Diocesi Piacenza-Bobbio
Ufficio Stampa: Servizio documentazione
Collegio Padri Oblati Missionari di Rho (MI)
Esercizi spirituali per sacerdoti
“Il discepolato”
Quinta Meditazione
Mons. Luciano Monari, Vescovo
28 agosto 2002
1. Una esperienza caratteristica del discepolo nel suo incontro con Gesù è di
essere da Lui conosciuto
Una delle esperienze più caratteristiche del discepolo nel suo incontro con Gesù è di essere
conosciuto da Gesù, e quindi di percepire che la sua vita è pensata, cercata e amata da lui.
1.1. «Gesù sapeva quello che c’è in ogni uomo»
 Quando Filippo conduce Natanaèle a Gesù, appena lo vede Gesù lo saluta con l’espressione:
«Ecco un vero israelita in cui non c’è falsità» (Gv 1, 47). A Natanaèle viene spontaneo da chiedere:
«Da dove mi conosci?» (Gv 1, 48a); qual è l’origine di questa conoscenza che tu manifesti? E
ricordate che Gesù risponde: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico»
(Gv 1, 48b). L’espressione è misteriosa, si può tentare di spiegarla con paralleli rabbinici, ma alla
fine ci interessa poco. Quello che interessa è che Natanaèle è conosciuto da Gesù prima di
incontrarlo, e percepisce questa conoscenza come qualche cosa che s’impone a lui; tanto che a
motivo di questa Natanaèle farà quella professione di fede: «tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re
d’Israele!» (Gv 1, 49).
 Così ancora la Samaritana, in quel dialogo con Gesù che appare innanzitutto a lei come un
Giudeo: «Come mai tu, che sei un Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»
(Gv 4, 9). In realtà la conoscenza della Samaritana è del tutto incompleta. Gesù può dire: «Se tu
conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere!, tu stessa gliene avresti chiesto
ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4, 10). Quindi capire che Gesù è un Giudeo vuole dire
capire ancora niente, bisogna cogliere il fatto che lui “è sorgente di un’acqua viva” misteriosa (cfr.
Gv 4, 14), capace di saziare la sete di vita dell’uomo.
Nel corso del dialogo appare invece il contrario; cioè la Samaritana non conosce Gesù, ma Gesù
conosce bene la Samaritana. Il dialogo a una specie di svolta improvvisa quando Gesù chiede alla
donna: «Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui.[17]Rispose la donna: Non ho marito. Le disse
Gesù: Hai detto bene “non ho marito”; [18]infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è
tuo marito» (Gv 4, 16-18). L’espressione è di cronaca personale della storia di questa donna; ma
non è solo questo: è come la manifestazione di un’inquietudine che questa donna vive, passando dal
desiderio al possesso e al desiderio, senza riuscire mai a trovare riposo, un luogo dove potere
fermare la sua esistenza e potere gioire della sua vita. Quindi, anche lei conosciuta da Gesù. Questa
conoscenza di Gesù la colpisce così tanto che ai suoi concittadini dirà: «9]Venite a vedere un uomo
che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?» (Gv 4, 29). Non è ancora sicura,
o perlomeno non lo dice con sicurezza, però l’esperienza di essere conosciuta l’ha colpita e diventa
una testimonianza davanti agli altri.
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 La “peccatrice” del cap. 7° di Luca, quella che si accosta a Gesù per lavargli i piedi con il suo
pianto. Ebbene, anche questa sembra che Gesù non la conosca, tanto che Simone il fariseo, che l’ha
invitato, dice: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è
una peccatrice» (Lc 7, 39). In realtà Gesù sa che è una peccatrice, ma vede anche qualche cosa
d’altro che all’esterno non si vede. Che sia una peccatrice non era un mistero grande, poteva essere
conoscenza diffusa nella città, ma che invece questa donna abbia conosciuto l’amore di Dio e sia
spinta dall’amore che ha incontrato per venire davanti a Gesù, questo Simone il fariseo non lo vede,
non lo capisce, ma Gesù sì.
 Vale quindi per Gesù quell’affermazione del Vangelo di Giovanni al cap. 2, 25 che il Papa
richiama frequentissimamente (sembra sia un suo versetto preferito): «Gesù (…) conosceva tutti
[25]
e non aveva bisogno che qualcuno gli rendesse testimonianza di un altro, egli infatti sapeva
quello che c’è in ogni uomo». «Egli sapeva quello che c’è in ogni uomo».
