relazione

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Fulvio Conti (Università di Firenze)
Il volontariato sociale: l'esperienza delle associazioni di pubblica assistenza e di soccorso
1. Il mio intervento mira a gettare qualche spiraglio di luce su un segmento della società
civile, le associazioni del volontariato di pubblica assistenza e di soccorso di matrice laica, sulle cui
vicende storiche non esiste finora alcuna ricostruzione d’insieme, ma soltanto isolati contributi,
perlopiù di taglio celebrativo, relativi a singoli sodalizi. Si tratta indubbiamente di un settore che
nell’ambito del decennio dal 1960 al 1970 non rivestì la centralità e l’importanza di altri, dei quali si
parlerà in questo panel: il sindacato, i giovani, il mondo cattolico. Nondimeno esso creò proprio in
questo periodo, grazie soprattutto alla sua mobilitazione in occasione di grandi calamità nazionali
(la tragedia del Vajont del 1963, l’alluvione di Firenze del 1966, il terremoto del Belice del 1968) le
premesse per la forte espansione degli anni Settanta e per la conquista di un pubblico
riconoscimento della propria utilità sociale e di un ruolo ben definito nell’ambito del Servizio
sanitario nazionale. Proprio l’alluvione del 1966, inoltre, vide l’incontro fra i volontari del soccorso
e gli “angeli del fango”, i “capelloni”, i giovani accorsi a Firenze da ogni parte del mondo,
dimostrando che l’impegno nel volontariato sociale stava diventando un tratto identitario delle
nuove generazioni e che le ragioni della protesta giovanile si coniugavano, in positivo, con i valori
di un solidarismo umanitario, che non conosceva confini nazionali, pacifista e internazionalista (un
fenomeno, che avrebbe assunto contorni più nitidi nel decennio successivo). Lo stesso sindacato,
attraverso il sostegno dato all’opera delle associazioni di soccorso in occasione delle calamità
pubbliche (mediante collette, invio di volontari, ecc.), contribuì a definire il suo profilo di soggetto
impegnato su tutti fronti del disagio sociale, un profilo che avrebbe anch’esso trovato compiuta
sistemazione all’inizio degli anni Settanta, allorché si prese a parlare, com’è noto, di
“pansindacalismo”. Con ciò, in sostanza, si vuol dire che le profonde trasformazioni economiche,
sociali, politiche e culturali di quel periodo non lasciarono immune alcun soggetto della società
civile, che anzi vi fu fra questi una forte contaminazione, una circolazione di valori, di progetti
ideali, di schemi di comportamento. E che, perciò, anche guardando alle dinamiche di quegli anni
dal punto di vista parziale e marginale delle associazioni di soccorso e di pubblica assistenza, si
possono cogliere aspetti significativi di quelle trasformazioni e offrire qualche elemento di
conoscenza in più sui movimenti collettivi e sui protagonisti principali di quelle vicende.
Infine, un’ultima doverosa premessa: questo intervento al convegno Sissco si inserisce
nell’ambito delle ricerche che da diversi anni vado conducendo su varie espressioni
dell’associazionismo laico in Italia nell’Ottocento e nel Novecento (massoneria, società per la
cremazione, società di mutuo soccorso e di volontariato, ecc.). Nella fattispecie si tratta di un vero e
proprio “cantiere di storia”, di una tappa di avvicinamento alla stesura di un volume sulla storia
dell’Associazione nazionale delle pubbliche assistenze (Anpas), che vedrà la luce l’anno prossimo
in occasione del centenario di questa istituzione. La ricerca è ancora in fase di completamento e le
prime riflessioni che qui si presentano hanno un carattere del tutto provvisorio.
2. Le prime associazioni di pubblica assistenza nacquero in Italia negli anni Settanta del
secolo XIX e già nei decenni successivi conobbero una certa diffusione, radicandosi soprattutto
nelle regioni centro-settentrionali. Esse assolvevano un duplice compito: da un lato prestavano la
loro opera nel caso di eventi calamitosi quali terremoti, incendi, alluvioni, epidemie, organizzando
squadre di soccorso che si recavano nelle località colpite e, coadiuvando le pubbliche autorità,
aiutavano in vario modo le popolazioni (esemplare in tal senso fu la spedizione di volontari della
Croce Verde organizzata nel 1884 da Felice Cavallotti per soccorrere la città di Napoli colpita dal
colera, che operò insieme alla Croce Bianca guidata da Rocco De Zerbi); dall'altro svolgevano una
quotidiana opera di assistenza agli ammalati, ai poveri e ai bisognosi, garantendo loro il trasporto
gratuito agli ospedali, la somministrazione di medicinali, il cambio di biancheria, turni di vigilanza
diurna e notturna. Effettuavano inoltre interventi di pronto soccorso nei casi di incidenti o di
infortuni, prestando le prime cure ai feriti e riuscendo a salvare non poche vite umane.
