La letteratura del Seicento in Italia

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IL SEICENTO
DALL’ANTICO REGIME ALLA MODERNITÀ
L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è
una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si
armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua
bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo
schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel
che l’uccide, perché sa di morire, e la superiorità che
l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla.
Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso
dobbiamo cercare la ragione per elevarci, e non nello
spazio e nella durata che non potremmo riempire.
Blaise Pascal, Pensieri
LA STORIA
Un secolo di transizione
[All’insegna della contraddizione] Gli anni che vanno dalla fine del Cinquecento ai primi del
Settecento possono essere riassunti sotto il segno della discordanza, della compresenza di elementi
violentemente contrastanti. Sul piano politico e sociale, è il secolo delle diseguaglianze sociali, dei
privilegi nobiliari, dell’assolutismo; tuttavia si fa strada il pensiero che vede in qualsiasi forma di
governo il frutto di un ‘patto sociale’ che deve essere condiviso da regnanti e cittadini;
contemporaneamente, progredisce l’idea che ogni individuo, a prescindere dalla sua condizione sociale
o economica, sia depositario di diritti inalienabili – che non possono cioè in nessun caso essergli tolti,
alienati. Sul piano religioso, da una parte proseguono le persecuzioni religiose, l’intolleranza, la
contrapposizione violenta tra protestanti e cattolici; dall’altra emerge il principio della libertà di
coscienza, in base al quale la scelta religiosa compete all’individuo e non può essere imposta dall’alto,
non è una questione di stato ma una faccenda personale. Anche sul piano materiale le consuetudini
ancora feudali si intrecciano alle rapide trasformazioni che apriranno la strada alla rivoluzione
industriale – riduzione delle terre comuni, passaggio a una agricoltura di tipo intensivo, accumulazione
di capitali grazie allo sfruttamento delle immense risorse del Nuovo Mondo.
[Vecchio e nuovo] È il secolo dell’Inquisizione, del Tribunale del Santo Uffizio, della Compagnia di
Gesù, di Versailles, del Re Sole; ma è anche il secolo della rivoluzione astronomica, di Galileo, di
Newton, di Pascal, della gloriosa rivoluzione inglese. Vecchio e nuovo convivono fianco a fianco,
senza soluzione di continuità. Per coloro che vissero in questo periodo, era difficile prevedere come
sarebbe andata a finire, capire cosa avrebbe avuto la meglio, da che parte stava il futuro. Solo noi, a
posteriori, sappiamo cos’era destinato a trionfare e cosa invece a perdersi per sempre. Ma per
comprendere questo periodo così controverso dobbiamo fare un piccolo sforzo di immedesimazione:
guardare dal basso e non dall’alto, osservare i frammenti contrastanti tra loro, senza ordinarli in
rigorosa necessità con il senno di poi.
L’Europa in guerra
[Incerti orizzonti] Alla fine del Cinquecento l’orizzonte politico è molto incerto, la situazione europea
appare estremamente variegata e ancora non si capisce bene quale forma politica avrà la meglio: un
solo impero europeo sovranazionale? I poteri locali? (città, feudi e signorie di campagne, porti
commerciali)? Gli stati territoriali più estesi? Gli stati di piccole dimensioni?
[Un conflitto moderno] Lo scontro tra questi diversi modelli è una delle principali cause della Guerra
dei Trent’anni, un violento conflitto che dura a fasi alterne dal 1618 al 1648, in cui si intrecciano
dispute religiose e questioni dinastiche, e che vede coinvolti i principali centri di potere europei –
l’impero, il papato, la monarchia francese, inglese e spagnola, i principati italiani, le città e i principati
tedeschi, Danimarca, Svezia, Olanda. Una vera e propria guerra europea, che è anche la prima
guerra moderna.
[L’introduzione delle armi da fuoco] Moderna in primo luogo perché è la prima in cui diventa decisivo
l’uso delle armi da fuoco. Il peso principale delle operazioni è affidato infatti ai moschettieri, cioè ai
soldati armati di moschetto (una specie di fucile che, grazie all’introduzione della pietra focaia, era
arrivato a una capacità di tiro di un colpo al minuto), disposti su più file parallele, in maniera da poter
sparare a ripetizione, alternativamente – una fila spara mentre l’altra ricarica; di pari passo, acquista
maggiore importanza l’artiglieria pesante, grazie al perfezionamento dei cannoni. È la fine della
cavalleria, dei duelli, delle sfide ‘a singolar tenzone’ immortalate dai grandi poemi cavallereschi del
Cinquecento. Il servizio delle armi non è più appannaggio di nobili cavalieri, ma un mestiere,
rischioso e malpagato: i soldati vengono arruolati tra i contadini più poveri, tra i mendicanti delle città
– gli unici disposti a sottoporsi a una rigida disciplina e a un pericolo costante, senza speranza di onore
o di gloria.
[Il coinvolgimento della popolazione civile] In secondo luogo, possiamo definire la guerra dei
trent’anni moderna perché coinvolge in maniera massiccia la popolazione civile. Nelle campagne gli
eserciti in marcia diventano una realtà ordinaria e funesta. Non solo perché i soldati considerano ovvio
‘arrotondare’ la loro paga con il saccheggio e le ruberie, ma anche perché – mancando ancora qualsiasi
supporto logistico – il saccheggio è l’unico modo per garantire alla truppa i viveri necessari. Le
conseguenze sono disastrose: anno dopo anno i raccolti vengono distrutti, il cibo scarseggia ovunque,
si diffondono malnutrizione ed epidemie, alle morti in combattimento si sommano quelle dovute alla
fame e alle malattie, fino al tracollo demografico.
La pace di Vestfalia: la vittoria degli stati nazionali
[inserire una cartina dell’Europa]
[La pace di Vestfalia] Mentre ancora si combatteva quasi ovunque, nel 1648 viene siglata la pace di
Vestfalia, con la quale ha inizio ufficialmente un lunghissimo periodo di pace, interrotto solo da
conflitti episodici e circoscritti: non a caso gli equilibri stabiliti in questa occasione rimarranno invariati
per più di un secolo, fino a quando saranno travolti dalle grandi rivoluzioni settecentesche, che
cambieranno nel giro di pochi decenni il volto del mondo.
[L’affermarsi degli stati nazionali] Dal punto di vista politico, la pace di Vestfalia sancisce la fine del
sogno medievale di un’Europa unificata sotto il segno dell’Impero e della Chiesa cattolica, e la
vittoria definitiva di un diverso modello politico: lo stato nazionale. La società pre-moderna è
caratterizzata infatti dalla compresenza di una miriade di poteri diversi: signorie di origine feudale,
leghe commerciali, alleanze familiari e dinastiche, corporazioni di mestiere. Ognuno di questi soggetti
politici godeva di una serie di immunità e privilegi, poteva amministrare la giustizia, punire i reati,
controllare il prelievo fiscale. Lo stato moderno si afferma a dispetto di questa dispersione, spesso
combattendo con la forza, sia a scapito dei poteri universali (l’Impero, la Chiesa cattolica), sia di quelli
locali (i centri di potere feudale, le signorie cittadine). La stesura delle leggi, l’amministrazione e la
tutela della giustizia, la riscossione delle tasse e dei tributi, il mantenimento dell’ordine interno e la
difesa da eventuali minacce esterne divengono così prerogative esclusivamente statali.