2. Nell’incontro con Gesù il discepolo sente di trovarsi di fronte alla rivelazione
del mistero di Dio
Ora questa conoscenza soprannaturale di Gesù la dovete percepire non solo come una onniscienza,
cioè uno che sa molte cose e tutte quelle che volete; ma piuttosto come la capacità che Gesù ha di
dire l’uomo a se stesso, di fare sì che davanti a lui l’uomo possa comprendersi meglio, più in
profondità; possa rispondere a quella domanda (che “fa del male alle vene e ai polsi”) del chi è
l’uomo? chi sono? qual è il senso della mia vita? da dove vengo e dove sto andando? che tipo di
rapporto c’è tra me e quel mondo che mi ha preceduto e mi seppellirà? che tipo di legame posso
costruire con gli altri e che appaiono accanto a me come miei simili?
Cioè tutte domande sul “chi è l’uomo?”, sull’antropologia e sulla figura dell’uomo che
evidentemente rimangono misteriose. La risposta a questa domanda è difficile. Il senso del
Vangelo è che di fronte a Gesù l’uomo percepisce qualche cosa del suo proprio mistero.
2.1. L’incontro con Gesù sta nel cammino di maturazione dell’uomo
Dicevo, nessuno si conosce fino in fondo, e non basta nemmeno fare un’analisi per arrivare alla
conoscenza profonda di sé; la psicanalisi può servire forse ad andare nelle profondità ma non
risponde al problema del “chi sono io?”. Perché l’uomo non è mai semplicemente il suo passato o i
suoi condizionamenti o le se esperienze. Chi è l’uomo si capisce solo nello svolgersi della sua
libertà, nel suo muoversi verso il futuro. L’uomo, da questo punto di vista, appare sorprendente agli
altri e anche a se stesso; perché, in certe situazioni di fronte a certe provocazioni o a certi incontri,
vengono fuori delle realtà che l’uomo non conosceva né sapeva di avere; e in realtà forse non le
aveva, ma l’uomo è esattamente quello, non è semplicemente avere delle cose, è una capacità, una
possibilità, una libertà che si sviluppa, che si apre, che cresce, che matura. L’incontro con Gesù sta
lì, in questo cammino di maturazione dell’uomo.
Nelle “Confessioni” sant’Agostino dice che, quando aveva perso quel suo amico del cuore, era
diventato lui per se stesso un grande interrogativo; e aveva incominciato a interrogare la sua anima
sul perché della tristezza che lo aveva afferrato e quindi sul significato della vita e della morte.
3. Il discepolo è sollecitato a rispondere a Dio nel prendere posizione a favore
della propria vita
Dicevo, di fronte a tutte queste domande la risposta è creativa, non basta constatare quello che
l’uomo è, bisogna rispondere all’interrogativo del “chi io sono?”, prendendo posizione per un
impegno, per un progetto, per un compimento della mia persona. Voglio dire: sapere “chi io sono?”
non è “guardarsi allo specchio” e nemmeno “lo specchio psicologico”. Rispondere alla domanda
“chi sono io?”, vuole dire: prendere posizione a favore della mia vita secondo certi valori,
progetti e speranze.
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Questo l’uomo lo fa chiaramente confrontandosi con gli altri fin da piccolo; il bambino comincia
prendere coscienza di sé nel confronto con la mamma, con le persone che gli stanno intorno; impara
a cogliere la differenza e quindi pian piano il senso del suo essere individuo diverso rispetto a loro;
e questo vale per tutta la vita perché è il confronto con gli altri che ci dice che cosa siamo; non ci
conosciamo chiudendoci in una torre sigillata perché niente abbia degli influssi su di noi per
trovarci allo stato puro, non ci troviamo mai allo stato puro.
3.1. Il confronto con Dio è decisivo
Quello che siamo lo siamo nel confronto con gli altri, nel confronto con il mondo, e s’intende nel
confronto con Dio. Perché è il confronto con Dio quello decisivo, nel quale la mia identità viene
sollecitata in tutte le sue profondità. Quel Dio che mi si fa incontro è intimo a me più di me stesso, e
suscita proprio con la sua presenza l’intimo del mio cuore, chiama la mia libertà, mi attende e
quindi mi provoca a un cammino insieme con Lui.
