Sir 08:47 - BENEDETTO XVI: CANONIZZAZIONI, “L`AMORE AI

Sir
08:47 - BENEDETTO XVI: CANONIZZAZIONI, “L’AMORE AI FRATELLI TESTIMONIA L’AMORE A DIO”
“Il segno visibile che il cristiano può mostrare per testimoniare al mondo l’amore di Dio è l’amore ai fratelli.
Quanto provvidenziale risulta allora il fatto che proprio oggi la Chiesa indichi a tutti i suoi membri tre nuovi
santi che si sono lasciati trasformare dalla carità divina e ad essa hanno improntato l’intera loro esistenza”.
Lo ha detto, ieri mattina, Benedetto XVI, nella messa di canonizzazione del vescovo Guido Maria Conforti,
del sacerdote Luigi Guanella e della religiosa Bonifacia Rodríguez de Castro. San Guido Maria Conforti
“diede prova di un carattere fermo nel seguire la volontà di Dio, nel corrispondere in tutto a quella caritas
Christi che, nella contemplazione del Crocifisso, lo attraeva a sé. Egli sentì forte l’urgenza di annunciare
questo amore a quanti non ne avevano ancora ricevuto l’annuncio, e il motto ‘Caritas Christi urget nos’
sintetizza il programma dell’Istituto missionario a cui egli, appena trentenne, diede vita: una famiglia
religiosa posta interamente a servizio dell’evangelizzazione, sotto il patrocinio del grande apostolo
dell’Oriente san Francesco Saverio”. Vescovo prima a Ravenna e poi a Parma, “egli seppe accettare ogni
situazione con docilità, accogliendola come indicazione del cammino tracciato per lui dalla provvidenza
divina”.
San Conforti “in ogni circostanza, anche nelle sconfitte più mortificanti, seppe riconoscere il disegno di Dio,
che lo guidava ad edificare il suo Regno soprattutto nella rinuncia a sé stesso e nell’accettazione quotidiana
della sua volontà”. Egli “per primo sperimentò e testimoniò quello che insegnava ai suoi missionari, che
cioè la perfezione consiste nel fare la volontà di Dio, sul modello di Gesù Crocifisso”. Il Papa ha, quindi,
parlato della “testimonianza umana e spirituale di san Luigi Guanella” che “è per tutta la Chiesa un
particolare dono di grazia. Durante la sua esistenza terrena egli ha vissuto con coraggio e determinazione il
Vangelo della Carità”. Grazie alla “profonda e continua unione con Cristo, nella contemplazione del suo
amore”, don Guanella, guidato dalla Provvidenza divina, “è diventato compagno e maestro, conforto e
sollievo dei più poveri e dei più deboli. L’amore di Dio animava in lui il desiderio del bene per le persone che
gli erano affidate, nella concretezza del vivere quotidiano. Premurosa attenzione poneva al cammino di
ognuno”. Di qui la lode al Signore “perché in san Luigi Guanella ci ha dato un profeta e un apostolo della
carità”. Questo nuovo Santo della carità sia per tutti “modello di profonda e feconda sintesi tra
contemplazione e azione”.
“San Luigi Guanella – ha auspicato Benedetto XVI - ci ottenga di crescere nell’amicizia con il Signore per
essere nel nostro tempo portatori della pienezza dell’amore di Dio, per promuovere la vita in ogni sua
manifestazione e condizione, e far sì che la società umana diventi sempre più la famiglia dei figli di Dio”. Il
Papa ha poi ricordato Santa Bonifacia Rodríguez de Castro, che mise insieme la sua scelta di seguire Cristo
con il diligente lavoro quotidiano. “Lavorare, come aveva fatto sin da bambina, non era solo un modo per
non pesare a nessuno, ma anche perché riteneva di avere la libertà di realizzare la sua vocazione, e le dava
al tempo stesso la possibilità di attrarre e formare altre donne, che in officina possono incontrare Dio e
ascoltare la sua chiamata amorevole”, ha affermato il Pontefice. Così nascono “le Serve di San Giuseppe,
nell’umiltà e semplicità evangelica, che nella casa di Nazaret si presenta come scuola di vita cristiana”.
Madre Bonifacia, che “si consacra con impegno all’apostolato e comincia a ottenere i primi frutti del suo
lavoro”, vive anche l’“esperienza dell’abbandono, del rifiuto proprio dalle sue discepole e in quello
apprende una nuova dimensione della sequela di Cristo: la Croce”. Con l’intercessione della nuova santa, il
Santo Padre ha pregato Dio “per tutti i lavoratori, soprattutto per quelli impegnati nei lavori più modesti”.
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Corriere della sera
Colpe non solo nostre
Non è stato bello, per un italiano, assistere ieri a Bruxelles alla conferenza stampa congiunta di Merkel e
Sarkozy. Non è stato bello per un italiano, poco importa se berlusconiano o antiberlusconiano oppure
ancora, come noi, semplice cronista. Perché per tutta la durata dell'incontro della cancelliera tedesca e del
presidente francese con la stampa internazionale il capo del nostro governo, che all'estero piaccia o non
piaccia ci rappresenta tutti, è stato deriso (letteralmente, con una sonora risata e gli occhi al cielo dei due),
indicato come inadempiente sulle misure nazionali da adottare contro la crisi dei debiti sovrani, messo
tacitamente sullo stesso piano della Grecia (Sarkò ha enumerato in un separato elenco Irlanda, Portogallo e
anche Spagna), accettato a fatica come interlocutore (e soltanto a questo titolo definito degno di fiducia
dalla Merkel).
Se si calcola che nel palazzo del Consiglio europeo regnano di norma linguaggio diplomatico e moderazione
di comportamenti, diventa facile capire perché Francia e Germania — certamente decisive per riuscire a
galleggiare nello tsunami dell'euro — siano riuscite a irritare buona parte dei loro partner comunitari.
Ma detto degli eccessi della Merkel e di Sarkozy, come non chiederci se e quanta ragione avevano? Il
governo Berlusconi è in effetti inadempiente e non ha portato a Bruxelles quel decreto sviluppo che già da
tempo avrebbe dovuto varare. Così facendo Berlusconi mette a rischio l'intera manovra anticontagio che
sarà varata mercoledì. E non sono serviti a nulla, finora, gli avvertimenti che sono stati fatti pervenire a
Roma sulla tagliola che Sarkozy ha di nuovo ribadito ieri: per chi non fa la propria parte di lavoro, niente
aiuti di solidarietà dal Fondo salva Stati.
