"SE VUOI LA PACE CERCA LA GIUSTIZIA" Relazione dell'incontro svoltosi presso la Biblioteca di San Michele al fiume il 15/03/2003 di Dom Salvatore Frigerio Fratelli cristiani mi hanno chiesto di meditare insieme, perché insieme provocati dalla storia sconvolta di questi giorni, sui Sacri Testi che rivelano l’identità del cristiano e il suo atteggiamento di fronte alla violenza globale della guerra. I testi liturgici di questi giorni, tratti dal vangelo di Marco, ci dicono quanto sia distante la nostra categoria di potere (pur velato di religiosità) dalle categorie del Regno inaugurato dal Padre per mezzo del Figlio e guidato dalla sapienza dello Spirito. Pressato da questa identità, sento allora il bisogno profondo di rovesciare l’ottica del tema partendo dal “Progetto” divino che è positivo e la cui non accettazione provoca l’inganno e dunque la violenza. L’ultima parola del Crocifisso è “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30). La prima parola del Risorto è “Pace!” (Gv 20,19.21). Egli è colui che dà tutto se stesso affinché si compia il Progetto del Creatore, il cui frutto è lo Schalom, la pienezza assoluta dell’armonia, punto d’arrivo di tutto il cammino biblico, cammino che ben conosciamo drammatico, come drammatica è la crescita storica, plurisecolare e pluriculturale dell’Uomo con il quale il Creatore ha voluto coinvolgersi fino a subirne i condizionamenti, le precarietà, la contingenza, il limite, espressi nei loro segni più tragici della violenza e della morte. La visione costante dello Schalom, però, domina questo complesso orizzonte e lo apre costantemente al mistero della promessa divina, cioè la pace messianica. Schalom – eirène – pax Leggiamo due testi significativi appartenenti alla Prima Alleanza, consegnatici dal profeta Isaia. “…Io ho chiamato e nessuno ha risposto, / ho parlato e non hanno ascoltato, / anzi hanno fatto quanto è male ai miei occhi / e hanno proferito quanto io non gradisco. / I vostri fratelli che vi odiano e vi scacciano / a causa del mio Nome, dicono: / che il Signore mostri la sua gloria / e che noi vediamo la vostra gioia./ Ma essi saranno confusi. / Voce di tumulto dalle città, / voce che viene dal Tempio: / è la voce del Signore che retribuisce i suoi nemici!” (Is 66, 4b ss) “”Rallegratevi con Gerusalemme e gioite in essa, o voi tutti che l’amate! / Allietatevi con essa o voi tutti che eravate in lutto per causa sua: / Poiché succhierete alla mammella delle sue consolazioni e vi sazierete, / poiché sarete allattati deliziosamente dal suo seno glorioso. / Così dice il Signore: ecco che Io come un fiume faccio scorrere sopra di essa la pace / come un torrente impetuoso la gloria dei popoli” (Is 66, 10 ss) Notiamo che i due brani di Isaia appartengono allo stesso capitolo 66 del suo libro e ci sono rivelatori di quanto, grazie ai grandi profeti, la Prima Alleanza è andata meditando sull’identità dello Schalom. Esso non è assenza di guerra, mentre la guerra, il tumulto, è frutto della strumentalizzazione di Dio. Lo Schalom è la molteplicità di contenuti convergenti in uno e cioè: pienezza di vita sazietà consolazione felicità fecondità / benedizione perciò: a esclude un senso della pace come tranquillità interiore psicologica, mentre implica una pienezza ontologica dell’Adam biblico, che non distingue interno-esterno, spirituale-materiale, esprimendo l’unità inscindibile della persona. b indica pienezza di vita della persona in quanto facente parte del popolo di Dio perché la pace biblica non è mai individuale ma collettiva: è dinamicamente agente tra personale e comunitario. c è soprattutto una categoria religiosa: Schalon = Salvezza: Is 52,7-9: “come sono belli sui monti i passi dell’annunciatore che proclama la pace, che annuncia il bene, che proclama la salvezza, che dice a Sion: regna il tuo Dio! Ascolta!