Ricordate quel Salmo straordinario il 139, quello che ha per inizio: «Signore, tu mi scruti e mi
conosci, [2]tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, [3]mi scruti
quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; [4]la mia parola non è ancora sulla
lingua e tu, Signore, già la conosci tutta» (Sal 139, 1-4). Potete ripercorrere tutto questo Salmo per
ritrovare l’esperienza di un uomo che sente e percepisce la sua vita tutta avvolta dalla conoscenza di
Dio fin dall’origine, quando ancora era formato nel seno di sua madre, quindi di quell’origine di cui
lui non sa niente evidentemente, ma di quell’origine Dio sa tutto. Così come anche per il futuro
tutto quello che avviene è scritto nel “Libro di Dio” (cfr. Sal 139, 16); questo non significa
evidentemente un determinismo che sta al di fuori dell’ottica del Salmo, ma vuole dire la superiorità
assoluta di Dio che circonda con la sua conoscenza tutta la vita dell’uomo, per cui non ne esiste un
frammento che non sia davanti a Dio, che non stia sotto il suo sguardo.
Questa esperienza che per certi aspetti potrebbe essere anche oppressiva, perché qualcuno che
conosce tutto di noi non è che sia sempre simpatico, in realtà nel caso di Dio diventa invece
liberante, proprio perché non è l’essere posseduti da un altro che si serve della conoscenza per
condurci contro la nostra libertà o volontà, ma è al contrario quella conoscenza che suscita la libertà
dell’uomo.
3.1.1. Vivere per ogni uomo è un essere chiamato da Dio
È significativo, se voi riprendete l’esperienza dell’Antico Testamento, le figure che hanno la
personalità più spiccata nell’A.T. sono senza dubbio i profeti. Ora i profeti sono quelli che hanno
incontrato Dio in un modo unico e sono stati dominati da Dio.
Geremia parla di violenza, “mi hai fatto violenza e hai vinto” (cfr. Ger 20, 7), c’è stata una lotta tra
Geremia e il Signore.
Eppure, non hanno una personalità schiacciata, al contrario Geremia ha una personalità
spiccatissima, una individualità che non si confonde con nessun altro; è proprio lui Geremia con il
suo coraggio ma con la sua paura, con la parola di Dio che annuncia e con la sua debolezza che
sente; è proprio lui, lo si riconosce benissimo. E lo stesso vale per gli altri profeti.
Il fatto di essere chiamati da Dio e di avere la vita segnata da questa chiamata: «[16] Quando le tue
parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia (…) la mia sofferenza
(…) la mia angoscia…» (Ger 15, 16.18). Il fatto di dovere partecipare al patos di Dio, per cui il
profeta è costretto a sentire quello che sente Dio – a sentire l’angoscia di Dio per la fine del suo
popolo, della sua città, e a sentire nello stesso tempo l’angoscia di Israele per la distruzione del
tempio –, il fatto che senta tutto questo non significa che è privato della sua personalità, al contrario
gli viene data proprio in questo incontro.
Vivere per il profeta, ma bisognerebbe dire che questo vale per ogni uomo, è in realtà un essere
chiamati. Si vive alla presenza di qualcuno rispondendo alla parola di qualcuno, a una parola che ci
chiama, che in prima battuta s’intende è la parola dei nostri genitori, c’è una chiamata dei genitori
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alla vita dei propri figli, ma questa è la piccola immagine storica di quella chiamata che sta prima
del tempo e che è la chiamata di Dio.
3.2. Il Giorno del Signore è l’incontro del discepolo con Dio, la percezione del cammino della
vita come conversione
Allora, è in questo incontro con Dio che ci sta la conoscenza di se stessi, la percezione della
propria identità. Dicevo, la percezione della vita come vocazione, la percezione del cammino della
vita come conversione. La conversione è alla radice dell’esperienza; la vita è una conversione.
Quando il profeta Amos diceva a Israele: «preparati all'incontro con il tuo Dio, o Israele!» (Am 4,
12), perché non si convertiva, aveva il cuore indurito. Allora l’unica possibilità per fare vivere
questo popolo, che è destinato all’annientamento, è l’incontro con Dio.
E non sarà un incontro facile, sarà l’incontro del giudizio, come quelli che aspettano “il giorno del
Signore” e lo desiderano: «Guai a quelli che attendono il giorno del Signore! Perché per voi il
giorno del Signore sarà tenebre e non luce». – Sarà giudizio di Dio – «[19]Come quando uno fugge
davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo
morde» (Am 5, 18-19). Dice Amos: “questo sarà il giorno del Signore per voi”: giudizio!