1
Inseritesi in uno spazio lasciato vuoto dall'intervento dello Stato e delle amministrazioni
locali, nelle città in cui furono attive garantirono insomma un servizio di notevole rilevanza. Con
una base sociale di estrazione prevalentemente popolare, ma con quadri direttivi in cui la
componente borghese e persino aristocratica fu largamente presente, si distinsero in genere per una
connotazione squisitamente laica, alla quale contribuì non poco l'appartenenza massonica di
parecchi dirigenti. In alcune zone esse rappresentarono una sorta di autentico contraltare laico di
strutture associative confessionali, come le Misericordie e altre confraternite, che svolgevano
funzioni consimili. Proponendosi anche finalità mutualistiche e assistenziali a esclusivo beneficio
dei soci, col passare degli anni esse avrebbero conosciuto un discreto successo e visto crescere in
modo considerevole il numero degli iscritti. Nel volgere di poco tempo finirono col diventare una
presenza familiare nelle città italiane, che si popolarono di Croci d'oro, verdi, bianche, turchine o
comunque di compagnie di pubblica assistenza annesse a qualche società di mutuo soccorso o
aggregate a qualche Municipio. Anch'esse rappresentarono così uno strumento di crescita della
partecipazione popolare e di affermazione della società civile. E ben presto posero il problema della
creazione di una rete di collegamento a livello nazionale, che ne coordinasse l'attività e che desse
voce alle loro istanze presso i pubblici poteri.
La federazione nazionale si costituì nel 1904 e da allora si fece portavoce delle richieste del
movimento, le principali delle quali furono due: una legge che garantisse il riconoscimento
giuridico alle associazioni, senza lederne gli spazi di autonomia e senza sottoporle al soffocante
controllo dell’apparato burocratico dello Stato; sussidi pubblici per coprire una parte delle spese
sostenute per lo svolgimento dei servizi, l’acquisto dei mezzi di trasporto e del materiale sanitario,
eccetera. In ultima analisi, ciò che esse chiedevano era il riconoscimento dell’utilità pubblica del
servizio svolto e, conseguentemente, la compartecipazione dello Stato e degli enti locali ai costi che
il suo esercizio comportava.
Eretta in ente morale nel 1911, la federazione delle pubbliche assistenze ebbe un ruolo di
rilievo durante la prima guerra mondiale, anche in virtù di una convenzione siglata nel 1915 con la
Croce Rossa Italiana, alla quale fornì uomini e mezzi. Alla vigilia del conflitto, il movimento aveva
assunto infatti dimensioni di un certo rilievo, potendo disporre di circa 450 associazioni, di cui 188
aderenti alla federazione.
Tabella 1 Ripartizione regionale delle società di pubblica assistenza nel 1914
Piemonte
Lombardia
Veneto
Liguria
Emilia-Romagna
Toscana
Umbria
Marche
10
25
3
45
19
167
49
61
Lazio
Campania
Abruzzi e Molise
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
46
10
5
9
1
3
5
3
L’analisi della loro distribuzione nelle varie regioni della penisola, riassunta nella tabella 1,
evidenzia la netta prevalenza di questo fenomeno associativo nell’Italia centrale rispetto ad altre
parti del paese. Qui erano concentrate ben 313 associazioni, di cui 157 soltanto in Toscana, a fronte
delle 102 ubicate nel Nord, delle 29 del Sud e delle 8 delle Isole. Negli anni seguenti si ebbe
un’ulteriore espansione e nel 1922 le associazioni censite erano circa 550, delle quali 160 iscritte
all’organismo federale. L’avvento del fascismo fu tuttavia letale sia per la federazione nazionale che
per le singole associazioni, la maggior parte delle quali, in conseguenza di un decreto del 1930,
venne disciolta e fu condannata a essere assorbita dalla Croce Rossa o da altre tipologie assistenziali
del regime.
