
patrimonio del privato per effetto di esborsi connessi all’attività illecita e della perdita di
un’occasione di guadagno o di un’utilità economica connessa all’atto o all’omissione
lesiva.
In campo civilistico le due componenti del danno – già presenti nel diritto
romano - hanno ricevuto ampio sviluppo ed estesa trattazione anche se la
quantificazione comporta sempre la soluzione di non agevoli problematiche sia con
riferimento all’an che al quantum.
Importante, tuttavia, è rilevare che due categorie di danno sopra indicate
("danno emergente" e "lucro cessante") non si identificano con la distinzione tra danni
passati e danni futuri. Il danno emergente si distingue dal lucro cessante perché il primo
tipo di danno sottrae, distrugge o riduce beni od utilità già esistenti nel patrimonio del
danneggiato. Il secondo tipo di danno, invece, lascia inalterato il patrimonio dei
debitore, ma gli impedisce di conseguire utilità che certamente avrebbe conseguito in
assenza dell'evento dannoso. Il lucro cessante non è dunque un danno futuro: od almeno,
futuro in questo tipo di danno è soltanto l'incremento patrimoniale atteso dal
danneggiato, se tale incremento viene riguardato con riferimento al momento dei
verificarsi dell'evento dannoso.
Analogamente, il danno emergente non è un danno passato, in quanto esso può
prodursi anche nel futuro: l'esempio classico è quello di chi, in seguito ad una illegittima
occupazione temporanea del proprio fondo, non ancora liberato al momento della
sentenza di annullamento del provvedimento di occupazione, sarà costretto a sostenere
delle spese per la riduzione in pristino dei luoghi.
E si badi bene che la suddetta divisione dei danni è fondamentale a vari fini.
Infatti: (a) la liquidazione del danno da ritardato adempimento dell'obbligazione
risarcitoria è dovuta solo per i danni passati (siano essi danno emergente o lucro
cessante), e non per quelli futuri; (b) la liquidazione di un danno che si produrrà nel
futuro (sia esso danno emergente o lucro cessante) deve essere scontata (e cioè
rapportata all’attualità con una opportuna operazione di riduzione, in quanto plus dat qui
cito dat); al contrario, la liquidazione di un danno passato deve essere attualizzata con
un coefficiente di rivalutazione; (c) la liquidazione del lucro cessante, sia esso passato o
futuro, ove causato da atto illecito deve essere sempre compiuta con equo
apprezzamento delle circostanze del caso (art. 2056 co. Il c.c.); tale equa valutazione
non è invece utilizzabile nella liquidazione del danno emergente, il quale - anche se
futuro - andrà sempre liquidato juxta alligata et probata, e cioè con rigorosa valutazione
perentorietà non sembra essere del tutto condivisibile, quantomeno con riferimento alle modalità di
riparazione delle offese agli interessi pretensivi connessi all’esercizio di potere vincolato da parte
dell’amministrazione (e lesi da eventuali provvedimenti negativi poi annullati) sia in quanto essa pone il
problema dell’effettiva esperibilità (e in quali termini) della pur riconosciuta azione di ottemperanza.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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delle prove (salva, ovviamente, l'applicazione dell'art. 1226 c.c. ove ne ricorrano i
presupposti). E' opportuno infine ricordare, per concludere sulla distinzione tra danno
passato e danno futuro, che per potere provvedere al risarcimento del danno futuro, ossia
del danno non ancora verificatosi al momento della liquidazione, è in ogni caso
necessario che risulti provata o comunque incontestata l'esistenza di un danno
risarcibile, perché possa essere valutato dal giudice in via equitativa, non essendo
sufficiente la dimostrazione di un danno solo potenziale o possibile18.
La prova del danno
Ciò posto la prima questione da affrontare in tale campo riguarda la prova del
danno non apparendo agevole distinguere tra prova del danno, cioè dell’an, e prova del
suo ammontare, cioè del quantum, potendosi anzi registrare una significativa
commistione tra elementi di prova dell’esistenza del pregiudizio ed allegazioni
probatorie attestanti la sua entità.
La considerazione principale da svolgere, comunque, resta quella che con le
sentenze della corte di cassazione nn. 8828 ed 8827 del 2003 e con la sentenza della
Corte costituzionale n. 223 del 2003 è stata definitivamente superata la concezione del
cd. danno-evento introdotto dalla ormai famosa sentenza della Corte costituzionale n.
184/1986 sicché il danno non può mai ritenersi in re ipsa e non coincide mai con la
lesione dell’interesse19: pertanto se sussiste solo il fatto lesivo ma non vi è un danno–
conseguenza non vi è l’obbligazione risarcitoria (cfr. da ultimo cass. 1.12.2004 n.
22.586)20.
Occorre, dunque, sempre dare la prova del danno nel senso che, come ben
illustrato dal consiglio di stato nella sentenza sez. VI 26.4.2000. n. 2490 “la
potenzialità lesiva del provvedimento invalido sul patrimonio del soggetto titolare di
posizioni d'interesse legittimo, pur potendo dar luogo a riparazione del danno, anche
mediante risarcimento in forma specifica, non comporta l'accoglibilità della domanda
generica a conseguire il risarcimento, occorrendo insieme all'identificazione concreta
della situazione soggettiva lesa, la puntuale dimostrazione da parte del concorrente che
ha conseguito l'annullamento dell'aggiudicazione ad un terzo dell'esistenza del danno
patrimoniale e del nesso eziologico con i provvedimenti illegittimi annullati”. (Cfr.
anche Cass. Civ. 3 luglio 1997 n. 5995)
.
18
: Ex multis, Cass. 1-6-1993, n. 6109, in Foro it. Rep., 1993, Danni civili, 56.
Cfr. in senso conforme v. anche cass. sez. III civ. 18.11.2003 n. 17.429 in Foro It , 2004 parte I, col
766; cass. sez. III civ. 24.10.2003 n. 16.004 in Foro It. 2004, parte I col. 781 e ss.; cass. sez. III civ.
19.8.2003 n. 12.124 in Foro it. 2004 col 434, e, quale anticipatrice delle sentenze della cassazione del
maggio 2003, v. Corte di Appello di Milano 14.2.2003 in Diritto e Giustizia, 2003 pagg. 47 e ss., ma già
Corte Cost. 372/94 rilevava che “è sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno ossia la
dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c.
costituito dalla diminuzione o privazione di un valore personale non patrimoniale alla quale il
risarcimento deve essere equitativamente commisurato”. In punto v. anche la nota di Carlo Bona “La
morte del danno-evento” in Foro It. 2004 parte I col 782 e ss..
20
Pubblicata in Guida al diritto n. 1/2005 pagg. 34 e ss.
19
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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E la comune ascrizione dell’illecito commesso dall’amministrazione
nell’esercizio dell’attività provvedimentale allo schema della responsabilità
extracontrattuale implica che incombe al ricorrente (presunto danneggiato) l’onere di
dimostrare l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale, la sua riconducibilità eziologica
all’adozione del provvedimento illegittimo e la sua misura (v. c.d.s. sez. V 25.1.2002 n.
416) Né tale distribuzione dell’onere della prova può ritenersi circoscritta alle sole
controversie risarcitorie riferibili ad un ambito di giurisdizione esclusiva atteso che la
domanda di risarcimento dei danni, anche quando è pertinente alle lesione di interessi
legittimi, resta soggetta alle regole che presiedono il giudizio sui diritti.
Ne consegue che il ricorrente non potrà limitarsi ad addurre l’illegittimità
dell’atto valendosi, ai fini della sua quantificazione, del principio dispositivo con
metodo acquisitivo e, quindi, della sufficienza dell’allegazione di un principio di prova,
ma dovrà compiere l’ulteriore sforzo probatorio di documentare il pregiudizio
patrimoniale del quale chiede il ristoro nel suo esatto ammontare pur con i limiti
ontologici dell’assolvimento di tale onere. In merito al contenuto della richiesta è stato,
peraltro, precisato che poiché l’annullamento dell’atto illegittimo può determinare da
solo l’integrale riparazione delle sue conseguenze lesive, compete al ricorrente provare
che la rimozione del provvedimento non soddisfa di per sé l’interresse azionato e che
residua un danno ulteriore nella sua sfera patrimoniale non interamente reintegrato per
effetto della caducazione dell’atto (v. Tar Calabria Reggio Calabria sent. n. 213/2001).
Come già rilevato, tuttavia, quando la lesione lamentata concerne interessi
pretensivi o procedimentali (come in materia di appalto) la dimostrazione della misura
del danno patrimoniale patito dal privato si rivela difficile se non impossibile.
A fronte, infatti, di una mancata aggiudicazione risulta estremamente arduo
definire l’esatto ammontare della perdita economica patita dall’interessato anche se va
ricordato che la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto applicabili al processo
amministrativo avente ad oggetto diritti soggettivi, come quello al risarcimento del
danno ingiusto, le regole probatorie di cui all’art. 115 c.p.c. ossia la possibilità di porre a
fondamento della decisione nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza senza
bisogno di prova alcuna in punto.
Passando, ora, ad un esame più dettagliato delle singole voci del risarcimento del
danno per equivalente va osservato che:
I) Per la voce del danno emergente non si pongono particolari problemi
nell’assolvimento dell’onere della prova (generalmente è sufficiente documentare le
spese sostenute; meno agevole è il discorso per le spese sostenende) anche se è
opportuno citare alcune decisioni per dare indicazioni utili e pratiche.
Così, per esempio, sono state ritenute risarcibili: a) le spese o i costi sostenuti
per la preparazione dell’offerta e per la partecipazione alla procedura di aggiudicazione
(cfr. art. 2, 7° comma, della direttiva del consiglio delle Comunità europee del 25
febbraio 1992 n. 92/13/Cee); b) l’inutile immobilizzazione di risorse umane e mezzi
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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tecnici; c) le spese legali sopportate per ottenere l'annullamento di un provvedimento
amministrativo in sede di autotutela, non essendo esclusa la qualificazione di tali spese
come danno risarcibile, per il solo fatto che esse si riferiscono ad un procedimento
amministrativo. (c.d.s sez. I 23.7.2004 n. 13.801).
II) Quanto, invece, al lucro cessante, vi sono rilevanti difficoltà dal momento
che per avere accesso a tale risarcimento il privato deve dimostrare non solo che la sua
sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto illegittimo ma che non si è
accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse
stato adottato o eseguito.
Tale ultima dimostrazione presenta implicazioni di notevole complessità
attenendo a profili prognostici difficilmente apprezzabili nella effettiva consistenza ed
attendibilià. Soccorre, allora, l’applicazione di criteri presuntivi di determinazione del
quantum, certamente invocabili dal privato in presenza di aspettative di ampliamento
della sua sfera giuridica e patrimoniale Si tratta di presunzioni semplici che indicano,
secondo la comune esperienza, parametri valutativi sufficientemente puntuali dell’entità
della perdita economica patita dal privato per effetto dell’adozione dell’atto illegittimo
ovvero della colpevole inerzia dell’amministrazione.
Perché sia ritualmente assolto l’onere della prova, è, tuttavia, necessario che il
ricorrente danneggiato alleghi gli elementi di fatto e gli indizi sulla cui base possono
individuarsi i parametri presuntivi di determinazione del danno.21
L’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno
è stata avvertita sia dalla giurisprudenza – che ha individuato un preciso canone
indiziario per la determinazione di un pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione
di successo in una procedura concorsuale (cfr. Cds sez. VI 7.8.2003 n. 4567 secondo la
quale il criterio legale che quantifica l'utile di impresa nella misura del 10%, è un
criterio meramente presuntivo che è suscettibile di essere disatteso caso per caso ove
l'utile risulti provato in una misura differente, superiore o inferiore ma in punto v.
oltre),- sia dallo stesso legislatore laddove ha definito, con l’art. 35 d. lgs. N. 80/98, un
peculiare metodo di liquidazione di parametri valutativi indeterminati o quando ha
previsto all’art. 17 comma 1 l. 15.3.1997 n. 59 la definizione di “forme di indennizzo
automatico e forfetario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento … per i casi di
mancato rispetto del termine del procedimento o di mancata o ritardata adozione del
provvedimento stesso”.
c.d.s. sez. VI 4.8.2003 n. 4567 ha rilevato che “In sede di illegittima esclusione da appalto, il danno
all'immagine professionale dell'impresa è risarcibile solo se vi sia la prova specifica che l'esclusione ha
recato un nocumento all'immagine, alla professionalità, all'esperienza dell'impresa, ad esempio
precludendo all'impresa ulteriori appalti in cui occorre dimostrare una specifica esperienza nell'ambito
della quale non si può sfoggiare l'appalto non aggiudicato, e senza tralasciare che l'annullamento
giurisdizionale dell'esclusione è già di per sè una forma di ristoro in forma specifica di tale danno
all'immagine”.
21
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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Merita, infine, avvertire in ordine al tema trattato che non può valere a sollevare
la parte gravatavi dall’onere della prova del danno, il ricorso, anche su istanza del
ricorrente alla c.t.u. d’ufficio (pure ormai utilizzabile dal giudice amministrativo), posto
che tale accertamento non si configura come un mezzo di prova in senso tecnico e può
essere disposto solo al fine di acquisire apprezzamenti tecnici altrimenti non formulabili
dal giudice ma non può servire ad ottenere gli elementi che compongono il danno
lamentato e, quindi, la sua dimostrazione (cds sez. IV 14.6.2001 n. 3169)
La ctu si presenta come la più importante novità in materia probatoria del
processo amministrativo acquisita con notevole ritardo rispetto ai processi delle altre
giurisdizioni . Certo la c.t.u. è un mezzo istruttorio e non una vera e propria prova (cass.
sez. II 21.7.2004 n. 13.593), ed è indispensabile mezzo di verifica di dati e valutazioni
prettamente tecnici. In buona sostanza la c.t.u. consente di superare gli ostacoli che in
passato impedivano il sindacato del giudice amministrativo sugli accertamenti e sulle
valutazioni tecnico-discrezionali che non erano superati dalla possibilità di disporre le
verificazioni previste nell’originario articolo 44 del t.u. delle leggi sul consiglio di stato.