L'incontenibile e ostentata irritazione franco-tedesca, dunque, non è priva di motivazioni. Si dice anzi che in
forme più morbide parecchi altri soci europei la condividano. Ed è evidentemente questa la circostanza più
grave alla quale il governo dovrebbe se possibile dedicare la sua tardiva attenzione. Anche se, nella sala
stampa di Bruxelles, il nostro disagio ci è parso poter essere quello di tutti gli italiani.
La prova d'appello, che riguarderà stavolta l'intera Eurolandia, è attesa per dopodomani. E si spiega
certamente con questa accelerazione l'apparente paradosso che ha accompagnato i lavori di ieri: mai era
accaduto che tanto ottimismo circondasse un vertice andato malino. Non tanto male da trasformare la
battaglia per l'euro in guerra fratricida e da impedire che mercoledì vengano raggiunte le intese necessarie.
Ma male abbastanza per alzare al massimo livello la posta politica, per «costringere» Merkel e Sarkozy a
trovare un accordo che tamponando la crisi li salvi dall'ignominia.
Perché sono stati loro, la cancelliera tedesca e il presidente francese, a fissare una stringente maratona di
incontri e di negoziati ristretti.
E sono perciò loro, adesso che arriva la venticinquesima ora, a dover prendere atto (volentieri) di un
comune interesse politico: quello di non fallire, di non diventare gli affossatori dell’euro e dell’Europa, di
non trasformare in boomerang la responsabilità di guida che le due «locomotive» si sono assunte. Non a
caso ieri Merkel e Sarkozy, tra un siluro e l’altro contro Berlusconi, hanno dato praticamente per sicuro il
raggiungimento di intese «comuni, ambiziose e durevoli » da portare al G-20 di Cannes dei primi di
novembre.
I mercati daranno già oggi un primo giudizio sulla strategia franco-tedesca. Ma nei confronti dei rispettivi
fronti interni, e in definitiva nell’interesse generale dell’eurozona, viene comunque utile a Angela Merkel e
a Nicolas Sarkozy il trovarsi con le spalle al muro e le ore contate, sull’orlo di quel baratro che l’Europa ha
spesso dovuto vedere per trovare la forza di allontanarsene. Resta da verificare, beninteso, l’efficacia delle
formule che Berlino e Parigi sceglieranno, in particolare per accrescere la «capacità di fuoco» del Fondo
salva Stati (Efsf). Le banche non saranno contente di dover più che raddoppiare le loro perdite sui bond
greci, malgrado le ricapitalizzazioni. Si dovrà appurare — ecco che il pensiero torna all’Italia — se le misure
anticontagio otterranno davvero la fiducia necessaria per riuscire.
E rimane, comunque vada a finire, la consapevolezza di un grande ritardo di reazione davanti alla crisi,
anche da parte di francesi e tedeschi (soprattutto tedeschi) a riprova dell’assenza in Europa di statisti
davvero in grado di guidare e convincere. Quello di mercoledì è dunque un appuntamento per cominciare
un cammino, non per concluderlo. Al G-20 si tenterà, hanno detto Merkel e Sarkozy concordi, di far passare
la tassa sulle transazioni finanziarie. E in Europa si lavorerà a una nuova governance unitaria. Il che
potrebbe riempire di gioia gli europeisti più convinti.
Ma attenzione, perché l’unione fiscale che ha in mente la signora Merkel è un sistema che controlla in
anticipo le finanze di ogni Stato membro dell’eurozona e affida a un futuribile organismo di Bruxelles il
compito di comminare sanzioni automatiche in caso di violazione anche minima delle regole concordate.
Cambiare i Trattati non sarà facile, ma l’Italia è avvisata.
Franco Venturini
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Corriere della sera
Svizzera, calo dei populisti della destra populista alle elezioni parlamentari
Ma il partito di Cristoph Blocher, noto per le sue politiche anti-immigrati, rimane il primo del Paese con il
26,8%
MILANO - Per la prima volta dal 1991, il partito Udc/Svp - la destra nazionalista nota per le sue campagne
anti-immigrati ed anti-Europa - ha registrato un calo dei consensi oggi alle elezioni politiche svizzere. I dati
parziali, confermati dalle proiezioni della televisione svizzera, indicano che il partito, pur risultando ancora
al primo posto tra le formazioni politiche nazionali, registra un calo di circa il 3 % dei voti. Si assesta al 26 %,
mentre mirava a conquistare almeno il 30% dei voti. Il Partito socialista si conferma al secondo posto (al 18
% circa) ma con un calo dell'1,4%, e la vera sorpresa giunge dalle perdite dei Verdi e dalla netta crescita dei
nuovi partiti di centro: i Verdi liberali e il Partito borghese democratico (Pbd), nato da una scissione
dall'Udc/Svp. «La costosa campagna dell'Udc/Svp incentrata unicamente sull'immigrazione, non è riuscita a
moiblitare l'elettorato come nel 2007», spiega il politologo Georg Lutz.
PERDENTI I PARTITI DI CENTRO - Ma i veri perdenti sono i due partiti storici di centro - il Partito popolaredemocratico (Ppd) ed il Partito liberale-radicale (Plr), oltre che i Verdi che non hanno incassato l'effetto
«Fukushima». Secondo le proiezioni - che riguardano il voto per il Consiglio Nazionale (camera bassa) eletto
al proporzionale - il Plr è al 15,0% circa (meno 2,4% ) ed arretra anche il Ppd (meno 1,4 punti al 13%). I Verdi
scendono all'8 %, (meno 1,7%). Secondo le prime analisi i primi cinque partiti sono gli stessi di prima e non
cambiano nemmeno i rapporti di forza relativi. La novità nelle elezioni del Consiglio nazionale è
rappresentata dall'affermazione degli «astri nascenti» e dal «nuovo centro», formato da Verdi liberali e dal
Partito borghese democratico. In base alle proiezioni, i Verdi liberali balzano al 5,3% ed il Pbd (che non
esisteva ancora quattro anni fa) si attesta al 5,2%. In Ticino e a Ginevra, i populisti hanno guadagnato punti.
