Stefano Rodotà, La vita e le regole Da Il diritto e il suo limite Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci son scritte tutte le quiddità delle cose in breve. Tommaso Campanella, La città del sole (1602) 1. Può il diritto, la regola giuridica, invadere i mondi vitali, impadronirsi della nuda vita, pretendere anzi che il mondo debba “evadere dalla vita”? Gli usi sociali del diritto si sono sempre più moltiplicati e sfaccettati. Ma questo vuol dire pure che nulla può essergli estraneo, e che la società deve rassegnarsi a essere chiusa nella gabbia d’acciaio di una onnipresente e pervasiva dimensione giuridica? Viviamo ormai in una law-saturated society, in una società strapiena di diritto, di regole giuridiche dalle provenienze più diverse, imposte da poteri pubblici o da potenze private, con una intensità che fa pensare, più che a una necessità, a una inarrestabile deriva. La consapevolezza sociale non è sempre adeguata alla complessità di questo fenomeno, che rivela anche asimmetrie e scompensi fortissimi, vuoti e pieni, con un diritto invadente in troppi settori e tuttavia assente là dove più se ne avvertirebbe il bisogno. Sostenuto da spinte diverse, e persino contraddittorie, “il diritto si costruisce un mondo proprio”. Ma in questa autonomia del giuridico, come per altri versi nell’autonomia del politico, della scienza e della tecnica, si cela l’insidia di una volontà di potenza incontrollata. E subito si individua un problema, se non già un limite. Analizzando l’Ulysses di James Joyce, Franco Moretti ha concluso che lì ci viene proposto “un mondo stracolmo di cultura – e totalmente privo di saggezza”. È questo il rischio nel quale si sta avvolgendo il diritto? Occultata nel quotidiano, la potenza del diritto si sprigiona nelle situazioni d’eccezione, quelle in cui emerge un’assoluta autorità sovrana alla quale tutti devono piegarsi. La regola sostiene e legittima l’eccezione, l’intero diritto viene in quel momento identificato con quel suo particolare uso, e ne può scaturire un rifiuto da parte di tutti quelli che, nella regola, colgono ormai soltanto l’imposizione. Quando, però, a una analisi che guarda al regime sovrano se ne sostituisce una volta a considerare quello “biopolitico”, i termini della questione cambiano. “Mentre nel regime sovrano la vita non è che il residuo, il resto, lasciato essere, risparmiato dal diritto di dare la morte, in quello biopolitico è la vita ad accamparsi al centro di uno scenario di cui la morte costituisce appena il limite esterno o il contorno necessario.” La dimensione quotidiana è oggetto dell’attenzione più intensa del diritto. Eccezione e quotidianità, diritto e torto, diritto e violenza. Il riferimento alla regola giuridica è sempre intessuto anche di opposizioni, la sua legittimazione è stata fatta derivare anche dal suo incarnare il polo positivo di un conflitto. Il diritto “addomestica” la società, la libera da tossine. Ma questa sua proclamata funzione non basta per farne scomparire la faccia oscura, l’intima sua attitudine costrittiva, che per molti l’avvicina a quello che dovrebbe neutralizzare, la violenza appunto. Così, l’associazione tra diritto e Stato moderno, che fa di questo il monopolista della violenza legittima, si accompagna immediatamente con il problema degli ambiti all’interno dei quali autorità e violenza legittima possono essere esercitate, e dunque dei limiti stessi del diritto e della sua funzione “immunizzante” per garantire la sopravvivenza della comunità. Negli ultimi decenni del secolo passato, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, sembrò che i nuovi assetti internazionali consentissero di sottrarsi finalmente a una logica fondata soltanto sull’“equilibrio del terrore”, sui puri rapporti di forza tra grandi potenze, e si parlò appunto di un “ritorno del diritto”, che avrebbe dovuto ripristinare il “governo delle leggi” in luogo dell’arbitrario e violento “governo degli uomini”. Ma quelli sono pure gli anni in cui si diffonde una lettura della società e delle sue istituzioni che guarda al diritto come strumento di puro “disciplinamento” sociale, come mezzo per asservire anime e corpi alla “biopolitica”, come fonte di autoritarie istituzioni “totali”. Il diritto appare così stretto tra liberazione e costrizione, prigioniero anche di schemi che ne negano la complessità, con ripulse e accettazioni non sempre motivate. La ribellione alla regola convive con il disperato bisogno di aggrapparsi a un divieto: “Thou shalt not’ is a kinder sword”, ci ricorda Emily Dickinson, quando si sente che è vana ogni preghiera. Al tempo stesso, però, si vuol radicare più profondamente la legge non tanto nella società, quanto nell’umanità stessa degli individui, apprestando una categoria di diritti fondamentali che ci appartengono “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, alzando così un argine contro l’autoritarismo pubblico e la prepotenza privata. E lungo questa strada si incontra un mondo che abbiamo imparato a conoscere per il modo in cui la differenza di genere ne ha costruito le strutture, dunque la stessa regola giuridica. Viene così illuminato, grazie al pensiero delle donne, un momento essenziale della vita, che non può fare astrazione dal dato di genere, e così omettere un approfondimento sul diritto anche come discorso pubblico sul corpo femminile. “Si può definire la legge come l’unione di chi comprende e vede lontano contro chi vede solo ciò che ha vicino. I primi devono costringere i secondi a compiere ciò che è nel loro interesse. Ma non è nell’interesse dei miopi, per farli felici contro la loro volontà, bensì nell’interesse della comunità. La legge è l’arma indispensabile dell’intelligenza contro la stupidità.” Chi scrive con tanta sicurezza e aggressività, nel 1883, è Rudolf von Jhering, uno dei massimi esponenti di quella scuola giuridica tedesca che ebbe un peso grandissimo nella cultura dell’Ottocento, e contribuì a riproporre e rafforzare un’idea egemonica del diritto. Il diritto, nelle sue parole, è ciò che guarda lontano, e così può abbracciare in modo non occasionale le cose del mondo, adempiendo a una funzione analoga a quella della politica, anch’essa definita come “visione dell’interesse lontano”, e quindi capace di superare “la stretta cerchia degli interessi immediati, cui si limita lo sguardo del miope”. A questa capacità prospettica, più che a dati puramente formali, si affidano l’intima forza e la lunga durata del diritto: e la metafora ottica torna in Piero Calamandrei, che indicava proprio nell’essere “presbite” uno dei tratti caratteristici, e positivi, della Costituzione italiana del 1948. […]