Ne consegue che con la ctu è possibile verificare la correttezza delle valutazioni
tecniche della p.a. verifica che in precedenza era preclusa perché ritenuta attinente ai
profili di discrezionalità tecnica. In ogni caso la C.T.U. non può avere fini esplorativi
(cass. 10.7.2004 n. 12.809).
Ma a prescindere dall’utilizzo della c.t.u. per valutare la legittimità dell’atto
amministrativo la stessa c.t.u. potrà essere utilizzata per la determinazione o del nesso
causale o del quantum del danno risarcibile in quest’ultimo caso evitando al giudice di
ricorrere al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c. per esempio laddove il ricorrente
abbia fornito o allegato dati sufficientemente specifici sull’an ma sussistano difficoltà
nella determinazione del quantum (es. si producono i bilanci dai quali emergono perdite
in corrispondenza del fatto illecito in oggetto ma non si riesce a verificare se e in quali
termini quantitativi tali perdite derivino da crisi di mercato o dalla illecita condotta della
P.a.).22
Talvolta la ctu può non essere necessaria come, per esempio, nel caso esaminato
da cds sez. VI 7.8.2003 n. 4567 ove si è statuito che per quantificare l'utile di impresa in
sede di giudizio risarcitorio il giudice si attiene alle risultanze della perizia di parte,
22 Va ricordata la distinzione concettuale elaborata dalla giurisprudenza civile tra consulente deducente
cui il giudice affida l’incarico di valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti e consulente
percipiente, chiamato invece ad accertare i fatti stessi. Nel primo caso la consulenza presuppone l’avvenuto
espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione di fatti i cui elementi sono già stati
completamente provati dalle parti; nel secondo caso la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva
di prova, senza che questo significhi, tuttavia, che le parti possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere
l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente. In questo secondo caso è necessario, infatti, che
la parte quanto meno deduca il fatto che pone a fondamento del proprio diritto e che il giudice ritenga che
il suo accertamento richieda cognizioni tecniche che egli non possiede o che vi siano altri motivi che
impediscano o sconsiglino di procedere direttamente all’accertamento (Cass., sez. un., 04-11-1996, n.
9522).
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senza disporre C.T.U., a fronte della mancata contestazione della perizia di parte ad
opera del contraddittore, e dell'attendibilità della perizia medesima, che non rende
necessaria un'ulteriore verifica tecnica di ufficio. (in punto cfr. anche cass. 25.11.2003 n.
17.940 ove il danno per l’illegittima cancellazione dall’albo dei costruttori è stato
qualificato come danno per perdita di chances e per i profili probatori si è affermato che
la misura del danno può essere provata attraverso una consulenza tecnica, senza che
possa opporsi in contrario il carattere «probatorio» che finirebbe con l’avere in tal caso
l’indagine tecnica; in mancanza di una consulenza tecnica, il giudice di merito potrebbe
procedere anche in via equitativa, trattandosi di danno «estremamente difficile da
provare, per sua natura, nel suo preciso ammontare» (Cass. 25 novembre 2003, n.
17940, cit.).
Va segnalato, peraltro, che la giurisprudenza amministrativa appare ancora
preferire valutazioni equitative alla c.t.u. (v. cds sez. IV 27.10.2003 n. 6666).
3.b1 – Determinazione del danno per perdita di chances
La più evidente ed importante applicazione del ricorso a criteri presuntivi per la
quantificazione del danno è rinvenibile nell’elaborazione giurisprudenziale in materia di
valutazione del pregiudizio connesso a perdita di chances.
Si tratta dei casi nei quali il ricorrente ha perso l’occasione di aggiudicarsi un
appalto (o di vincere un concorso) per effetto dell’illegittima selezione di un altro
concorrente o della propria indebita esclusione dal procedimento.
L’orientamento ormai maggioritario della Suprema Corte di cassazione ammette
la chance come un’entità patrimoniale autonoma, giuridicamente ed economicamente
suscettibile di valutazione facente parte del patrimonio del soggetto, la cui perdita
integra non un danno futuro ma un’ipotesi di pregiudizio attuale conseguente
all’impossibilità di ottenere un risultato utile e qualificabile come danno emergente 23.
Ciò significa che la chance di conseguire un determinato risultato utile non è una
mera aspettativa di fatto – ammettendosi comunque il risarcimento della chances
ragionevolmente fondate o statisticamente probabili - e la sua perdita costituisce una
lesione del patrimonio del soggetto risarcibile come conseguenza immediata e diretta o
del fatto illecito del terzo o dell’inadempimento del danneggiante.24
Pare, pertanto, superata, quanto meno nella giurisprudenza civile, la concezione
della perdita di chance come ipotesi di danno patrimoniale futuro ed eventuale - che
23
Cfr., da ultimo, cass. sez. III civ. 4.3.2004 n. 4.400 in Guida al Diritto 2004 n. 16 pag. 56; cass. sez. III
civ. 17.12.2003 nel sito internet giustizia.it voce “giurisprudenza civile”, anno 2004 e cass. sez. III civ.
21.7.2003 n. 11332 in Foro it 2004, col. 156 e ss..
24
Per il risarcimento del danno da perdite di chance in tema contrattuale v. cass. 18.3.2003 n. 3999.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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invece
continua
ad
essere
accolta
nella
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giurisprudenza
amministrativa25.
In tal senso, infatti, si è ben spiegato che il danno da perdita di chance, inteso
come danno presente associato alla perdita di ottenere un risultato favorevole, si
differenzia dal danno futuro legato al mancato conseguimento dello stesso. Per fare un
esempio, il danno da mancata promozione - configurabile quando a seguito
dell’espletamento di regolare procedura concorsuale il lavoratore sarebbe stato
certamente incluso nella lista dei promossi – va distinto dal danno da perdita di chance
collegato alla perdita di una probabilità non trascurabile di conseguire la promozione.
Proprio seguendo tale orientamento, in un caso relativo all’illegittima esclusione
di un’impresa da una gara di appalto di lavori pubblici, il giudice amministrativo ha
ritenuto che la domanda di risarcimento fondata sulla mancata aggiudicazione non
potesse essere accolta non essendovi alcuna certezza se l’amministrazione non fosse
incorsa nell’illegittimità censurata che l’appalto sarebbe stato aggiudicato alla ditta
illegittimamente esclusa ed ha, invece, accolto la domanda sotto il titolo minore della
perdita di chance di conseguire l’aggiudicazione non potendosi escludere la possibilità
che ove la gara si fosse svolta regolarmente l’impresa ricorrente sarebbe risultata
vincitrice26
Qui, incidenter tantum, va segnalato il problema processuale relativo alla
possibilità per il giudice di interpretare la domanda di danni da lucro cessante come
domanda di danni emergenti da perdita di chance in assenza di domanda subordinata
specifica.
Ma ritornando, ora alla quantificazione del danno da perdita di chances va
osservato che il contenuto di tale voce cambia notevolmente:
a) se si accede o meno alla qualificazione come precontrattuale della
responsabilità dell’amministrazione per illegittima conduzione di una procedura di
evidenza pubblica.
a.1) Se si ravvisano, infatti gli estremi della culpa in contrahendo di cui agli artt.
1337 e 1338 c.c. si deve, infatti, limitare l’area del pregiudizio risarcibile al solo
interesse negativo : composto dalle spese sostenute per partecipare al procedimento e
dalla perdita di occasioni di guadagno alternative con esclusione, quindi, del mancato
conseguimento dell’utile ricavabile dall’esecuzione dell’appalto di cui si discute.
a.2) Se, invece, la violazione delle regole che presiedono alla corretta
conduzione delle procedure ad evidenza pubblica viene ascritta allo schema astratto
dell’illecito aquilano o anche alla diversa ipotesi della responsabilità da contatto
qualificato (entrambe conclusioni più plausibili della prima e coerenti con le pregnanti
25
In modo conforme si è pronunziato Cons Stato sez. V 22.1.2003 n. 247 in Giur. It., 2003, 1029 e Cons
Stato sez. V 16.1.2002 in Rep. Foro it., 2002 , 227.
26
V. TRGA Trentino –Aldo Adige sez. Bolzano 20.12.2001 n. 382.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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esigenze di tutela postulate dall’ordinamento comunitario in tema di competizioni
concorrenziali per l’accesso agli appalti pubblici) si deve conseguentemente ritenere
risarcibile anche l’interesse positivo e cioè nella voce relativa al lucro cessante, la
perdita del guadagno connesso all’esecuzione dell’appalto.
b) se la perdita di chance viene qualificata come danno emergente o danno da
lucro cessante: infatti nel primo caso la perdita di chance sarà risarcibile anche
nell’ipotesi di responsabilità precontrattuale della P.A. nel secondo caso no rientrando
nel cd. interesse positivo.
La giurisprudenza amministrativa in merito è oscillante: una parte delle
sentenze riconosce il danno da perdita di chance quale danno da responsabilità
precontrattuale mentre altri arresti lo escludono (v. per la risarcibilità del solo
interesse negativo cfr. Tar Campania-Napoli, sez. I, sent. n. 11259 del 26 agosto
2003, Pres. Coraggio, Est. Carpentieri il quale ha statuito che “In tale ipotesi, va
condannata al risarcimento del danno, a titolo di responsabilità precontrattuale e
nei limiti del c.d. interesse negativo, una p.a. che abbia pubblicato un bando di gara
illegittimo ed abbia celebrato e concluso la procedura di gara, giungendo a
ingenerare nell’impresa rimasta aggiudicataria, che aveva partecipato alla gara in
buona fede, il legittimo affidamento sulla legittimità degli atti e sulla validità dello
stipulando contratto”).
Certo è che se si volesse rigorosamente applicare in toto l’art 1337 c.c. così come
interpretato dalla giurisprudenza della cassazione non dovrebbe mai essere riconosciuto
il risarcimento del danno da perdita di chances al partecipante alla gara illegittimamente
escluso o al partecipante alla gara caratterizzata da atti amministrativi illeciti: soluzione,
pervero, assai più restrittiva rispetto a quella proposta da cass s.u. 500/99 che collocava
la responsabilità della p.a. all’interno dell’art. 2043 c.c. con conseguente possibilità di
risarcimento del danno da perdita di chance.
Né si dica che tale problema sorge a causa della qualificazione della
responsabilità precontrattuale quale responsabilità contrattuale in quanto anche laddove
si volesse qualificare tale responsabilità come extracontrattuale il problema si porrebbe
sempre sussistendo, comunque, il limite di cui all’art. 1337 c.c..
Per ricondurre il sistema ad equità bisogna, allora, a mio parere verificare se
l’applicazione della responsabilità di cui all’art. 1337 c.c. al campo amministrativo vada
modellata sulle particolari esigenze situazioni che connotano tale settore rispetto al
settore civile.
Infatti in ambito civilistico la limitazione del risarcimento del danno al cd.
interesse negativo trova spiegazione nel fatto che non vi è alcun obbligo per la parte che
recede dalle trattative di stipulare il contratto sicché in caso di responsabilità
precontrattuale non può rientrare tra i danni risarcibili l’utile che il soggetto avrebbe
conseguito se il contratto fosse stato stipulato. E del resto la ratio della responsabilità
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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precontrattuale è quella di ricondurre il soggetto che ha subito il recesso dalle trattative
della controparte nella stessa situazione nella quale si sarebbe trovato se non avesse
partecipato alle predette trattative.
Nel campo amministrativo, invece, soprattutto nel settore relativo alle gare, la
p.a. una volta disposta una gara deve seguire una ben precisa procedura (determinata dal
bando che ne costituisce lex specialis) che conduce inevitabilmente la p.a.
all’individuazione del contraente mediante aggiudicazione ed alla successiva stipula del
contratto sicché colui che si inserisce in tale gara non ha delle mere aspettative limitate
alla correttezza della p.a. nello svolgimento della gara bensì anche aspettative di
aggiudicarsi la gara e, quindi, stipulare il contratto. Da qui scaturisce la sussistenza nel
patrimonio del soggetto di una chance di aggiudicazione della gara - che non può essere
rapportata nel settore civilistico alla insussistente chance del soggetto di stipulare il
contratto – e la possibilità ovvero la compatibilità nella responsabilità precontrattuale
nei confronti della p.a. per atto illegittimo del risarcimento del danno da interesse
positivo quale la perdita di chance.
E si badi bene che tale diritto riguarda tutta la fase della procedura
amministrativa sino alla stipulazione del contratto. Opinare diversamente
significherebbe pervenire ad un risultato assurdo per il quale dopo l’aggiudicazione in
caso di atto illegittimo ed illecito della p.a. il soggetto privato avrebbe diritto solo al
risarcimento del danno da perdita del cd. interesse negativo mentre per atti illegittimi
perpetrati nella fase antecedente l’aggiudicazione il soggetto avrebbe diritto al
risarcimento del danno a perdita di chance.
Residuerebbe, invece, per motivi di omogeneità del sistema l’applicazione della
limitazione del danno ex art. 1337 c.c. al cd. interesse negativo nel caso di assenza di
chance, di trattativa privata laddove la p.a. agisca uti privatus o nel caso di danno da atto
lecito ossia allorquando per esempio la P.a. dopo aver regolarmente svolto una gara ed
essere pervenuta all’aggiudicazione non abbia potuto abbia dovuto emettere un atto
legittimo di diniego di approvazione dell’aggiudicazione per insussistenza dei fondi
necessari per la realizzazione dell’opera: ciò, però, nel caso in cui la P.a. fosse sin
dall’inizio o dall’indizione della gara a conoscenza della carenza di fondi perché nel
caso in cui la p.a. la situazione sia sorta solo dopo l’aggiudicazione per fatti non
imputabili alla p.a. allora nessun danno spetta al soggetto privato.
