Sir IN MORTE DI ANDREOTTI "Figlio di una grande storia" Lo storico Francesco Malgeri ripercorre la figura del senatore a vita scomparso a Roma all'età di 94 anni, ricordandone innanzitutto la sua dimensione di politico della prima Repubblica, con la quale si è quasi identificato. E precisa: "Generalmente nei mass media l'esperienza della Dc viene presentata e giudicata con un senso quasi di 'fastidio', se non come qualcosa da respingere. Invece io penso che si tratti di un grande momento della storia politica nazionale" Luigi Crimella Poco dopo le ore 12 di oggi si è spento a Roma il senatore a vita Giulio Andreotti. Aveva 94 anni. La notizia ha fatto subito il giro dei notiziari televisivi, radiofonici e su internet. Andreotti ha accompagnato sempre con ruoli di primo piano oltre 50 anni di storia italiana e anche negli ultimi anni, pur anziano, non ha mancato di far sentire la sua voce e di offrire i suoi arguti giudizi che non mancavano ogni volta di stupire. Sulla sua figura il Sir ha rivolto alcune domande allo storico, già docente all’Università Sapienza di Roma, Francesco Malgeri, che ha retto la cattedra di storia contemporanea e che oggi all’interno dell’“Istituto Luigi Sturzo” fa parte del Comitato che cura l’“Archivio Giulio Andreotti”. Anzitutto, quale valutazione dà “a caldo” della figura di Giulio Andreotti, nel giorno della sua scomparsa? “Mi pare si possa dire che ha segnato profondamente la storia italiana della cosiddetta ‘prima Repubblica’, nel senso che si tratta di una persona, di un politico di primo piano che ha iniziato con De Gasperi e che ha concluso alla vigilia della crisi della stessa prima Repubblica. È stato infatti uno degli ultimi presidenti del Consiglio prima del cambiamento della vita politica italiana”. Qual è il suo tratto specifico, se ce n’è uno in particolare? “Direi più di uno. Ha lasciato impronte importanti sia all’interno del suo partito, la Democrazia Cristiana, sia nella vita politica nazionale. Basti pensare al suo ruolo alla guida di vari ministeri, dalla Difesa agli Esteri ad altri. Ha sempre avuto posizioni di primo piano, anche a livello europeo e internazionale. Per lui, come per tutti i leader, la storia è sempre da scrivere e da riscrivere. Tuttavia non c’è dubbio che siamo davanti a una figura di grande rilievo”. Cosa può dire dell’Andreotti “cattolico in politica”? “È partito giovanissimo dall’Azione Cattolica e dalla Fuci, di cui è stato anche presidente nazionale negli anni della seconda guerra mondiale. Era vicino a una figura come Giovan Battista Montini, poi Papa Paolo VI. Nei confronti del mondo cattolico ha sempre mantenuto una posizione importante, di prestigio, e ha sempre avuto anche all’interno della Chiesa rapporti di amicizia e collaborazione che lo hanno collocato tra le figure di primo piano del mondo cattolico. Il suo impegno in politica nel corso dei decenni si è del resto manifestato sotto forma di una testimonianza laicale molto precisa e stagliata”. Qualcuno già oggi, come avvenne in passato, dà di Andreotti un giudizio quale politico “pragmatico” se non “spregiudicato”. Lei cosa ne pensa? “Il pragmatismo deve far parte di un politico, che è chiamato a confrontarsi con situazioni diverse e momenti storici particolari. Andreotti certamente è stato capace di cogliere nei diversi momenti della sua esperienza politica le spinte per scelte da fare sulla base di un’analisi del quadro generale che aveva di fronte e che lui sapeva leggere con la sua intelligente penetrazione e arguzia da tutti riconosciute. Ad esempio negli anni della ‘solidarietà nazionale’, benché la sua figura non sembrasse avvalorare questa scelta, egli assunse questa posizione teorizzata da Aldo Moro, giudicandola importante per la storia del Paese”. Cosa ci può dire dell’“Archivio Giulio Andreotti”, che lo scomparso qualche anno fa aveva deciso di donare all’“Istituto Luigi Sturzo”? “Andreotti ha voluto donare gran parte della considerevole mole di appunti e carte della sua lunga vita politica. Già molti studiosi hanno iniziato a consultare questo fondo e comincia a emergere la storia del nostro Paese con la particolare