DUE SEGGI PER LA LEGA DEI TICINESI - Nel cantone di lingua italiana, l'Udc/Svp ha conquistato un seggio al
Consiglio Nazionale e la Lega dei Ticinesi - ostile ai frontalieri italiani - dovrebbe mandare ben due
rappresentanti a Berna. A Ginevra - al confine con la Francia - il partito populista del Mouvement Citoyen
Genevois ha conquistato il suo primo seggio a Berna. Il volto definitivo del Consiglio nazionale è atteso nelle
prossime ore. Occorrerà invece attendere alcune settimane per conoscere la composizione esatta del
Consiglio degli Stati (camera alta), dove vige il sistema maggioritario. In vari cantoni, verrà organizzato un
secondo turno. Ballottaggio anche il leader carismatico dell'Udc, Christoph Blocher. Candidato al Consiglio
degli Stati (Camera alta) per uno dei due seggi del cantone di Zurigo, è giunto oggi in terza posizione. Ma i
riflettori si stanno già spostando al 14 dicembre, data prevista per l'elezione da parte del nuovo parlamento
dei sette esponenti del governo elvetico. In tutto, cinque milioni di elettori sono stati chiamati alle urne per
eleggere i 200 membri del Consiglio nazionale (Camera del popolo) ed i 46 membri del Consiglio degli Stati
(Camera dei cantoni).
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Corriere della sera
Un uomo sale sul colonnato di S. Pietro
e brucia una Bibbia durante l'Angelus
L'uomo, di nazionalità rumena, sarebbe uno squilibrato Secondo gli inquirenti ha precedenti analoghi
ROMA - E' salito sul colonnato di San Pietro e, scavalcando la balaustra, e ha dato fuoco alle pagine di una
Bibbia durante l'Angelus di Benedetto XVI. Si chiama Iulian Jugarean l'uomo che per circa mezzora è rimasto
sul colonnato mentre un cardinale sulla balaustra per cercare di convincerlo a desistere dalla sua azione.
L'uomo è stato fatto scendere ed è stato accompagnato da diversi uomini della Gendarmeria vaticana.
Attualmente si trova in stato di arresto presso la gendarmeria vaticana. Lo riferisce il direttore della sala
stampa vaticana, padre Federico Lombardi. «Durante la celebrazione della canonizzazione - dichiara padre
Lombardi - una persona squilibrata è riuscita a recarsi sul cornicione della Loggia delle Dame (a destra per
chi guarda la facciata di San Pietro), all'esterno della balaustrata. Vi è rimasto per più di mezzora fino al
termine della celebrazione. Ha attirato l'attenzione su di sé e ha bruciato una Bibbia». Il portavoce vaticano
sottolinea che «si tratta evidentemente di una persona squilibrata». «Parlando con i responsabili della
gendarmeria vaticana e con un funzionario dell'ambasciata rumena, che erano accorsi - aggiunge - ha detto
di avere dei messaggi da comunicare al mondo, in particolare per la lotta contro il terrorismo». Ancora non
è stato accertato come l'uomo sia riuscito a salire sopra il colonnato. Una ipotesi che può essere avanzata è
quella che abbia utilizzato i ponteggi allestiti per i restauri. L'uomo è già noto per precendenti di questo tipo
a Bruxelles.
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Corriere della sera
la manifestazione si è conclusa nel primo pomeriggio
No Tav, marcia pacifica sul cantiere
Taglio simbolico della rete senza incidenti
MILANO- Un corteo pacifico. Tranquillo per i sentieri di montagna. La manifestazione No Tav si è conclusa
intorno alle tre del pomeriggio senza alcun incidente. Così «abbiamo scontentato quelli che volevano le
botte, quelli che gufavano e che volevano che qualcuno si facesse male», riassume Alberto Perino, tra i
leader del movimento. Intanto però «l'obiettivo è stato raggiunto, siamo soddisfatti». La «zona rossa», cioè
quella intorno al cantiere, è stata violata e una rete tagliata. Si torna a casa con una certezza: «Non finisce
qui. La partita è lunga ma ce la faremo».
IL CORTEO- Almeno «20mila persone» (secondo gli organizzatori) si sono ritrovate a Giaglione per partire in
corteo intorno alle 11. Ad aprire lo striscione «Giù le mani dalla Val Susa». In testa i sindaci dei vari paesi
poi un gruppo di donne al grido: «Le donne della Val Susa si danno da fare sappiamo cucire ma anche
tagliare». Abbattuta una rete, il corteo è proseguito «deciso» verso il cantiere. Ma non riuscendo a
superare il secondo sbarramento, i manifestanti si sono poi divisi per arrivare alla baita della Val Clarea.
Dopo alcune trattative con le forze dell'ordine, in migliaia hanno raggiunto il «fortino», dove si è tenuta
un'assemblea per decidere come proseguire la giornata. La conclusione è stata unanime: «Si torna a casa».
I CONTROLLI- Insomma, i No Tav hanno mantenuto le «promesse». In tanti avevano assicurato che non ci
sarebbero stati scontri, ma «solo disobbedienza civile». E così è stato. Ma la questura di Torino ha preferito
non lasciare nulla al caso. E da giovedì ha cominciato i controlli a tappeto: 419 le persone identificate, 286
veicoli perquisiti e tre persone denunciate a piede libero perché trovate in possesso di oggetti ritenuti
sospetti dagli agenti. I manifestanti domenica mattina parlavano di almeno «15 fermati». Ma nella notte le
forze dell'ordine hanno denunciato 3 persone perché «trovate nella zona rossa con le cesoie».
B.Arg.
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Repubblica
Italia, un paese sospeso
tra indignazione e sfiducia
Il governo tira avanti anche se gli elettori giudicano conclusa la parabola berlusconiana. La fiducia nel
Cavaliere è ai minimi. Il centrosinistra sembra poter vincere ovunque. La partita delle alleanze del centro.
E la frustrazione diventa un impegno collettivo
di ILVO DIAMANTI
QUESTA LEGISLATURA resiste. Malgrado che, da mesi, tutti ne evochino la fine. Invocata dall'opposizione,
esorcizzata dalla maggioranza. Malgrado che gran parte degli elettori (oltre il 70%) ritenga la parabola di
Berlusconi ormai conclusa. Non credono alla risalita del Cavaliere neppure gli elettori del Pdl (45%),
tantomeno i leghisti (20%).