Da ultimo va, però, rilevato che il cds con la recente sentenza sez. V 3.8.2004 n.
5540 sembra aver ridotto – se non addirittura eliminato – a livello teorico generale
l’ambito di operatività del danno da perdita di chance.
In particolare con il suddetto arresto l’organo della suprema giustizia
amministrativa ha statuito che allorquando si è annullata l’intera procedura ivi compresa
l’aggiudicazione - sicché si impone il riesame delle singole offerte ed una
rideterminazione della Amministrazione - non sussistono elementi certi di danno da
risarcire in quanto il riconoscimento dell’esigenza di rinnovazione delle operazioni
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valutative anche sotto il solo aspetto della loro compiuta esternalizzazione reca
soddisfacimento integrale per ogni interesse consistente nella pretesa ad una corretta
procedura di evidenza pubblica.
Tale conclusione, di per sé, appare sostanzialmente corretta (soprattutto nel caso
in cui l’amministrazione abbia proceduto a rivalutare le singole offerte ) sennonché non
può condividersi il ragionamento speso dal cds per motivare la conclusione. Il cds,
infatti, così spiega la decisione: “si può valutare la perdita di un provento certamente
conseguibile o favorevoli occasioni perdute unicamente se nel concreto e necessario
esame del caso sia riconoscibile un danno consistente nell’omessa aggiudicazione della
gara o nell’omessa stipulazione del contratto. In questi casi l’impossibilità di far luogo
alla reintegrazione in forma specifica dà luogo al risarcimento in forma equivalente.
Ciò può darsi, perciò, nelle ipotesi di annullamento dell’aggiudicazione pronunziata
dall’amministrazione con automatico subingresso nella posizione di aggiudicataria
dell’impresa meglio classificata. Laddove, invece, l’annullamento comprende tutte le
operazione di selezione dei concorrenti e la graduatoria la posizione del partecipante
alla gara é divenuta quella di ogni altra impresa concorrente la cui offerta deve essere
oggetto di apprezzamento: di qui l’inconfigurabilità di un danno da perdita di
chance.”. Appare evidente dalla semplice lettura della motivazione l’errore
nell’identificare il danno da perdita di chance, inteso come danno presente associato alla
perdita di ottenere un risultato favorevole, con il danno futuro legato al mancato
conseguimento dello stesso.
3b.2 - I criteri di quantificazione della perdita di chances
Ma chiarito quanto sopra si impone ora la necessità di provvedere alla
determinazione di criteri valutativi astratti e presuntivi della misura del pregiudizio
risarcibile .
La giurisprudenza amministrativa si è fatta carico di quest’onere ed ha
individuato nell’art. 345 della l. 20.3.1865 n. 2248 all. F - ora sostanzialmente
riprodotto dall’art. 122 del regolamento emanato con d.p.r. 554/99- un prezioso
riferimento positivo laddove quantifica nel 10% dell’importo dell’appalto (importo a
base d’asta per come eventualmente ribassato dall’offerta dell’impresa interessata) la
somma da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo
dell’amministrazione nella determinazione forfetaria ed automatica del margine di
guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici.
Lo stesso cds con sentenza 18.12.2001 n. 6821 ha, poi, precisato,
condivisibilmente che “La tecnica del risarcimento per equivalente della perdita di
chance - mediante determinazione dell'utile conseguibile in caso di vittoria, scontato
percentualmente in base al numero dei partecipanti alla gara o concorso - è di
complessa applicazione quando una gara non c'è mai stata, - come accade in caso di
illegittimo affidamento a trattativa privata - sicché occorre ipotizzare in via di medie e
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presunzioni quale sarebbe stato il numero presumibile di partecipanti alla gara, se gara
vi fosse stata (sulla base dei dati relativi a gare similari indette dal medesimo ente), e di
dividere l'utile di impresa (quantificato in via forfetaria in misura pari al 10% del
prezzo base dell'appalto) per il numero presuntivo di partecipanti: il quoziente
costituisce la misura del danno risarcibile”.
Non può, però, ignorarsi che la giurisprudenza riconosce la spettanza nella sua
interezza dell’utile d’impresa nella misura del dieci per cento qualora l’impresa possa
documentare di non aver potuto utilizzare le maestranze ed i mezzi, lasciati disponibili,
per l’espletamento di altri servizi (da ultimo v. c.d.s. SEZ. V 27.9.2004 n. 6302). Nel
caso in cui, invece, tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l’impresa
possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri
analoghi lavori (o servizi o forniture), così vedendo in parte ridotta la propria perdita di
utilità; in tale ipotesi il risarcimento può essere ridotto in via equitativa, in misura pari al
cinque per cento dell’offerta dell’impresa27 .
Alla giurisprudenza che, meccanicamente, quantifica il danno risarcibile
suddividendo l’utile presumibilmente conseguibile in caso di aggiudicazione per il
numero dei partecipanti, si contrappone un’interpretazione più attenta alle specifiche
circostanze del caso in esame. In tal senso, v. Tar Friuli-Venezia Giulia 28 ottobre 2002,
n. 824, Foro amm.-Tar, 2002, 3148, secondo cui il danno per perdita di chance non può
essere quantificato in maniera forfetaria, suddividendo l’utile di gara per il numero dei
partecipanti, così risarcendosi solo un’astratta possibilità di un risultato utile, ma spetta
esclusivamente qualora si provi — sia pure per presunzioni, fondate su circostanze
fattuali valide e certe — una concreta probabilità di conseguirlo. Cons. Stato, sez. V, 22
gennaio 2003, n. 247, cit., e Trga Trentino-Alto Adige, sez. Bolzano, 20 dicembre 2001,
n. 382, cit., hanno ritenuto congruo quantificare il danno da perdita di chance, ex art.
1226 c.c., sulla base delle spese connesse alla partecipazione alla gara e di una
percentuale di utile presunto pari al dieci per cento dell’importo dell’offerta, diminuito
di un coefficiente di riduzione, determinato equitativamente, proporzionato al grado di
probabilità teorica di conseguire l’aggiudicazione.
Diverso dal danno da perdita di chances suddetto è il danno da perdita di chance
legata all’impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico
legato all’esecuzione dei lavori: danno che va liquidato in via equitativa.
Ulteriore conferma positiva della validità di tale criterio presuntivo si può
rinvenire nell’art. 37 septies comma 1 l. 109/94 laddove prevede in materia di project
financing, che nelle ipotesi in cui la concessione sia risolta per inadempimento del
concedente o revocata per motivi di interesse pubblico, al concessionario spetti un
27
cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 luglio 2002, n. 3796, id., Rep. 2002, voce Opere pubbliche, n. 693; 24
ottobre 2002, n. 5860, ibid., voce Contratti della p.a., n. 271; v. pure Cons. Stato, sez. V, 18 novembre
2002, n. 6393, che esclude l’utilizzo dell’art. 345 l. 2248/1865, all. F ove non sia fornito un principio di
prova sulle opportunità alternative alle quali l’interessato ha dovuto rinunciare.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% delle opere
ancora da eseguire.
Appare opportuno, infine, ricordare che, in ogni caso, non sussiste alcun diritto
al risarcimento del danno per chance perduta nel caso di concorrente non aggiudicatario
di gara pubblica che, a seguito di annullamento della graduatoria da parte del g.a.
ottenga di partecipare ad una nuova valutazione delle offerte (in tal senso si espresso cds
sez. V 3.8.2004 n. 5440).
************************
4. - Il danno non patrimoniale
L’attenzione va certo oggi alle forme per così dire nuove di responsabilità che
vanno estendendosi anche nei confronti della p.a.: si pensi al danno esistenziale
ammesso nei confronti della p.a. da Tar Lazio, II ter, 7aprile 2004, n. 3266.
Prima di procedere, però, all’esame del danno non patrimoniale appare
opportuno, per motivi di ordine e chiarezza, fare un contenuto riferimento al concetto di
danno alla persona in epoca anteriore al maggio 2003 individuando in tale data, per i
motivi sopra detti, la linea di displuvio.
4.a – Il danno alla persona prima del maggio 2003.
Dopo la nascita, in ambiente medico-legale, del danno biologico ed il suo
consolidamento nel danno alla salute, per effetto della ormai nota sentenza della Corte
Costituzionale n. 184 del 1986, il danno si era concretizzato in tre componenti: il danno
patrimoniale, consistente nella perdita del reddito o negli esborsi occasionati dal
sinistro, il danno alla salute di valenza non reddituale, liquidato secondo parametri
tabellari progressivamente andatisi affinando, ed il danno morale risultante dallo stretto
collegamento tra l’art. 2059 c.c. e l’art.. 185 c.p..
Tra il danno patrimoniale ed il danno morale si collocava, pertanto, il danno alla
salute che, pur avendo ad oggetto perdite di carattere non reddituale, veniva risarcito in
applicazione dell’art. 2043 c.c., letto in modo coordinato con l’art. 32 della Costituzione
stante la rigorosa interpretazione data alla riserva di legge di cui all’art. 2059 c.c..
Nel danno alla salute, inoltre, nonostante alcune iniziali divergenze, si riteneva
assorbita una pluralità di voci, quali il danno alla vita di relazione, il danno da lesione
estetica privo di incidenza reddituale, il danno sessuale ed il danno da lesione della
capacità lavorativa generica28: nato dall’esigenza di razionalizzare una materia in
28
In ordine alla lesione alla capacità lavorativa generica si consideri che il Tribunale di Brescia sino a
pochi anni or sono riteneva inclusa tale lesione sino ad invalidità permanenti inferiori all’11% mentre ne
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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espansione il danno alla salute era così diventato un grande contenitore nel quale si
erano unificate varie voci di danno.
Con il passare del tempo, poi, si è consolidata la esigenza di valutare il danno
alla salute mediante un obiettivo accertamento medico-legale giungendosi alla
conclusione che in tanto il danno alla salute sussiste in quanto un medico può stimare la
perdita di validità della persona per mezzo degli strumenti offerti dalla scienza medica.
A tal proposito va ricordato che nel 1994 con la sentenza n. 372 la Corte
Costituzionale ha affermato che anche il danno psichico subito dai sopravvissuti in
seguito all’illecita morte procurata ad un proprio congiunto costituisce danno non
patrimoniale alla salute iure proprio dei familiari, purché passibile di accertamento
medico-legale altrimenti si deve applicare il solo disposto dell’art. 2059 c.c.
ricorrendone le condizioni.
Certo in tal modo nell’intento di porre parametri oggettivi alla valutazione
discrezionale-equitativa del giudice si è finito per riversare sul medico legale
valutazioni di pertinenza del giudice in ordine a quei riflessi dannosi della lesione che
operano in campi esulanti da quello strettamente medico – ossia quello relativo al corpo
ed alla mente umana intesi come corpus mechanicum capace di una propria funzionalità
- ma ricompresi nel danno alla salute (si pensi al problema della corretta definizione del
barème medico-legale) tanto che la Corte di Cassazione ha sentito la necessità di
chiarire che in tema di liquidazione equitativa del danno biologico, ed in ipotesi del
ricorso ai criteri standardizzati e predefiniti delle cosiddette tabelle, il giudice deve
procedere necessariamente ad un’opera di adeguamento delle stesse al caso concreto29.
In punto, però, giova soffermarsi sulla circostanza che nelle aule di giustizia, ma
più in generale tra gli operatori di diritto, sono sempre stati sottovalutati due aspetti di
enorme rilievo: la conoscenza dei criteri di formazione delle cd. tabelle del danno alla
salute applicate e la necessità di formulare al c.t.u. un quesito preciso e ben determinato.
Ci si è spesso accontentati di dare un quesito generico al c.t.u., (es. valuti la
percentuale di invalidità cagionata dal danno alla salute o biologico) - senza neppure
dare una definizione del danno alla salute tale da inquadrare ed orientare l’attività del
medico a fronte della presenza di varie definizioni divergenti in materia sia in ambito
giurisprudenziale che medico-legale - applicando poi con un criterio matematico alla
percentuale individuata dal medico legale (non si sa come e seguendo quale criterio di
individuazione di danno alla salute) il corrispondente valore tabellare senza, però,
chiedersi quali criteri erano stati seguiti nella formazione delle tabelle, se in queste
ultime si era considerato il danno alla salute limitatamente al mero aspetto lesivo psicofisico o anche a tutte le altre – o alcune - sfaccettature “relazionali” comprese nel
calcolava la perdita nella metà per invalidità sino al 20% e la riteneva esclusa gradualmente in tutti i danni
biologici con invalidità superiori al 20%.
29
cfr., da ultimo, cass. sez. III civ. 4.11.2003 n. 16.525 ma v. anche conformi cass. 4242/2003, 737/2003,
484/2003, 10980/2001, 10725/2001, 9182/2000, 4852/1999).
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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concetto di danno alla salute: ovviamente nel primo caso si sarebbe dovuto
“maggiorare” il punto o aggiungere un’ulteriore somma a quella tabellarmente
individuata, mentre nel secondo caso il giudice avrebbe dovuto procedere ad
un’adeguata e prudente maggiorazione laddove imposta dalla fattispecie concreta.
