3B_30TO - salesiani don Bosco

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Omelie per un anno
Volume 2 - Anno “B”
Anno “B”
30ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
 Ger 31,7-9 - Riporterò tra le consolazioni il cieco e lo zoppo.
 Salmo 125 - Rit.: Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
 Eb 5,1-6 - Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di
Melchisedek.
 Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Io sono la luce del mondo,
dice il Signore; chi segue me avrà la luce della vita. Alleluia.
 Mc 10,46-52 - Rabbunì, che io riabbia la vista!
Le attese degli uomini
“Che io riabbia la vista!”
Anch’io m’incontro qualche volta con dei ciechi. Alcuni li ho visti, con
mia sorpresa, contenti e felici. Come quella comunità di suore – una
ventina – tutte cieche, che mi accolsero festanti, e mi sembrava che i
loro occhi spenti sprizzassero gioia (o forse avranno anche loro i
momenti di rimpianto e di malinconia?). Altri, invece, non mi
nascondevano un senso di tristezza profonda e sentivo come
cadevano nel vuoto le parole di conforto che a stento mi uscivano
dalla bocca.
Bartimeo, il cieco di cui ci parla Marco, sentiva il peso della sua
sventura, tanto più grave perché, non avendo mezzi di sussistenza,
era costretto a mendicare. Una speranza gli spunta nel cuore quando
sente dire, nel brusio della folla, che c’è Gesù di Nazaret: “Cominciò a
gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!””. Poco
gl’importa che la gente lo sgridi per farlo tacere: “Egli gridava più
forte: Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Gesù ne ebbe pietà. Lo fece
chiamare e quando l’ebbe vicino gli domandò: “Che vuoi che io ti
faccia?”. Cosa poteva chiedere quel poveretto? Ma Gesù lo volle
sentire dalle sue labbra: “Che io riabbia la vista!”. La risposta del
Maestro non si fa attendere: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. Altre
volte ci siamo fermati sul significato dei miracoli operati da Gesù
come manifestazioni di potenza e di amore, come segni destinati ad
autenticare il profeta di Nazaret quale inviato di Dio, Figlio di Dio.
30ª domenica del Tempo Ordinario “B” • © Elledici, Leumann 2005
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Qui, l’accento messo da Gesù sulla “fede” che ha guarito il cieco invita
a pensare alla cecità dello spirito, da cui egli è liberato con la luce
della fede: “Che io riabbia (o abbia) la vista!”. È l’attesa, l’anelito, più
o meno consapevole, di tanti. Ch’io abbia una fede più illuminata, più
salda, più coerente e operosa! Dev’essere la domanda di ognuno di
noi. Se essa salirà a Gesù come un grido insistente, umile e fiducioso,
egli, che non è lontano da noi, ci esaudirà. Chiediamo a lui, per noi e
per i nostri fratelli, che accresca “in noi la fede, la speranza e la
carità” (colletta).
Chiediamo che la luce della fede illumini sempre più noi che
crediamo, ma troppo debolmente, e non sappiamo vivere in coerenza
con la fede che professiamo. Imploriamo la luce della fede per i
fratelli ai quali non è ancora pervenuto l’annunzio del Vangelo, e la
grazia divina sull’opera dei missionari.
“Innalzate canti di gioia”
Quali sentimenti abbia provato Bartimeo riaprendo gli occhi alla luce,
il Vangelo non lo dice. Non ce n’era bisogno. Una gioia simile è
difficile immaginarla. Ma di gioia parla esplicitamente il profeta
Geremia predicendo alle tribù disperse il ritorno nella terra degli
antenati, la pace e la prosperità. Nella luce del Nuovo Testamento
intravediamo qui ciò che avverrà più tardi, nei tempi messianici, per
opera del “Figlio di Davide”. “Innalzate canti di gioia!”. A chi è rivolto
l’invito, a chi è promessa la gioia? A coloro che, almeno
nell’estimazione comune, meno la conoscono, perché sembra che il
loro destino sia la sofferenza e l’emarginazione: “il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente”; quelli che “erano partiti nel pianto”.