Tuttavia, si prosegue. O meglio, si staziona. Mentre la sfiducia dei cittadini cresce, insieme all'incertezza nel
futuro. I dati dell'Atlante Politico di Demos, raccolti attraverso un sondaggio condotto durante la scorsa
settimana, descrivono, infatti, uno scenario statico e pressoché stagnante, sul piano elettorale.
I due principali partiti confermano il loro debole primato nella coalizione. Il Pd, in lieve calo, si attesta
intorno al 28%. Il Pdl, in lieve crescita, raggiunge il 26%. Insieme superano di poco il 54%. Alle politiche del
2008 erano oltre il 70%. Una conferma di più che la prospettiva bipartitica è ormai illusoria. Ma,
soprattutto, un segno di crisi del bipolarismo così come l'abbiamo conosciuto.
D'altronde, gli alleati dei due partiti maggiori - IdV e SEL, a centrosinistra, la Lega, a centrodestra - occupano
uno spazio rilevante. Ma non possono svolgere un ruolo aggregante. Non ne hanno la vocazione e tanto
meno il peso. La Lega, peraltro, appare in calo sensibile.
Gli scenari elettorali tracciati in base alle possibili coalizioni confermano le tendenze dell'ultimo anno. Il
Centrosinistra - impostato sull'alleanza fra PD, IdV e SEL - sembra in grado di prevalere comunque. Da solo,
in una competizione a tre, contro il Centrodestra e il Centro. A maggior ragione, se alleato con il Centro. Ma
anche messo di fronte al Centrodestra allargato al Centro. Il quale conferma la sua difficoltà coalizionale.
Perché i suoi elettori soffrono ogni spostamento; verso sinistra, ma anche verso destra. Mentre da solo il
Terzo Polo allargherebbe i consensi molto al di là della somma del voto attribuito ai partiti che ne fanno
parte - UdC, API, FLI.
Le stime di voto si riflettono nelle previsioni degli elettori. Quasi il 50% di essi pensa che se si votasse oggi
vincerebbe il Centrosinistra, il 37% il Centrodestra, per il quale significa 10 punti in più rispetto a un mese
fa. La ripresa del Centrodestra, nella percezione degli elettori è favorita, forse, dal successo alle Regionali in
Molise, per quanto stentato. Ma è, soprattutto, un segno che si respira aria di elezioni anticipate. Non a
caso si è ridotta la quota di coloro che, al proposito, non esprimono un'opinione. D'altronde, è diminuita
sensibilmente anche la "zona grigia" dell'incertezza e dell'astensione elettorale. Oggi non supera il 25%:
circa 10 punti percentuali meno di un mese fa.
Eppure, l'orizzonte resta pervaso dall'incertezza. Di fronte alla crisi politica attuale, infatti, gli elettori si
dividono in modo eguale fra le tre soluzioni proposte: un governo di emergenza, guidato da una figura
autorevole (l'ipotesi preferita, anche se di poco: 34%); nuove elezioni nei prossimi mesi; oppure tirare
avanti, con questo governo, fino al 2013. Insomma, come si è detto, questa legislatura sfinita non si decide
a finire. Anche se la stanchezza del governo è evidente e riflette, anzitutto, la stanchezza della leadership.
La fiducia nei confronti di Silvio Berlusconi, infatti, è ai minimi (22%, quasi come il mese scorso). Più basso
di lui, solo Bossi, il fedele alleato. I due appaiono saldamente legati, nella buona e nella cattiva sorte.
Tuttavia, questa palude di sfiducia rischia di inghiottire tutto e tutti. Non solo i partiti e gli uomini della
maggioranza.
Basta guardare gli indici di fiducia nei confronti dei leader politici. Tutti in calo. In testa è tornato Tremonti,
con il 37% di consensi. Ma solo perché, nell'ultimo mese, ha perso meno degli altri. Un anno fa, tuttavia, il
credito verso il ministro dell'Economia era superiore di 10 punti percentuali. Il leader del PD, Bersani,
ottiene la fiducia del 34% degli elettori: 7 punti meno di un anno fa. L'indice di fiducia verso Vendola,
rispetto al novembre 2010, è sceso addirittura di 15 punti. Ora è al 33%.
Perfino Beppe Grillo - che, sulla sfiducia verso "tutti" i partiti, ha fondato la propria fortuna - nell'ultimo
anno un anno ha perso 8 punti di consenso. Di Pietro, restando fermo al 35% come un anno fa, è quasi in
testa alle preferenze. Il fatto è che la fiducia si è rarefatta. Basti pensare che nella graduatoria costruita in
base agli indici di fiducia personale, nel novembre del 2010, il leader posizionato al 5° posto, cioè a metà,
otteneva il consenso del 39% degli intervistati. Oggi la fiducia verso il leader che occupa la medesima
posizione è scesa al 30%.
La sindrome della sfiducia affligge tutti gli attori politici. I partiti per primi: "stimati" (si fa per dire) da meno
del 5% dei cittadini. Ma anche le istituzioni. Lo Stato (il cui l'indice di fiducia si è ridotto al 20%), la stessa
magistratura (42%: 7 punti meno di un mese fa). L'onda grigia lambisce perfino il presidente della
Repubblica, che dispone di un consenso cosmico, rispetto a tutti gli altri. Il 70% dei cittadini esprimono
"molta/moltissima" fiducia nei suoi confronti. Il che significa, però, 4 punti in meno di un mese fa.
D'altronde, la sfiducia nel futuro (62%) non è mai stata così alta, negli ultimi dieci anni.
Anche per questo motivo non sorprende che la maggioranza degli italiani esprima sostegno gli "indignati"
che hanno manifestato il 15 ottobre a Roma. Nonostante le violenze che ne hanno funestato lo svolgimento
- le cui responsabilità, tuttavia, sono attribuite prevalentemente ad altri soggetti. Non è solo perché è
difficile disconoscere le buone ragioni degli "indignati".
La frustrazione dei giovani, privati del futuro, costretti a un eterno presente, naturalmente precario. Il fatto
è che l'indignazione è, ormai, un esercizio collettivo. Tutti si sentono - e sono - indignati. Contro le
istituzioni pubbliche, contro lo Stato, gli statali, i partiti, i politici. Contro la Casta. Perfino i politici e la Casta
si sentono indignati. Reciprocamente e contro chi si indigna con loro.