prospettiva con cui Andreotti la guardava: quella di un vero cultore di fatti, persone e documenti. Egli amava conservare molte cose, non soltanto i suoi appunti diretti ma anche ritagli di giornali, estratti di testi e documenti vari, una vera e propria miniera già in qualche modo organizzata che farà molto felici gli studiosi. Del resto, giusto dal proprio archivio Andreotti aveva tratto i suoi numerosi e validi libri di memorie e incontri con personaggi della storia dell’ultimo mezzo secolo. Questa attività di scrittore è forse stata un po’ trascurata, ma Andreotti è stato sicuramente un valido protagonista e insieme storico del suo tempo. Basti pensare alla biografia di De Gasperi, che rimane uno dei testi più importanti scritti sul grande statista trentino. Nei suoi libri emerge sempre la sua arguzia e intelligenza, di uomo politico colto e deciso, ma anche attento a sdrammatizzare, per quanto possibile, gli eventi della storia”. Se dovesse parlare a un gruppo di studenti universitari della figura di Andreotti oggi, come lo presenterebbe? “Certamente è stato un personaggio complesso, tutta la sua esperienza storica va rivisitata con calma. In questo senso la storia farà il suo corso. Ma sulla base di quello che sappiamo e di cui abbiamo documentazione mi sembra si tratti di una figura centrale della politica italiana, che rappresenta l’immagine di un periodo storico-politico ricco di risultati. Generalmente nei mass media l’esperienza della Dc viene presentata e giudicata con un senso quasi di ‘fastidio’, se non come qualcosa da respingere. Invece io penso che si tratti di un grande momento della storia politica nazionale”. ________ Sir SEI MILIONI DI FOLLOWERS I tweet di Francesco sbancano la Rete I numeri sono assolutamente incoraggianti. La rivincita dello spagnolo e il fenomeno del latino. Monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali: "Lo stile comunicativo del Papa si adatta molto ai tweet. Il suo modo di comunicare è essenziale e immediato. Usa un linguaggio diretto e molte metafore, che colpiscono chi ascolta. Parla per frasi brevi, spesso suddivise in tre punti o tre parole, quasi fosse un metodo d'insegnamento" Vincenzo Corrado Hanno superato quota 6 milioni i followers del Papa se si sommano gli account nelle 9 lingue ora disponibili. Quello principale, in inglese (@Pontifex), ne conta 2.474.133; è seguito dallo spagnolo con circa 2.256.837. Poi vengono l’italiano (704.911), il portoghese (299.301), il francese (133.319), il tedesco (102.160), il polacco (84.046) e l’arabo (57.387). Ma prima di questi ultimi due ci sono i “seguaci” dell’account in latino: 92.813. A fornire i dati aggiornati al Sir è monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, che non nasconde la sua sorpresa per i numeri in latino. Lingua, questa, riflette mons. Tighe, che “si sposa bene con il modo di comunicare di Papa Francesco e che aiuta a pensare con precisione e sobrietà”. Mons. Tighe, 6 milioni di followers è un vero e proprio boom per l’account del Papa. “I dati dicono questo. Dal lancio dell’account, nel dicembre 2012, ad oggi, si è rilevata una crescita continua, che ha subito un’accelerazione con l’attenzione creata dall’elezione di Papa Francesco. Molta gente nel mondo ha scoperto l’esistenza di un profilo Twitter ufficiale del Pontefice. C’è stata la possibilità di parlarne e, forse, è cresciuta la visibilità. Abbiamo registrato un incremento nei followers, in modo particolare tra quelli di lingua spagnola. Ma c’era da attenderselo, viste le origini di Papa Francesco. Potremmo dire che si è rivelata molto strategica e, in un certo senso, provvidenziale la decisione di creare un account del Papa”. In queste settimane è anche cresciuta la frequenza dei tweet. Il Papa dei gesti si afferma, quindi, come efficace comunicatore della Rete? “Il ritmo dei tweet è aumentato. Si tratta, ovviamente, di una decisione approvata dal Pontefice. Lo stile comunicativo di Papa Francesco si adatta molto ai tweet. Il suo modo di comunicare è essenziale e immediato. Usa un linguaggio diretto e molte metafore, che colpiscono chi ascolta. Parla per frasi brevi, spesso suddivise in tre punti o tre parole, quasi fosse un metodo d’insegnamento: ‘Vi lascio tre parole, tre suggerimenti, tre consigli...’