[Un processo disomogeneo] Ovviamente lo stesso processo avviene in forme e tempi diversi nei vari
paesi: se alcuni stati come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna nel Seicento hanno già raggiunto una loro
compattezza unitaria, altri rimangono invece al di fuori di questa trasformazione: è il caso della
Germania, dove la forza dei poteri locali da una parte e la presenza dell’Impero dall’altra impediscono
il compiersi dell’unificazione; è anche il caso dell’Italia, divisa tra piccoli stati, molti dei quali
appartenenti a sovrani o potenze straniere, che ancora a lungo sarebbe esistita come tale solo nella
coscienza dei letterati e degli artisti.
La società d’antico regime
[Il secolo dell’ancien régime] Dal punto di vista delle strutture sociali il Seicento è per eccellenza il
secolo dell’antico regime (in francese ancien régime). La definizione, nata in riferimento alla società
francese, è stata poi estesa a indicare in generale l’assetto europeo prima delle rivoluzioni
settecentesche. Le caratteristiche della società d’antico regime sono le seguenti:
 La rigida divisione in ceti. A differenza delle classi, i ceti sono gruppi compatti e chiusi a cui
quasi sempre si appartiene per nascita: la nobiltà (di cui fanno parte tutte le famiglie
aristocratiche); il clero (un ceto d’elezione, a cui in teoria tutti possono accedere per libera
scelta: ma coloro che provengono dai ceti più umili rimangono nel basso clero, gli altri vanno
nell’alto clero); il Terzo stato (a cui appartengono tutti gli altri, dai contadini ai piccoli
artigiani, dalle masse miserabili che vagano di città in città, ai professionisti, dai piccoli
impiegati agli uomini di cultura). Ogni ceto ha diritti, doveri e privilegi diversi: è giudicato in
base a leggi specifiche (che non si applicano agli altri ceti), è soggetto a uno specifico
trattamento fiscale, ha obblighi particolari in caso di guerra, è titolare di specifici diritti politici.
 La disuguaglianza eretta a sistema. La disuguaglianza è considerata come un fattore naturale
e necessario. Gli uomini non sono uguali, non hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, ed è
naturale e giusto che sia così: diritti, doveri e privilegi dipendono dal ceto di appartenenza.
 L’immobilismo sociale. La struttura sociale non è considerata come una realtà mutevole, ma
come «un sistema la cui perfezione risiedeva nella tendenziale immobilità. La società d’antico
regime non concepiva il cambiamento se non come un fatto negativo. Ognuno riceveva il suo
posto dalla nascita e trovava la sua collocazione in un sistema pensato come immobile»
(Adriano Prosperi).
 La prevalenza del ceto sull’individuo. La cellula essenziale del corpo sociale è il ceto, non
l’individuo, la cui identità è definita del ceto di appartenenza; al ceto è riservata la
partecipazione politica (tanto è vero che in quasi tutte le assemblea si votava ‘per ceto’ e non
‘per testa’: ogni ceto nel suo insieme aveva diritto ad esprimere un voto, i singoli individui non
votavano). Nulla di più lontano dall’individualismo moderno, dall’idea che l’individuo sia il
principio e il fine di tutte le cose.
Una società aristocratica
[La nobiltà più antica] L’ancien régime è una società aristocratica, dominata dalle famiglie nobili.
Parte della nobiltà faceva risalire le sue origini al lontano medioevo (a volte servendosi di fittizie e
complicate genealogie), all’epoca in cui i più valorosi cavalieri prestavano il loro aiuto al re di turno,
ricevendone in cambio terre, titoli e potere politico. La nobiltà era legata a un preciso codice di
comportamento, i cui capisaldi erano l’onore, la lealtà, il coraggio, la liberalità. Per i nobili qualsiasi
forma di attività lavorativa era disdicevole: essi vivevano di rendite, sfruttando passivamente le loro
proprietà. Per salvaguardare il più possibile il patrimonio familiare esistevano delle leggi molto rigide
in merito alla successione ereditaria: il primogenito maschio ereditava tutto il patrimonio, agli altri
figli andavano solo piccole rendite o proprietà onorifiche. Per questo i figli minori (o cadetti) e le figlie
si trovavano sempre a rischio di impoverimento; di frequente sceglievano per necessità la carriera
ecclesiastica o militare.
[… e la nobiltà di toga] Accanto alla nobiltà di origine più antica (definita «nobiltà di spada») c’era la
nobiltà più recente («di toga»), composta da coloro che avevano acquisito il titolo in epoca molto più
tarda, come ricompensa per i servigi prestati, o anche dietro pagamento (quando il re si trovava senza
soldi, ‘vendeva’ i titoli e i privilegi nobiliari). Per quanto mal visti dai nobili di antico rango (perché
compromessi con il ‘vile’ denaro, estranei all’etica più rigorosa degli altri, e dunque considerati come
degli usurpatori), questi nobili di toga erano più numerosi, più ricchi e più intraprendenti;
rappresentavano la parte più vivace di un ceto altrimenti chiuso su se stesso.
[Il Terzo Stato] Il resto della popolazione (di solito quasi il novanta per cento del totale) confluiva
indistintamente nel Terzo Stato, al cui interno esistevano dunque notevoli differenze: si andava dai
cittadini più poveri a ricchi e intraprendenti commercianti o imprenditori, che mal sopportavano la
supremazia della nobiltà. Ai loro occhi i privilegi aristocratici rappresentavano un ostacolo sulla via
dell’ammodernamento della società (e delle infinite possibilità di arricchirsi ad esso collegate): un
qualcosa che bisognava o espugnare (il sogno di molti ‘plebei’ era infatti quello di essere ammessi
nell’alta società aristocratica) o abbattere.
Il secolo delle rivolte
[La povertà come emergenza sociale] Il gradino più basso della scala sociale era rappresentato dai
poveri e dai mendicanti, il cui numero era aumentato a dismisura dopo la guerra dei trent’anni: una
enorme massa di individui privi di tutto che si spostava tra villaggi e città, chiedendo l’elemosina e
vivendo di piccoli espedienti. Di pari passo con l’ampliarsi del fenomeno, cambia la considerazione
sociale e culturale della povertà: se nella tradizione cristiana la povertà era considerata un valore (i
poveri sono più vicini al Signore, e a loro appartiene il regno dei cieli) e la carità rientrava nei doveri
essenziali del buon cristiano, la crescita esponenziale del numero dei poveri e i problemi connessi
(dall’assistenza al mantenimento dell’ordine pubblico) provocano un cambiamento di prospettiva, e la
povertà comincia a essere considerata un reato, una violazione peccaminosa dell’etica del lavoro. I
poveri vengono marginalizzati, espulsi dalle città, costretti al lavoro coatto. In molte città sorgono
strutture finalizzate a ricevere – e controllare – i mendicanti. Si diffonde così in tutta Europa il
principio dell’internamento e ha inizio quella che un grande studioso del fenomeno, Michel Foucault,
chiama «la grande reclusione».