La vocazione onnicomprensiva del danno alla salute è andata, però,
attenuandosi a fronte, per un verso, dello stretto legame tra il danno biologico e l’attività
del medico-legale e, per altro verso, dell’emersione di una rinnovata valenza dei diritti
inviolabili dell’uomo diversi dal diritto alla salute e rientranti nella clausola generale
dell’art. 2 cost.. Entrambi i fenomeni hanno provocato una nuova proliferazione di voci
di danno - come il danno esistenziale, il danno da mobbing, il danno da vacanza
rovinata e più in generale il danno da stress30 - che postulano un concetto di salute
inteso come benessere psicofisico – e, quindi, diverso dall’assenza di malattia31 - e che
comportano disagio e turbamento soggettivo ma soprattutto incidono sulle attività
realizzatrici della persona.
Tuttavia l’interpretazione sedimentata nel tempo sulla portata della riserva di
legge prevista dall’art. 2059 c.c. , secondo la quale occorreva che la norma primaria
contemplasse espressamente la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale,
aveva portato a rafforzare il collegamento tra l’art. 2059 c.c. e l’art. 185 c.p. con il
risultato che ogni possibilità di impiego della responsabilità civile per la protezione di
qualsiasi lesione produttiva di conseguenze non strettamente patrimoniali doveva
trovare soluzione nell’art. 2043 c.c., ivi compreso il cd. danno esistenziale per il quale
raramente si è posto il problema della sua natura non patrimoniale.32
Addirittura lo stesso danno alla salute è stato in un primo tempo collocato tra i
danni patrimoniali, poi tra i danni-base o evento, poi ancora nel concetto di tertium
genus di danno, e, infine, tra i danni in re ipsa33, per i quali la patrimonialità o la non
patrimonialità esprimerebbe una qualità ininfluente, attenuandosi così il carattere
selettivo del doppio filtro di cui all’art. 2043 c.c. basato sul danno ingiusto e sul danno
patrimoniale.
Nonostante la presenza di alcune “certezze” (danno patrimoniale, danno morale,
danno biologico e liquidazione di quest’ultimo mediante tabelle) lo stato della
giurisprudenza si presentava, comunque, confusionale soprattutto in tema di sussistenza
o no del cd. danno “esistenziale” e dei rapporti del medesimo con il danno morale ed il
Per un’ampia casistica e per più approfondite riflessioni sul tema v. Franzoni, “Il danno esistenziale
come sottospecie di danno alla persona” in Resp. civ. 2001, 777 e ss.
31
Secondo la nozione di salute elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: organismo
riconosciuto dal nostro ordinamento con d. lgs. 4.3.1947 n. 1968.
32
In punto solo Trib Milano 21.10.1999 in Resp. civ., 1999, 1335 ha individuato il danno esistenziale
come danno patrimoniale e come tale lo ha risarcito ex art. 2043 c.c.
33
In tal senso v. cass. sez. I civ. 7 giugno 2000 n. 7713 ove testualmente si statuisce che “la lesione di
diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione
(danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare
(danno conseguenza)…”
30
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danno biologico oltre che tema di individuazione dei criteri di liquidazione del danno
esistenziale; ed un eloquente rappresentazione del problema emerge, con nitida
chiarezza, dal questionario compilato dai giudici del circondario del Tribunale di
Milano pubblicato sulla rivista Danno e Responsabilità numero 8-9 del 2003. La
semplice lettura dei risultati di tale questionario è inquietante anche per l’operatore
giuridico perché manifesta una totale disomogeneità di orientamenti nello stesso
Tribunale tale da condurre a soluzioni nettamente divergenti pur a parità di condizioni in
una materia quale quella del risarcimento del danno ove la incertezza e la disparità di
trattamento che comporta l’inevitabile ricorso alla liquidazione equitativa del danno
assumono tinte insopportabili per quella credibilità del meccanismo assolutamente
necessaria alla sua accettazione da parte del sistema economico e sociale
Le sentenze della Corte di Cassazione del maggio 2003
Con le sentenze del maggio 2003 in tema di danno non patrimoniale vi è
un’inversione di rotta sul modo di interpretare il rinvio alla legge contenuto nell’art.
2059 c.c..34 In particolare il rinvio viene inteso in senso estensivo secondo un modello
più ampio di quello previsto dall’art. 185 c.p. ragione per cui quando siano lesi diritti
inviolabili riconducibili all’art. 2 cost. l’imperatività della norma costituzionale supera
la mancata menzione di una espressa e testuale previsione di risarcimento del danno.
Così la Cassazione precisa il suo dictum :“Una lettura della norma
costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite (quello di cui
all’art. 2059 c.c.) se la lesione ha riguardato valori inviolabili della persona
costituzionalmente garantiti”
In tal modo il danno patrimoniale torna ad essere quello che storicamente è
sempre stato, ossia la conseguenza della lesione di un diritto patrimoniale o la
conseguenza economica di una lesione di un diritto non patrimoniale (il cd. “danno
patrimoniale indiretto”), mentre il danno non patrimoniale diventa la conseguenza della
lesione di un diritto non patrimoniale della persona di rilievo costituzionale.
4.b - La limitazione del danno non patrimoniale.
34
Inversione, peraltro, confermata da cass. sez, III civile 19.8.2003 n. 12.124 e cass. sez. III civ. 11
novembre 2003 n. 16.946 entrambe in Foro it. 2004 col 434 e ss.; nonché cass. sez. III civ. 7.11.2003 n.
16.716 ove così testualmente si afferma “Due recenti sentenze della III sezione civile, la n. 8828/03 Pres. Carbone, est.
Preden) e la 8827/03 (Pres. Carbone, est. Amatucci) si sono occupate del ristoro del danno cd. parentale in due diverse situazioni.
La prima delle decisioni citate si occupa del danno parentale da lutto, subito dai familiari per la perdita del capo famiglia, la
seconda si occupa invece della perdita della serenità familiare per la nascita di un bambino menomato a seguito di grave
responsabilità medico professionale. Entrambe le decisioni hanno in comune la indicazione dei principi e la qualificazione della
species del danno, e della sua natura non patrimoniale, sotto l'ambito della norma dell'art. 2059 del codice civile, che viene, con
interpretazione innovativa, interpretata in senso estensivo avendo riguardo a valori della famiglia costituzionalmente protetti (cfr.
art. 2, 29 e 30 della Costituzione, tra di loro collegati), come avevano da tempo intuito i giudici del merito e la migliore
dottrina.Poiché la fattispecie in esame concerne analoga fattispecie, considerata nella prima delle due sentenze citate, con ampia
motivazione, che qui si condivide, non si ritiene opportuno riprodurre in esteso le argomentazioni, essendo sufficiente il richiamo al
principio di diritto, da ribadire in questa sede, secondo il quale nell'ambito dell'art. 2059 del codice civile, possono trovare
collocazione e protezione tutte quelle situazioni soggettive relative a perdite non patrimoniali subite dalla persona umana, per fatti
illeciti determinanti un danno ingiusto e per la lesione di valori costituzionalmente protetti o specificatamente protetti da leggi
speciali.”.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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Con le sentenze poc’anzi citate si è pervenuti ad un lettura costituzionalmente
orientata dell’art. 2059 c.c. - che impone, di fatto, di rendere inoperante il limite della
riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. se la lesione riguarda valori della persona
costituzionalmente garantiti in quanto il riconoscimento nella Costituzione dei diritti
inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente ma
necessariamente ne esige la tutela ed in tal modo configura un caso determinato dalla
legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
Vi è, però, il rischio concreto di trasformare tale lettura in occasione di
incremento generalizzato delle poste di danno: in punto la Corte di cassazione resasi
consapevole di ciò ha lanciato un monito ma non è andata oltre.
E’ prevedibile, allora, una gemmazione di diritti e di correlate richieste di danni
che possono condurre ad un “overcompensation”35. Qualsiasi pregiudizio alla serenità
morale sarebbe in astratto risarcibile: così, ad esempio, la perduta possibilità di scrivere
lettere d’amore in base agli artt. 15 cost. e 2059 c.c. oppure di andare a passeggio ex
artt. 16 cost. e 2059 c.c. o di incontrarsi con gli amici ex artt. 18 cost e 2059 c.c., di
scrivere romanzi di appendice ex art. 21 cost e 2059 c.c..36
Si impone, pertanto, la necessità di fornire agli operatori del diritto indicazioni
sufficientemente precise all’interno delle quali selezionare i danni meritevoli di tutela
affinché i giudici possano integrarsi a pieno titolo in quel dialogo tra le corti nella
protezione dei diritti inviolabili che è la linfa vitale della loro tutela senza trasformare
però l’argine costituzionale in un “mero pretesto risarcitorio” che dai diritti della
persona sconfina nelle aspirazioni individuali e dai valori trascorre ai desideri.37
L’argomento è talmente ampio che non può ovviamente essere trattato
esaustivamente nella presente relazione: mi limiterò a dare alcuni spunti di riflessione .
** Non può ignorarsi che i diritti inviolabili della persona della cui lesione si
discute vanno individuati non solo attraverso la lettura della carta costituzionale ma
anche attraverso la lettura delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e dagli
atti internazionali38: si pensi, per esempio, alla convenzione europea dei diritti
dell’uomo.
** In secondo luogo va rilevato che “non tutti i diritti riconosciuti e garantiti
dalla costituzione (o dalle legislazione internazionale) possono essere considerati per
ciò solo come inviolabili” (corte cost. 109/71). D’altro canto l’espressione “diritti
Sul concetto di “overcompensation” v. Ponzanelli in “La responsabilità civile: profili di diritto
comparato” Milano 1993.
36
Ma il problema si era già creato a proposito dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.
2043 c.c. cfr. Trib. Roma ord. 22.6.2002 in Foro it. 2003 parte I col 2882.
37
In questo senso v. anche Flavio Peccenini in Diritto e Giustizia, n. 24 del 2003 pagg. 25 e ss..
38
Cfr. Elisabetta Navarretta “Danni non patrimoniali: il dogma infranto ed il nuovo diritto vivente” in
Foro it., 2003 parte I, col. 2227.
35
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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inviolabili della persona” evoca i diritti fondamentali della persona in quanto tali
inviolabili perché oltre ad essere posti a fondamento della democrazia sono sottratti al
potere revisionale costituzionale diversamente da altri diritti – come la proprietà e la
libera iniziativa economica – che pur dando una fisionomia all’ordinamento
democratico hanno, però, soltanto la cd. garanzia di istituto sicché opportunamente la
Corte di Cassazione ha espressamente menzionato i diritti inviolabili inerenti alla
persona (come vertice valoriale del nostro ordinamento) e non aventi natura economica.
In tal senso per esempio non potrà mai essere riconosciuto un danno non patrimoniale
ex artt. 2059 c.c. e 36 cost. per il mancato versamento di alcune limitate mensilità
retributive ad un lavoratore (salvo che vi sia in punto un’espressa previsione
legislativa)39.
Anche se bisogna prendere atto che recentemente con la sentenza 26.11.2003 n.
14.333 la prima sezione della corte di cassazione40 in tema di responsabilità civile della
P.A. in caso di omessa pianificazione dell’area sulla quale erano decaduti i vincoli di cui
all’art. 2 l. 1187/1968 ha riconosciuto la possibilità del risarcimento dei danni non
patrimoniali causati dal protrarsi dello stato di incertezza sull’impiego del fondo.
Qui vi è il rischio che dilatando ogni concetto e “ricostruendo la fattispecie” in
maniera esasperatamente “antropocentrica” si arrivi a ravvisare sempre violazione di
diritti inviolabili: per esempio dalla violazione del diritto dominicale del proprietario del
fondo di conoscere la destinazione del fondo, diritto non certo inerente alla persona, si
arriva alla violazione dei diritti fondamentali della persona di cui all’art. 2 cost..
** Ma pure in tema di diritti costituzionali inerenti alla persona emerge la
necessità di chiarire il “peso” del diritto inviolabile specificando che lo stesso non può
essere determinato solo in astratto ed in via generale ma è dato anche da valutazioni
concrete soprattutto in tema di danni non patrimoniali ove particolare risalto deve avere
la selezione fondata sul tipo di interesse leso. Il giudice, dunque, sarà tenuto a valutare
in concreto se una condotta lesiva produca un’offesa tale da coinvolgere il diritto nella
sua dimensione inviolabile – ossia quegli interessi talmente vicini alla sfera dell’essere
che la loro lesione implicherebbe un attentato alla dignità umana41 - sicché laddove vi
siano lesioni di rilevanza minima difficilmente le stesse potranno superare il vaglio in
quanto in tali casi si rende dubbia anche la stessa serietà del danno lamentato.
Il carattere del giudizio sulla lesione dei diritti inviolabili della persona e
l’incidenza del tipo e dell’offesa emergono, poi, chiaramente ove si consideri la natura
Diverso è, invece, il caso di cass. sez. lav. 22.1.2004 n. 1121 in “Guida al Diritto”, 2004, Massimario
pag. 47, ove è stato correttamente riconosciuto il risarcimento dei danni da “mancata concessione del
riposo settimanale, con definitiva perdita dello stesso” (e conseguente impossibilità del lavoratore di
recuperare le energie psicofisiche e di dedicarsi , quindi, alle relazioni familiari e/o sociali) osservando,
che tale mancata concessione è illecita siccome in contrasto con il precetto del solo art. 36 cost
omettendo il ben più pregnante riferimento all’art. 2 cost.
40
Cass. sez. I icv. 26.11.2003 n. 14.333 in Foro It. 2004, parte I col. 792
41
In tal modo si è espresso Trib. Bergamo 26.2.2003 in “Resp. Civ. e Prev.”, 2003, pag. 179 con nota di
Navaretta.
39
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dialettica della responsabilità e l’esigenza di bilanciare interessi opposti di pari rango o
nuovi interessi emergenti con quelli già riconosciuti, tenendo presente che nella
dialettica del pluralismo ogni nuovo diritto inviolabile ha il potere di comprimere quelli
già affermatisi42.