. E poi c’è un dato molto importante: quando il Papa parla davanti alle folle, in piazza San Pietro o in altri luoghi, è come se si rivolgesse a ogni singola persona. Riesce a toccare il cuore di tutti i presenti. Ognuno sente sue le parole del Pontefice. Questo aiuta molto”. I 140 caratteri di un tweet non sono pochi per una comunicazione efficace? “Non sono pochi. La maggior parte dei versetti del Vangelo ne ha di meno: pensiamo alle Beatitudini, che sono molto più brevi. Circa l’efficacia di questa forma di comunicazione mi piace ricordare, ancora una volta, la parabola del buon seminatore: il seme cade su un terreno sassoso o in mezzo ai rovi dei pregiudizi negativi e soffoca, ma cade anche su un terreno buono e disponibile e così porta frutto e si moltiplica. La parola del Papa può incontrare un’accoglienza entusiastica, ma anche un rifiuto. Certamente, però, in tanti possono sentire il Papa più vicino, possono ascoltare in silenzio una parola per loro da condividere con altri followers. Insomma, un punto di partenza per sviluppare un dialogo profondo alla luce del Vangelo. Twitter, in questo, è un’ottima strategia: un pensiero breve ha più possibilità di stimolare la riflessione o incoraggiare la gente a tornare a leggere un discorso”. Come vengono accolti i tweet del Papa? Quali risposte si riscontrano? “Quando il Papa twitta, ci sono molte reazioni nel mondo. Le risposte sono sempre più positive. L’obiettivo è che i tweet del Santo Padre suscitino domande tra le persone di differenti Paesi, lingue e culture. Queste domande potranno, a loro volta, essere affrontate dai credenti e dai responsabili delle Chiese locali. La sfida per la Chiesa nel mondo dei nuovi media è stabilire una presenza ramificata, capillare. Il Papa inizia il dialogo, poi tocca a noi - Chiese locali, istituzioni, credenti tutti - procedere con le risposte. La presenza del Papa su Twitter rappresenta una voce di unità e di guida. Con l’obiettivo di creare un link, stabilire un contatto. Come spesso accade quando s’invia un sms a un amico scrivendo: ‘Ti sto pensando’. La comunicazione è sempre tesa a creare legami. E, in particolare, per Papa Francesco è tesa a costruire ponti con tutti, soprattutto con chi vive nelle periferie, come ha detto più volte”. Siamo ormai alla vigilia della 47ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebra il 12 maggio con il tema “Reti sociali: porte di verità e di fede; nuovi spazi di evangelizzazione”. Quale messaggio giunge dalla presenza del Papa su Twitter? Può essere vista come una nuova forma di servizio al Vangelo? “La scelta di Benedetto XVI e, ora, di Francesco di avere un profilo ufficiale del Papa è davvero coraggiosa. E intende dare visibilità anche in Rete all’annuncio del Vangelo. Si tratta di un altro modo di condividere la Parola con il mondo. È una presenza che può far nascere domande, suscitare un interesse per la fede, un primo incontro con il Vangelo... Per alcuni - è chiaro - si tratta di un inizio, sostenuto da un linguaggio d’impatto, che aiuta ad aprire la porta. È una proposta che nel contesto del mondo digitale invita alla riflessione. Le nuove tecnologie hanno costruito un nuovo ambiente e per noi è molto importante trovare il modo di essere presenti”. __________ Corriere della sera LA TESTIMONIANZA Lì sul suo letto vestito di blu con il rosario nero tra le mani Nella stanza di Andreotti crocifisso e ricordi Ha il solito doppiopetto blu presidenziale. E se non fosse per il rosario nero che gli avvolge le mani intrecciate sul grembo, e perché è sdraiato sul letto vestito di tutto punto con gli occhi chiusi, potrebbe quasi sembrare il Giulio Andreotti di sempre. Ma il piccolo presepe vivente che lo circonda, stavolta, non è nella sua stanza da letto per ascoltare le battute al curaro, o le perle di buonsenso romano-papalino. Le tre bombole a ossigeno accostate alla parete raccontano giorni di sofferenza. E il senatore a vita Emilio Colombo, vecchio alleato e avversario