Sproporzioni della guerra a Gaza lanfranco caminiti L’asserzione sulla sproporzione numerica dei morti a Gaza fra le file palestinesi e quelle israeliane – tutti da una parte, pochi dall’altra – come evidenza d’un massacro, fatta dall’ex ministro degli esteri D’Alema anche se non è certo il solo a dirlo, induce a alcune considerazioni. Massacro non è parola di etimologia italiana, viene dal francese, e sta a indicare: uccidere selvaggiamente e in gran numero degli esseri che non si possono difendere [tuer avec sauvagerie et en grand nombre des êtres qui ne peuvent se défendre]. È un’espressione che è stata traslata a indicare un efferato gesto degli uomini contro altri uomini – prigionieri, a esempio: a Katyn fu compiuto il massacro di circa diecimila ufficiali polacchi nelle mani dell’Armata rossa – da un precedente uso a indicare un gesto umano verso animali affidati in custodia, buoi o agnelli. Un’azione di macelleria [macecre]. L’espressione si diffonde dal Seicento dopo la notte di san Bartolomeo e il massacro dei protestanti, riuniti a Parigi. Per quel che se ne sa, i morti fra i cattolici furono pochissimi, mentre a migliaia furono tra i protestanti. Esseri inermi a te affidati: gli ugonotti erano in festa e si affidavano a Caterina de’ Medici. Una definizione su misura. Forse non si attaglia propriamente alla descrizione del rapporto fra palestinesi e israeliani, anche se viene spesso spontaneo pensare a Gaza come a una forma di prigione. Ma l’uccisione in gran numero di bambini e donne e uomini inermi da parte di un esercito lascia indurre a quell’espressione, fossero pure molti di più i morti da parte israeliana. Pure, diciamo: l’eccidio di Cefalonia o la strage di Sant’Anna di Stazzema, e non è una proporzioni di morti, è una deliberazione a uccidere in quantità. Nell’orrore delle descrizioni della guerra cerchiamo parole tra sinonimi, forse come un maggior rispetto per le vittime. Ma a Katyn, a Cefalonia, a Sant’Anna – e in centinaia d’altri luoghi – non ci furono morti fra gli esecutori: i massacri, e le stragi e gli eccidi, non prevedono che muoia anche solo uno di chi uccide. La proporzione è fuori luogo. Chissà se proprio questo si intendeva. Nei commenti di molti analisti e politici, la considerazione sulla sproporzione numerica dei morti a Gaza si è spesso accompagnata a un’altra espressione sulla sproporzione: l’«uso sproporzionato della forza» da parte di Israele in risposta ai razzi Quassam, senza riferimento a esseri inermi o affidati in custodia, bensì alla proporzione della forza, degli apparati militari: i Quassam fanno poche vittime, i cannoni israeliani ne fanno in quantità. Ed è sulla combinazione delle due espressioni – insieme sembrano fare un ragionamento – che vanno fatte delle considerazioni. La conta dei morti Sulla base della conta numerica dei morti – uno a molti in due campi opposti –, ogni attentato suicida d’un «martire del jihad», o meglio: una serie di quelli che “riescono” e nelle intenzioni di chi li compie tutti dovrebbero “riuscire”, sarebbe un massacro. I «martiri» attentatori che si fanno esplodere puntano proprio a rovesciare la fragilità militare: l’uno può ucciderne tanti, basta salire su un autobus – e anche questa è un’evidenza. Si dovrebbe dedurne, in questo caso, un uso sproporzionato della debolezza militare. Ma nessuno userebbe un’espressione simile: chi, fra i due campi in guerra, è debole militarmente – il riferimento è al confronto sulla forza degli apparati militari – prevedibilmente userà qualunque mezzo senza proporzione e, nell’opinione comune, gli è quasi «naturalmente» concesso: come potrebbe battersi senza ricorrere a qualunque mezzo? Per senso comune, questo ci aspettiamo: che l’uno possa combattere scompostamente in nome di principî, mentre l’altro debba attenersi a delle regole. Ma nella guerra asimmetrica, come ormai si definiscono le guerre ma che forse sarebbe più giusto definire: nella guerra sproporzionata, la sproporzione dei morti da una parte e dall’altra in ogni evento bellico – e un attentato, una azione che appartiene alla strategia militare e politica, ormai lo è come un mitragliamento o un assedio –, va in conto. Fa parte di quel mostruoso calcolo che tocca a chi raccoglie e cataloga le spoglie. Non fu proprio il numero