Da ciò il rischio. Che l'indignazione smetta presto di essere una virtù rivoluzionaria. E diventi un riflesso
condizionato. Una parola alla moda. L'ultima beffa verso coloro che hanno tutti i motivi per dirsi
"Indignati". Non gli hanno rubato solo il Futuro e il presente. Ma perfino l'Indignazione.
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Repubblica
Budapest, in migliaia in piazza
contro il bavaglio alla stampa
Censura elettronica del governo dell'ultradestra sulla manifestazione: almeno sessantamila persone in
corteo
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI
BERLINO - L'Ungheria non è ancora morta, la società non si piega alla svolta autoritaria del premier Viktor
Orban. Decine di migliaia di cittadini oggi (tra sessantamila e centomila) sono scesi in piazza a Budapest,
hanno sfilato in pieno centro in nome della libertà di stampa e per dire no alla legge bavaglio.
Simbolicamente, la manifestazione - che è stata probabilmente la più grande da quando nell'aprile
dell'anno scorso a seguito della vittoria elettorale la Fidesz, cioè il partito di destra nazionalpopulista
autoritaria e con tratti nostalgici o revisionisti sulla lettura del passato, guidato da Orban, ha preso il potere
- si è svolta proprio il 23 ottobre. Cioè nell'anniversario dell'inizio della rivoluzione del 1956, quando sotto la
dittatura comunista e in piena guerra fredda studenti, operai, base e quadri riformatori dello stesso Partito
comunista si ribellarono sognando, come 12 anni dopo col Sessantotto a Varsavia e a Praga con la
Primavera di Dubcek, un socialismo dal volto umano.
Coincidenza significativa, e intanto Orban era a Bruxelles al vertice europeo e ha ignorato l'anniversario
della rivoluzione. Mentre le autorità hanno fatto di tutto per rendere il più difficile possibile la diffusione di
notizie sulla protesta. Si è arrivati persino allo spegnimento in centro delle telecamere di controllo del
traffico, che in una capitale grande, vivace e dalla circolazione intensa come la splendida Budapest sono
numerosissime e indispensabili. E nelle stesse ore, per un caso che appare davvero singolare, pannes
elettroniche bloccavano o infastidivano gravemente l'accesso ai siti d'informazione online indipendenti.
Censura elettronica quasi come nella Cina comunista che il nazionalconservatore Orban, amico e
ammiratore dichiarato di Putin e di Berlusconi, elogia contro la protesta per la libertà di stampa e per
l'abrogazione della legge-bavaglio. Eppure la gente è venuta in piazza: decine di migliaia, almeno
sessantamila secondo i media indipendenti, e centomila a detta degli organizzatori, nonostante che negli
ultimi tempi intimidazioni e controlli sul posto di lavoro specie nel settore pubblico in Ungheria spingano a
riflettere prima di partecipare a cortei antigovernativi.
"No al bavaglio", "libertà d'informazione", "questo regime non mi piace", erano gli slogan dei dimostranti
gridati in piazza e scritti su striscioni. I promotori hanno distribuito simbolicamente tessere-stampa a ogni
partecipante per invitare chiunque a sfidare la censura. E in piazza era anche il nuovo sindacato-movimento
per la democrazia chiamato 'Szolidàritas', sull'esempio di Solidarnosc che guidò la svolta non violenta della
rivoluzione polacca decenni addietro. La manifestazione non è stata indetta dai partiti d'opposizione, cioè i
socialisti (Mszp) e i Verdi, ma è stata organizzata online e con passaparola dal movimento "Un milione per
la libertà di di stampa", con lo slogan "il regime non mi piace". I dimostranti erano numerosissimi, dallo
Erzsébet Hìd (Ponte Elisabetta, dedicato all'imperatrice Sissi moglie di Francesco Giuseppe che appoggiò gli
sforzi del nobile patriota liberal conte Andrassy per l'autonomia e i diritti dei magiari nell'Impero asburgico)
alla stazione Astoria del metrò. Da cinquantamila a settantamila i partecipanti, nonostante la fitta pioggia e
i primi freddi, secondo l'autoevole tv indipendente Atv odiata dal governo ma molto seguita dagli
osservatori del mondo libero.
I dimostranti hanno così voluto protestare contro la legge- bavaglio introdotta dal governo, il quale ha
istituito un'autorità di controllo dei media (Nmhh) senza equivalenti nei paesi Ue e Nato e nel mondo
libero, e punisce con misure di censura e multe pesantissime i media critici. Nei mesi successivi il governo
Orban ha riscritto la Costituzione in senso autoritario e nazionalista, e ha attuato una vastissima purga nei
media pubblici poi nell'amministrazione pubblica e in scuole e università. Gli ultimi provvedimenti
governativi, come hanno riferito tutte le maggiori agenzie di stampa internazionali, hanno gravemente
ridotto o quasi annullato l'autorità del potere giudiziario abolendo l'equivalente magiaro del consiglio
superiore della magistratura e instaurando la nomina dei giudici (come di rettori e presidi in università e
scuole) da parte del governo.
Nel frattempo politiche fiscali punitive contro il "grande capitale internazionale" (definizione che evoca alla
lontana ma sinistramente il frasario di Goebbels) hanno allarmato gli investitori stranieri contribuendo a
frenare gravemente la politica economica. In contrasto stridente col boom economico della solida
democrazia polacca, o con la crescita in Repubblica cèca, Slovacchia Slovenia e Romania, l'Ungheria che
nell'89 a fianco della Polonia di Solidarnosc fu un'avanguardia nel movimento rinnovatore dell'Est che portò
alla caduta dell'Impero sovietico e del Muro di Berlino versa oggi in una grave situazione economica e di
conti pubblici. E intanto riduzione degli anni di scuola dell'obbligo e dimezzamento delle università
aggravano la difficoltà dei giovani di qualificarsi per trovare un lavoro, anche qui in controtendenza con le
forti spese polacche per istruzione ricerca e tecnologia. E la crisi del sistema sanitario e del sistema
pensionistico (con l'esproprio dei fondi privati) ha portato a un aumento della mortalità assolutamente
inedito in un paese centroeuropeo.