Però il giudizio di Dio è salvifico, non distrugge la persona; distrugge il male nella persona,
distrugge la morte e la maledizione della persona perché possa nascere qualche cosa di nuovo e di
vivo (cfr. Am 5, 15; 9, 11.13).
Si tratta di vivere come dice il Signore ad Abramo: «cammina alla mia presenza e sii integro» (Gen
17, 1). Le due cose vanno insieme: - alla presenza di Dio si può camminare solo nell’integrità della
vita. Che è sempre un’integrità ottenuta attraverso la conversione, il riconoscimento delle proprie
colpe, il perdono di Dio, ma è un’integrità vera, dono di Dio ma autentica.
3.3. L’incontro con Gesù produce quello che produce l’incontro dell’uomo con Dio
Insomma, l’incontro con Dio sarà il compimento della storia e della vita dell’uomo, sarà lo
svelamento dei destini della storia e dell’identità vera dell’uomo.
Ebbene, questo incontro, se volete del giudizio finale con tutto quello che comporta, è anticipato
nella storia attraverso:
 l’esperienza della fede,
 l’incontro con il Signore nella sua Parola,
 in concreto nell’incontro con Gesù.
L’incontro con Gesù ha esattamente questo effetto: produce quello che produce l’incontro
dell’uomo con Dio.
 Ricordate il cap. 5,8 di Luca della “pesca miracolosa”, quando di fronte a quello che sta
succedendo Pietro si getta alle ginocchia di Gesù dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un
peccatore». “Che sono un peccatore”, è la percezione della sua identità, si riconosce come
peccatore, lo è; ma lo è e lo riconosce perché è di fronte alla santità di Dio; è proprio la percezione
di quella santità che gli permette di conoscersi tale.
Come Isaia di fronte “all’apparizione del Signore nel tempio”: «seduto su un trono alto ed elevato»
(Is 6, 1). Di fronte a quell’apparizione il profeta si rende conto di essere un peccatore e di avere
«delle labbra impure» (Is 6, 5); ma appunto, è di fronte a Lui, e non “allo specchio”.
“Allo specchio” forse si vede qualche cosa, ma quello che si vede allo specchio è la differenza tra
noi e la media degli uomini e la media dell’ambiente. Ma quello che si vede davanti a Dio è un’altra
cosa: è la percezione di quello che siamo nel profondo; questo lo “specchio” non lo dice; la società
non lo dice; si, la società ci dà dei parametri di riferimento ma sono minimi; e torno a dire sono
quelli della media degli uomini, “del grigio”. L’ottica invece dell’incontro con il Signore è quella
che ricordavo.
4

Dice Don Giovanni Moioli (dal libro “Il discepolo” ed. Glossa):
“La figura caratteristica del credente cristiano, sullo sfondo del cosiddetto
religioso, è specificata dal suo riferimento a un personaggio, riconosciuto come
la verità, come l’assoluto, l’unico. E questo personaggio, questo riferimento è
Gesù Cristo, da cui prende contorno la vita, prendono contorni i criteri, i giudizi
del comportamento. Cioè questo rapporto fondamentale è inglobante, è
onnicomprensivo, capace di assumere e di interpretare tutti gli aspetti
dell’esistenza. È un rapporto che diventa profondamente creativo perché è una
specie di luce, di prospettiva su tutti gli aspetti della vita, della storia, delle cose.
Nessuno e niente rimane fuori: perché Cristo è capace di comprendere e
interpretare tutto” (pag. 15).
Forse il vocabolario non è semplicissimo, perché Moioli non lo è mai, ma il pensiero è molto
preciso e bello. “Cristo è capace di comprendere e di interpretare tutto”, vuole dire: davanti a Gesù
Cristo diventiamo capaci di comprendere e di interpretare tutto, abbiamo la possibilità di dare un
senso costruttivo all’esperienza che viviamo; addirittura possiamo dare un senso costruttivo
all’esperienza del peccato, ma davanti a Cristo, non davanti allo “specchio”.
 Il “peccato” davanti lo specchio è avvilimento, davanti a Gesù Cristo è
conversione.
 Mentre l’“avvilimento” è distruttivo, la conversione edifica, costruisce.
 La conversione è quella tristezza ma che produce vita e non morte,
diceva Paolo (2 Cor 7, 10).
Il senso è essenzialmente questo.