in decine di congressi democristiani e di quasi altrettanti governi, si fa un segno della croce che non è solo un saluto a lui ma il commiato a un'epoca della storia d'Italia. In questa stanza nella penombra al quarto piano di corso Vittorio Emanuele che si affaccia sul Tevere e sul Vaticano, sorvegliato e protetto da un grande crocifisso di porcellana appeso sopra al letto, è morto ieri mattina, poco dopo mezzogiorno, l'uomo-simbolo della Prima Repubblica. In quel momento in casa c'erano soltanto Gloria, la badante filippina che lo assisteva con altri due connazionali, e Giancarlo Buttarelli, il capo della scorta con lui da oltre trentacinque anni. C'era anche la signora Livia, ma per fortuna non si è accorta di nulla. E anche adesso, alle cinque del pomeriggio, mentre un silenzioso viavai di amici e mondi tramontati viene accompagnato a salutarlo per l'ultima volta, la moglie è in cucina in compagnia della cognata Antonella Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si accorga che suo marito Giulio se n'è andato a novantaquattro anni. Già, ci sono anche gli Andreotti: la tribù più discreta e invisibile del potere romano. Per il momento Stefano e Serena, due dei quattro figli. Gli altri, Lamberto, presidente della multinazionale Meyers Squibb, arriverà da New York in serata, e la figlia maggiore Marilena è partita da Torino, dove vive. In compenso ci sono alcuni dei nipoti, Giulio Andreotti e Giulia Ravaglioli, figlio il primo di Stefano e l'altra di Serena e del giornalista della Rai Marco Ravaglioli. Ci sono anche Marco e Luca Danese, i cugini. E sono loro, tutti insieme, ad accogliere ex ambasciatori e capi di gabinetto, alti burocrati e parlamentari figli della diaspora scudocrociata; e naturalmente sacerdoti. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, si è offerto di celebrare la messa. E anche il suo predecessore, il decano del Sacro Collegio, Angelo Sodano. «E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline d'argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi d'antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant'Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po' appartata, cordiale e insieme vigile. Come se concedesse per l'ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro. Non è una veglia di potenti, ma di vecchi amici. Sì, sembra che Andreotti avesse anche amici. Non piange nessuno, perché probabilmente il «divo Giulio», o «Belzebù», come lo chiamano tuttora gli avversari più irriducibili, non approverebbe. Anche Pier Ferdinando Casini e Gianni Letta sono confusi fra l'avvocato Barone e Luigi Turchi e il figlio Franz. Parlano come se tutto fosse uguale a prima. Le segretarie, Daniela e Patrizia, raccontano che lo studio a palazzo Giustiniani ormai era un guscio vuoto da mesi; e che da febbraio i figli avevano deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in nome di una finzione. È passato a salutare anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Sono arrivati appena si è saputa la notizia Franco e Sandra Carraro. C'è la signora Santarelli, figlia di un amico storico dell'ex presidente. E figli e nipoti osservano, rispondono alle domande, sorridono perfino, con gentilezza. Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti», c'è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po' lunghi, in giacca blu e cravatta, che ha il nome del nonno e fa l'avvocato. L'altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d'argento che il senatore a vita ha collezionato per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso, riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi. Non l'avevano schiantato né i processi per mafia, dai quali era uscito assolto e, per alcuni reati, solo prescritto, né un potere che aveva regole, riferimenti e protagonisti lontani ormai anni luce da lui. Finché era esistito un modo diviso fra Occidente e comunismo, Andreotti era parso eterno. Era il «suo» mondo, nel quale si muoveva con la leggiadria e il cinismo di chi ne conosceva non solo le apparenze, ma anche il sottosuolo. Aveva presieduto i suoi primi governi nel 1972, alleato con i