[Le rivolte] L’inasprirsi dei meccanismi di controllo e di esclusione è tra le cause delle improvvise e
feroci rivolte popolari che costellano il secolo: un raccolto andato a male, un sequenza di carestie,
l’imposizione di nuovi tributi (la pressione fiscale cresceva in continuazione, perché erano necessari
sempre più soldi per mantenere l’apparato statale in espansione) o di nuovi regolamenti bastavano a
scatenare ribellioni tanto più cruente e selvagge, quanto più disperate e votate alle sconfitta. Tra le più
celebri, la rivolta capeggiata da un giovane pescatore napoletano, detto Masaniello, contro il
governo spagnolo (1647): all’imposizione dell’ennesima gabella (tassa) il popolo napoletano insorge e
sembra prendere possesso della città; ma dopo pochi giorni la rivolta viene sedata nel sangue, e
Masaniello, accecato dal successo imprevisto, tradito dai suoi stessi sostenitori, viene catturato e
giustiziato.
La monarchia assoluta
[L’assolutismo] La forma politica per eccellenza dell’ancien régime è la monarchia assoluta. Il re
esercita il proprio potere libero da legami o controlli di qualsiasi genere («assoluto» viene infatti dal
latino ‘absolvere’ e significa «sciolto, libero»), senza cioè dover rendere conto a nessuno del suo
operato, accentrando nella sua persona tutte le funzioni tipiche di uno stato moderno (definire le
leggi, amministrare la giustizia, gestire il bilancio statale, curare i rapporti con gli altri stati). Il potere
del re è di origine divina e dunque è indiscutibile: ribellarsi o non riconoscere l’autorità del sovrano è
un sacrilegio. Secondo alcune credenze molto diffuse il re è dotato persino di poteri magici e
taumaturgici e può guarire i malati con la semplice imposizione delle mani.
[Il re e le assemblee] Il re governa il paese servendosi di consiglieri da lui stesso nominati, e che quindi
sono alle sue dirette dipendenze (con un risicato margine di autonomia). Esistono in teoria delle
assemblee (che assumono nomi diversi: in Francia sono gli «Stati Generali», in Spagna le «Corti», in
Italia i «Parlamenti», nei territori tedeschi le «Diete»), ma vengono convocate solo in via eccezionale,
quando diventa necessario intaccare privilegi o benefici dei ceti superiori. Lo stato moderno ha infatti
bisogno di entrate crescenti – per mantenere l’esercito, l’apparato amministrativo e fiscale, le corti di
giustizia, l’ordine pubblico – ma, piuttosto che sfidare l’ostilità dei nobili, quasi sempre i sovrani
preferiscono inasprire la pressione sui ceti inferiori.
[La corte] La corte è il centro del potere del monarca assoluto. A corte vivono i consiglieri e i più
alti funzionari, i nobili più in vista del regno. Vivere a corte è uno dei privilegi supremi, la massima
aspirazione possibile, ma richiede un’arte e un’abilità particolari: bisogna sapersi districare tra
maldicenze di ogni tipo, destreggiarsi tra opposte fazioni, praticare l’adulazione e la calunnia. La corte
più celebre, simbolo di un’epoca, è quella di Versailles, ideata e voluta da Luigi XIV, il re Sole, che
fa costruire nei pressi di Parigi un palazzo meraviglioso, al centro di un parco altrettanto straordinario,
dove si vive all’insegna di raffinate e molteplici possibilità di divertimento – dal teatro alla musica,
dagli spettacoli comici ai fuochi d’artificio. I nobili, attratti dal miraggio di una vita così piacevole,
lasciano le loro terre per rinchiudersi volontariamente in una specie di «prigione dorata» (così è stata
definita), rinunciando all’esercizio di qualsiasi forma di potere.
Oltre l’assolutismo
[La ‘gloriosa rivoluzione’ inglese] Tuttavia, nello stesso lasso di anni vengono sperimentati in Europa
anche altri modelli politici, diversi dall’assolutismo. Il caso più significativo è quello dell’Inghilterra:
esasperati da una gravissima crisi economica, dai dissidi religiosi, dalla continua violazione dei diritti
individuali, i cittadini inglesi si ribellano all’autorità del sovrano, che viene giudicato, condannato a
morte dal Parlamento stesso e ghigliottinato il 30 gennaio 1649. Non è la prima volta che un re muore
di morte violenta (episodi di congiure e omicidi variamente efferati ai danni di personaggi regali si
erano già ripetuti nel corso della storia, e non solo inglese), ma è la prima volta che un Parlamento si
arroga il diritto di farlo in maniera legittima, non contro la legge, ma per restaurare la legge violata.
[Un nuovo modello politico] Anche se a prezzo di una sanguinosa guerra civile (che si protrae per quasi
quarant’anni), l’Inghilterra è così il primo paese in cui viene realizzato un nuovo modello politico, i
cui presupposti ideali sono essenzialmente due: esistono dei diritti individuali che lo stato è tenuto a
rispettare e a proteggere (incolumità personale, tutela della proprietà, libertà di pensiero e di parola);
il potere del sovrano è vincolato a quello del Parlamento e deriva da un ‘contratto’ sociale che non
può essere violato – pena lo scioglimento dello stesso: i cittadini possono legittimamente destituire il
proprio re e cercarsene un altro, nel caso che il patto non venga rispettato.
[Olanda, esperimento di libertà] Un altro caso particolare è quello dell’Olanda, il cui governo è
affidato agli Stati Generali, un’assemblea a cui partecipano i rappresentanti di sette diverse province,
senza la presenza di un monarca. In questa forma agile e democratica, lo stato olandese riesce a
raggiungere nel corso del Seicento una prosperità eccezionale: grazie a una flotta potentissima arriva
a costruire un vero e proprio impero commerciale, che va dal Mediterraneo all’Oceano Indiano,
dall’Estremo Oriente all’America; parallelamente, cresce la potenza finanziaria: forti delle ricchezze
accumulate, i banchieri olandesi divengono tra i più ricchi e potenti del mondo. La fortuna materiale si
accompagna a uno straordinario esperimento di tolleranza e di apertura: nel secolo
dell’intolleranza e dei conflitti religiosi l’Olanda diventa la patria del rispetto, della libertà di fede e di
pensiero. Protestanti, ebrei, musulmani, persino gli atei (coloro che rifiutano qualsiasi fede: una
possibilità quasi inconcepibile per la mentalità dell’epoca) cacciati da ogni parte di Europa, trovano in
Olanda accoglienza e rispetto, offrendo così il loro apporto (di competenze, abilità, a volte persino di
ricchezze) alla terra che li ospita.