3.4. I discepoli di Emmaus imparano a vedere la croce di Gesù
Per andare un po’ più nel concreto possiamo rivolgerci questa domanda: ma come avviene questo
nella nostra vita? che cosa vuole dire? Un esempio, che a me sembra molto bello, è quello dei
“discepoli di Emmaus” (cfr. Lc. 24, 13-35).
È Pasqua, per la via che da Gerusalemme va a Emmaus, questi due discepoli parlano tristi, e si
capisce perché le loro speranze sono andate deluse: «[21]Noi speravamo che fosse lui a liberare
Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni…», con tutto quello che segue. In realtà dovrebbero
sprizzare di gioia, perché oggi è Pasqua, oggi è la vittoria sulla morte, oggi il Cristo è risorto, è
presente per sempre. Questi due discepoli in fondo le cose le sanno tutte. E lo faceva notare il card.
Martini, in uno dei suoi tanti commenti sui discepoli di Emmaus, che questi due discepoli recitano il
kerigma al viandante che si accosta a loro:
«Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e
a tutto il popolo; [20]come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo
condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. [21]Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con
tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. [22]Ma alcune donne, delle
nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro [23]e non avendo trovato il suo corpo,
sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.
[24]
Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui
non l’hanno visto» (Lc 24, 19-24).
Insomma, questo è il kerigma, c’è tutto! C’è anche l’annuncio della Pasqua fatto dagli angeli: c’è il
sepolcro vuoto! C’è quindi tutta la vita di Gesù riassunta nell’essenziale; dovrebbero essere pieni di
gioia a motivo di quello che hanno detto nelle loro stesse parole, e invece sono tristi. Perché sono
tristi?
Il motivo è quello che abbiamo visto nella quarta meditazione; è lo stesso motivo per cui Pietro fa
fatica ad accettare l’annuncio della Passione (cfr. Mc 8, 29-33). Sono tristi perché hanno visto il
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Crocefisso: il Crocefisso è fallimento! il Crocefisso è morto! il Crocefisso è sconfitta! Superare “lo
scandalo del crocefisso” (cfr. 1 Cor 1, 23) è duro, è difficile. Se uno lo prende davvero superare
quello scandalo diventa un cammino aldilà delle nostre forze. Ebbene, Gesù si accosta, e ricordate
come va tutto il seguito. Cosa fa Gesù? Spiega le Scritture. Che cosa vuole dire: “spiega le
Scritture”? Spiega quello che lo riguarda, e lo spiega attraverso le Scritture che “bisognava che il
Cristo patisse tutte queste sofferenze ed entrasse così nella sua gloria” (Lc 24, 26). “Bisognava”,
vuole dire: era il disegno di Dio, nelle Scritture c’è questo disegno di Dio, c’è la croce! Bisogna
imparare a vederla.
Quando i discepoli dicono che durante la spiegazione di Gesù “ardeva loro il cuore in petto” (Lc 24,
32), il motivo è quello: che lo “scandalo della croce” si scioglie pian piano, che la croce viene
interpretata e compresa dentro al disegno di Dio; quindi man mano che diventa non quel “buco
nero” che assorbe e distrugge tutte le nostre speranze e i nostri sogni; al contrario, diventa quel
luogo dove la nostra speranza viene costruita perché la Parola di Dio si è compiuta lì, perché il
disegno di Dio si è realizzato lì, e quindi c’è il disegno di Dio come possibilità che si apre per
sempre di fronte a noi. Per questo “ardeva a loro il cuore in petto”, non perché Gesù sapeva spiegare
bene tutte queste cose, ma perché reinterpreta la loro esperienza; attraverso le Scritture li aiuta a
leggere l’esperienza che hanno fatto, e in particolare il centro della croce; aiuta a interpretare questa
realtà della croce dentro al disegno di Dio, che vuole dire nella speranza; per questo rinasce a loro la
gioia.
Lo stesso discorso varrà anche per l’Eucaristia, dove è ancora lo stesso: è “allo spezzare del pane
che capiscono” (Lc 24, 35). “Spezzare del pane” vuole dire: la vita spezzata del Signore. Capiscono
che era una vita spezzata apposta, che lui l’ha spezzata per loro, quindi che non è il destino oscuro e
funesto che è caduto sopra la comunità di Gesù e l’ha schiacciata. No, è Gesù che ha spezzato la sua
vita per loro. Se riescono a capire che “la croce è per loro”, che “è una vita spezzata per loro”, che
“è un pane che deve nutrire loro”, allora lo “scandalo” passa. Allora è possibile scoprire quella che
Paolo chiama la “sapienza della croce” (1 Cor 1, 18-25), il disegno che c’è dentro; ma questo è
possibile attraverso l’incontro con Gesù, nella sua Parola, nelle sue parole.