Anche in tal caso appare opportuno attingere a modelli già elaborati, per
esempio, nel contesto costituzionale e così tra i parametri emersi nel giudizio di
proporzionalità richiamare il criterio della tolleranza (l’espressione è di Elisabetta
Navarretta43) che torna ad escludere la responsabilità per lesioni che risultino
oggettivamente ed in concreto di scarsa importanza e, quindi, socialmente tollerabili:
infatti in sede di necessario bilanciamento tra opposti diritti inviolabili dal cui conflitto
sia derivata occasione di danno la solidarietà nei confronti della vittima non può
contrastare con il principio oggettivo della tolleranza che è alla base del riconoscimento
delle libertà.44
Altra parte della dottrina ha individuato tale limite nei “disagi apprezzabili
secondo la mentalità corrente”45 ma francamente la categoria mi sembra un po’ troppo
vaga e sganciata da parametri oggettivi per essere adottata come criterio di orientamento
nella prassi.
Certo la individuazione di tali diritti appare alquanto ardua tanto che, per
esempio, in dottrina ci si è chiesti se il disagio subito da una signora che non ha potuto
partecipare alla prima di un’opera teatrale perché la tintoria ha rovinato l’abito o non è
stata tempestiva nella consegna o il disagio subito da due coniugi che non potranno
ricevere il servizio fotografico perché il fotografo ha oscurato tutti i negativi o ancora il
disagio da errato taglio di capelli, possono rientrare nella lesione di un diritto inviolabile
e in caso di risposta positiva se tale disagio sia socialmente o no accettabile. Oppure
ancora su questa linea ci si è chiesti se sia risarcibile il danno da morte dell’animale di
affezione e si è giunti ad una risposta positiva attribuendo particolare rilievo
all’affezione che lega le persone a certi animali e non ad altri.
** Sempre in tema di limitazione del danno non patrimoniale va segnalata la
perplessità di una parte della dottrina nell’ammettere che possa derivare l’obbligo di
42
Per fare un esempio si pensi alle conseguenze personali pregiudizievoli in capo al coniuge vittima di
adulterio. E’ ben vero che l’obbligo di fedeltà è sancito dal nostro ordinamento e di certo la sua violazione
trova nel medesimo specifiche sanzioni ma ciò non vale a fondare un’indiscriminata tutela risarcitoria.
Tanto più se si considera che anche la posizione del coniuge che insoddisfatto da un menage familiare
oggettivamente mediocre si rifugi in rapporti affettivi diversi può essere considerata espressione del diritto
del singolo alla realizzazione della propria personalità.
Elisabetta Navarretta “La Corte Costituzionale ed il danno alla persona in fieri” in Foro It., 2003
2003, parte I, col. 2201.
44
Cass. pen. sez. IV 25.11.2003 Barillà in Foro It.2004, parte II col. 157 individua come possibile
ulteriore criterio selettivo quello della gravità dell’offesa che giustifichi la riparazione.
45
Massimo Franzoni in “Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta per il danno alla
persona” in Corriere Giuridico n. 8/2003, pagg. 1031 e ss.
43
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spunti di riflessione.
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risarcire il danno non patrimoniale da un inadempimento contrattuale ritenendo
quest’ultimo una prerogativa esclusiva dell’illecito aquiliano.
Militano in senso contrario, invece, taluni casi come il danno da vacanza
rovinata, il danno da mobbing46 (ricondotto nella previsione di cui all’art. 2087 c.c.47) o
da demansionamento che in assenza di malattia psicofisica sono ormai da qualificare
danni non patrimoniali avente come fonte un’inadempimento contrattuale48 oppure
ancora i danni non patrimoniali da gravidanza indesiderata a seguito di difettoso
intervento di sterilizzazione.49
Il sopra illustrato dubbio, tuttavia, di appare di non particolare rilievo pratico
laddove si consideri che comunque va ammesso il cumulo tra responsabilità contrattuale
e quella extracontrattuale stante la lesione di un interesse protetto afferente la persona
umana.
4.c - L’illecito civile ed il danno morale
Con la sentenza 22.5.2002 n. 747050 le sezioni unite della cassazione avevano
escluso il risarcimento del danno morale in tutti i casi di applicazione in sede civile di
un meccanismo presuntivo della colpa. Successivamente le sentenze cass. sez. III civ.
12.5.2003 nn. 7281, 7282 e 7283 hanno statuito il principio opposto rilevando che alla
risarcibilità del danno non patrimoniale ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p. non osta il mancato
positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se essa, come nel caso di colpa
presunta, deve ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo
la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato. Sennonché quest’ultima sentenza è
46
Il Tar del Lazio con sentenza 2.7.2003 n. 5822 ha riconosciuto ad un maresciallo della Guardia di
Finanza il risarcimento del danno da mobbing includendo tale danno in quello biologico
47
Anche la corte costituzionale con la sentenza 19.12.2003 n. 359 ha riconosciuto come diritto vivente la
riconducibilità del mobbing nella previsione dell’art. 2087 c.c. e così anche cass. s.u. civili 4 maggio 2004
n. 8438.
48
Si ricorda, invece, che in precedenza la giurisprudenza del lavoro qualificava tali danni come danno
biologico a prescindere dalla sussistenza o no di una lesione psicofisica.
49
In punto si consideri che: a) il ricovero di un paziente in una struttura deputata a fornire assistenza
sanitaria avviene sulla base di un contratto tra il paziente stesso ed il gestore della struttura ne consegue
che l’adempimento di tale contratto, con riguardo alle prestazioni di natura sanitaria, è regolato dalle
norme che disciplinano la corrispondente attività del medico nell’ambito del contratto di prestazione
d’opera professionale e che il gestore risponde dei danni derivanti al paziente da trattamenti sanitari
praticati con colpa, alla stregua delle norme di cui agli artt. 1176 e 2236 c.c. (cass. sez. III civ. 8.5.2001 n.
6386 nonché cass. sez. III civ. 11.3.2002 n. 3492 e cass. sez. III 27.7.1998 n. 7336); b) quanto, poi, alla
natura della responsabilità del medico operante quale dipendente presso la struttura ospedaliera è agevole
rilevare che secondo un recente orientamento giurisprudenziale l’obbligazione del medico dipendente del
servizio sanitario nazionale per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non
fondata su contratto ma sul “contatto sociale” connotato dall’affidamento che il malato pone nella
professionalità dell’esercente una professione protetta, ha natura contrattuale. Tale natura, viene
individuata non con riferimento alla fonte dell’obbligazione ma al contenuto del rapporto (cfr. cass. sez.
III civ. 22.1.1999 n. 589 nonché cass. sez. III civ. 11.3.2002 n. 3492 e, da ultimo cass. sez. III civ.
10.5.2002 n. 6735 e cass. sez. III civ. 28 maggio 2004 n. 10297).
50
In Giust. Civ. Mass. , 2002 pag. 896.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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stata subito superata di fatto dalle sentenze nn. 8827 e 8828 dal momento che ormai il
danno morale è ritenuto risarcibile nei casi in cui la lesione attenga a valori
costituzionali garantiti pur in assenza di una fattispecie di reato anche se recenti
sentenze dalla Corte di cassazione non sembrano consapevoli di ciò e continuano a
richiamarsi al principio di cui alle sentenze nn. 7281, 7282 e 7283 citate51.
4.d - Rapporti tra il danno biologico ed il danno da lesione di un interesse
inviolabile della persona costituzionalmente tutelato.
In tal campo vi sono molte incertezze e bisogna iniziare a dare definizioni dei
concetti per evitare incomprensioni.
Abbiamo visto sopra come sia più corretto definire il danno biologico come
danno-conseguenza (nel senso che lo stesso deve consistere non nella lesione in sé ma
nei postumi ed in tutti i riflessi negativi proporzionati ad essi che discendono dalla
lesione all’integrità psicofisica suscettibile di accertamento clinico) ma che tale
definizione è contrastata dalla definizione del danno biologico quale danno-evento data
dal legislatore ed in talune sentenze della corte costituzionale.
In ogni caso sia esso danno-evento in re ipsa o danno-conseguenza resta il fatto
che il danno al bene salute (tutelato costituzionalmente ex art. 32 cost) è ormai
considerato un danno non patrimoniale che presuppone una malattia psico-fisica
clinicamente accertabile (e in ciò si differenzia dal danno da violazione di altri diritti
inviolabili costituzionalmente tutelati52) ed include non solo il danno da lesione a tale
bene con riferimento a circostanze transeunti (danno biologico temporaneo) ma pure
ogni conseguenza negativa che discende da tale lesione all’integrità psicofisica ossia le
eventuali ricadute degli effetti della lesione, proporzionate ai postumi, sulla normale vita
di relazione del danneggiato e persino sulla sua sfera emotiva ed affettiva. Sicché nel
danno biologico, come ormai pacifico, rientrano anche il danno alla vita di relazione,
alla vita sessuale, alla serenità familiare, “ossia tutti i riflessi negativi che la lesione
comporta sul piano dell’esistenza della persona inducendo un peggioramento della
complessiva qualità della vita indipendentemente da un effettivo pregiudizio alla
capacità di guadagno”53: e di ciò il giudice in sede di liquidazione dovrà tenerne conto.
51
Cfr. cass. sez. III civ. 10.3.2004 n. 4906 e cass. sez. III civ. 3.3.2004 n. 4359.
A proposito del danno da mobbing è interessante notare come la stessa corte costituzionale abbia
rilevato che le conseguenze dannose del mobbing possono essere di ordine diverso potendo concretizzarsi
nell’insorgenza nel destinatario o di disturbi di vario tipo complessivamente indicati come sindrome da
stress postraumatico o in vere e proprie patologie psicotiche medicalmente accertabili (cfr. corte cost.
19.12.2002 n. 359): distinzione questa che ribadisce il riconoscimento da parte della corte costituzionale
dell’esistenza di un danno non patrimoniale da violazione di diritti inviolabili della persona (da stress post
traumatico) diverso da quello biologico (da patologia psicotica) oltre ad indicare l’esatta qualificazione
delle due tipologie di danni da mobbing.
53
In punto v. cass. sez. III civ., 31 maggio 2003 n. 8827 punti 4.6 e 4.7. ma anche cass. sez. III civ.
26.2.2004 n. 3868 la quale espressamente ha indicato come componenti del danno biologico il danno alla
vita di relazione ed il danni estetici ritenendoli non suscettibili di valutazione autonoma rispetto al danno
biologico ancorché fattori che il giudice deve considerare per accertare in concreto la misura del danno
biologico e personalizzarlo alla peculiarità del caso.
52
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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foglio nr. 52
Ne consegue che nel caso di riscontrata sussistenza del danno biologico inteso
come sopra non è possibile risarcire il medesimo cumulativamente con il danno
“esistenziale”54 se non a pena di duplicare i danni55.
Resta escluso solo il danno per il patema d’animo connesso con l’evento lesivo (in quanto nella formazione delle tabelle di quantificazione del danno biologico non si è
tenuto conto di tale tipologia di danno) - il quale è generalmente proporzionato
all’entità dei postumi anche se possono darsi casi eccezionali nei quali la suddetta regola
non trova applicazione allorquando un grande spavento coesiste con un minimo danno
biologico (es. si pensi a colui che riporta una piccola ustione fuggendo dal crollo delle
torri gemelle) o un grande stato patologico è compatibile con un’assenza di patema
d’animo (si pensi alla vittima che entri immediatamente in coma).
Con la precisazione, però, che la liquidazione di tale danno morale da patema
d’animo dovrà, comunque, essere proporzionata al limitato danno non patrimoniale
preso in considerazione.
Siffatta posizione, allo stato, è da preferire perché non solo non si distanzia da
quella generalmente praticata nei Tribunali ma anche, e soprattutto, perché permette di
non vanificare le tabelle di risarcimento del danno biologico elaborate ed affinate nel
corso degli anni lasciando così un utile punto di riferimento per la definizione
transattiva delle controversie oltre che un segnale tranquillizzante. Anche se pare che le
compagnie assicurative in questa situazione di incertezza abbiano iniziato a preferire il
giudizio alla soluzione transattiva.
5. - Il problema della quantificazione del danno non patrimoniale.
5.a – Il danno biologico.
In punto, quanto al danno biologico, in attesa di una riforma globale di tale
tipologia di danno (con l’entrata in vigore della T.I.N. ossia tabella indicativa
nazionale56), appare opportuno riferirsi alle tabelle vigenti presso i Tribunali57 non senza
Trib. Roma 7.1.2004 giud. Rossetti – che si può leggere nell’edizione on line di Diritto e Giustizia - per
esempio riferisce espressamente che nella redazione delle tabelle del danno biologico del Tribunale di
Roma – predisposte dal giudice estensore della sentenza citata – nella quantificazione del danno si è
tenuto conto di tutti i riflessi negativi che la lesione comporta sul piano dell’esistenza della persona
inducendo un peggioramento della complessiva qualità della vita.
55
Così si è espresso anche Trib. Bergamo 24.2.2003 in “Famiglia e Diritto”, 2003 pag. 361 con nota di
Bordon., nonché Trib. Venezia 14.1.2003 nella causa Maraffi/Maraffi, inedita, e Trib. Genova 11.7.2002
in Gius, 2003 pag 997.
56
In proposito l’ultimo passo in avanti è stato fatto con la l. 12.12.2002 n. 273 “Misure per favorire
l’iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza “ approvata in via definitiva dalla camera dei Deputati
lo scorso 27.11.2002 (in G.U. n. 239 del 14.12.2002 suppl. ord. n. 230) che nel capo III (“disposizioni in
materia di r.c. auto”) introduce all’art. 23 comma 4 la previsione della redazione di una specifica tabella
unica su tutto il territorio dello Stato: a) delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 10 e
100 punti ; b) del valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità comprensiva dei
coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso.