liberali. Il terzo era stato nel 1976, appoggiato dal Pci. E l'ultimo, il settimo, nel 1989, a capo di un'alleanza con i socialisti di Bettino Craxi: l'ultimo della Prima Repubblica. Obiettivo: preservare la continuità dello Stato democristiano e un progresso senza avventure; e garantire il Vaticano, l'Europa e gli Usa come stelle polari. La Dc era solo uno strumento per governare. In realtà, la forza e il potere andreottiani erano fuori, non dentro al partito. La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e all'inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito, tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore» andreottiane. Erano la sua piccola massa di manovra per ottenere ministeri; per garantirsi una longevità governativa dovuta non tanto alle sue strategie, quanto al ruolo di conservatore del sistema e conoscitore della macchina dello Stato. Eppure, quando la Dc finì insieme con la Guerra fredda, lui ne rimase un cultore nostalgico: capiva che l'archiviazione dell'unità politica dei cattolici era anche quella dei suoi punti cardinali e della sua cultura politica. Dopo la diaspora scudocrociata, a piazza del Gesù, sede storica della Dc a Roma, non voleva andare. Diceva che gli sembrava un condominio litigioso, con un partitino diverso a ogni piano. Da anni non era più un burattinaio. Anzi, rischiava di essere usato per operazioni politiche che non condivideva. Accadde nel 2006, quando Silvio Berlusconi lo candidò alla presidenza del Senato contro un altro ex democristiano, Franco Marini, scelto dal centrosinistra. Si illuse di essere «una goccia d'olio» in grado di sbloccare la situazione. Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l'uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza accanto, e poi nella bara all'ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la maggioranza silenziosa e moderata dell'Italia si era riflessa. Si tratta di un'Italia che ha rifiutato fino all'ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell'eternità andreottiana per non ammettere di essere postuma anche lei di se stessa. Ma «c'est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri. E stavolta è finita davvero. Andreotti sarà ricordato come quello della battuta sul «potere che logora chi non ce l'ha»: un monumento lessicale a un potere senza alternativa, cresciuto negli ultimi anni della Dc; e pagato a caro prezzo quando quella stagione si è chiusa. Peccato che pochi ne ricordino un'altra, di molti anni prima. Chiesero all'allora ministro di qualcosa che avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto. Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose: «Sicuramente qualche sciocchezza». Era una lezione di democrazia che molti, a cominciare da lui, hanno finito per rimuovere. Massimo Franco 7 maggio 2013 | 8:22 _________ Corriere della sera SECONDO LA SUA SEGRETARIA NON CI SARANNO FUNERALI DI STATO NÉ CAMERA ARDENTE È morto Giulio Andreotti, aveva 94 anni È deceduto oggi alle 12 e 25 nella sua abitazione romana Giulio Andreotti è morto alle 12 e 25 nella sua abitazione romana. Lo hanno reso noto i suoi familiari. Aveva compiuto 94 anni il 14 gennaio scorso. L'ex senatore a vita era stato ricoverato il 3 maggio dell'anno scorso al Policlinico Gemelli di Roma per una crisi respiratoria. Da allora, dimesso dall'ospedale, le sue condizioni erano migliorate ma non si era mai ripreso completamente. CASA - Davanti al portone del civico 326 di Corso Vittorio Emanuele, la casa di Andreotti dove è stata allestita la camera ardente, si è riunita una folla di giornalisti, cameramen e fotografi oltre a qualche curioso che riprende la scena con il cellulare o la videocamera. A portare il cordoglio alla famiglia è giunto l'ex ministro e sottosegretario, amico da sempre, Vincenzo Scotti e Giulia Bongiorno, storico avvocato del senatore a vita, visibilmente commossa all'uscita. LA MESSA - Per Andreotti niente camera ardente al Senato ma nella sua amatissima casa-studio di Corso Vittorio e funerali privati presso la Chiesa di san Giovanni dei Fiorentini a Roma, a pochi passi dalla propria abitazione. «Andreotti veniva