impressionante dei morti – per fortuna poi diminuito, ma sempre rilevantissimo – nell’attentato alle Torri gemelle del settembre 2001 compiuto da meno d’una dozzina d’uomini tra le cose che colpirono? Curiosamente, durante la guerra del Vietnam, la «conta dei morti» fu voluta e puntigliosamente eseguita dall’esercito americano nel tentativo di dimostrare che stessero vincendo. Nella seconda settimana del 1968 i portavoce dell’esercito comunicarono il nuovo record di nemici uccisi: 2968, che batteva quello settimanale precedente, del 19-25 marzo 1967, di 2783. Poco dopo scoppiò la decisiva offensiva del Tet, e il generale Westmoreland disse presto che era costata al nemico numerose perdite – avevano subito contato i morti –, il che era vero, ma certo non bastava a spiegare tutto. Ma negli attacchi suicidi se per un verso si tratta spesso di esseri inermi quelli contro cui sono rivolti, quegli stessi non sono certo a loro «affidati»: sono considerati, tutti, nemici, o, almeno, tutti pregiudizialmente ostili, in quanto appartenenti a una razza, una religione o una nazione. A esempio, il Fronte nazionale di liberazione algerino, come già praticava l’esercito francese, usò anche il terrore; lasciava bombe nei bar frequentati da francesi, facendo puntualmente dei «massacri» – come, ricorrendo impropriamente alla propria lingua, li definivano i giornali parigini: i francesi in Algeria non si affidavano certo agli arabi. E a nessuno a Parigi veniva in mente la sproporzione numerica, perché era un argomento evidentemente poco adatto in una situazione “coloniale” – dove pochi, i «forti» d’una razza, governano i molti, i «deboli», di un’altra: l’Algeria, propriamente, era occupata e governata dai francesi. E lo stesso – qualunque cosa si voglia dire in proposito – non può esattamente dirsi della striscia di Gaza. La striscia di Gaza è l’Hamastan. A Gaza, da una parte e dall’altra, ci si considera tutti nemici, o, almeno, tutti pregiudizialmente ostili. La conta dei morti viene spietatamente fatta. La reazione sproporzionata Il ragionamento sulla sproporzione della reazione è complicato: il bombardamento di Dresda nella Seconda guerra mondiale fu un massacro, voluto e pensato come tale; l’uso del fosforo nelle bombe, già provato su Amburgo, si intensificò allora e forse non è mai smesso: il più recente, prima di Gaza, è stato a Falluja. L’esecutore di Dresda, il colonnello Harris, fu per sempre marchiato come macellaio – ritorna la motivazione originaria del termine –, ma certo non dovette deciderlo da solo: era pensato come un colpo decisivo alla nazione tedesca. Era così? Era necessario militarmente, il febbraio del 1945? Era «sproporzionato» al bombardamento di Coventry e al continuo piovere su Londra delle V2 tedesche? E il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki – agosto 1945 – cos’altro fu se non un massacro come mai visto? Era necessario per piegare l’esercito giapponese? Era «sproporzionato»? Allora si disse, e così lo si «giustificò», che mise fine alla guerra nel Pacifico. Era allora possibile giustificare l’Armata rossa che avanzando verso Berlino rase al suolo, stuprò, depredò, deportò, cercando di raggiungere una qualche propoporzione – un risarcimento – con quello che avevano fatto i tedeschi avanzando verso est? Tutto questo sta «dentro» guerre convenzionali, a uno scontro tra eserciti, e poco si attaglierebbe a Gaza. Ma quello che ci fa sempre orrore in realtà è il coinvolgimento dei civili, non lo scontro tra eserciti proporzionati, non le proporzioni. Per dire di una guerra convenzionale, alla battaglia di Verdun, nella Prima guerra mondiale, ci furono 540.000 perdite tra i francesi e 430.000 fra i tedeschi, e alla Somme si contarono 620.000 perdite tra inglesi e francesi, contro 450.000 tedeschi. Le cifre raccontano di una proporzione: ma l’angoscia non viene meno, nasce dalla somma, dal cumulo. Dall’insensatezza, dagli orrori della guerra. Dopo Waterloo, per anni, gli inglesi rastrellarono a fondo il terreno tutt’intorno – in uno spazio grande la metà di Villa Borghese ci furono sessantamila morti in una sola giornata – recuperando milioni di bushel di ossa di animali e uomini che mandavano in Gran Bretagna per triturare e usare nell’industria, e forse questo ci colpisce quanto il numero dei