2
La federazione si ricostituì a Milano, nel dicembre 1946, al termine di un congresso che vide
la partecipazione di 64 associazioni, delle quali 27 erano toscane, 25 liguri, 4 lombarde, 3
piemontesi, 2 emiliane, 2 venete e una marchigiana. Esse vantavano circa 80 mila soci, di cui 9 mila
militi volontari, e un patrimonio di 98 automezzi, con 30 servizi di ambulatorio e di guardia medica
in attività. Il numero delle associazioni risultava drasticamente ridotto rispetto al periodo
prefascista, ma la distribuzione geografica non era cambiata e tale sarebbe rimasta ancora per
diversi anni. Nel senso che le regioni meridionali sarebbero rimaste pressoché impenetrabili alla
diffusione di questa tipologia associativa, che per contro avrebbe conosciuto un crescente
radicamento nell’Italia settentrionale. Nel 1982 delle 276 associazioni aderenti alla federazione il
63% era ubicato nel Nord, il 33% nel Centro e solo il 4% nel Sud e nelle Isole (ossia, per la
precisione, lo 0,7% in Campania e il 3,3% in Sardegna). La media nazionale era allora di un socio
ogni 141 abitanti, ma le oscillazioni fra una regione e l’altra erano assai pronunciate: si andava da
un rapporto di 1 a 16 in Liguria e di 1 a 19 in Toscana a un rapporto di 1 a 2.537 in Campania e di 1
a 2.004 in Veneto. Quanto ai militi volontari, cioè coloro che svolgevano concretamente i servizi di
assistenza e di pronto soccorso, se ne contavano per esempio uno ogni 554 abitanti in Toscana, uno
ogni 957 in Emilia-Romagna, uno ogni 3.200 in Lombardia, uno ogni 62.164 in Campania.
Oggi l’Anpas rappresenta 830 associazioni di pubblica assistenza, impegnate
quotidianamente nell’emergenza sanitaria, nel pronto soccorso, nel volontariato sociale e nelle
attività di protezione civile. Conta circa 100.000 volontari, 600.000 soci e dispone di circa 2.700
ambulanze, che collaborano con le centrali operative del 118 e offrono un contributo determinante
al Servizio sanitario nazionale.
Le basi di questo sviluppo furono in parte gettate proprio durante gli anni Sessanta, quando
le associazioni andarono progressivamente allargando la propria gamma di attività. Ai tradizionali
servizi di soccorso e di trasporto con autoambulanze si aggiunsero attività di sostegno per anziani,
portatori di handicap, tossicodipendenti, emarginati in genere; servizi di emodialisi; gruppi di
donatori del sangue; strutture permanenti di protezione civile e di difesa ambientale; prestazioni
ambulatoriali e sanitarie di vario tipo; onoranze funebri; corsi di formazione tecnica dei volontari;
eccetera. Le pubbliche assistenze divennero anche un luogo di socialità popolare: organizzarono per
i soci e per la popolazione feste sociali, spettacoli teatrali, serate da ballo, lotterie; allestirono le
feste della “befana” per i bambini e pranzi per i poveri durante le feste natalizie. Venne inoltre
istituzionalizzata la “giornata della pubblica assistenza”, organizzata periodicamente per raccogliere
fondi per l’acquisto di nuove ambulanze o per istituire nuovi servizi.
Il rapporto con le istituzioni pubbliche continuò ad essere caratterizzato da una vivace
conflittualità, originata anche dal fatto che lo Stato repubblicano, così come era accaduto in molti
altri settori, si era limitato a confermare nella sostanza il decreto fascista del 1930, che attribuiva
alla Croce Rossa Italiana il compito di “organizzare e disimpegnare sul piano nazionale il pronto
soccorso ed il trasporto degli infermi e degli infortunati […] mediante il coordinamento e la
disciplina dei servizi effettuati dalle associazioni locali” (decreto del novembre 1947). Associazioni
locali, che non riuscirono neppure a rientrare in possesso delle sedi e dei beni sottratti a suo tempo
dal regime e trasferiti alla Croce Rossa. La perdurante sordità dello Stato ad accogliere le richieste
delle Pubbliche assistenze fece dunque sì che anche negli anni Sessanta ritornassero sul tappeto le
questioni che erano rimaste irrisolte prima dell’avvento del fascismo: il pieno riconoscimento
dell'utilità pubblica dei servizi svolti da queste associazioni; l’erogazione di sussidi per finanziarne
l’attività; l’inserimento dei loro rappresentanti negli organismi direttivi del sistema sanitario locale e
nazionale; la creazione di una struttura integrata di protezione civile che facesse perno sulla rete
delle singole associazioni. Più in generale, in una fase di crescita della società civile e di
affermazione di nuove istanze di mobilitazione e di aggregazione sociale, il movimento delle
pubbliche assistenze denunciò la totale indifferenza delle istituzioni verso il volontariato e
contribuì, per parte sua, ad alimentare le aspettative di un rinnovamento profondo della società che
mettesse in primo piano i valori della solidarietà e della partecipazione.