Mondializzazione della storia
[L’Europa nel mondo] Ma la vera novità destinata a rivoluzionare gli equilibri esistenti è l’espansione
europea negli altri continenti. All’inizio del Seicento la presenza degli Europei nel resto mondo è
ancora poco consistente e alcune delle più grandi civiltà (quella cinese e quella indiana, per esempio)
non sono minimamente interessate ai primi contatti, né se ne preoccupano più di tanto. Nel corso del
secolo la penetrazione europea aumenta a ritmo quasi frenetico; alla Spagna e al Portogallo,
inizialmente dominatrici incontrastate delle nuove rotte e dei nuovi territori, si affiancano Francia,
Inghilterra e Olanda. La presenza dell’Europa si gioca innanzitutto sul piano economico: «tutto tende
a diventare merce e di conseguenza tutto si valuta sempre più in base alla misura unica e astratta di
un’economia monetaria: la vita dello schiavo negro, l’argento scavato nelle miniere del Potosì, i
tessuti di cotone indiano o di seta cinese. La capitale del mondo è là dove si determinano i flussi
monetari, dove si stabilisce l’equivalenza in denaro di qualsiasi cosa» (Adriano Prosperi). Così, poco
per volta, lentamente ma inesorabilmente, l’Europa diventa il centro nevralgico di un sistema
commerciale su scala mondiale, mentre le altre società rimangono periferiche, subordinate al dominio
europeo.
[Nasce il mito della superiorità europea] Le relazioni tra l’Europa e il resto del mondo dipendono da
questi rapporti di forza. Nasce così il concetto di razza, e l’idea che alcune razze siano superiori, altre
inferiori. Per tutto il Medioevo gli Europei si erano sentiti diversi, non superiori, e solo nel corso
dell’espansione secentesca parte del genere umano viene ‘declassata’. La tratta degli schiavi
(alimentata dalla richiesta di mano d’opera a costo minimo per miniere e piantagioni) assume
proporzioni eccezionali, e viene giustificata proprio in virtù di questa presunta superiorità: i neri sono
dei bruti simili alle bestie, fatti apposta per essere ridotti in schiavitù.
[Le missioni] Certo, non tutti la pensavano così. Filosofi, poeti e religiosi avevano in vario modo
sostenuto l’eguaglianza naturale degli uomini, opponendosi alla discriminazione e allo sfruttamento
delle popolazioni indigene. Un esperimento significativo fu quello condotto nell’America spagnola e
portoghese dai gesuiti, i quali crearono delle missioni (o ‘riduzioni’) per difendere gli indigeni dalle
razzie dei cacciatori di schiavi. Queste missioni a molti pensatori dell’epoca sembrarono la
realizzazione concreta di un’utopia: una società ideale, basata sulla comunione dei beni e senza
proprietà privata, vicina allo spirito più genuino ed originario del cristianesimo. Ma furono un
esperimento di breve durata: malviste dal governo e disconosciute per opportunismo politico dalla
Chiesa (il pontefice non voleva rischiare di perdere l’appoggio dei sovrani cattolici), vennero
smantellate con la forza, a volte dopo una tenace e sanguinosa resistenza.
[Le conseguenze del nuovo equilibrio mondiale] Lo sfruttamento indiscriminato dei paesi extraeuropei
convoglia verso l’Europa un flusso straordinario di ricchezze. Una considerevole quantità di esse è
sperperato dai sovrani assoluti in spese di lusso (per mantenere la corte e i nobili a essa legati), o
impiegato per coprire i costi dei ricorrenti conflitti. Ma in misura altrettanto considerevole queste
ricchezze rimangono in circolazione e contribuiscono a creare le condizioni per il successivo sviluppo
economico: sono capitali pronti a essere impegnati laddove risulti più proficuo. Nello stesso tempo, i
prodotti provenienti dal Nuovo Mondo modificano le abitudini alimentari e offrono nuove possibilità di
sussistenza, soprattutto ai poveri (si pensi alla diffusione del mais e della patata, per esempio),
permettendo l’aumento della popolazione.
Verso un nuovo modello economico: la rivoluzione agricola
[Il passaggio alla rotazione pluriennale] Parallelamente, si diffondono nel corso del Seicento una serie
di migliorie che contribuiscono ad aumentare notevolmente la produttività agricola, tra cui una
delle più importanti è l’introduzione di un sistema di rotazione pluriennale. Per secoli infatti la
coltivazione dei terreni si era basata sul metodo della rotazione biennale (una parte dei campi coltivata,
l’altra a maggese, cioè a riposo). A partire da una serie di esperienze pratiche si scoprì invece che per
far riposare il terreno tra un ciclo di raccolto e un altro non era necessario lasciarlo incolto, ma era
sufficiente alternare i cereali con l’erba da pascolo. Su questa base si diffonde la rotazione pluriennale:
il maggese viene sostituito con pascoli per il bestiame, e in questo modo si incrementa sia
l’allevamento, sia la produzione di concime naturale.
[La privatizzazione delle terre] Ma il cambiamento non riguarda solo le tecniche, bensì anche le forme
di proprietà. Le vaste distese che per secoli erano rimaste ‘comuni’, aperte cioè all’uso collettivo,
sfruttate da tutta la comunità anche quando formalmente appartenenti al signore, vengono recintate e
divengono proprietà privata a tutti gli effetti. Fin quando le terre erano state considerate appannaggio
della collettività, nessuno aveva pensato a sfruttarle e a farle rendere il più possibile; nel momento in
cui divengono proprietà privata, cominciano a essere coltivate ‘intensivamente’, sono oggetto di
migliorie e sperimentazioni.
[Rivoluzione agraria e rivoluzione industriale] L’insieme di queste trasformazione viene definito
‘rivoluzione agraria’ e rappresenta una premessa indispensabile della futura rivoluzione industriale:
non solo per le sue conseguenze materiali (miglioramento della produttività, maggiore disponibilità di
risorse alimentari, aumento della popolazione, accumulazione di ricchezze), ma anche per quelle
ideali (in primo luogo, l’affermarsi di una mentalità imprenditoriale, l’accrescersi dello spirito
d’iniziativa). Non a caso l’Inghilterra, il paese europeo più moderno e avanzato sul piano delle
istituzioni politiche, è anche la patria della rivoluzione agraria, così come lo sarà, pochi decenni più
avanti, della rivoluzione industriale.
LE IDEE
Il secolo dell’intolleranza
[L’Europa unita del Medioevo] Per tutto il Medioevo l’Europa aveva costituito un insieme
sostanzialmente unitario: anche se la maggior parte della popolazione passava tutta la vita nello stesso
villaggio e conosceva solo il suo ristretto microcosmo, la religione cristiana garantiva compattezza e
coesione, e i dotti del tempo comunicavano senza problemi tra di loro usando il latino come lingua
comune; sul piano politico le alleanze dinastiche e i rapporti di parentela tra i singoli sovrani
contavano molto di più che l’identificazione nazionale (e ciascun re, piccolo o grande che fosse, si
sentiva più legato alla sua famiglia che non a una anonima ‘nazione’); inoltre era sempre ben vivo il
sogno di una monarchia universale (cioè europea) capace di trasformare l’unità religiosa e culturale in
concreta unità politica.