54
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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avere prima però chiarito a quali aspetti del danno biologico si è tenuto conto in sede di
redazione delle tabelle. Sicché se il danno biologico comprende la lesione psico-fisica al
bene salute in tutte le sue implicazioni allora bisognerà verificare se in sede di redazione
delle tabelle si è tenuto conto di ciò oppure no oppure ancora se se ne é tenuto conto
solo parzialmente e bisognerà procedere ad una paziente opera di revisione delle stesse.
Inoltre una volta determinate le tabelle sarà opportuno indicare quanto meno
l’anno di redazione affinché in sede di calcolo i giudici possano procedere alla
rivalutazione e non capiti ciò che spesso avviene con somma ingiustizia ossia che
tabelle elaborate nel 1998 siano applicate con gli stessi importi nel 2004 con la
motivazione che trattasi pur sempre di quantificazione equitativa. A dire il vero per
effettuare un calcolo corretto bisognerebbe considerare gli importi delle tabelle,
rivalutarli ad oggi e poi devalutare il tutto alla data del sinistro e da lì rivalutare la
somma anno per anno con gli interessi legali annualmente maturati sino al passaggio in
giudicato della sentenza58.
Ovviamente con l’accorgimento di adattare al caso concreto, laddove necessario,
il risultato tabellare attraverso un’attività di “personalizzazione” tabellare59.
** A proposito della capacità lavorativa generica va fatta un’importante
precisazione al fine di evitare una grave limitazione del danno.
La capacità lavorativa generica che appartiene alla sfera inviolabile della
persona – e la cui tutela spetta in via esclusiva al danneggiato – è inclusa nel danno
biologico ed è ontologicamente differente da quella che, per prassi, ha una
denominazione analoga, intesa come attitudine a svolgere il lavoro e, quindi, a
produrre reddito, la cui menomazione è causa di perdita patrimoniale da mancato
guadagno60.
In tal senso, pertanto, allorquando non si sia in presenza delle cd.
microlesioni (per le quali si presume secondo l’id quod plerumque accidit che la
lesione non incida la capacità di produrre reddito così come da ultimo statuito anche
da cass. sez. III civ. 30.10.2002 n. 15.28961) il Giudice dovrà procedere a liquidare il
57
Si consideri che una recentissima sentenza del Supremo collegio così ha significativamente statuito:In
tema di liquidazione dei danni non patrimoniali, pur a seguito del nuovo inquadramento del diritto all'integrità
psicofisica della persona nell'ambito esclusivo del combinato disposto dell'art.2059 e 32 Cost. (nonché delle altre
norma costituzionali poste a presidio della detta integrità personale), rimangono validi tutti i principi generali
elaborati in tema di quantificazione del danno biologico e di quello morale” Cass. sez. III civ. 20 febbraio 2004 n.
3399.
58 Con sentenza 11.3.2004 n. 4993 (pubblicata su Guida al diritto 2004, n. 14 pagg. 41 e ss.) la terza sezione della
suprema corte di cassazione ha precisato che la liquidazione diventa definitiva solo quando la sentenza che l’ha
effettuata è passata in giudicato per cui solo da quel momento il debito di valore si converte in debito di valuta ed è
assoggettato al principio nominalistico regolato dall’art. 1224 c.c..
59
In punto v. da ultimo cass. sez. III civ. 4.11.2003 n. 16.525.
In senso conforme v. cass. sez. III civ. 17.12.2003 n. 18945 in www.giustizia.it giurisprudenza voce
responsabilità civile.
61
Tale arresto è pubblicato nella rivista Danno e Responsabilità n. 8-9/2003 pagg. 873 e ss.
60
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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danno patrimoniale da mancata produzione di reddito anche nei confronti di coloro
che sono privi di occupazioni perché indubbiamente tale lesione comporta una
riduzione della capacità reddituale che si proietta nel futuro allorquando il soggetto
inizierà a svolgere attività lavorativa. Ignorare ciò significherebbe eliminare
ingiustamente una rilevante voce di danno di certo accadimento in un futuro più o
meno prossimo - a seconda delle circostanze concrete – che colpirà il soggetto.
Ovviamente quanto innanzi illustrato presuppone che la necessità che i giudici
richiedano ai medici legali di quantificare la percentuale del danno permanente di
natura biologica in maniera distinta e separata rispetto alla percentuale del danno
permanente da perdita di capacità reddituale perché, in caso contrario, si rischia – come
tal volta avviene - di quantificare erroneamente (in eccesso o in difetto) il danno da
perdita di capacità di produrre reddito utilizzando la percentuale indicata per il danno
biologico che notoriamente fa riferimento ad altri aspetti di natura areddituale62.
5.b – Il danno non patrimoniale diverso dal danno biologico.
Tale tipologia di danno – identificabile con il danno morale in senso ampio (v.
sopra) - è talmente ampia e varia che appare quantificabile solo in via equitativa caso
per caso tenendo conto di alcuni parametri oggettivi. Escluderei in linea di massima la
possibilità di una consulenza medico-legale salvo rare eccezioni.
In particolare nell’ipotesi di concorso con il danno biologico pare ragionevole
quantificare il danno morale soggettivo – limitato al pretium doloris – con una
percentuale del danno biologico (es. 1/3 sino al 30% di invalidità e ½ oltre) ben
potendosi rapportare generalmente il turbamento psichico alla gravità del danno
biologico subito.
Nel caso, invece, in cui non sussista il danno biologico (es. danno da morte di
congiunto o danno da violazione di diritti costituzionali inviolabili escluso il bene della
salute) sicché il danno morale include sia il patema d’animo che il cd. danno da
violazione di un bene costituzionalmente tutelato ed inerente la persona, allora (come
accadde negli ormai lontani esordi del danno biologico) il giudizio equitativo puro –
vale a dire lasciato alla sola sensibilità soggettiva del singolo giudice - va giustamente
censurato in quanto possibile fonte di gravi sperequazioni cosicché appare necessario
elaborare degli indici di riferimento per gli operatori. Non necessariamente si deve
pensare ad una tabella per quanto la soluzione si sia rivelata per il danno biologico
particolarmente felice o forse particolarmente comoda e di facile applicazione
quotidiana.
Interessante è il caso esaminato da Trib. Roma 24.10.2003 est. Serrao in “Giurisprudenza di merito”,
marzo 2004, pag. 467 e ss., ove si è riconosciuto un danno non patrimoniale a soggetto che seppur non
avesse subito limitazioni alla capacità di produrre reddito né alcun pregiudizio reddituale conseguente al
sinistro, tuttavia non era più in grado di svolgere un’attività lavorativa (quella di compravendita di
autovettura d’epoca) considerata gratificante in quanto espressione di un particolare interesse del
danneggiato per il settore.
62
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Non pare condivisibile la formazione di una tabella parametrata sul danno
biologico stante la riduttività della soluzione e la differenza tra i due tipi di lesioni.
Piuttosto si potrebbero prendere in considerazione i parametri della gravità
dell’offesa - ossia un elemento che pertiene non più alla dimensione del danno
(incommensurabile) bensì al piano del fatto illecito63 - tenendo presenti, per esempio,
come punti di riferimento i criteri di cui all’art. 133 c.p. ove si statuisce che il Giudice
valuta la gravità del reato tenuto conto della natura e della specie, dei mezzi ,
dell’oggetto, del tempo, del luogo e di ogni altra modalità dell’azione; dalla gravità del
danno e del pericolo cagionato alla persona offesa; dall’intensità del dolo e dal grado
della colpa,64 individuando magari quattro livelli di gravità dell'offesa (lieve, medio,
grave, molto grave) cui devono corrispondere altrettante e diverse percentuali oscillanti
da un minimo ad un massimo a seconda della valutazione dei criteri sopra illustrati.
In fondo anche il diritto penale si confronta da secoli con la discrezionalità del
Giudice nella determinazione della pena concretamente solo limitata dalle indicazioni di
cornici edittali minime e massime per altro spesso assai estese ed esposte a molteplici
possibilità tecniche di dilatazione.
Sarà, comunque, la prassi dei prossimi anni ad indicare criteri che via via si
affineranno sino a formare un corpus organico e sistematico65.
Recentemente una sentenza del Supremo Collegio in tema di danno non
patrimoniale subito dai genitori di un minore deceduto in un incidente stradale ha
cercato di individuare alcuni parametri della aestimatio relativamente ad cd. danno non
patrimoniale diverso dal danno morale soggettivo contingente asserendo che “Il danno
non patrimoniale da uccisione di un congiunto consiste nella privazione di un "valore"
(non economico ma) personale, costituito dalla irreversibile perdita del godimento del
congiunto stesso, cui consegue la definitiva e irreparabile preclusione delle reciproche
relazioni interpersonali secondo le diverse modalità e sfumature in cui esse
normalmente si esprimevano nell'ambito del nucleo familiare (perdita, privazione,
In tal senso v. Francesco D. Busnelli in “Chiaroscuri d’estate, la Corte di Cassazione e il danno alla
persona” in “Danno e Responsabilità” n. 8-9/2003.
63
64
Nello schema disegno di legge recante il titolo Nuova disciplina in tema di danno alla persona
presentato al Consiglio di Ministri in data 4.6.1999 l’art. 2059 c.c. viene così ridescritto: "Art. 2059.
(Danno morale). In mancanza di specifici criteri previsti dalla legge, il danno morale è liquidato dal
giudice tenuto conto della gravità della lesione e di ogni altro elemento idoneo a provarne l'effettiva
incidenza sul danneggiato”.
65
In punto va richiamata la recente tabella elaborata in data 1 dicembre 2004 dal Tribunale di Milano in
team di quantificazione del danno non patrimoniale (pubblicata sui Guida al diritto n. 49/2004 del
18.12.2004) ove il danno non patrimoniale della vittima primaria diverso dal biologico viene quantificato
in linea di massima da un quarto sino a 2/3 della somma liquidata a titolo di danno biologico mentre il
danno delle vittime secondarie (es. genitori, coniuge e figli ) viene quantificato con l’indicazione di
minimi e massimi .
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
spunti di riflessione.
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preclusione che, in sintesi, costituiscono l'oggetto della lesione e dell'interesse protetto).
Tale danno deve, pertanto, risultare oggetto di allegazione e di prova da parte
dell'avente diritto, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro dovendosi, diversamente dal danno morale soggettivo contingente, aver riguardo al
periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente esplicato il godimento del
congiunto che l'illecito ha, invece, reso impossibile - deve ritenersi consentito il ricorso
a valutazioni prognostiche e a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che sarà
onere del danneggiato fornire, mentre la sua liquidazione (vertendosi in tema di lesione
di valori inerenti alla persona, in quanto tale privi di diretto contenuto economico) non
potrà che avvenire sulla base di valutazioni equitative, tenuto conto dell'intensità del
vincolo familiare, della situazione di convivenza, di ogni ulteriore utile circostanza
(quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l'età
della vittima, quella dei singoli superstiti, ecc.” (Cassazione civile, sez. III, 11
novembre 2003 n. 16946).
******************************
6. – Ulteriori operazioni necessarie per l’esatta quantificazione del danno
patrimoniale e non patrimoniale .
Una volta individuato il danno risarcibile ed il quantum del danno è necessario
procedere ad ulteriori attività ai fini della esatta e conclusiva quantificazione del danno
spettante.
6.a - La rivalutazione
Se trattasi di danni passati (siano essi danni emergenti o lucri cessanti) rispetto
alla liquidazione, sulle somme liquidate, consistendo in un debito di valore, deve
riconoscersi la rivalutazione monetaria, che si opera mediante un’operazione
matematica la quale consente di ottenere il valore attuale di un euro pagabile in un
qualsiasi momento passato. Essa si ottiene moltiplicando l’importo del credito
risarcitorio per un coefficiente di rivalutazione. Il più noto ed usato di tali coefficienti è
quello basato sull’ “Indice Nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed
impiegati” (c.d. FOI), calcolato dall’Istat.
Così per esempio la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat, deve
computarsi dalla data della stipula del contratto da parte dell’impresa che è rimasta
illegittimamente aggiudicataria e fino alla data di deposito della decisione (data
quest’ultima che costituisce il momento in cui, per effetto della liquidazione giudiziale,
il debito di valore si trasforma in debito di valuta).
Per i danni non patrimoniali va ricordato che la liquidazione avviene in via
equitativa con somma cd “attualizzata” sicché il problema della rivalutazione
generalmente non si pone.
6.b - La riduzione per anticipata corresponsione
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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Per i danni futuri, invece, la somma ridotta al fine di tenere conto dell’anticipato
pagamento rispetto al momento di insorgenza del danno.
La riduzione dei crediti futuri è l’operazione matematica consistente nel rendere
attuale una somma di denaro che avrebbe dovuto essere pagata in un tempo futuro.
Esso deve avvenire secondo la seguente formula matematica:
S
C r t
100
dove S è lo sconto, ovvero la somma da decurtare a causa dei pagamento attuale; C è il
capitale liquidato; r è il tasso percentuale di sconto (pari al tasso d'inflazione); t è il
tempo.
Cosi, per riprendere un esempio illustrato da Rossetti66, se l'impresa
illegittimamente esclusa da una gara ha perduto la possibilità di stipulare un vantaggioso
affare con un terzo (in quanto le risorse aziendali erano state tutte impegnate per
partecipare alla gara dalla quale è stata illegittimamente esclusa), il danneggiato ha
perduto la possibilità - poniamo - di realizzare in futuro un utile di £ 5.000.000, che però
sarebbe stato incassato soltanto fra un anno. In questo caso, ipotizzando un tasso
d’inflazione del 2%, lo sconto da applicare è:
S
5.000.000  2 
100
12
12  100.000
e dunque il credito risarcitorio sarà pari a £ 4.900.000.