3.5. La Parola del Signore Gesù diventa il criterio attraverso cui orientarsi e giudicare la
realtà
Insomma, pian piano il Vangelo, la Parola del Signore Gesù, diventa il criterio attraverso cui
orientarsi e giudicare la realtà.
Quindi diventa una possibilità di dare senso alla propria esistenza. Dico “una possibilità” perché il
senso non è qualche cosa che si verifica come si fa l’analisi chimica di un prodotto per vedere se
dentro c’è un po’ di piombo o no, lì basta fare l’analisi chimica e il piombo se c’è viene fuori. Il
senso nella vita non è così, non basta fare l’analisi chimica della vita per vedere se c’è tra i tanti
componenti quello che si chiama “senso”. Il senso della vita è qualche cosa che pone l’uomo con la
sua libertà dentro i dati, che sono i dati della vita, ma in modo creativo, e non semplicemente
riconoscendo che c’è, ma prendendo posizione a favore del senso degli avvenimenti.
Ebbene, il Vangelo, l’incontro con Gesù, dà questa possibilità. Sono tutte quelle categorie – che
conoscete benissimo perché sono la categoria dell’amore di Dio, della riconciliazione, della
promessa, della speranza, della comunione con gli altri, dell’amore fraterno, della vita e della morte,
della resurrezione – che permettono all’uomo di rileggere la sua vita dentro a un disegno di vita e di
amore, e quindi di dare senso.
3.5.1. Leggendo il Vangelo, se riusciamo a riconoscerci nei protagonisti del racconto,
riusciamo a conoscere meglio noi stessi
Questo avviene in modo molto semplice, (ma qui non ho bisogno di spiegare niente, perché Martini
lo ha spiegato molto meglio di quello che posso fare io), quando leggendo il Vangelo riusciamo a
riconoscerci nei protagonisti del racconto, riusciamo quindi a conoscere meglio noi stessi a
partire da quei protagonisti.
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Simone è un uomo molto preciso e concreto, però Simon Pietro è qualcuno nel quale ci possiamo
riconoscere nel suo entusiasmo e nella sua incostanza. Se la nostra vita è illuminata di fronte la
figura di Pietro, questo ci permette di dare alla nostra stessa vita un suo significato, e mi spiego.
Qualche commentatore dice che quando nel Vangelo di Marco al cap. 3, 16 è dato l’elenco dei
Dodici, e si comincia dicendo innanzitutto con: «Simone, al quale impose il nome di Pietro».
Qualcuno dice: questa è ironia; chiamare Pietro “Simone” nel Vangelo secondo Marco è ironia,
perché la figura che fa Pietro nel Vangelo di Marco è solo negativa.
Nel Vangelo secondo Matteo c’è anche: «Ti darò le chiavi del Regno dei Cieli…» (Mt 16, 19). In
Giovanni c’è: «Pasci i miei agnelli (…) e le mie pecore…» (Gv 21, 15.16). Ma nel Vangelo di
Marco no.
Se voi prendete il Vangelo di Marco, trovate che Pietro fa la figura innanzitutto di rimproverare
Gesù sul Messia, e lui è considerato un satana (cfr. Mc 8, 33); poi viene annunciato il suo
rinnegamento, e Pietro fa tutte le professioni di fede e di amore (cfr. Mc 14, 30-31); ma poi per tre
volte rinnega (cfr. Mc 14, 66-72); quindi non c’è nessun recupero nel Vangelo secondo Marco.
Allora qualcuno dice: “Simone, al quale diede per ironia e sarcasmo il nome di Pietro”. Ma non è
così, in realtà invece il senso è che nella parabola l’esperienza di Pietro è la parabola di come un
“Simone”, povero e fragile come noi, può diventare Pietro per la chiamata di Gesù, come
un’esistenza che si porta dietro la fragilità può diventare un ministero e un servizio autentico. Per
questo Simone è importante e per noi è prezioso. È preziosissimo il fatto che Pietro abbia rinnegato
il Signore, non perché è bello, ma perché è tragico.