Nazionalista, eurominimalista, ammiratore dichiarato di Berlusconi e Putin e fautore di un rapporto speciale
con la Cina, Orban ha anche scelto di far riscrivere la Storia del paese dai suoi ideologi: l'unica macchia nera
del passato secondo lui è il periodo comunista, ma la dittatura di destra di Miklos Horthy che poi fu alleata
di Hitler fino all'ultimo e attivissima complice dell'Olocausto, non è classificata tra le "macchie". In Ungheria
dalla presa del potere di Orban episodi di razzismo specie contro i rom si sono moltiplicati. E la Magyar
Garda, l'organizzazione paramilitare del partito neonazista e antisemita Jobbik, pur ufficialmente proibita, si
raduna indisturbata con uniformi nere e simboli chiaramente nostalgici e continua pogrom e violenze
contro i rom. Intanto il governo sempre per rileggere la Storia vuole rimuovere da Kossuth Tér, la storica
piazza del Parlamento, le statue del grande poeta Attila Jozsef, il Thomas Mann ungherese, e del conte
Mihaly Karoly, un aristocratico riformista del passato. Mesi fa la centralissima piazza intitolata al grande
presidente americano Franklin Delano Roosevelt, primo artefice della vittoria alleata sull'Asse nella seconda
guerra mondiale, ha cambiato nome nonostante il chiaro malumore di Washington.
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Repubblica
Dopo le pagelle cartacee
il governo elimina i presidi
Tra le norme previste dal disegno di legge di Stabilità ce n'è una che rischia di lasciare una scuola su tre
senza presidenza e di far sparire tutti i posti del concorso appena iniziato
di SALVO INTRAVIA
ROMA - Oltre alle pagelle cartacee, il governo ha deciso di abolire anche le presidenze. Il disegno di legge
di Stabilità, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 14 ottobre e approdato in Parlamento per la
discussione e definitiva approvazione, contiene una norma che rischia di lasciare senza un preside titolare
una scuola italiana su tre e di fare sparire tutti i posti del concorso a preside appena iniziato. Una situazione
che in Italia non si è mai verificata e che potrebbe contribuire a rendere ancora più difficile gestire le scuole
del Belpaese. Tra meno di un anno, più del 50 per cento degli istituti potrebbero essere gestiti da presidi
“part-time”. E c’è chi già “si indigna” per un modo di operare del governo che carica di responsabilità i capi
d’istituto senza “nessun riconoscimento economico”.
Ma la norma in questione, secondo i soliti bene informati, potrebbe rappresentare la risposta del governo
alle regioni che, in nome del federalismo, si rifiutano di obbedire al diktat dei palazzi romani sul
dimensionamento della rete scolastica, di pertinenza delle regioni. Il tutto, in nome di un federalismo più
enunciato dall’esecutivo per fare piacere alla Lega che percorso nei fatti. Per comprendere la situazione
occorre fare un passo indietro. Lo scorso mese di luglio, il governo vara la prima Finanziaria di una lunga
serie, che contiene gli ennesimi tagli alla scuola. Questa volta Tremonti prende di mira le poltrone di
dirigente scolastico.
Per risparmiare alcune decine di milioni, stabilisce che a partire dal 2011/2012 le scuole con meno di 500
alunni – 300 nelle piccole isole e nei comuni montani – non potranno più avere un preside titolare, ma
saranno guidate da un reggente: un capo d’istituto già al comando di un’altra scuola. L’obiettivo è quello di
tagliare 1.812 presidenze e relativi stipendi, per un risparmio di circa 100 milioni l’anno. Ma il recente
disegno di legge di Stabilità rincara da dose: innalza da 500 a 600 il numero degli alunni per scuola – 400
per i comuni montani e le piccole isole – che fa scattare la presidenza titolare e include nel taglio anche la
figura del dsga: il vecchio segretario.
I numeri del colpo di scure sono contenuti nella relazione tecnica allegata al disegno di legge di stabilità:
145 milioni di euro nel 2012/2013, 150 nel 2013/2014 e 160 nel 2014/2015. In totale, quasi mezzo miliardo
di euro che si aggiunge agli 8 miliardi già tagliati con la Finanziaria del 2008. Le presidenze che, secondo i
calcoli di via XX settembre, salteranno sono 3.138, stesso destino per altrettanti posti di dsga. Ma non solo.
Il taglio di 3.138 presidenze corrisponde al 31 per cento delle oltre 10 mila poltrone di capo d’istituto
esistenti in Italia. E se restasse immutato il numero delle scuole, il 62 per cento verrebbe gestito da presidi
“a scavalco”.
Ma il taglio delle presidenze potrebbe vanificare gli sforzi di migliaia di insegnanti che in questi giorni si
stanno sacrificando per affrontare le prove di selezione del concorso per diventare dirigente scolastico.
Qualche mese fa, il governo ha bandito il concorso a preside mettendo in palio 2.386 posti. Poi, arrivò la
finanziaria di luglio e pochi giorni fa anche la legge di stabilità. E i 2.386 posti per i vincitori di concorso?
Ogni anno, il numero di pensionamenti oscilla fra le 500 e le 600 unità. Così, se la matematica non è
un’opinione, nel 2012 i vincitori del concorso potrebbero avere la sgradita sorpresa di non trovare poltrone
sulle quali sedersi.
E la Dirpresidi “si indigna”. “Anche i presidi delle scuole si indignano. Ma non certamente per ‘simpatia’ con
gli indignados dei cortei romani. In applicazione della manovre finanziaria, l’organico dei dirigenti scolastici
diminuirà di 3.138 con aggravio del carico di lavoro e ancora viene negata la perequazione interna ed
esterna”, scrive Giuseppe Adernò. “I compiti e le responsabilità che graveranno sui presidi che avranno
oltre mille studenti e più – continua – di cento docenti e personale Ata saranno notevoli ed in più per
molte scuole non sarà facile gestire alunni e classi dislocate in più plessi scolastici, per carenza di strutture e
per necessità ambientali”.
“Il ministero delle Finanze che sovrintende e governa la scuola italiana vuole la botte piena di economie e
la moglie ubriaca di lavoro e di stress”, conclude Adernò. Ma i bene informati giurano che la norma in
questione è la risposta alle regioni che si rifiutano di fare il dimensionamento scolastico come ha indicato il
governo. Nella stessa finanziaria di luglio c’era anche infatti un’altra norma: la previsione di abolire tutte le
scuole medie autonome e le direzioni didattiche per formare istituti comprensivi con almeno mille alunni.
L’obiettivo è sempre lo stesso: tagliare un migliaio di presidenze. Ma sulla rete scolastica la competenza è
delle regioni, che in alcuni casi si sono rivolte alla Consulta.