Ovviamente, se l'anticipo è inferiore all'anno, la lettera t nella formula che precede andrà
sostituita con la frazione di mesi che si intende calcolare (ad esempio, 3/12 per un
ritardo di 3 mesi).
6.c - La capitalizzazione
La capitalizzazione è l’operazione matematica consistente nel trasformare il
valore di una rendita in un valore capitale.
Alla capitalizzazione si ricorre in tutti i casi in cui, in conseguenza del fatto
illecito, il danneggiato ha perduto un emolumento che gli sarebbe stato corrisposto in
futuro con cadenza periodica (redditi da lavoro, fitti, pigioni).
Sempre traendo l’esempio da Rossetti si può ricordare il caso del danno patito
dalla persona ingiustamente esclusa da un concorso, che non potrà più sostenere in
66
Rossetti “Accertamento e liquidazione del danno” Roma 1.12.2003
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futuro per raggiunti limiti di età67. Il pregiudizio patito dal danneggiato, in questo caso,
è pari alla capitalizzazione dei redditi perduti, eventualmente detratto l'ammontare del
reddito cui potrà comunque aspirare in considerazione del proprio profilo professionale.
La capitalizzazione si effettua moltiplicando l’importo annuale del reddito
perduto per un coefficiente di capitalizzazione, secondo la formula:
D=R*k
dove D è il danno che occorre liquidare; R è la quota annuale di reddito perduto, k è il
coefficiente di capitalizzazione.
Non esiste tuttavia un solo, ma numerosi coefficienti di capitalizzazione. Essi si
differenziano sia per il saggio di interesse in base al quale sono calcolati (così, si potrà
avere una capitalizzazione al 3%, al 4%, 5%, e via dicendo), sia in base al tipo di rendita
al cui calcolo sono preordinati. I più usati nella liquidazione del danno aquiliano sono:
(a) il coefficiente per la costituzione delle rendite vitalizie;
(b) il coefficiente per la costituzione delle rendite temporanee;
(c) il coefficiente di minorazione per la capitalizzazione anticipata.
a) Il coefficiente per la costituzione delle rendite vitalizie si usa per calcolare il valore
della rendita di n euro, pagabili per tutta la vita dell’avente diritto.
Esso, pertanto, varia in funzione dell’età del danneggiato al momento della
liquidazione.
I coefficienti più usati dalla giurisprudenza di merito sono quelli contenuti nella
tabella allegata al r.d. 9.10.1922 n. 1403, calcolati in base ad un tasso di interesse del
4,50%.
In ogni caso alla somma finale dovrà applicarsi la riduzione corrispondente allo
scarto tra vita fisica e vita lavorativa variabile a seconda del caso concreto.
Esempio: per liquidare il danno patrimoniale subìto da una persona di 35 anni, la quale
per effetto di una lesione della salute ha perso il 30% del proprio reddito, pari a € 40.000
netti annui, occorre procedere nel seguente modo: 40.000 x 30% x 17,268, uguale a €
207.216 (su tale somma dovrà poi applicarsi la percentuale di riduzione corrispondente
allo scarto tra vita fisica e vita lavorativa, variabile a seconda del caso concreto).
B) Il coefficiente per la costituzione delle rendite temporanee serve per ottenere il valore
della rendita di n euro, pagabili non già per tutta la vita dell’avente diritto, ma per n
anni.
67
: Ovviamente, il risarcimento di questo tipo di danno presuppone l'accertamento che il candidato, onde
avesse sostenuto il concorso, sarebbe riuscito verosimilmente vincitore. Su questo tipo di danno, talora
definito danno da perdita di chance, si veda più ampiamente infra, paragrafo 3.b.1.
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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Ad esso si può ricorrere, ad esempio, per liquidare il danno patrimoniale patito da una
impresa che, ingiustamente esclusa da una gara non ripetibile68], ha perduto la
possibilità di ottenere l’aggiudicazione di un appalto per forniture pluriennali che gli
avrebbe consentito un guadagno di n euro l’anno.
Esempio: occorre liquidare il danno patrimoniale subìto dall’impresa Alfa per la perduta
possibilità di ottenere l'aggiudicazione di un appalto di fornitura, che gli avrebbe reso un
reddito di € 12.000 annui per 5 anni. Scelto un saggio di capitalizzazione del 4,5%,
nell'apposita tabella si individuerà il corrispondente coefficiente di capitalizzazione per
la durata di anni 5, pari a 4,389. Dovrà, a questo punto, moltiplicare il reddito perduto
per il suddetto coefficiente, e quindi il danno sarà pari a 12.000 x 4,389, ovvero €
52.668.
C) Infine che nel caso in cui il danno futuro si dovesse verificare dopo un certo numero
di anni occorre moltiplicare la somma capitalizzata per il coefficiente di riduzione per la
capitalizzazione anticipata che ovviamente sarà proporzionata al numero degli anni
intercorrenti tra il momento della liquidazione ed il presumibile momento in cui si
produrrà il danno.
6.e - Il ritardo nell’adempimento dell’obbligo di risarcire il danno.
L’obbligo di risarcire il danno è considerato senza dubbio obbligazione di valore
che si differenzia dalle obbligazioni di valuta ossia quelle che hanno ab origine una
somma di danaro determinata.
Come è noto per le obbligazioni di valuta il danno da ritardo è liquidato nella
forma degli interessi legali e l’eventuale maggior danno – rappresentato dalla
svalutazione (art. 1224 II° comma c.c.) – deve essere allegato e provato dal creditore e
non si aggiunge a quello degli interessi legali ma si sostituisce allo stesso69.
Ad. es., perché la legge esclude il risarcimento in forma specifica: si pensi al disposto dell’art. 14,
comma 2, l. 20.8.2002 n. 190, alla stregua del quale “la sospensione o l'annullamento giurisdizionale
della aggiudicazione di prestazioni pertinenti alle infrastrutture non determina la risoluzione del
contratto eventualmente già stipulato dai soggetti aggiudicatori; in tale caso il risarcimento degli
interessi o diritti lesi avviene per equivalente, con esclusione della reintegrazione in forma specifica”.
Ovviamente, resta tutto da valutare la conformità a costituzione di una simile previsione normativa.
68
69
La Suprema Corte limita fortemente la possibilità, per il giudice, di liquidare il maggior danno ex art.
1224, 2° co., c.c., facendo ricorso a fatti notori e prove presuntive. Ha infatti affermato Cass., 16-5-2000,
n. 6327, che il riconoscimento, in favore del creditore, oltre agli interessi, del maggior danno differenziale
derivato dall'impossibilità di disporre della somma durante il periodo di mora, va ammesso nei limiti in
cui il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di
evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l'inflazione produce a carico di tutti i
possessori di danaro. Tuttavia, ha aggiunto la Corte, il ricorso a elementi presuntivi e a fatti notori (che,
comunque, non esonera il creditore dall’onere di allegazione e prova) non deve ritenersi consentito in
ordine al quantum, a causa della forte riduzione delle dinamiche inflazionistiche. Resta, comunque,
escluso tout court il ricorso ad elementi presuntivi e a dati di comune esperienza che si traduca
Il risarcimento del danno nell’ambito del diritto amministrativo:
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Nel caso, invece, di ritardato adempimento di una obbligazione di valore non
trovano applicazione né l’art. 1277 c.c., né l’art. 1224 c.c..
Ovviamente, ciò non vuol dire che il ritardo nell’adempimento di
un’obbligazione di valore sia senza conseguenze per il debitore, ma semplicemente che
cambia il criterio di liquidazione del danno da ritardo.
Per determinare le conseguenze del ritardato adempimento di una obbligazione
di valore, la prima operazione da compiere è quella di trasformare in valore monetario
attuale l’importo accertato con riferimento alla data dell’illecito (taxatio) - a meno che,
ovviamente, il giudice non ritenga di liquidare il danno direttamente in moneta attuale o,
come si suol dire, “all’attualità”) - attualizzando la somma dovuta, cioè moltiplicando il
credito, calcolato con riferimento al momento di insorgenza, per un coefficiente di
rivalutazione (v. sopra).
Una volta attualizzata la somma dovuta dal debitore moroso, tuttavia, non è detto
che il creditore non abbia null’altro da pretendere. Infatti, qualora il debitore di
un’obbligazione di valore ritardi l’adempimento, il creditore può subire un nocumento
ulteriore rispetto a quello rappresentato dal deprezzamento della moneta. Il creditore
infatti, non disponendo tempestivamente della somma dovutagli, perde la possibilità di
effettuare investimenti e di ricavare così un lucro finanziario.
La liquidazione di questo tipo di danno aveva dato vita ad un acceso contrasto
giurisprudenziale, oggi sanato dall’intervento delle Sezioni Unite, le quali hanno
stabilito che:
(a) al creditore di un’obbligazione di valore spetta il risarcimento del danno ulteriore
causato dal ritardo nell’adempimento;
(b) tale danno può essere liquidato in via equitativa e presuntiva, anche facendo ricorso
al metodo degli interessi;
(c) gli interessi sub (b), tuttavia, non possono essere computati sulla somma rivalutata
ma annualmente sulla somma via via rivalutata oppure applicando sulla somma
rivalutata un saggio di interessi medio equitativamente scelto dal giudice, in funzione
dell’entità e della vetustà del credito.
In ogni caso dopo la liquidazione giudiziale, dal momento del deposito della sentenza,
l’obbligazione dell’assicuratore si trasforma in obbligazione di valuta, e produce
interessi legali dalla data della liquidazione fino al pagamento, secondo i princìpi già
esaminati in precedenza. Tuttavia non può ignorarsi che con sentenza 11.3.2004 n.
499370 la terza sezione della suprema corte di cassazione ha precisato che la
liquidazione diventa definitiva solo quando la sentenza che l’ha effettuata è passata in
giudicato per cui solo da quel momento il debito di valore si converte in debito di valuta
ed è assoggettato al principio nominalistico regolato dall’art. 1224 c.c..
Alla luce di quanto sin qui esposto, emerge, dunque, la palese erroneità della
formula, pure largamente usata dalla giurisprudenza, in virtù della quale si condanna il
nell'applicazione di parametri fissi, quali quelli evincibili dagli indici Istat o dal tasso corrente degli
interessi bancari.
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Pubblicata su Guida al diritto 2004, n. 14 pagg. 41 e ss..
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spunti di riflessione.
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danneggiante a risarcire il danno liquidato in sentenza, “oltre interessi e rivalutazione
dal dì del dovuto al soddisfo”: ciò perché in primo luogo gli interessi non si calcolano
mai sulla somma rivalutata nelle obbligazioni di valore, mentre nelle obbligazioni di
valuta della rivalutazione è dovuta solo se essa supera gli interessi legali, ed in questo
caso si sostituisce ad essi; e in secondo luogo perché, in ogni caso, dal momento della
liquidazione giudiziale [o dal passaggio in giudicato della statuizione (v. sopra)] - al
momento dell'effettivo pagamento del credito risarcitorio - si converte in una
obbligazione di valuta, e produce ex lege interessi nella misura legale.
7. - Breve accenno a talune ricorrenti questioni procedurali.
7.a - Proponibilità della domanda di risarcimento del danno in sede di
ottemperanza.
Una questione che affatica dottrina e giurisprudenza è se sia possibile proporre la
domanda di risarcimento del danno per la prima volta in sede di ottemperanza.
Si premette che il problema sembra mal posto, e risente verosimilmente della
formulazione sia dell’art.35 comma 1 d. leg.vo 80/98 novellato, che dell’art. 7 comma 3
l. 1034/71 novellato, presupponendo che il giudizio risarcitorio debba essere
necessariamente connesso al giudizio per così dire principale, sulla tutela dell’interesse
protetto. In particolare poi il comma 2 del citato art. 35 prevede un diretto collegamento
tra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza, nel caso in cui sia necessario
determinare la somma dovuta a titolo di risarcimento, stante il disaccordo delle parti
sull’applicazione dei principi stabiliti dal giudice per la quantificazione del danno.
Proprio da tale disposizione un primo orientamento ha tratto spunto per affermare
l’inammissibilità della domanda risarcitoria per la prima volta in sede di ottemperanza
(Cons. di Stato sez. IV 1 febbraio 2001 n. 396).
L’orientamento opposto (cfr. ad es. TAR Napoli sez. I^ 4 ottobre 2001 n.4485) si
basa sul fatto che la domanda di risarcimento (per equivalente) è necessariamente
subordinata alla verifica, in sede di ottemperanza, di una esecuzione del giudicato più
ampiamente satisfattiva degli interessi del ricorrente tramite una tutela ripristinatoria che
escluderebbe alla radice la produzione di un danno patrimoniale; del resto, si dice, anche
il giudizio di ottemperanza è connotato da una fase di cognizione e nella fattispecie si
realizzerebbe una sorta di giudicato a formazione progressiva. Una posizione intermedia
è stata recentemente espressa dal Consiglio di Stato (V^ sez. 6 agosto 2001 n.4239 ;
VI^ sez. 18 giugno 2002 n.3332; IV^ sez. 7 novembre 2002 n.6078;) che ammette la
proposizione della domanda risarcitoria per la prima volta in sede di ottemperanza,
purchè in primo grado, onde sia rispettato il principio del doppio grado, e nel rispetto
del contraddittorio In sostanza si ammette una domanda cumulativa che investa il
giudice sia della questione cognitoria sul risarcimento del danno che quella di
esecuzione della sentenza sulla domanda principale; ma i principi processuali sul ricorso
di cognizione devono essere rispettati: doppio grado e contraddittorio.
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In ogni caso vi sono situazioni in cui la domanda di risarcimento per equivalente
avanzata in sede di ottemperanza deve considerarsi ammissibile.