Poi, secondo il salmo responsoriale, i prigionieri, il contadino che
fatica nel preparare il terreno e nel gettare il seme, quelli che
piangono. È un’anticipazione delle beatitudini: “Beati voi poveri...
beati voi che ora avete fame... beati voi che ora piangete...
Rallegratevi in quel giorno ed esultate” (Lc 6,20.21.23).
La gioia viene dall’annunzio della liberazione. Come può essere
contento chi è in carcere, chi geme sotto il giogo dell’oppressione e
della prepotenza, chi non è riconosciuto nella sua dignità di uomo? È
un invito alla speranza. Sotto il peso della sofferenza, soprattutto
quando essa si prolunga e si ha l’impressione che non debba cessare
mai, è facile la tentazione dello scoraggiamento. Ma il profeta ci
conforta: “Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le
consolazioni”. Il salmista a sua volta ci rassicura: “Chi semina nelle
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lacrime mieterà con giubilo”. La vigilia della sua morte Gesù
prometterà ai discepoli: “Voi piangerete e vi rattristerete, ma il
mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si
cambierà in gioia” (Gv 16,20). E se la sofferenza dovesse prolungarsi
oltre quelli che sembrerebbero i limiti del sopportabile, rimarrebbe
sempre vera la parola di Paolo: “Il momentaneo, leggero peso della
nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di
gloria” (2 Cor 4,17).
“Io sono un padre per Israele”
Il profeta Geremia e il salmista non aspettano la liberazione e la gioia
che ne è il frutto dallo sforzo di chi è oppresso e soffre e nemmeno
dalla generosità dell’oppressore: “Il Signore ha salvato il suo popolo...
Ecco li riconduco dal paese del settentrione e li raduno dall’estremità
della terra... io li riporterò tra le consolazioni; li condurrò a fiumi
d’acqua”; “Il Signore ricondusse i prigionieri di Sion... Il Signore ha
fatto grandi cose per loro. Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci
ha colmato di gioia”.
Come Bartimeo che non aspettava la vista né dai suoi sforzi né dalle
cure dei medici, Israele aspetta tutto dal Signore. Qui la bontà del
Signore è sottolineata con una parola che costituirà il centro del
messaggio di Cristo: “Io sono un padre per Israele”.
Questa è la ragione più profonda della gioia a cui è chiamato il
cristiano. “Felici”, esclama Tertulliano commentando le prime parole
del “Pater noster”, “coloro che riconoscono il Padre!”. “Se Dio è con
noi, chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31). E se Dio ci è padre, padre che
ci ama (cf Gv 16,27) e per amore ci ha fatti suoi figli (cf Gv 3,1), non
abbiamo il diritto e il dovere di gioire del suo amore, di confidare in
lui, ripetendo col salmista: “Nelle tue mani sono i miei giorni... fa’
splendere il tuo volto sul tuo servo, salvami per la tua misericordia”
(Sal 30,16-17)?
Da Dio viene la speranza e la gioia. Talvolta egli la dona ai suoi figli
nei modi più impensati e nel momento che meno se l’attendono. Egli
vuole che essi si facciano messaggeri di gioia per i fratelli. Come qui
Geremia, come quelli di cui ci dice un altro profeta: “Come sono belli
sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace,
messaggero di bene che annunzia la salvezza” (Is 52,7; cf Rm
10,15).
“Collaboratore della vostra gioia”: così Paolo vuol essere per i fedeli di
Corinto (2 Cor 1,24). Lo possiamo, lo dobbiamo essere anche noi:
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con l’evangelizzazione (portare il lieto messaggio), con la promozione
umana, aiutando i fratelli a liberarsi dal bisogno, dall’oppressione,
dalla sofferenza. Come le squadre di giovani che partecipano ad
opere di soccorso; come le famiglie che si aprono ai bimbi che non
possono chiamare “babbo” e “mamma”; come coloro che,
disinteressatamente, operano nell’attività sociale e politica per il
cambiamento delle strutture oppressive e disumanizzanti. Collaborare
con i missionari. Se la preghiera per le missioni è sincera, essa
dev’essere accompagnata dallo sforzo di portare un aiuto concreto
all’opera missionaria, contribuendo con le nostre offerte, ricercando e
coltivando le vocazioni missionarie.
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