[La frammentazione politica] Nel corso del Seicento, dopo più di mille anni di storia comune, questa
coesione viene drammaticamente infranta, sia sul piano religioso sia su quello politico. L’affermarsi
degli stati nazionali pone fine al sogno medievale di un impero europeo unitario e va di pari passo
all’emergere della coscienza nazionale. Per la prima volta i francesi, gli olandesi, gli spagnoli, gli
inglesi si percepiscono come tali; si afferma l’idea di nazione: comunità che si riconosce e identifica
sulla base di alcuni ben precisi elementi: una terra, un sovrano, una lingua, e una religione.
[La rottura dell’unità religiosa] Nello stesso tempo la riforma luterana e la controriforma cattolica
mettono fine all’unità religiosa, provocando una sanguinosa scia di conflitti e di persecuzioni. In
molti dei principati tedeschi i cattolici vengono perseguitati dai protestanti; in Francia i protestanti
francesi (chiamati ugonotti) sono ripetutamente massacrati e alla fine costretti all’esilio; i puritani,
cioè i seguaci del protestantesimo in Inghilterra, perseguitati dalla chiesa anglicana, abbandonano la
patria e fuggono verso il Nuovo Mondo. Il Tribunale della Santa Inquisizione (che giudicava coloro
che erano sospettati di mettere in discussione la fede e i dogmi della chiesa cattolica) e l’Indice dei
Libri Proibiti (l’efficientissima censura che stabiliva quali opere scritte potevano circolare e quali no)
diventano i simboli tristemente celebri di questo scontro senza quartiere tra la Chiesa Cattolica e i
Riformisti.
[La caccia alle streghe] Il clima generalizzato di sospetto e di intolleranza conduce all’inasprirsi della
cosiddetta «caccia alle streghe». Fin dal medioevo infatti era diffusa la credenza che alcune donne del
popolo avessero dei poteri magici e fossero in combutta con il diavolo (con il quale – secondo i più – si
incontravano in misteriosi riti notturni, i sabba); si trattava in genere di persone che vivevano ai
margini della società e per questo venivano guardate con sospetto, e che magari assumevano
volontariamente un atteggiamento provocatorio e ribelle. Lo scontro religioso esaspera la persecuzione
della presunta stregoneria: migliaia di sospetti (nella stragrande maggioranza donne) vengono
giustiziati sul rogo in nome della difesa dell’unica vera religione.
[Il diverso dentro e fuori le mura] Alla paura del diverso che si nasconde all’interno del proprio mondo
(i traditori della vera fede, o anche gli emarginati e i reietti, che violano esplicitamente o
implicitamente le norme della comunità; poi i traditori della nazione) si aggiunge il sospetto nei
confronti dell’altro: coloro che professano un’altra fede (gli ebrei, i ‘mori’), o anche coloro che
sembrano non avere alcuna fede (gli indios, i neri africani). La scoperta dell’altro, avviata dalle grandi
scoperte geografiche del secolo precedente, si svolge così in questo clima di sospetto e di intolleranza,
dominato dal principio di classificazione (superiori e inferiori, buoni e cattivi, umani e non umani) e
dal rifiuto della diversità.
Protestantesimo e spirito del capitalismo
[La ‘rivoluzione’ protestante] D’altra parte, nonostante gli scontri e il clima diffuso di intolleranza, la
vittoria del protestantesimo in molti paesi dell’Europa centrosettentrionale rappresenta, secondo le tesi
celebri del filosofo tedesco Max Weber, una premessa indispensabile per la futura rivoluzione
industriale. Questo non vuol dire che la rivoluzione industriale parta dalla religione, ma, più
semplicemente, che la religione crea il terreno adatto alla trasformazione economica (tanto è vero
che i paesi protestanti sono arrivati alla rivoluzione industriale prima di quelli cattolici).
[Lo spirito capitalista…] Il punto di partenza è la definizione dello «spirito capitalistico», che consiste
nella tendenza a organizzare la propria vita e il proprio tempo in funzione del lavoro e del guadagno.
Nell’ottica capitalista il fine dell’agire umano e del lavoro non è la ricchezza (e il lusso e i piaceri
materiali che questa può assicurare), come sempre è avvenuto nelle epoche precedenti, bensì la
progressiva accumulazione della ricchezza stessa, che viene reinvestita per produrre a sua volta altra
ricchezza.
[… e la concezione protestante della predestinazione] Questo spirito trova un terreno eccezionalmente
propizio nella concezione protestante della predestinazione: secondo Lutero e i suoi seguaci il destino
dell’uomo (e in particolare la sua salvezza ultraterrena) non dipende dalle azioni, ma dalla volontà
imperscrutabile di Dio, che sceglie a chi concedere la grazia. Di conseguenza il credente non può mai
essere sicuro di essere nella grazia di Dio, può solo sperarci, e cercare di individuarne le tracce nella
propria stessa condotta: comportarsi onestamente, fare del bene, vivere degnamente non serve a
conquistare la grazia, ma è di per sé la manifestazione della grazia ricevuta
[Una nuova considerazione della ricchezza] In questa prospettiva il successo, il benessere e la
ricchezza generati dal lavoro diventano di per sé i segni tangibili della elezione divina, assicurano il
fedele di essere il prescelto. Mentre per secoli la Chiesa aveva insegnato a disprezzare o a guardare con
sospetto la ricchezza, nei paesi protestanti è considerata la prova della predestinata salvezza; al
contrario, la povertà non rappresenta maggiore vicinanza a Dio, ma è la manifestazione di una colpa,
di una peccaminosa esclusione. D’altra parte, sempre la fede impedisce al credente di sperperare la
ricchezza in spese di lusso, o nei piaceri materiali: i guadagni possono essere solo reinvestiti, per
produrre a loro volta altri guadagni.
La crisi del sapere tradizionale e la «nuova scienza»
[La crisi del sapere tradizionale] La rottura dell’unità religiosa e l’apertura di nuovi e impensati
orizzonti grazie alle scoperte geografiche mettono in crisi la tradizionale visione del mondo e
spingono a una generale riorganizzazione dei saperi. Dopo secoli in cui umili e sapienti avevano
condiviso le medesime certezze (la centralità dell’uomo all’interno dell’universo, la subordinazione
della vita terrena a quella ultraterrena, la fede nell’esistenza di un ordine divino, voluto da Dio stesso),
si fanno strada ipotesi del tutto nuove, e potenzialmente dirompenti.
[Verso una nuova concezione della scienza] La manifestazione più evidente di questa crisi è
l’affermarsi di una nuova concezione della scienza – così diversa dalla precedente da far parlare di
rivoluzione scientifica. Per secoli la conoscenza scientifica era stata subordinata ai principi religiosi:
non interessavano tanto i fenomeni in sé, ma le cause ultime degli stessi, che inevitabilmente veniva
ricondotta alla volontà divina, o a un ordine soprannaturale. Tra Cinque e Seicento si afferma invece un
atteggiamento di segno diverso: la scienza non deve indagare la ragione dei fenomeni naturali
(pertinente alla conoscenza religiosa, cioè alla verità di fede), ma limitarsi a osservarne e spiegarne il
funzionamento, rimanendo nell’ambito di ciò che è concreto, misurabile, sperimentabile.