…” Di conseguenza lo Schalom o il suo contrario Hamàs (violenza) qualificano intimamente l’Adam, inteso nella sua relazionalità con la comunità, non in sé o in rapporto con gli altri, ma in rapporto con Dio, da cui deriva il rapporto con sé e con gli altri. Quindi: 1 Schalom = comunione con il Santo Hamàs = lontananza, apostasia, esclusione dal Santo 2 Schalom = è dono del Santo: è lui che si concede e, donandosi, dona a noi la pace che lui solo può dare. Poiché la pace è dunque storia salvifica in atto, il suo annuncio può essere soltanto profezia: non è frutto di intuizioni o di programmi umani. L’Adam o l’Istituzione che promette pace per azione propria è un falso profeta: Ger 14,13-15; 23,16; Is 6,15; Ez 13,10. “…oh, Signore Iddio! Ecco, i profeti dicono loro: non vedrete la spada, né soffrirete per la carestia, perché vi darò una pace duratura in questo luogo. E il Signore mi disse: Menzogna annunciano i profeti nel mio Nome: non li ho mandati, né ho loro parlato. Visioni menzoniere, divinazioni stolte e raggiri del loro cuore hanno profetato … ebbene quei profeti moriranno di spada e di fame …” (Ger 14,13-15). d Schalom è l’Alleanza. Ciò appare fin dall’Alleanza Noanica di Gen 9,9-17. Dio è fedele e l’infedeltà dell’Adam si punirà con la sua stessa violenza, mentre il Santo non rinnega mai l’Alleanza ma la rinnova essendo sempre sua iniziativa pura e gratuita: “Sì. I monti verranno meno e le colline vacilleranno / ma la mia carità non verrà meno e il mio patto non vacillerà, dice Colui che ha misericordia di te, il Santo.” (Is 54,10) e Perciò si va comprendendo sempre più che lo Schalom è la stessa presenza divina: il Messia. Allora si comprende che la pace non è il risultato di un rapporto etico corretto e neppure di un rapporto metafisico con Dio, MA è dono storico di salvezza che diventa PERSONA: la Pace non è un rapporto ma una persona: il Messia che stabilisce rapporti totalmente nuovi, possibili solo se vissuti in lui. I grandi maestri, Isaia, Geremia ed Ezechiele, possono affermare che lo Schalom non può esistere (nonostante qualsiasi ordine etico) se non all’interno della Storia della Salvezza, cioè del progetto storico di pace determinato e realizzato dalle scelte di Dio e dei suoi interventi, tutti orientati al Messia. Il Nuovo Testamento cosa aggiunge? - L’attuazione della Promessa - Il compimento delle profezie con lettura assolutamente nuova - La presenza del Figlio Morto e Risorto che è la Pace. “Dio mandò la sua Parola ai figli d’Israele, annunciando loro la Pace per mezzo di Gesù Cristo, Signore di tutti” (At 10,36). “Mentre parlavano di queste cose, Gesù apparve in mezzo a loro e disse: Pace a voi”. (Lc 24,36) Già all’inizio abbiamo ascoltato Gv 20,19.21.26; sempre in Gv 14,27 ci è detto come distinguere la pace vera da quella illusoria: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace: ve la do non come la dà il mondo” : è una pace che non lascia spazio a illusioni, sino al punto da coesistere con aspre inimicizie da parte del “mondo”. Lo attesta una delle pagine più dure e discusse del N.T.: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace ma la spada. Perché sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno i suoi familiari” (Mt 10,34-36). La “spada” della Parola, nella comunità di Matteo, aveva già fatto sperimentare lacerazioni drammatiche all’interno delle stesse comunità aggredite dalle persecuzioni romane. Comunità che sperimentavano come la pace di Cristo non sia ebetismo, banale tranquillità, facile consenso, conformismo, benessere individualistico, ma adesione a Dio mediante la comunione con il Cristo sconfitto e crocifisso. Da qui nasce la riflessione quanto mai vivace sul rapporto che intercorre tra Pace e Giustizia. Partendo dall’affermazione di Isaia “Opus Justitiae Pax”: “Prodotto della giustizia sarà la pace, / e opera di essa tranquillità e sicurezza sempre” (Is 32,17), sono nate tra i cristiani le molte controversie che hanno portato spesso ad applicazioni accomodatizie, a causa di letture che dimenticavano il contesto messianico della profezia di Isaia, per il quale la pace non è una regola umana e neppure una virtù morale, e di conseguenza anche la giustizia non è merito dell’Adam ma è dono della zedakà, dell’intervento salvifico di Dio che rende l’Adam zadìk (giusto) e lo fa capace di costruire rapporti giusti (cfr. Gr 33,15; Rom 1,16; 1Cor 1,30; Col 3,12-15: “Rivestitevi dunque come eletti di Dio, santi e amati, di viscere di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza, supportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente se qualcuno ha di che lagnarsi di un altro; come il Signore ha perdonato a voi, così dovete fare anche voi. Ma soprattutto rivestitevi di agapè, che è il vincolo della perfezione. Regni nei vostri cuori la pace di