La disposizione prevista dalla legge di stabilità dovrebbe “indurre” quindi anche le regioni “riottose”
(Toscana, Emilia Romagna, Puglia, Liguria, Marche, Sicilia e Basilicata) a cambiare idea. Infatti, le stesse
possono anche rifiutarsi di dare corso al dimensionamento scolastico – smembramento delle scuole medie
ed elementari e riaccorpamento dei plessi per formare istituti comprensivi con almeno mille alunni –
indicato dal governo, ma si troverebbero scuole senza dirigente scolastico e segretario titolari. Insomma,
una situazione che alla lunga porterebbe le istituzioni scolastiche in questione alla paralisi.
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La stampa
Primi passi di Unione a più livelli
MARTA DASSÙ
E’ il primo summit europeo che si chiude per aprirne un secondo, mercoledì prossimo. Nei tre giorni che
restano, Angela Merkel dovrà vendere a casa - alla Commissione bilancio del Bundestag - il pacchetto di
salvataggio dell’euro. Al vertice di Bruxelles, l’approccio tedesco ha prevalso sui punti cruciali in agenda:
l’unica Europa possibile sembra essere questa.
Un’Europa che dipende dalla politica interna della Germania: il Paese di centro, economicamente più forte
ma con una leadership che ha le mani legate, quando è in ballo l’Europa, dal proprio Parlamento.
Nell’Europa tedesca che sta nascendo dalla crisi del debito, la Francia è solo in apparenza un partner
«uguale». In realtà, Berlino pesa troppo e Parigi troppo poco per produrre un direttorio efficace. Gli altri
hanno un ruolo minore (i nordici), sono azzoppati dal debito (i mediterranei), hanno ormai scelto di stare
fuori da tutto ciò (la Gran Bretagna) o di aspettare (la Polonia). L’Europa tedesca nasce, in senso proprio,
«by default»: non tanto il default parziale di un Paese periferico come la Grecia, ma l’evaporazione politica
di una serie di altri attori europei tradizionali, Italia inclusa. Nel «Comitato di Francoforte» che ha preso il
posto dei sei vecchi Paesi fondatori, le istituzioni comuni siedono a fianco di Merkozy, la coppia ineguale.
Ma la Commissione di Bruxelles comincia a sembrare un segretariato tecnico, più che il potenziale governo
dell’Unione; il Consiglio europeo riflette l'esistenza di questa gerarchia, di cui il futuro Mr. Euro non potrà
che tenere conto; e la Bce resta in posizione ambigua. La Banca di Francoforte è intervenuta per tamponare
la crisi del debito ma non può assumere il ruolo - come vorrebbe chi crede in un’Unione fiscale - di
«prestatore di ultima istanza».
Questa fotografia (un po’ cruda, lo ammetto) dei rapporti di forza non elimina il punto sostanziale: l'Unione
monetaria potrà superare la crisi attuale solo se i Paesi che la guidano oggi, la Germania anzitutto,
aumenteranno il loro tasso di solidarietà (troppo basso, anche secondo le parole di un «grande vecchio»
tedesco come Helmut Schmidt); e solo se i Paesi in debito aumenteranno il loro tasso di credibilità (riforme)
e la loro disciplina di bilancio. Da questo punto di vista, il doppio vertice di questi giorni segna un progresso
potenziale, almeno sulla carta. Perché, con le soluzioni analizzate altrove da Marco Zatterin (la
ricapitalizzazione delle Banche, il potenziamento del Fondo Salva-Stati, la ristrutturazione del debito greco,
gli impegni delle economie vulnerabili, fra cui l’Italia), il compromesso alla base dell’Unione monetaria - fra
solidarietà e disciplina - riacquista un qualche senso. Sono decisioni che basteranno a calmare i mercati? La
risposta onesta è: solo in parte e solo per un po’. Per una soluzione strutturale ci vorrebbe altro. Ci
vorrebbe probabilmente un salto di qualità verso il coordinamento fiscale, di cui l’emissione congiunta di
titoli europei (i famosi Eurobonds) sarebbe il primo passo. La realtà, tuttavia, è che le condizioni politiche
per uno sviluppo del genere non esistono ancora; esiste anzi una notevole sfiducia reciproca, come ha
dimostrato il brutto clima di Bruxelles. Per ora, incapaci di risposte strutturali in casa loro, gli europei
stanno cercando rimedi fuori, fra cui nuovi crediti da parte dei Paesi ricchi di riserve finanziarie, come la
Cina e gli emirati del Golfo. È una soluzione che ha dei costi politici (poco discussi) per l’Ue; ma che sono
considerati inferiori, evidentemente, agli oneri economici di una soluzione propriamente europea.
C’è chi ritiene, guardando alle esitazioni tedesche degli ultimi mesi, che la Germania abbia in tasca in realtà
un Piano B. Punti cioè alla creazione di un «piccolo» Euro del Nord, depurato dai debiti mediterranei. È una
tesi diffusa ma non convincente: è vero che una parte dell’élite tedesca ha sempre avuto obiettivi del
genere (li aveva già negli anni ‘90, prima del varo della moneta unica); ma è vero anche che i costi di una
frattura dell’euro sarebbero, per la Germania stessa, molto superiori ai vantaggi. Angela Merkel ne è
consapevole. Il suo progetto non è di disfare l’eurozona; è di rifarla a condizioni tedesche. Il che vuol dire, in
sintesi estrema: senza troppi oneri per i propri contribuenti; e imponendo regole più rigide ai Paesi in
debito, con sanzioni automatiche e nuovi poteri di intervento nelle politiche interne. L’erosione della
sovranità nazionale in materia di bilancio sta diventando una delle conseguenze del debito sovrano, come
l’Italia ha avuto modo di constatare ieri a Bruxelles: ciò significa che le riforme mancate, nell’Europa di oggi,
hanno un prezzo politico crescente e non solo un prezzo economico.
Il Piano A della Germania è di ancorare questa Europa «alla maniera tedesca» ad una riforma ulteriore dei
Trattati. La sola idea, visti i precedenti e data l’urgenza di oggi, sembra assurda. Ma rispecchia assai bene,
oltre che i vincoli interni e costituzionali di Berlino, la conclusione che Angela Merkel ha tratto dalla crisi di
Grecia e dintorni: regole più stringenti e molto più vincolanti sono necessarie, per evitare che l’Unione
monetaria passi di crisi in crisi. D’accordo. Ma se il prezzo della cura del debito sarà un decennio di
austerità, è probabile che l’Europa tedesca non si dimostri nel tempo sostenibile.