[Il metodo di Bacone] Il primo a illustrare e definire in maniera dettagliata questo nuovo metodo è il
filosofo inglese Francis Bacon, italianizzato in Bacone: la scienza ha in primo luogo una finalità
pratica (migliorare le condizioni di vita dell’umanità) e il suo oggetto principale deve essere la
natura; lo studio della natura deve basarsi sull’osservazione diretta, e non sui pregiudizi o sulle
opinioni preesistenti; all’osservazione empirica bisogna abbinare poi la capacità deduttiva, cioè la
capacità di interpretare i dati raccolti e ricavare da essi delle regole più generali. Secondo Bacone, chi
si basa solo sull’osservazione, è come una formica, che accumula e consuma; chi procede solo per
astrazione è come un ragno, che «ricava da sé medesimo la sua tela»; bisogna invece fare come le api
«che ricavano la materia prima dai fiori dei giardini e dei campi, e la trasformano e la digeriscono»,
uniscono cioè la facoltà sperimentale e quella razionale.
[Un nuovo procedimento per la scienza] Nella concezione di Bacone la scienza deve basarsi da una
parte sulla tecnica (che fornisce gli strumenti adeguati per studiare i fenomeni), dall’altra sulla
matematica (che offre gli schemi astratti e permette di dedurre dall’osservazione i principi generali). In
sintesi, i passaggi essenziali del nuovo metodo sono i seguenti:
 osservazione sistematica della natura
 formulazione delle prime ipotesi
 verifica sperimentale delle ipotesi iniziali
 enunciazione dei principi generali
 applicazione delle conoscenze ricavate per modificare la natura
[L’autonomia della scienza] Il «nuovo metodo» non consiste solo in un diverso modo di procedere, ma
in una concezione completamente diversa della scienza naturale, in cui è centrale la consapevolezza
della sua autonomia. Dopo secoli in cui si era confusa con la filosofia, con le pratiche magiche, con la
religione, la scienza acquista una sua fisionomia indipendente, divenendo empirica e sperimentale:
rinuncia a interrogarsi sulla causa ultima dei fenomeni e si concentra su tutto ciò che è concretamente
esperibile. Non pretende più di fornire una spiegazione onnicomprensiva della vita universale, ma solo
di indagarne le manifestazioni concrete: è questa la grandezza, ed anche il limite, della moderna
concezione scientifica. Nasce da qui il contrasto tra scienza e fede: che succede quando la scienza
mette in discussione quelle che per secoli erano state considerate inoppugnabili verità di fede? Qual è il
confine tra scienza e fede? Quali campi sono di stretta pertinenza dell’una e dell’altra?
La rivoluzione astronomica
[La teoria eliocentrica] Il primo campo in cui questa ‘rivoluzione’ prende corpo è quello astronomico.
Grazie alle osservazioni e agli esperimenti di alcuni geniali scienziati viene infatti messa in discussione
la rappresentazione tradizionale dell’universo, che si basava sull’idea che la terra fosse immobile, al
centro dell’universo stesso. Il primo a proporre la teoria eliocentrica (al centro è il sole – in greco
elios – e non la terra), basandosi principalmente sull’analisi dei moti dei corpi celesti, è l’astronomo
polacco Nicolò Copernico, a metà Cinquecento; ma sarà Galileo Galilei a esporre per la prima volta in
maniera sistematica la nuova concezione.
[Galileo e la Chiesa] Applicando con grande acume il ‘nuovo metodo’ teorizzato da Bacone, Galileo
unisce all’osservazione degli astri e dei moti celesti (condotta grazie all’ausilio di nuovi strumenti quali
il cannocchiale) le ipotesi matematiche e geometriche; arriva così a dimostrare la veridicità del
sistema copernicano, da lui illustrato nel Dialogo sopra i massimi sistemi. Si apre allora un duro
scontro tra Galileo e l’autorità ecclesiastica, che sfocia in un vero e proprio processo ai danni dello
scienziato. Galileo cerca di difendersi sostenendo la differenza tra verità di fede e verità scientifica, e
dunque l’autonomia della scienza rispetto alla religione: le Sacre Scritture non vanno interpretate
alla lettera, ci insegnano come «si va al cielo», non «come funziona il cielo». Ma la difesa non ha
successo e Galileo viene condannato alla pubblica abiura, costretto a disconoscere il suo pensiero e
la sua opera.
Il barocco come dominante culturale
[Manierismo, barocco e rococò] Il barocco è la dominante culturale del Seicento: non ne esaurisce
tutte le potenzialità, perché esistono molteplici tendenze di segno diverso (c’è un classicismo
seicentesco diffuso e ben caratterizzato, ad esempio), ma ne rappresenta la voce più significativa e
totalizzante. Da questo punto di vista il termine «barocco» ha un significato molto più ampio rispetto
ad altri termini utilizzati spesso in maniera concomitante, come «manierismo» e «rococò», che in un
certo senso ne definiscono i confini. Più precisamente:
‘manierismo’ indica la fase finale del rinascimento, il momento in cui la ripresa dei modelli si
fa ‘maniera’, diventa cioè imitazione arguta ed esibita: l'artista non cerca di imitare
perfettamente i modelli classici, ma si esprime 'alla maniera di', mettendo in evidenza l’atto
dell'imitazione, la sua soggettività. [SUGGERIMENTO ICONOGRAFICO: cfr autoritratto del
Parmigianino, dipinto alla maniera di Raffaello, ma attraverso uno specchio parabolico].
- ‘Rococò’ (termine derivante da un particolare stile decorativo, caratterizzato dall’uso
ornamentale di conchiglie, in francese «rocaille») si riferisce invece alla produzione artistica del
primo Settecento (soprattutto arredamento d’interni e oggettistica), caratterizzata dalla ripresa
esasperata di alcuni tratti tipici del barocco, privati però di pathos e intensità.
[La cultura di un’epoca di crisi] Il barocco riguarda invece la totalità dell’espressione artistica e
letteraria del periodo che va dalla fine del Cinquecento alla fine del Seicento. È la cultura di
un’epoca di crisi: crisi di valori e di modelli di comportamento; crisi della scienza e della
rappresentazione tradizionale dell’universo; crisi del pensiero religioso; crisi dei modelli politici e
sociali. Per questo oscilla in maniera quasi schizofrenica tra il tentativo di proteggere il vecchio ordine
del mondo (svolgendo una funzione ‘conservatrice’) e la consapevolezza che quell’ordine è ormai
improponibile (presentandosi dunque ossessivamente in cerca della ‘novità’).