morti della battaglia stessa. Tutto ciò ci sgomenta, ma tuttavia è diverso dall’orrore che proviamo per il coinvolgimento dei civili: i civili, in guerra, dovrebbero essere affidati agli eserciti, a tutti gli eserciti. Ma così non sembra più, ammesso, appunto, sia mai stato. Il 16 marzo 1968 – mentre Westmoreland faceva ancora la conta dei morti dell’offensiva del Tet – la 23° divisione di fanteria dell’esercito americano che combatteva nel villaggio di Son My, nel Vietnam centrale, massacrò in un solo giorno trecentoquarantasette civili disarmati. Gran parte del massacro avvenne in un piccolo agglomerato di nome My Lai. Vecchi, donne, bambini, neonati furono sistematicamente eliminati a colpi di pistola o fucile. Le donne furono percosse con i calci dei fucili, alcune violentate, sodomizzate. Fu ucciso anche il bestiame, che venne poi gettato nei pozzi per avvelenare l’acqua. Gli americani buttavano bombe nei rifugi sotto le case dove gli abitanti avevano cercato riparo, e sparavano a quelli che, per sfuggire all’esplosione, scappavano fuori. E forse questo più che la conta dei morti spiegava quel che stesse accadendo in Vietnam. Ma ci volle del tempo per saperlo. Come venne riferito da un tenente dell'esercito sudvietnamita ai suoi superiori, fu una «atroce» vendetta, avvenuta poco dopo uno scontro a fuoco con delle truppe Vietcong che si erano mischiate ai paesani. La reazione sproporzionata di ogni esercito colpisce i civili. Propriamente, ci sembra che un esercito agisca «sproporzionatamente» quando colpisce i civili della parte avversa. Quando li massacra. Forse va messo in conto che gli è connaturale. Tra le convenzionalità della guerra degli eserciti c’è il massacro. I massacri degli eserciti Gli eserciti [ora con l’appoggio e il bombardamento preventivo dell’aviazione e a volte della marina] cannoneggiano le popolazioni: accade così ormai, accadde in Cecenia e in Kosovo e prima in Serbia, accadde in Iraq, è accaduto nella striscia di Gaza. Forse è sempre accaduto. Forse semmai adesso nelle intenzioni strategiche dei militari – la Nato, gli americani, i russi, gli israeliani –, probabilmente, c’è davvero anche un affidamento alla «intelligenza» della tecnologia, cioè a che i missili e i proietti siano mirati e non facciano “troppe” stragi, “troppo” massacro: ma, nei fatti, ogni tecnologia è perfettibile e sbaglia, o le informazioni umane che le diamo sono errate, e, insomma, qualche massacro va sempre messo in conto, gli strateghi lo sanno. A volte, e in genere nel correre d’un conflitto, vi sembrano del tutto indifferenti. A volte, già prima le stragi si considerano solo come «effetti collaterali». A volte, come accadde a Srebenica – di nuovo un macellaio, Mladic –, sono volute. L’evidenza del massacro di Gaza sta nella decisione politica: un esercito che interviene contro un territorio, per riprenderne il controllo o per ritorsione, può produrre massacri. Un esercito se si muove fa quello che è il suo mestiere: distruggere senza riguardo. Quali sono i limiti della sua proporzione? Ma allora: la colpa degli israeliani è quella di avere un esercito militarmente troppo potente, cioè adeguato alla propria potenza tecnologica, come ogni esercito rispecchia la tecnologia di una nazione? Dovrebbe averlo e nello stesso tempo trattenerlo? Dovrebbe averlo e attrezzarlo proporzionatamente ai suoi nemici dell’area, che so, coi razzi Quassam? Ma la deterrenza di Israele – un territorio minuscolo con una popolazione limitata – sta proprio nella sproporzione tecnologica tra il suo esercito e quello dei vicini ostili dell’area. La sproporzione tecnologica assume qui il carattere della scorrettezza concessa a chi è più piccolo contro chi è più grosso. O pensiamo che qualcos’altro – se non un certa sconfitta – ha trattenuto e trattiene, che so, la Siria? L’ultima guerra proporzionata, cioè convenzionale, nell’area fu combattuta nella guerra dei Sei giorni, fra Israele e Egitto, Siria e Giordania, e andò come è andata. Anzi, è proprio il convincimento che sia quasi impossibile battere Israele sul piano della guerra convenzionale che da sempre ha indotto i regimi e i governi arabi a finanziare «altre» forme di guerra. Pure, anche evidenziando la differenza fra quanto accadde a Sabra e Shatila a opera delle milizie