I) Anzitutto, viene in considerazione l’ipotesi in cui sia stata già chiesta al
giudice della cognizione una condanna alla reintegrazione in forma specifica, la cui
esecuzione diventi impossibile per cause sopravvenute al giudicato: in tali situazioni, il
complesso accertamento sugli elementi costituivi dell’illecito aquiliano
dell’Amministrazione viene svolto in sede di cognizione; se poi l’evolversi della
situazione di fatto rende impossibile la reintegrazione nello status quo ante, deve
ritenersi consentito optare nella fase esecutiva per una semplice variazione di tutela
nell’area più ampia del risarcimento del danno ingiusto.
In termini sostanzialmente analoghi, si segnala la recente pronuncia del
Consiglio di Stato, sez. V, 7 aprile 2004, n. 1980. Secondo il Supremo Giudice
amministrativo, laddove sia stata emessa una sentenza, poi passata in giudicato, che
contenga un accertamento univoco della illegittimità di una procedura di gara e da tale
premessa faccia discendere, dopo la rinnovazione delle operazioni di gara
illegittimamente svolte, in alternativa, la reintegrazione in forma specifica ove possibile,
ovvero il risarcimento del danno per equivalente, è da escludere che il ricorrente
vittorioso debba avviare un autonomo giudizio per il riconoscimento di quanto gli è
dovuto a titolo di ristoro del danno subito, potendo, invece, avanzare la domanda di
risarcimento del danno con il ricorso per l’esecuzione del giudicato.
II) Parimenti, la domanda risarcitoria in sede di ottemperanza deve ammettersi in
caso di danno cagionato non dal provvedimento originario ma dai comportamenti inerti,
elusivi o violativi del giudicato posti in essere successivamente alla formazione di
quest’ultimo. In tale ipotesi appare fisiologico che la domanda di risarcimento del danno
provocato da condotta inottemperante, domanda non prima ed altrimenti proponibile,
sia avanzata davanti al giudice naturalmente chiamato, anche ai fini risarcitori, a
verificare la fedeltà dell’azione amministrativa ai vincoli derivanti dallo jussum
giudiziario.
In tal senso si segnala la decisione del Consiglio di Stato, sez. VI, 8 marzo 2004,
n. 1080, secondo cui “la domanda risarcitoria è proponibile in sede di ottemperanza
solo per i danni maturatisi dopo l’annullamento, danni, prima della formazione del
giudicato di annullamento futuri e meramente eventuali, mentre quanto ai danni già
subiti (per perdita di chance) per effetto dell’attività amministrativa oggetto del
giudizio di annullamento, non può dubitarsi circa la necessità di un’apposita domanda
da spiegarsi nel processo amministrativo di primo grado”.
III) Infine, la domanda di risarcimento è proponibile in sede di ottemperanza
nell’ipotesi in cui il giudice pronunci una sentenza di condanna generica al risarcimento
del danno. Anche se c’è chi ritiene che la condanna generica – in assenza di una norma
specifica che attribuisca al G.A. il potere di pronunciarla – sia preclusa nel giudizio
amministrativo risarcitorio, si ritiene che ell’ipotesi in cui il giudice amministrativo
comunque addivenga a questo tipo di sentenza, che la parte vittoriosa possa adire il
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giudice dell’esecuzione. Come ha avuto modo di precisare il Consiglio di Stato, infatti,
l’inammissibilità della domanda risarcitoria in sede di ottemperanza vale solo nel caso
in cui la stessa concerna anche l’an del risarcimento; se invece concerne il solo
quantum, allora la domanda deve ritenersi ammissibile. La tesi, però, presenta ampi
margini di opinabilità.
7.b- La domanda introduttiva del giudizio
Non vi sono particolari problemi ad ammettere che il giudizio relativo al
risarcimento del danno debba essere introdotto con il ricorso disciplinato dalle norme
processuali amministrative del giudizio annullatorio o di cognizione, e quindi notificato
all’amministrazione e depositato nei termini presso la segreteria dell’organo
giurisdizionale. Anche in relazione a quanto precedentemente detto, la domanda può
essere proposta sia unitamente a quella del ricorso principale contro il provvedimento
lesivo, sia successivamente con un atto autonomo, eventualmente come motivo aggiunto
ai sensi dell’art. 1 della legge 205/2000 (TAR Lombardia, Brescia 23 novembre 2000
n.861 e c.d.s. a.p. 18.10.2004 n. 10). Non è possibile utilizzare una semplice memoria
non notificata (Cons. di Stato sez. VI 913/2001) ed il contraddittorio deve essere esteso
ai controinteressati ai fini di una pronuncia favorevole sul presupposto dell’azione di
risarcimento, e cioè sull’illegittimità del provvedimento amministrativo (TAR
Campania Salerno sez .I 4 novembre 2002 n.1874).
Per un autonomo giudizio risarcitorio, invece, è difficile individuare
controinteressati in senso tecnico. Pur non dovendo necessariamente essere articolata in
motivi come il ricorso per annullamento, tuttavia la domanda di risarcimento non può
essere generica e deve contenere le ragioni della sua richiesta ed una prospettazione del
danno, con indicazione anche di elementi di prova e di criteri di quantificazione (Cons
di Stato VI, 26 aprile 2000 n.2490 e 16 aprile 2003 n.1990).
7.c - Competenza territoriale
La soluzione appare agevole se la domanda risarcitoria è contenuta nello stesso
ricorso principale, diretto contro il provvedimento lesivo: in questo caso, secondo un
principio di accessorietà desumibile dallo stesso codice di procedura civile, le regole
sulla competenza territoriale sono quelle del giudizio d’impugnazione ( in generale sul
principio di accessorietà tra i due giudizi, cfr. TAR Campania, Napoli, sez. I^ 27 marzo
2002 n.1651).
Il problema si crea, invece, nel caso di domanda risarcitoria proposta
successivamente al giudizio annullatorio (ovvero autonomamente da esso). Il caso è
stato esaminato in un primo tempo dal Consiglio di Stato in sede di regolamento di
competenza, laddove il ricorrente, ottenuta una sentenza favorevole di annullamento di
una aggiudicazione di un appalto ad opera dal TAR Marche, ha successivamente adito,
per il risarcimento, il TAR Molise (cds sez. IV 1 febbraio 2001 n. 400). In tale
occasione il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabili, per l’individuazione del tribunale
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territorialmente competente, le norme del codice di procedura civile, in mancanza di
apposite norme idonee a definire i criteri sostanziali di riparto della competenza
territoriale, non potendosi utilizzare le regole sancite dagli articoli 2 e 3 della legge n.
1034/71, in quanto dettate per giudizi in tutto o in parte annullatori. Per le
amministrazioni dello Stato, in particolare, si applicherà quindi verosimilmente
l’articolo 25 c.p.c. (foro della pubblica amministrazione) , che come noto fa riferimento
al luogo ove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato e, per l’amministrazione
convenuta, il distretto dell’Avvocatura si individua con riguardo al giudice del luogo in
cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione o in cui si trova la cosa mobile o immobile
oggetto della domanda.
Con sentenza 137 del 19.1.2004 la sez. VI del cds ha deferito all’Adunanza
Plenaria la questione se ai giudizi risarcitori consequenziali ad un giudizio di
annullamento dell’atto amministrativo presupposto trovino applicazione le regole di
competenza territoriale di cui agli artt. 19 e 20 c.p.c. ovvero, per ragioni di connessione,
le regole di competenza territoriale applicate per il presupposto giudizio impugnatorio in
applicazione degli artt. 2 e 3 l. n. 1034/1971: il 18 ottobre 2004 l’adunanza plenaria del
cds con la sentenza n. 10 ha risposto che “il giudice innanzi al quale è portata
l’impugnazione del provvedimento lesivo è quello stesso che ha titolo a conoscere della
domanda di riparazione per equivalente” specificando che “non vale a modificare la
disciplina di cui sopra – fondata sulla regola della concentrazione innanzi al giudice
dell’impugnazione anche della pretesa risarcitoria – il fatto che la controversia rivolta
ad ottenere il risarcimento dei danni sia stata avanzata con autonomo e successivo
ricorso proposto dopo che il giudizio di impugnazione si era concluso e la relativa
sentenza era passata in giudicato”.
7.d – La peculiare modalità di liquidazione del danno prevista dall’art. 35
del d. Lgs 80/1998
Il legislatore, consapevole delle difficoltà e delle implicazioni pubblicistiche
sottese alla liquidazione del danno nelle controversie risarcitorie in cui è parte la P.A.,
ha predisposto un innovativo metodo processuale di determinazione del quantum,
finalizzato proprio a superare le complicazioni evidenziate mediante l’utilizzo di uno
strumento processuale duttile e connotato da evidenti profili di tecnica equitativa.
Si tratta della previsione dell’art. 35 comma 3 d. lgs. N. 80/98, con la quale si
consente al giudice amministrativo di “stabilire i criteri in base ai quali
l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore
dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine” e si attribuisce
al privato il diritto di adire nuovamente il giudice con le forme del giudizio di
ottemperanza per ottenere la determinazione dell’importo dovuto nell’ipotesi in cui le
parti non hanno raggiunto un accordo sul quantum.
Si tratta di uno strumento processuale assolutamente nuovo nel nostro
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ordinamento che tenta di coniugare le esigenze di accelerazione, semplificazione ed
economia processuale sottese alle recenti riforme della procedura amministrativa (cds
sez. IV 14.6.2001 n. 3169) con l’incentivazione di accordi di natura transattivi, ritenuto
maggiormente idoneo della determinazione privatistica giudiziale del quantum (riservata
solo all’eventuale seconda battuta) e a garantire in egual misura tutti gli interessi
coinvolti.
La disposizione risulta, tuttavia, carente sotto diversi profili ed ha dato, quindi,
adito a rilevanti problemi interpretativi.
A) Risulta, anzitutto, controverso se lo strumento in esame possa essere
utilizzato anche nelle controversie risarcitorie relative a materie affidate alla
giurisdizione generale di legittimità (nelle quali, quindi, si verte in merito alla lesione di
interessi legittimi come nella materia degli appalti pubblici) ovvero se debba ritenersi
circoscritto come peraltro indicato nella lettera della norma alle sole controversie
devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva.
Nonostante il dato testuale sembri imporre quest’ultima opzione ermeneutica,
esigenze di omogeneità di tutela di posizioni soggettive assimilabili e di coerenza
interna del sistema processuale amministrativo esigono che l’uso dello strumento in
questione venga esteso per via analogica (ricorrendone tutti i presupposti) anche ai casi
di giurisdizione di legittimità (come ritenuto da Tar Campania Napoli n. 2012/2000)
B) La disciplina positiva dell’istituto è stata, inoltre, ritenuta lacunosa ed
incoerente con il sistema laddove assegna al giudice una mera facoltà di servirsi del
metodo in questione, senza chiarire, tuttavia, se sia necessaria una conforme domanda
del soggetto istante o se il giudice possa, comunque, provvedere in quale senso anche in
mancanza di specifica istanza, o addirittura, nonostante una puntuale richiesta di
determinazione del quantum. Le prime indicazioni esegetiche sembrano privilegiare una
lettura della norma che assegna carattere libero ed ufficioso al potere del giudice di
valersi di tale modulo operativo: nel senso che lo stesso può essere usato anche in
mancanza di specifica istanza o quando la parte ha domandato la quantificazione esatta
dell’importo dovuto domandato anche se tale conclusione non pare convincente siccome
insanabilmente confliggente con le esigenze di conformità tra chiesto e pronunziato
postulate dal principio di cui all’art. 112 c.p.c..
C) La previsione in esame è stata criticata anche nella parte in cui omette di
precisare il contenuto ed il grado di dettaglio dei criteri stabilita dal giudice. Tale rilievo
non pare, tuttavia, condivisibile: la lacuna denunziata , infatti, risulta voluta e
giustificata proprio dall’esigenza di offrire uno strumento processuale di
semplificazione della complessa operazione di liquidazione del danno.
Può, invece, condividersi l’osservazione di chi ha rilevato che occorre evitare
una definizione eccessivamente dettagliata dei criteri (che si risolve in una definitiva
liquidazione del danno) sia una troppo generica (che non favorisce l’accordo).
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D) Non si ravvisano ostacoli ad una pronunzia mista che contempli la
liquidazione del danno per la parte agevolmente accertabile e che riservi all’accordo
delle parti la determinazione delle voci più difficilmente quantificabili (es. lucro
cessante).
E) In ordine alla natura dell’accordo concluso tra le parti sembra che allo stesso
non possa attribuirsi valore di titolo esecutivo con la conseguenza che, in caso di
inadempimento da parte dell’amministrazione, al privato resta preclusa la possibilità di
ottenere soddisfazione del credito con gli strumenti propri del procedimento di
esecuzione forzata. Non serve spendere molte parole per segnalare la gravità di tale
conseguenza. Tra l’altro, dalla lettera della norma emerge che il privato non possa
neppure attivare il giudizio di ottemperanza – previsto, infatti, per i soli casi in cui le
parti non hanno raggiunto l’accordo (v. c.d.s. sez. IV 2.3.2004 n. 942) e non anche per
l’ipotesi in cui questo sia stato concluso ma l’amministrazione sia rimasta inadempiente
all’obbligazione ivi assunta. Sennonché le preminenti esigenze di garantire l’effettività
della tutela e di evitare gravi lacune nel sistema processuale amministrativo impongono
di giudicare esperibile il rimedio del ricorso per ottemperanza anche in via analogica
(tenuto conto dell’identità delle due situazioni sotto il profilo delle implicazioni sul
piano della loro protezione giudiziale) pure nel caso di inadempimento
dell’amministrazione (in tal senso v. da ultimo Tar Lazio sede di Roma 1.6.2004 n.
5141).
Bergamo, li 14 gennaio 2005.
Giuseppe Ondei
(*Giudice presso il Tribunale ordinario di Brescia)