[L’espressione di una profonda inquietudine] La cultura barocca esprime l’inquietudine che domina
il secolo: il sentimento di smarrimento provocato dalla nuova visione dell’universo e dalla crisi dei
modelli tradizionali; il relativismo, e l’assenza di punti certi di riferimento; la coscienza che la vita
umana è dominata dal male e dal dolore; l’insoddisfazione per la religiosità ufficiale ed esteriore e il
bisogno di forme più genuine ed autentiche di fede.
[L’arte e la letteratura come strumento di potere] D’altra parte, non bisogna sottovalutare il fatto che
sempre nel Seicento la cultura nel suo complesso è utilizzata come strumento di potere, per la prima
volta in maniera consapevole e sistematica. È commissionata in maniera esplicita dai principi o dagli
ecclesiastici, ed è sottoposta al duplice controllo dell'autorità civile e religiosa: per attutire o tenere
sotto controllo le tensioni sociali, o per proporre precise regole di comportamento (si spiega così il
fiorire di trattati, la precettistica esasperata fino all'estremo). Contemporaneamente, è utilizzata per
affascinare, conquistare, produrre consenso. La capacità di risvegliare e muovere gli affetti è il grande
motivo del barocco: il fine non è conquistare l'intelligenza (cioè convincere razionalmente) ma vincere
la volontà attraverso la meraviglia.
[Meraviglia, ingegno e acutezza] Il fine dell’opera d’arte è dunque in primo luogo quello di suscitare
la meraviglia, attraverso la novità dei soggetti, ma anche attraverso gli accostamenti inediti e
imprevedibili. Al principio rinascimentale della mimesi e del verosimile si sostituisce il gusto per
l’eccentricità, la stravaganza, la predilezione per ciò che esula dal prevedibile e dal consueto. La
meraviglia che prova il lettore/spettatore è il corrispettivo dell'ingegno messo in atto dall'autore nella
costruzione dell'opera, dote che consiste nell'avvicinare cose tra loro distanti, provocando una specie di
corto circuito logico. All'ingegno è connaturata l'acutezza: abilità combinatoria, capacità di effettuare
accostamenti inediti, sottigliezza, elusione dei collegamenti. «Manifestazione di un'intelligenza
singolare e rara, l’acutezza è un segno di distinzione, l'etichetta di casta, lo status symbol di una società
aristocratica che in questo modo si separa dal volgo e ne vale quasi come linguaggio cifrato, da
riservarsi ai pochi eletti che vivono nei recinti privilegiati della corte» (Maravall).
-
LO SPAZIO LETTERARIO E ARTISTICO
Il sistema dei generi e il connubio tra le arti
[Un sistema in movimento] Come abbiamo visto, il Cinquecento è dominato da un’esigenza
normativa e classificatoria: definire con precisione ogni genere letterario, individuare per ciascun
genere i modelli di riferimento, indicare sulla base dei modelli le regole da seguire nella composizione
dell’opera. Il sistema letterario aspira, tendenzialmente, all’immobilità: quanto più le forme sono
stabili, tanto più rivelano la loro perfezione. Al contrario, il sistema letterario del Seicento è instabile,
in continuo mutamento: i modelli del passato vengono rifiutati, le forme sono in perenne evoluzione, si
mescolano l’una con l’altra, si trasfondono l’una nell’altra.
[Arti ibride] Questa instabilità non riguarda solo i singoli generi, ma anche il rapporto tra le diverse
forme di espressione artistica: teatro e pittura, musica e poesia, pittura e scultura, architettura e teatro.
Molti generi tipicamente seicenteschi sono ‘ibridi’, nascono dalla mescolanza di forme artistiche
diverse: il melodramma nasce dalla commistione tra poesia, recitazione e musica; gli emblemi e le
imprese uniscono immagine e parola. Per questo le opere più interessanti del Seicento sono quasi tutte
‘sperimentali’: sono opere ibride, o mastodontiche, o frammentarie, violano consapevolmente i canoni
dei modelli di riferimento e sono dunque difficilmente classificabili.
[La fine del primato italiano] Bisogna però anche segnalare che le opere più interessanti di questo
periodo non sono italiane. Se per tutto il Cinquecento l’Italia continua a esercitare un primato
incontrastato sulla cultura europea (cosicché i suoi autori e le sue opere si impongono ancora come
modelli imprescindibili cui fare riferimento, dalla Francia all’Inghilterra, dalla Germania al Portogallo),
nel corso del Seicento i rapporti si ribaltano e la cultura italiana viene relegata in una posizione di
secondo piano, sia per la debolezza politica (a causa del mancato avvio del processo di unificazione
nazionale), sia per la pesante ingerenza della Chiesa Cattolica e del suo apparato repressivo.
Il barocco artistico
[Un’arte dinamica] In campo artistico, lo stile barocco è caratterizzato dalla predilezione per le forme
dinamiche, aperte: l’ellissi invece del cerchio, la linea curva piuttosto che quella retta. Lo spazio
dell’arte barocca è senza centro, sfuggente, instabile: sia nelle opere scultoree (le figure sono in
perenne movimento, fissate nel movimento stesso), sia nelle opere pittoriche (dove sono frequentissime
le false prospettive e i trompe l’oeil). Nasce da qui anche la passione barocca per le fontane, in cui il
gioco sempre variabile dell’acqua sembra rinviare alla mutevolezza e al carattere effimero
dell’esistenza stessa.
[Le facciate barocche] Negli edifici barocchi la facciata è fondamentale: non si adatta all’insieme, ma
tende a essere autosufficiente, come se l’intero edificio esistesse in funzione di essa. Secondo Jean
Rousset, è come una facciata rinascimentale immersa nell'acqua, o più esattamente è il suo riflesso in
un'acqua agitata: le superfici si gonfiano e si scavano, i frontoni si spezzano o si avvolgono, le colonne
diritte diventano tortili, le immagini sembrano danzare.
[Roma, capitale del barocco] Non bisogna comunque dimenticare che nella produzione artistica è
maggiormente evidente il controllo e l’influenza da parte delle autorità, con esplicito intento
strumentale: i sovrani e la Chiesa cattolica commissionano e finanziano opere monumentali (cosa che
nessun privato avrebbe potuto fare), che dovevano ammaliare e stupire sudditi e fedeli, incitandoli
all’obbedienza e alla devozione. Si spiega così lo straordinario rinnovamento artistico che modifica
profondamente il volto di Roma, facendone la città barocca per eccellenza, che avrebbe dovuto
dichiarare al mondo intero la potenza del pontefice e della religione cattolica.
[Suggerimento iconografico, con didascalia: Baldacchino tortile progettato da Bernini per la tomba di
S. Pietro. Il baldacchino, sorretto da quattro enormi colonne, è uno dei simboli dell’architettura
barocca. Negli spazi immensi lasciati da Michelangelo all’interno della chiesa, viene immesso un
elemento destinato a suscitare la meraviglia del visitatore: un oggetto nato apposta per essere portato a
braccia, e quindi della massima leggerezza, reso massiccio e imponente, pur mantenendo l’illusione
della mobilità, grazie alle colonne che sembrano tendere al cielo avvitandosii su se stesse].