Ma il fatto che Pietro abbia rinnegato – dice il Vangelo secondo Marco: «Pietro si ricordò di quella
parola che Gesù gli aveva detto: Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte. E
scoppiò in pianto» (Mc 14, 72) – e poi sia ricondotto a questo pianto liberatore dal ricordo della
parola di Gesù, è per noi consolante. Fosse stato semplicemente una “roccia” (cfr. Mt 16, 18)
dall’inizio alla fine l’avremmo ammirato, ma da lontano. Siccome, invece, è un povero uomo fragile
– ma è Pietro –, quindi diventa uno con cui ci possiamo identificare, non è un eroe al di sopra della
media degli uomini. È al contrario uno preso di mezzo nel tessuto normale dell’umanità, ma proprio
per questo diventa significativo e motivo di speranza.
Ma anche tutte le altre figure – e, dicevo, Martini non fa altro che aiutare a cogliere tutte queste
relazioni: “L’uomo ricco con i suoi grandi desideri”, «Che cosa devo fare per avere la vita eterna»
(Mc 10, 17), che poi alla fine si rivela un desiderio velleitario, perché si rivela schiavo dei beni che
aveva – vogliono dire che ci aiutano a capire che in quelle avventure si tratta di noi; non stiamo
leggendo solo storia e letteratura, stiamo leggendo una bella letteratura e anche una storia
significativa, ma stiamo leggendo la nostra vita, stiamo riscoprendo il nostro impegno, la nostra
chiamata.
Ricordavo prima il “rinnegamento di Pietro”, ma dovete metterci evidentemente il “tradimento di
Giuda” (cfr. Mc 14, 10-11), l’“abbandono dei discepoli”, e alla fine il “fallimento dei discepoli”. È
un fallimento vero e proprio e il Vangelo secondo Marco lo dice (per Giovanni sarà diverso):
«[50]Tutti allora, abbandonatolo, fuggirono. [51]Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di
un lenzuolo, e lo fermarono. [52]Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo» (Mc 14, 50-52).
Nessuno riesce andare dietro a Gesù, questo è il fallimento del discepolato; quel “giovanetto che
scappa via nudo” è proprio il senso di questo fallimento, addirittura l’ultimo che ha tentato gli è
andata a finire così.
Viene in mente quel versetto di Amos che diceva: «Il più forte dei prodi scapperà nudo in quei
giorni!» (Am 2, 16), quindi il senso dell’assoluta mancanza di difesa.
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4. Nelle dimensioni grandi di fede, di speranza e di amore la nostra vita si apre
alla comunione con Dio
4.1. C’è la Speranza
C’è speranza? Come dicevo nel Vangelo di Marco non sembrerebbe tanto, perché non ci sono dei
recuperi. Se il vangelo di Marco finiva, come dicono la maggior parte degli esegeti, al cap. 16, 8
non venivano neanche raccontate le apparizioni pasquali; allora non c’era proprio niente a favore
dei discepoli. Niente, tolto una parola, ed è una parola di Gesù nell’ultima cena. Quando Gesù
annuncia il “rinnegamento di Pietro”, il “tradimento di Giuda”, l’“abbandono dei discepoli”, dice:
«Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno
disperse» (Mc 14, 27). E questo è già un vantaggio, perché vuole dire che questo abbandono c’era
scritto in Zaccaria (cfr. Zc 13, 7), quindi sta dentro al disegno di Dio. È “un fallimento dei
discepoli”, ma che Dio ha recuperato perché sta dentro la sua Parola; non è un fallimento che fa
fallire il disegno di Dio, è un fallimento umano dei discepoli ma si compie dentro al disegno di Dio.
E continua: «[28]Ma – cioè nonostante tutto – dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea» »
(Mc 14, 28).
E quando l’angelo appare alle donne il giorno di Pasqua: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù
Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. [7]Ora andate,
dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come Egli vi ha detto»
(Mc 16, 5-7). “In Galilea” vuole dire che l’avventura ricomincia, quello che sembrava un fallimento
insuperabile in realtà è superato dalla Parola di Gesù.
Allora si tratta di riconoscere lì la nostra vita: “Vi precederò in Galilea”, “dove mi avete incontrato
e conosciuto, dove abbiamo fatto i primi passi insieme, dove avete imparato la sequela; lì si riparte;
non è un cammino chiuso quello che abbiamo percorso”.
4.1.1. Il discepolo è sollecitato dallo Spirito Santo a rispondere a Dio con la propria vita
Se in quelle figure del Vangelo riusciamo a riconoscere noi stessi, allora di fronte alle parole del
Vangelo siamo chiamati a rispondere. Cioè, come dicevo prima: “prendere posizione”.
«Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19, 5); questo è un invito a un
coinvolgimento, ed è in questa capacità di coinvolgimento che riscopriamo il senso della nostra vita
e che diamo un senso alla nostra vita, e lo diamo in modo creativo. Perché quando si legge «scendi
subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua», si parla solo di Zaccheo? No, si parla anche di me,
però io non sono Zaccheo, e il tipo di risposta che sono chiamato a dare non è quello di Zaccheo.
Non devo dire: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno,
restituisco quattro volte tanto» (Lc 19, 8); non è questo che mi viene chiesto. Però quello che mi
viene chiesto è di accogliere la venuta del Signore nella mia esistenza e rigenerare la mia esistenza
in modo che corrisponda all’amore che il Signore mi ha mostrato, a quella condiscendenza che il
Signore mi ha rivelato. Devo inventare io il modo di rispondere, lo invento teologicamente con
l’illuminazione dello Spirito Santo, ma è uno Spirito Santo che suscita una libertà di risposta e
di coinvolgimento.
Fa impressione, se voi ci pensate bene (almeno per me, perché poi le esperienze sono diverse), il
rivedere come tutto quel cammino di fede – che ci viene chiesto delle virtù teologali: fede,
speranza e carità – in realtà non è altro che la nostra corrispondenza alla fiducia di Dio in noi, alla
speranza di Dio per noi, all’amore di Dio verso di noi.
Cioè dire che “Dio ha fede in noi” è una battuta. Però il dire che “c’è in Dio una fiducia rivolta alla
creatura libera-uomo”, su questo non c’è dubbio. L’incarnazione del Figlio di Dio esprime una
fiducia. Fossimo proprio delle “bocce perse” l’Incarnazione non avrebbe senso. L’Incarnazione dice
un atto di fiducia in noi e dice un atto di speranza in noi, che Dio spera in noi.
Avevo ricordato nell’Introduzione alle nostre Meditazioni (un po’ criticamente) quella che secondo
Marcel Gabriel è la formula dell’atto di speranza. L’“atto di speranza” si esprime come: “Io spero
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in te per noi”. Dice Marcel: “La speranza non è mai speranza nelle cose”. È vero che noi diciamo:
speriamo che domani sia bel tempo; ma questa non è speranza, è previsione con un po’ di desiderio.
“La speranza è un’altra cosa: si ha speranza in un altro che è degno di fiducia, e si ha speranza per
quello che l’altro può realizzare insieme con noi nel futuro che affrontiamo”.
La speranza non è legata al determinismo: spero che c’è, che succeda qualche cosa domani di
positivo, come se fosse determinato, e quindi il futuro io lo spero positivo invece che negativo, bel
tempo invece che brutto tempo. Invece l’atto di speranza è un atto tipicamente umano, relazionale,
che coinvolge due persone in un progetto comune: io spero in te per noi, per quello che insieme
possiamo costruire, per quello che puoi compiere nella mia vita e io nella tua, in qualche cosa che
sia comune e di sintonia.
Allora è questo l’atto di speranza di Dio nell’uomo: spera in quello che l’uomo può fare, non senza
la sua speranza; è la speranza di Dio in noi che suscita in noi la speranza, ma appunto la suscita.
Lo stesso vale per la dimensione dell’amore.
È ritrovando queste dimensioni grandi di fede, di speranza e di amore che la nostra vita si
apre alla comunione con Dio e ritrova in questa comunione con Dio una pienezza di significato
davanti a lui.
Riassunto Conclusivo
Quello che avviene nell’incontro con Gesù è esattamente il fatto di entrare in questa linea:
2. di trovarsi di fronte alla rivelazione del mistero di Dio,
3. che ci sollecita a rispondere a Dio con la nostra vita, e che ci spinge a
prendere posizione a favore di una vita vissuta insieme con lui, vita di
comunione con Dio,
4. per la realizzazione di un progetto che è progetto di vita, di speranza e di
amore. Diceva il profeta Geremia: “Io ho su di voi dei disegni di vita e
non di morte, di pace” (cfr. Ger 21, 8).
1. Credo che in una vita di un discepolo questa dimensione sia importante: il sapersi conosciuto,
rendersi conto che la sua vita è conosciuta dal Signore, e che nel momento in cui è conosciuta è
sollecitata ad una risposta davanti a lui per un cammino di crescita e di libertà.
* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore.
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