libanesi cristiano-falangiste contro campi profughi praticamente inermi sotto lo sguardo complice delle forze armate isareliane e quanto accaduto in questi giorni a Gaza; anche ammettendo che il fermarsi dell’esercito israeliano alle porte di Gaza city sia stato dovuto a un “freno” già programmato, che potesse permettere la tregua oltre che al timore di trovarsi impantanato, come già in Libano, e poi sconfitto; anche se questo e quell’altro, l’evidenza del massacro è sotto gli occhi, e non è necessario computare accuratamente i morti. E sta nella decisione politica dell’intervento militare. Sta nella fine d’ogni margine di manovra politica. E il governo israeliano non si è sottratto: ha avocato a sé il massacro. Guerre convenzionali e no Il punto è che la guerra tra eserciti «pari» non si dà più, o almeno l’Europa e l’Occidente non hanno mai vissuto nella loro storia un periodo di assenza di guerra così prolungato. A volte non ce ne rendiamo conto. La guerra – come certi rifuti tossici, o certe produzioni – sembra essersi dislocata lontano da qui. E moltiplicata. A volte è quasi davvero possibile immaginare e temere che possa esplodere, che so, tra l’India e il Pakistan, e ci si è quasi anestetizzati all’idea che in Africa sembra ormai incancrenita, nelle forme più varie e spesso orribili come le «guerre dei bambini». Ma nessuno immagina che possa scoppiare domani o dopodomani tra la Francia e la Spagna o la Slovacchia e l’Ungheria o la Germania e la Russia o il Giappone e la Corea. L’ultima incongrua guerra “occidentale” è stata per le Falklands, ma l’Argentina del tempo con difficoltà poteva essere collocata a pieno titolo nell’occidente. Nel mondo, l’ultima guerra proporzionata, convenzionale forse è già fuori luogo dirlo, è stata quella tra Iran e Iraq e è costata milioni di vite umane. Non tali possono essere considerate la Prima guerra del Golfo e le più recenti invasioni di Afghanistan e Iraq: non può esserci proporzione militare nella decisione di intervento di un esercito di una potenza mondiale contro un territorio, anche se non inerme e attrezzato militarmente in qualche modo per fare fronte proporzionalmente ai suoi paragonabili nemici d’area. E non può esserci proporzione militare perché non c’è alcuna proporzione tecnologica fra le potenze e il resto del mondo. Ma la situazione medio-orientale è particolare: l’Iran potrebbe anche lavorare o già avere la bomba nucleare e con essa farebbe centinaia di migliaia di morti in Israele, eppure non sarebbe questa sua forza militare a trattenere successivamente l’esercito israeliano dall’invaderlo, ma l’estensione geografica e l’infinita popolazione. Probabilmente, sarebbe solo una guerra nucleare, fatta a mezzo di bombe nucleari. Un vero Armageddon. Funzionerebbe in quell’area – come ha funzionato fra est e ovest con la guerra fredda – il bilanciamento nucleare? La tregua Il massacro è la forma propria dell’intervento di un esercito contro un territorio senza esercito o con un esercito inadeguato: e Hamas non è un esercito, qualunque cosa la si voglia definire. E suona ipocrita la giustificazione del governo e dell’esercito israeliani che si sono detti «costretti» a colpire tra la popolazione per stanare Hamas: Hamas vive tra la popolazione, non è, appunto, una struttura “separata” e individuabile come un esercito. L’asimmetria e la sproporzione della guerra d’oggi sta qui: per stanare Hamas va colpita la popolazione. Succede pure in Afghanistan, nelle zone tribali di confine col Pakistan e fra i pashtun. E, viceversa, la forma di lotta di un territorio senza esercito o con mezzi tecnologici limitati contro un esercito assume la forma della guerra scorretta, con cinture easplosive, razzi, quel che si ha o si rimedia per infliggere il maggior numero di morti. In questi casi, la tecnologia funziona da limite e non da semplificazione: forse, si potrebbe aggiungere, per fortuna. Non sono sicuro che Hamas si sarebbe finora trattenuto dall’usare mezzi capaci di procurare un maggior numero di morti dei Quassam se li avesse avuti. Hamas, qualunque cosa la si voglia definire, «fa la guerra» a Israele. Forse come neanche l’esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr la fa in Iraq contro gli americani. Se è sacrosanto interrogarsi sull’intervento israeliano, è