[Suggerimento iconografico, con didascalia. Il colonnato di piazza San Pietro. I due raggi del colonnato
che si dilata in forma di ellissi, rappresentano due ali spiegate, simbolo teatrale del trionfo della
Controriforma: «essendo San Pietro quasi matrice di tutte le chiese, doveva haver un portico che
dimostrasse di ricevere a braccia aperte maternamente i cattolici per confermarli nella credenza, gli
heretici per riunirli alla Chiesa, e gli Infedeli per illuminarli della vera fede».]
Il secolo del teatro
[Il teatro come specchio e ‘rivelazione’ della vita] Il seicento è in primo luogo il secolo del teatro, il
secolo in cui vedono la luce i capolavori dei più grandi autori di tutti i tempi, da Shakespeare a Molière,
da Calderon de La Barca a Racine. Un simile primato si fonda innanzitutto sulla dimensione
naturalmente teatrale della cultura barocca e delle sue ossessioni dominanti: l’assimilazione della
vita a un grandioso spettacolo, in cui ciascuno è chiamato a recitare la sua parte; il ricorso sistematico
alla ‘dissimulazione’, come dote indispensabile alla convivenza civile; l’impossibilità di distinguere
realtà e finzione, veglia e sogno; la tendenza a ‘spettacolarizzare’ tutte le occasioni pubbliche e private.
[Una nuova coscienza teatrale] Questo comporta una maggiore attenzione e valorizzazione di tutto ciò
che riguarda il mondo teatrale. Fare l’attore diventa una professione in piena regola, e l’allestimento
dello spettacolo si fa sempre più complesso (aumenta l’attenzione per i costumi, per la scenografia,
per le luci); le compagnie sono quasi sempre itineranti, ma nascono i primi teatri stabili, ai quali il
pubblico accede pagando il prezzo del biglietto. Anche se in molti casi gli spettacoli sono riservati ai
nobili e ai potenti, altrettanto diffusa è la partecipazione popolare: andare a teatro – soprattutto in alcuni
paesi – diventa un rito che accomuna poveri e ricchi, e contribuisce a fondare l’identità nazionale,
utilizzando la lingua comune e riferendosi a una storia e a un patrimonio di valori condiviso da tutta la
comunità, a prescindere dalle differenze di ceto e di ricchezza.
[Testo scritto e testo recitato] Tutto questo porta a una maggiore consapevolezza della specificità del
testo teatrale: a differenza di altri generi, che sono fatti esclusivamente per essere letti, il testo teatrale
è fatto per essere messo in scena, implica non solo il codice verbale, ma anche quello gestuale e visivo.
Il Seicento scopre così il valore della performance, e arriva a identificare come caratteristica essenziale
del genere teatrale il suo ‘essere performativo’ (che significa ‘tendere alla performance’). Su questa
strada si aprono ben presto domande di difficile soluzione sul rapporto tra testo scritto e messa in scena.
La nascita del teatro moderno
[La commedia dell’arte] In effetti proprio in Italia nasce il genere teatrale in cui la performance
prevale in maniera esplicita sul testo scritto, fino a cancellarlo del tutto: la commedia dell’arte
(definizione che allude sia al valore ‘artistico’ delle opere in questione, con riferimento al talento dei
singoli attori, sia al carattere ‘artigianale’ dell’attività teatrale stessa – le ‘arti’ nel medioevo erano le
corporazioni che riunivano gli artigiani a seconda del mestiere). La commedia dell’arte nasce dalla
«commedia degli Zanni» («Zanni», Giovanni in dialetto veneto, è il servo per antonomasia), veloce
scena comica costruita sulla contrapposizione tra due personaggi principali, il servo e il padrone. Gli
attori non seguono un testo scritto, ma improvvisano sulla base di un semplice canovaccio (una
falsariga dell’azione), costruito su poche situazioni ricorrenti – vere e proprie gag comiche: scambi di
identità, fraintendimenti, bastonature; inoltre, recitano mascherati, e dunque si affidano alla gestualità
e alla mimica corporale piuttosto che all’espressione del volto. Le maschere derivano dalla tradizione
carnevalesca popolare (Arlecchino, Pantalone, Brighella, Pulcinella) e permettono al pubblico di
individuare subito i diversi personaggi, a ognuno dei quali erano associati dei tratti caratteristici fissi
(Arlecchino è il servo furbo, perennemente affamato e in bolletta, e così via); di solito ogni attore si
specializzava in un ruolo, e alcuni diventavano delle vere e proprie celebrità. Nel corso del Seicento la
commedia dell’arte diviene il genere teatrale italiano per eccellenza, e le compagnie più famose sono
richieste nelle principali corti europee; ma di questo ricchissimo filone ci resta poco o nulla: qualche
canovaccio, qualche testimonianza dell’epoca. Le performance sono per noi irrimediabilmente perdute.
[Verso il teatro moderno] Di contro al grande successo europeo della commedia dell’arte, i generi
teatrali tradizionali (tragedia e commedia) attraversano in Italia un momento di crisi profonda:
sopravvivono stancamente, proponendo modelli ormai desueti, lontani dalla pratica scenica (e che
infatti non vengono messi in scena quasi mai, ma sono destinati esclusivamente alla lettura). Tutto al
contrario di quanto avviene contemporaneamente in Europa, dove ha inizio la grande stagione del
teatro moderno. Autori come Shakespeare, Molière, Lope de Vega portano avanti un radicale
rinnovamento dei generi teatrali, rifiutando le regole troppo rigide imposte dal classicismo e
arrivando a una grande libertà di composizione: la commedia si allontana dagli schemi stereotipati dei
modelli classici e mira alla rappresentazione della realtà e di situazioni concrete vicine alle esperienze
reali degli spettatori; la tragedia scopre la storia nazionale e si concentra sull’indagine degli istinti più
elementari e profondi dell’animo umano (gelosia, amore, odio, desiderio di vendetta, avidità, desiderio
di potere, rimpianto), o sul conflitto tra istanze inconciliabili (devozione filiale e passione amorosa,
doveri pubblici e aspirazioni individuali, coscienza morale e desiderio); in generale viene messa in
discussione la separazione troppo rigida tra ‘comico’ e ‘tragico’: la rappresentazione comica può
arrivare a un significato serio, e la tragedia può avere delle parentesi di comicità.
[Il melodramma] Tuttavia sempre italiana è l’origine di un altro genere ibrido destinato a grande
fortuna: il melodramma. Come dice la parola, il melodramma si basa sull’unione tra azione
drammatica (dramma) e canto (melos) e nasce dalle ricerche di un gruppo di letterati e musicisti
fiorentini che si riunivano in casa della famiglia Bardi (per questo si parla di ‘Camerata dei Bardi’), i
quali intendevano riportare in vita le caratteristiche del teatro greco antico. I primi melodrammi
riprendono soggetti mitologici e si basano sull’alternanza di parti recitate e parti cantate; ben presto
però l’aspetto musicale prende il sopravvento e il testo scritto diviene un semplice pretesto su cui i
cantanti esercitano la loro abilità.
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