LA BIBBIA NON È UN MITO I nostri venticinque lettori ci scuseranno per questo editoriale in apparenza estraneo al dibattito sulla riforma della scuola e sul futuro della professione docente. Ma ciò che è in gioco è troppo importante per non intervenire, seppure con le parole dotte che seguono, che invitiamo a leggere con attenzione e ad approfondire recuperandone la fonte. Si tratta di questo: le indicazioni nazionali per i nuovi licei scaturiti dalla riforma prevedono, al primo biennio, la lettura di brani di “opere fondative per la civiltà occidentale e radicatesi – magari in modo inconsapevole – nell'immaginario collettivo, così come è andato assestandosi nel corso dei secoli”. Accanto ai poemi omerici e all’Eneide troviamo opportunamente indicata la Bibbia. Un’ottima indicazione, riteniamo, che può colmare un vuoto culturale oltre che educativo, collocando il libro sacro alla tradizione ebraico-cristiana, dalla quale proveniamo, nella sua giusta prospettiva di materia di studio. Che cos’è infatti la scuola (o che cosa dovrebbe essere) se non coltivazione critica e consapevole della matrice storica del popolo? Sta accadendo in realtà (non in tutti i casi, è ovvio) che in alcuni nuovi libri di testo di italiano per il biennio della secondaria superiore (le antologie) la Bibbia sia finita nello stesso capitolo dedicato al mito. Non vogliamo accusare nessun autore apertamente, ma segnalare una questione grave perché impostata in modo scorretto. Perciò non faremo nomi: chi ci segue eventualmente segnalerà queste incongruenze. Dunque la Bibbia sarebbe un mito, almeno nelle sue parti iniziali riguardanti i racconti cosmogonici. Questa interpretazione che facendo di ogni erba un fascio accosta materiali mesopotamici, greci e semitici ha una qualche fondatezza? La Bibbia è parte integrante della nostra modalità di introdurci nella realtà, è fonte perfino del nostro linguaggio, perciò dobbiamo capire se è testimonianza di fatti accaduti o invenzione degli stessi da parte dei nostri progenitori. Per dirimere il caso riportiamo qui di seguito alcune interessanti considerazioni di Gianfranco Ravasi, reperibili su Internet tramite una semplice ricerca. Le raccomandiamo a tutti coloro cui sta a cuore la formazione dei giovani e non appena la difesa di una posizione ideologica che non ci caratterizza. Le raccomandiamo ai docenti perché il metodo con cui si legge la Bibbia può essere lo stesso con cui si leggono i testi degli autori: occorre cercare in essi ciò che intendono dire, non ciò che “dovrebbero” dire a prescindere dalle loro intenzioni. “La Bibbia procede a una vera e propria operazione di “demitizzazione” dei materiali cosmologici che assume dalle culture circostanti. Nel celebre poema accadico-babilonese Enuma Elish l'impostazione è, infatti, cosmogonica: il cosmo è concepito come frutto di una lotta teogonica e intradivina […] Si ha, quindi, una concezione che potremmo definire panteista, in altra forma sottesa anche alla divinizzazione “solare” operata in Egitto (Horus, Amon, Aton e così via che incarnavano il sole divinizzato). Tutto questo muta radicalmente nelle Scritture ebraiche ove Tiamat è semplicemente tehòm, ossia l'abisso acquatico inferiore, e sole e luna sono ridotti a essere “luminari” (Genesi, 1, 16-18). Al centro del creato è posto semplicemente ha-'adam, in ebraico “l'uomo” e non il re, incarnazione della divinità, come ad esempio avveniva nel rito babilonese di akìtu, il capodanno primaverile, in cui miticamente si riproduceva nel sovrano l'evento teogonico e cosmogonico primordiale. Una desacralizzazione e una demitizzazione che permettono appunto di introdurre lo stesso concetto creatio ex nihilo. Esso suppone la categoria filosofica di “nulla”, a prima vista poco praticabile in una cultura a matrice simbolico-realistica com'è quella semitica. In realtà, essa è conquistata proprio attraverso la via simbolica. Si legge, infatti, che prima della creazione, “la terra era tohù wabohù e le tenebre ricoprivano l'abisso” (Genesi, 1, 2), una forma onomatopeica per evocare una superficie desertica, desolata e squallida e indica assenza di vita, è silenzio e morte, cioè l'esatto contrario dell'essere […] Il Dio biblico non è “un arruffio di fili di cui non si vede il bandolo”, come dice un arcaico testo sumerico a proposito del dio Enlil, bensì una persona che produce poièmata: Filone, il celebre filosofo giudeoalessandrino, giocava sulla duplice accezione di questo termine greco come “opere” e “poemi”, cioè le creature sono atti e parole divine. Si configura così la possibilità di una teologia della creazione che ha davanti a sé due percorsi, quelli della fides e della ratio. Esiste una via “induttiva”, quella che Tommaso d'Aquino ha codificato nelle sue “cinque vie” e che la Bibbia esprime in modo simbolico suggestivo, ad esempio attraverso lo stupendo canto solare del Salmo 19: “I cieli narrano la gloria di Dio, l'opera delle sue mani annuncia il firmamento” (vv. 2-5). In forma più “teorica” il libro greco alessandrino della Sapienza affermerà che “dalla grandezza e bellezza delle creature analògos theorèitai il loro Creatore” (13, 5). Importanti sono i due vocaboli greci scelti da questo autore sacro: da un lato, si introduce la via analogica, che diverrà classica nella filosofia e nella teologia cristiana, mentre d'altro lato si parla esplicitamente di una theorìa, vale a dire di una contemplazione “teorica”, argomentata e fondata”. (L'Osservatore Romano 30 novembre 1 dicembre 2009)