a messa tutti i giorni eccetto da quando si è ammalato, circa un anno fa. Da allora ero io ad andare a casa sua per portargli la comunione», racconta don Luigi Veturi, parroco di San Giovanni Battista dei Fiorentini. «È da maggio dell'anno scorso - ricorda ancora il sacerdote - che ha avuto un calo continuo. Poi nelle ultime settimane il peggioramento è stato netto». I FUNERALI - Le esequie saranno celebrate domani alle 17. Niente funerali di Stato dunque, come anticipato da Patrizia Chilelli, storica segretaria del presidente, al suo fianco dal 1989: «Le esequie saranno celebrate nella sua parrocchia con gli stretti familiari. Era un grande uomo che mi ha insegnato tanto. Solo chi gli è stato davvero a fianco ha potuto capire l'uomo, non solo il politico». Numerose le reazioni dopo la diffusione della notizia. La prima dichiarazione è dell'ex sodale dc, Cirino Pomicino: «Lo stato d'animo è quello di chi ha perduto un amico e un maestro di vita e di politica, nei prossimi anni si vedrà cosa Giulio Andreotti ha dato al Paese». Il Coni, intanto, ha dato disposizione a tutte le federazioni sportive (quindi, Figc compresa) di osservare un minuto di silenzio in onore del sette volte premier. Giulio Andreotti, l'uomo LA CARRIERA POLITICA - Nato a Roma il 14 gennaio 1919, sposato con la signora Livia, padre di 4 figli, Andreotti è stato tra gli uomini più importanti della Democrazia Cristiana. Presidente del Consiglio per 7 volte, senatore a vita, ha ricoperto numerosi incarichi di governo: 8 volte ministro della Difesa, 5 volte ministro degli Esteri, 3 volte ministro delle Partecipazioni statali, 2 volte ministro delle Finanze, ministro del Bilancio e ministro dell'Industria, una volta ministro del Tesoro, ministro dell'Interno (il più giovane della storia repubblicana), ministro dei Beni culturali e ministro delle Politiche comunitarie. Figura controversa, secondo i giudici ebbe rapporti molto ravvicinati (concreta collaborazione) con la mafia almeno fino al 1980. ALL'ESTERO - Dalla Gran Bretagna alla Spagna scomparsa di Andreotti irrompe come «breaking news» sui media internazionali, rimbalzando nella fascia dedicata alle «urgentissime» sui siti della britannica Bbc, dei quotidiani spagnoli El Mundo e El Pais e, oltralpe, della France tv che lo descrive come «figura emblematica della Democrazia cristiana». In Francia la notizia è in evidenza anche su Le Figaro mentre in Germania irrompe sulla prima pagina del tabloid Bild. Nino Luca @Nino_Luca 6 maggio 2013 | 20:48 _________ Corriere della sera IL NODO FISCALE Imu, pressing di Bruxelles sull'Italia «Entro metà mese i conti aggiornati» Vanno compensati abolizione Imu e rinvio aumento dell'Iva Passano i giorni ma il nodo dell'Imu (abolizione, rinvio, soppressione, restituzione?) non si scioglie, anzi si aggroviglia un po' di più. Lunedì è entrata in campo anche l'Unione europea: Bruxelles, ha scritto l'agenzia Ansa citando fonti interne alla Commissione Ue, si aspetta entro metà mese che il governo italiano presieduto da Enrico Letta presenti il programma di stabilità aggiornato, con le compensazioni dell'abolizione dell'Imu e del rinvio dell'aumento dell'Iva. D'altronde sul fronte finanziario il governo deve subito mettere in campo alcune misure. Oltre a Imu e Iva, ci sono anche da trovare le risorse per la Cassa integrazione in deroga. In tutto si tratta di un pacchetto da circa 6 miliardi di euro, che dovrebbe prendere la forma del decreto legge. Letta: con la Germania non è un match di calcio LAVORO - Ma non c'è solo il fronte conti pubblici, c'è anche quello dell'emergenza lavoro, come hanno ricordato sia il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi («Rischi di proteste distruttive a causa della disoccupazione») sia lo stesso Enrico Letta nell'incontro con il premier spagnolo Mariano Rajoy, in cui si è deciso di creare una task force congiunta italo-iberica per il lavoro: «Quello della disoccupazione giovanile è il tema centrale. La lotta alla disoccupazione deve essere l'ossessione principale dell'Europa». Letta ha voluto anche rassicurare l'Europa sul fatto che l'Italia assolverà ai suoi