3
L’impegno profuso in occasione di alcune grandi catastrofi degli anni Sessanta (il Vajont,
l’alluvione di Firenze, il terremoto del Belice), che videro la realizzazione delle prime “colonne
mobili di soccorso”, rese non più eludibile, da parte dello Stato, il riconoscimento della funzione
svolta dalle Pubbliche assistenze. Un primo passo concreto venne con la legge sull’obiezione di
coscienza del 1972, che permise a tanti giovani di prestare servizio nelle associazioni di
volontariato. Ma la svolta decisiva sarebbe venuta soprattutto con la legge di riforma sanitaria del
1978, che per la prima volta riconobbe il ruolo attivo delle associazioni di volontariato nella
realizzazione del Servizio sanitario nazionale.
3. Alcune riflessioni. Intorno al 1960 alcune delle analisi più accreditate sulla società italiana
sottolineavano le fragili basi su cui poggiava il sistema democratico, ponendolo in relazione con la
scarsa consistenza del tessuto associativo esistente nel paese e conseguentemente con la debolezza
della sua società civile1. Benché in Italia «non mancassero luoghi e momenti associativi, il dato
rilevante era tuttavia costituito dalla scarsa presa delle associazioni volontarie autonome, frutto
dell'autorganizzazione sociale intorno a specifiche tematiche e interessi. L'organizzazione e la
strutturazione della società civile erano prevalentemente il prodotto delle appartenenze subculturali
e dello sforzo di "penetrazione politica" dei partiti di massa. Da un lato c'erano i gruppi legati al
mondo cattolico, dall'altro - non meno diffusa e inglobante - la rete dei circoli e delle associazioni
offerta dai partiti di sinistra»2.
La modernizzazione socio-economica che ha investito il paese dagli anni Sessanta in poi,
con il correlato processo di urbanizzazione e di scolarizzazione, ha profondamente modificato
questo quadro provocando una crescita della società civile e della sua capacità di dar vita a forme
associative e di volontariato non più legate a filo doppio con le varie appartenenze subculturali. In
tempi più ravvicinati la partecipazione sociale «sembra anzi aver preso ampiamente il posto delle
modalità partecipative che negli anni Settanta si indirizzavano prevalentemente verso il terreno
della politica»3. Nondimeno una ricerca campionaria condotta nel 1990 dall'European Values Study
Group su nove paesi europei collocava ancora l'Italia in penultima posizione, dietro il Portogallo e
davanti alla Spagna, per quanto riguardava il tasso di iscrizione ad associazioni volontarie.
Migliore, e in linea con quello di altri paesi, appariva invece il dato relativo al livello di
partecipazione dei soci, quello cioè con cui si era cercato di misurare l'impegno regolare da essi
prestato in attività non retribuite all'interno delle rispettive associazioni4. Notevole, sebbene alcune
recenti indagini svolte sull'Italia meridionale abbiano evidenziato l'esistenza di un positivo trend di
crescita del tessuto associativo5, sembrerebbe comunque essere rimasto il divario fra nord e sud.
La scarsità di associazioni volontarie, com'è noto, è stata assunta da Robert D. Putnam come
uno degli indicatori più significativi della mancanza di senso civico e di propensione all'azione
collettiva che storicamente ha caratterizzato il Mezzogiorno, condizionando in modo negativo il
rendimento delle locali istituzioni di governo regionale. Richiamandosi alla lezione di Gabriel A.
Almond e Sidney Verba, Putnam ritiene che la presenza di una fitta trama associativa sia un
requisito fondamentale per contribuire al funzionamento e alla stabilità di un governo democratico.
Le associazioni infatti «diffondono tra i partecipanti il senso della cooperazione, della solidarietà e
dell'impegno sociale»6. Ciò va a costituire un «capitale sociale», ovvero una cultura civica diffusa
che alimenta la fiducia reciproca, stabilisce norme che regolano la convivenza e che migliorano
l'efficienza dell'organizzazione sociale, con positive ricadute sulla vita politica e sullo sviluppo
1
Mi riferisco in particolare all'ormai classico studio di G. Almond - S. Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and
Democracy in Five Nations, Princeton, Princeton University Press, 1963.
2
F. Ramella, Gruppi sociali e cittadinanza democratica. L'associazionismo nella letteratura sociologica, in
«Meridiana», 1994, n. 20, p. 93.
3
Ivi, p. 94.
4
I dati di questa ricerca sono riassunti in E. Recchi, La vita associativa, cit., p. 175.
5
Cfr. F. Ramella, Mobilitazione pubblica e società civile meridionale, in «Meridiana», 1995, n. 22-23, pp. 121-154, a
cui si rinvia per più ampi riferimenti bibliografici.