Se sopravviverà a una crisi finanziaria che è una specie di guerra moderna, l’Unione europea avrà un volto
diverso. E magari il suo «Trattato di pace». In teoria, nascerà un’Europa a più livelli, con un cuore interno
fondato sull’euro e su istituzioni in parte separate da quelle dell’Europa a 27. In un cerchio esterno,
resteranno i Paesi membri del mercato unico ma non della moneta unica. Per i federalisti, un «nucleo duro»
dell’euro può anche essere un’occasione. In una visione diversa, esiste il rischio che la creazione di
un’Unione del genere - così differenziata al suo interno - finisca per danneggiare il mercato unico, ledendo
così uno dei punti di forza dell’economia europea. È una discussione importante per il futuro del Vecchio
Continente: peccato che dopo essere stata fra i fondatori dell’Europa del secolo scorso, l’Italia sembri più
che altro un oggetto dell’Europa che si sta disegnando.
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La stampa
La scelta che il premier
non può più rinviare
MARIO CALABRESI
E’ odioso essere commissariati, essere cittadini di uno Stato a sovranità limitata, a cui premier stranieri
dettano l’agenda delle riforme e impongono tre giorni di tempo per dare risposte.
È irritante assistere ai risolini e agli ammiccamenti di Merkel e Sarkozy quando sentono parlare d’Italia e di
Berlusconi: ciò non è accettabile ed è irrispettoso.
È umiliante ascoltare che l’Europa ci considera alla stregua della Grecia, anzi - a quanto ci risulta - al vertice
di ieri è stato detto che «in questo momento non solo l’Italia è in pericolo, ma è il pericolo».
Il rispetto però ce lo si conquista con la credibilità e mantenendo gli impegni e tutto questo a noi manca da
troppo tempo. Siamo il malato d’Europa perché il governo è paralizzato e non riesce a indicare una
direzione di crescita e riforme. In tutto il Continente, pur tra mille divisioni, si concorda su una cosa: o il
premier italiano cambia improvvisamente marcia o - per il bene di tutti - si fa da parte seguendo l’esempio
spagnolo.
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La stampa
Sovranità ridotta per salvarsi
STEFANO LEPRI
Ora sì che siamo sotto tutela. I Trattati europei non prevedono nessun «commissariamento» del governo
di un Paese membro, ma ciò che è avvenuto ieri è quanto più si può fare in quella direzione. All’Italia si
chiede di adottare entro i prossimi tre giorni le parti inascoltate della ormai famosa lettera inviata da
Trichet e Draghi all’inizio di agosto.
Volendo fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe ribattere: gli altri Stati europei se la prendono con l’Italia
perché non si sono riusciti ancora a mettere d’accordo su tutto il resto. Ma non è così.
C’è una ragione precisa per cui l’Italia è passata avanti a tutto il resto, nella ardua scelta della cadenza in cui
affrontare i diversi aspetti del problema dell’euro di cui parlava ieri Bill Emmott su questo giornale. La
Francia e la Germania restano ancora divise su come rafforzare il Fondo europeo di salvataggio, l’Efsf.
Eppure, sulla base delle presenti condizioni l’Italia appare too big to be saved, troppo grande per essere
salvata da questo fondo comunque rafforzato, se per caso i mercati finanziari si accanissero contro di lei.
Silvio Berlusconi finora ha contato che il nostro Paese fosse, per restare al gergo della finanza, too big to
fail, troppo grande – a differenza della Grecia – per essere lasciato fallire, e che quindi gli altri Paesi fossero
costretti ad aiutarci magari anche storcendo il naso. Ieri a Bruxelles è emersa la realtà: contro l’Italia si è più
impazienti che verso altri Paesi in difficoltà, perché solo l’Italia ha un peso tale da trascinare a fondo anche
chi tentasse di salvarla; si è particolarmente impazienti perché le resta ancora un po’ di tempo, seppur
poco, per salvarsi da sola (a differenza della Grecia, di cui ormai una parziale insolvenza pare inevitabile).
Non si fraintenda: in tutto questo c’entrano assai poco i provvedimenti «per lo sviluppo» sui quali il
governo non riesce a decidere da settimane. Dalle parole del presidente del Consiglio europeo Herman van
Rompuy e del cancelliere tedesco Angela Merkel si ricava che: 1) non viene ritenuto credibile l’impegno al
pareggio del bilancio nel 2013, contenuto nella maxi-manovra economica di Ferragosto; 2) occorre perciò
un nuovo sforzo per riempirlo di contenuti; 3) per limitare gli effetti recessivi dell’austerità necessaria a
riequilibrare il bilancio, occorre varare riforme economiche importanti, capaci di indicare una nuova via di
crescita per l’economia italiana.
Servono appunto riforme di grande portata, non le mance a questo e a quello (gabellate per incentivi allo
sviluppo) di cui si è inutilmente discusso fino a ieri perché Giulio Tremonti non voleva sborsare i soldi
necessari. Il breve elenco enunciato ieri da Van Rompuy contiene tutti i punti disattesi della lettera della
Bce: «mercato del lavoro, aziende pubbliche, privatizzazioni, sistema giudiziario, lotta all’evasione fiscale».
Ancora, non si fraintenda: la «giustizia» di cui si parla qui non è penale, è civile, con la sua lentezza quasi
unica al mondo intralcia l’economia; e i provvedimenti suggeriti per il mercato del lavoro (meno tutele per i
lavoratori fissi ma più per i precari, indennità di disoccupazione per tutti, nella versione della Bce) non
coincidono con quelli fin qui presi, pur se risulterebbero sgraditi alla Cgil anch’essi.
L’Italia appare oggi come il caso limite di una irresponsabilità dei governi nazionali verso gli interessi
collettivi europei che non è più compatibile con l’unione monetaria. Per andare avanti sarà richiesta a tutti
una rinuncia parziale di sovranità; a tutti, anche alla Germania che per ora preferisce il soccorso alle proprie
banche all’aiuto per la Grecia, benché il primo costi assai più caro del secondo. Il processo decisionale
europeo è lento in modo esasperante, per colpa di tutti; ieri abbiamo veduto emergere il timore che la
paralisi italiana lo faccia deragliare una volta per sempre.