altrettanto sacrosanto interrogarsi sull’efficacia della strategia di Hamas. Schierarsi sulla base delle considerazioni umane e delle emozioni è sin troppo facile. E purtroppo non cambia granché, a quanto pare. Schierarsi in Medio-oriente da una parte o dall’altra è la fine dell’immaginazione della politica, dell’impegno della politica. È lasciare parlare la guerra. Purtroppo, manifestare le proprie opinioni sul conflitto assume a volte la forma meschina di uno schieramento a fini propri, strumentali, dentro scenari e polemiche di parrocchie e di provincialismo. Il governo israeliano sembra ormai assolutamente insensibile all’opinione pubblica internazionale: non sente ragioni. O sente solo le ragioni di chi si schiera a prescindere sulla giustezza del suo operato. Anche qui, è inimmaginabile che chi ha deciso politicamente l’intervento dell’esercito non avesse già messo in conto che l’orrore avrebbe suscitato l’indignazione di tutto il mondo. Forse si sono stufati di sentire una opinione pubblica internazionale che sembra solo criticare quello che loro fanno: ma d’altronde a chi mai si potrebbe rivolgere l’opinione pubblica occidentale se non al governo israeliano? Ad Hamas? Quale linguaggio, quali mediazioni, quali riscontri ci possono essere oggi con Hamas? Israele è occidente, è come noi, Hamas no, e lo rivendica. Israele ha un’opinione pubblica, Hamas no. Può essere che la sordità del governo di Israele sia una situazione strumentale e una condizione contingente, dovute all’avvicinarsi della scadenza elettorale. Ma chissà cosa accadrebbe con Nethanyau al posto della Livni e Barak. D’altra parte, fosse pure vero, e fosse pure falso che occorreva non solo ripristinare il senso di sicurezza e di protezione tra gli israeliani ma persino l’onore debilitato dei militari in Libano contro l’Hezbollah, è mai possibile immaginare Israele senza un esercito? Può sembrare più ragionevole e meno orribile o più proficuo politicamente che il Mossad elimini uno a uno i capi di Hamas con assassini manuali o con sofiscati attrezzi che cadono dal cielo o sbucano dal suolo pilotati da intelligence e collaboratori in loco? E ancora: qualcuno può pensare che la strada per la soluzione del conflitto medio-orientale sia sciogliere l’esercito israeliano? Oggi si può dire che una svolta al conflitto può venire solo da Hamas. La credibilità politica e sociale dell’Autorità nazionale palestinese è crollata: magari l’Anp non ha tutta la responsabilità, ma una parte sì, nell’aver trasformato un popolo laico, produttivo, inzeppato di intelligenze, abilità e professioni in una «colonia» di fondamentalismo religioso. È difficile pensare che dopo Gaza l’Anp riacquisti autorevolezza e potere, anche se spinta dall’Europa o dagli Usa. E da Israele. Una svolta al conflitto può venire solo da Hamas: dalla strategia e dalle decisioni politiche di Hamas. Dalle scelte sulle alleanze, i finanziamenti, gli schieramenti. Hamas può avere un ruolo storico straordinario – persino a livello globale, e basti pensare al significato simbolico che continua a avere la questione palestinese – se riesce a dare una «forma politica» nuova alla sua militanza, al suo sostegno e radicamento popolari, persino al suo fervore religioso. Non è una cosa facile: al Qaeda è pronta a fare proselitismo in una radicalizzazione sempre più evidente, non solo tra i palestinesi ma anche dentro la Lega araba. Hamas può persino ridare forza a quella parte di società israeliana che soffre per il conflitto e è disposta alla pace, trova ragionevole e necessario ritirarsi dai Territori occupati, smettere l’embargo a Gaza, e adesso è ridotta al silenzio o all’afasia e all’insignificanza tollerata. Una svolta al conflitto può venire da Hamas. L’Europa potrebbe fare, in tal senso. La tregua è fragile. La tregua dovrebbe essere non un tempo di attesa, ma un momento di fervore della politica. Ieri l’altro, in uno scontro che sarebbe avvenuto nei pressi della centrale di Gaza, ai valichi di frontiera del Kissufim, un soldato israeliano è rimasto ucciso e tre sono rimasti feriti in un'esplosione. L'aviazione israeliana avrebbe quindi attaccato un obiettivo palestinese vicino a Khan Yunes, uccidendo un militante e ferendone un'altro. Qui tutto sembra proporzionato. Roma, 28 gennaio 2009