Cristo, nella quale siete stati chiamati per formare un solo corpo e state riconoscenti.”) Cosa avviene nella Chiesa Grazie a tutto questo la Chiesa apostolica e sub-apostolica non possedeva una dottrina sulla pace nella dimensione civile. Il fatto di impegnare i credenti in una permanente obiezione ci coscienza, secondo l’economia del Regno di Dio, inteso e professato come regno della pace, senza alcun giudizio sulla gestione politica e militare della giustizia e della guerra, dichiarava che la Chiesa era “fuori” dal sistema, era “altra” rispetto alle sue logiche. Però, dice Origene, i cristiani erano impegnati “a pregare e a vivere” perché il Signore della misericordia preservasse l’Impero da ogni danno. A partire dal IV secolo questa preoccupazione di solidarietà slittò in una nuova accentuazione: la preghiera contro i pericoli dell’Impero diventò preghiera contro i suoi nemici, e di conseguenza preghiera per la vittoria delle armate imperiali. Da qui parte un processo a favore dello Stato che la pace costantiniana e poi il decreto di Teodosio II (438) ratificarono. Dobbiamo notare che i Padri sono entrati nel passaggio paradossale senza perplessità e al di fuori di ogni problematica. L’interrogativo sulla legittimità dell’avallo reciproco sia politico, sia evangelico, non fu mai posto, se non dal sorgente monachesimo. Il potere politico non viene messo in discussione e ha la propria garanzia interna perché è messo, anche se indirettamente, a servizio della Chiesa. La logica evangelica del perdono, dell’amare i nemici, cadde vistosamente a favore della “guerra giusta”: nacque così l’ideologia della “cristianità” che troverà in Carlo Magno il suo campione. In nome dell’alleanza venivano benedette la armi, gli eserciti e la guerra che da giusta divenne pure santa! Si deformò la teologia del Regno, non più onnicomprensiva del Popolo di Dio, ma solo degli ecclesiastici e dei monaci che soli furono esentati dal servizio militare: il compito di non uccidere passò dal “popolo sacerdotale” alla “casta sacerdotale”. Ai laici spettò l’onore della guerra giusta, ai consacrati quello della pace “profetica”. La radicalizzazione di questo stato di cose è così profonda che a tutt’oggi, almeno dal punto di vista istituzionale e politico, la teologia non sa ancora chiarire l’obiezione di coscienza che è la più semplice e la più immediata delle decisioni che vengono dal vangelo. Oggi il Concilio Vaticano II riafferma che la pace “terrena”, socio-politica, è profezia (segno e strumento = sacramento) concreta e operativa della grandezza salvifica fatta risalire in Cristo al Padre. Una grandezza etica espressione di una grandezza di fede. Allora, come scrive G.Pattaro, la forza utopica sprigionata dalle fede dichiara che l’azione politica dei cristiani a favore della pace non può essere che rivoluzionaria, nel senso, almeno, che essa non può essere né conservatrice né semplicemente riformista. La Chiesa è nell’impossibilità di situarsi in uno spazio socialmente neutro. Essa deve esplicitarsi scegliendo chiaramente un campo sociale, cioè dichiararsi solidale con gli oppressi, non in maniera dottrinale ma in maniera “politica” accettando il rischio della scelta, perché deve far entrare i giudizi operativi della fede nella mediazione di categorie storiche, “mondane” che derivano dalle analisi politiche della società. La predicazione del vangelo esige che la Chiesa si mantenga sempre situata in modo da essere sempre disponibile a favore dell’oppresso, dovunque e comunque esso si trovi, senza sudditanze alcune. La forza contrattuale del vangelo richiede quest’unica e sola obbedienza. Una Chiesa che sta “dove” gli uomini soffrono e non “davanti a loro”, così che la sua condizione si identifica con la condizione dell’oppresso, diventando credibile secondo la legge/spirito dell’incarnazione del Regno che è già operante. Essa deve liberarsi da tutto il processo costantiniano-carolingio che ancora persiste nel confronto del potere politico. La sua propria “imitatio Christi” esige che essa lo risolva all’interno di sé, ma non solo da sé: sempre con gli uomini, rispetto ai quali è “costituita sacramento di unità di tutto il genere umano” (L.G. 1), coinvolgendosi nella ricerca dell’unica pace di cui è il segno posto fra le nazioni, popolo beatificato di “operatori di Pace”