6
R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993, p. 105.
4
economico. Questa tradizione civica, secondo Putnam, affonda le sue radici nelle istituzioni
politiche medievali e la diversa esperienza che da questo punto di vista hanno conosciuto le regioni
centro-settentrionali rispetto a quelle del sud - da una parte il feudalesimo, dall'altra la civiltà dei
comuni - sarebbe all'origine di quel deficit di civicness che ancora caratterizza il Mezzogiorno,
condannandolo a perpetuare la propria arretratezza. Privo di legami orizzontali e di vincoli
associativi e comunitari, esso resterebbe ancora prigioniero delle logiche tipiche del «familismo
amorale»7 e dell'intreccio perverso fra clientelismo e reti malavitose.
Sottolineando «l'importanza della forza d'inerzia del passato, dei circoli viziosi (o virtuosi)
che rinsaldano le tradizioni sociali, economiche e politiche»8, Putnam si è esposto consapevolmente
ai rischi di un determinismo storico per molti versi sconcertante, che parecchi lettori del suo lavoro
non hanno esitato a denunciare. Specie in ambito storiografico e sociologico non pochi hanno
evidenziato la debolezza dell'impalcatura interpretativa che lo studioso americano ha costruito
avvalendosi di generalizzazioni e di procedimenti euristici tipici della modellistica politologica. E'
indubbio tuttavia che pur con questi limiti, peraltro compensati da una sofisticata e
documentatissima ricerca empirica, il libro di Putnam resta un'opera di grande rilievo non solo per il
dibattito che è stato capace di suscitare anche in ambienti extra-accademici, ma anche per
l'elaborazione di un frame analitico che offre un valido punto di riferimento a chi intenda indagare
le dinamiche sociali e politiche dell'Italia contemporanea.
Ebbene, il caso di studio da me affrontato - la storia delle associazioni laiche di pubblica
assistenza e di soccorso, assai diffuse, come si è visto nell’Italia centro-settentrionale e pressoché
assenti in quella meridionale - incrocia alcune delle tematiche affrontate da Putnam e contribuisce
in qualche misura a corroborare le sue tesi. Fin dalle loro origini, in effetti, esse dettero un apporto
significativo al rafforzamento di un sentimento civico, di forme di impegno sociale e di dedizione
verso gli altri. Ed è indubbio che con la loro presenza, ancora oggi, arricchiscono il tessuto civico di
tante città e piccoli paesi, offrendo una gamma di servizi che, specie in ambito sanitario e
assistenziale, integrano quelli erogati dalle strutture pubbliche e private. Con ciò contribuendo a un
miglioramento complessivo della qualità della vita, in particolare per i segmenti più deboli della
popolazione; e, su un piano più generale, all'irrobustimento dei vincoli solidaristici, delle istanze
partecipative, delle forme di democrazia e di cittadinanza attiva.
Sono spunti di riflessione che qui è possibile soltanto accennare, rinviando a fasi successive
della ricerca per ulteriori verifiche e approfondimenti.
La forte discrasia fra il contesto centro-settentrionale e quello meridionale è il dato più
appariscente evidenziato dall’analisi della geografia di questa tipologia associativa. Le indagini
sociologiche condotte sui "gruppi politici di base" alla fine del decennio rivelano per contro che
queste organizzazioni erano diffuse in modo abbastanza omogeneo sull'intero territorio nazionale e
nelle grandi come nelle piccole città. Neri Serneri ci ricorda che esse ebbero un elemento
accomunante in una sorta di matrice cattolica diffusa, che risentiva delle aperture conciliari
dell'inizio del decennio e di molteplici altre sollecitazioni. Le associazioni di pubblica assistenza
raccolte sotto le insegne dell'Anpas rivendicarono invece con orgoglio, in tutti questi anni, un
laicismo un po' démodé, con echi risorgimentali e qualche punta di autentico anticlericalismo. Non
poche di queste associazioni celebravano la propria festa sociale nell'anniversario del XX settembre
e avevano fra le proprie icone Mazzini e Garibaldi. Forse anche questa ostentata connotazione laica
fu tra i fattori che ostacolarono la loro penetrazione nelle regioni del Mezzogiorno e che ne
favorirono invece la diffusione capillare in Liguria, in Toscana e nelle altre zone dell'Italia centrale.
7
Il riferimento va ovviamente a E.C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata [1958], a cura di D. De Masi,
Bologna, Il Mulino, 1976.
8
R.D. Putnam, La tradizione civica, cit., p. X.
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