obblighi. ENTRATE - Ma la situazione si presenta comunque incerta: segnale di queste incertezze è il dato sulle entrate tributarie nel primo trimestre: ammontano a 87,7 miliardi di euro con una flessione dello 0,3% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Lo ha comunicato il ministero dell'Economia commentando però che nonostante la crisi «il gettito tiene». Tra le ipotesi che si cerca di verificare in queste ore, anche la possibilità di chiedere più tempo per il pareggio strutturale. Ma da Bruxelles arrivano segnali non positivi rispetto a questa ipotesi. «Per l'Italia raggiungere il pareggio di bilancio strutturale è molto importante alla luce del debito molto elevato del Paese», ha detto il portavoce del commissario Olli Rehn. «L'abrogazione della procedura per deficit eccessivo richiede un deficit sotto il 3% per quest'anno e per il prossimo, quindi guardiamo soprattutto a questo e insistiamo che il programma di consolidamento dei conti sia accompagnato dalle riforme essenziali per rafforzare l'economia italiana», ha aggiunto il portavoce di Rehn. Redazione Online 6 maggio 2013 | 22:40 _________ Corriere della sera LA CRISI TRA LE DUE COREE Nord Corea, rimossi i missili Musadan dalle rampe di lancio nell'est del Paese La notizia da fonti Usa. Si placa il timore di nuovi test missilistici nello scacchiere asiatico La Corea del Nord avrebbe rimosso dalle rampe di lancio poste sulle coste orientali i missili «Musudan», considerati in grado di trasportare testate nucleari. L'affermazione è attribuita dall'agenzia Reuters e dal sito web del network americano Cnn a fonti dell'amministrazione americana. Per settimane, la possibilità che il regime di Kim Jong-un potesse effettuare nuovi test missilistici usando questi siti aveva allarmato le diplomazie internazionali. NON OPERATIVI - Gli Stati Uniti, aggiunge la Reuters, non credono che i missili Musudan siano stati trasferiti in altre basi di lancio, piuttosto in luoghi dove non sarebbero più operativi. Redazione Online 6 maggio 2013 (modifica il 7 maggio 2013) __________ Repubblica Andreotti, l'amico dei Pontefici Da Pio XII a Benedetto XVI, il rapporto con il Vaticano e i Papi decisivo nella storia privata e politica del Divo. "Andreotti ascoltava la Santa Sede e la Santa Sede ascoltava lui", disse il cardinale Tonini. Wojtyla lo benedisse durante la beatificazione di Padre Pio mentre era in corso il processo Pecorelli di PAOLO RODARI Giulio Andreotti e il Vaticano. Più che una lunga amicizia, un feeling strutturale. "Per anni ha vissuto come fosse un segretario di Stato Vaticano permanente", disse di lui Francesco Cossiga, volendo significare che tutto si può dire di Andreotti ma non che si muovesse senza cercare sempre e costantemente il confronto con il Vaticano, la Chiesa, i suoi governanti. Non solo, negli anni della grande Ostpolitik verso i regimi del blocco comunista, Andreotti faceva sul fronte laico ciò che i cardinali Casaroli e Silvestrini facevano sul fronte ecclesiale. "Andreotti ascoltava la Santa Sede e la Santa Sede ascoltava lui", disse in occasione dei suoi novant'anni il cardinale Ersilio Tonini, che raccontò delle tante amicizie che Andreotti poteva vantare oltre il Tevere. "Il suo più grande amico in Vaticano fu il cardinale Fiorenzo Angelini. Nacque a campo Marzio, nel cuore della vecchia Roma. Forse per questo Andreotti lo sentiva particolarmente amico". Già, la vecchia Roma. È qui che Andreotti tesse i primi rapporti coi monsignori d'oltre il Tevere. Impara a conoscerli, a stimarli, a capire che per lui, per il suo modo d'essere, la loro amicizia era importante. Conobbe il futuro Pio XII, allora monsignor Pacelli, in casa della sorella di quest'ultimo, Elisabetta sposata Rossignani. Disse Andreotti: "Abitavamo vicini in via dei Prefetti. Pacelli vi portava del cioccolato per le nipoti. E me lo offriva pure a me sul loro terrazzo. Per la verità, l'allora monsignor Eugenio mi diceva poco. Nella zona di via dei Prefetti ero molto più interessato ai giocatori della Roma che mangiavano da sora Emma". L'amicizia con Pacelli continuò per anni. Per lui Pacelli, al di là delle accuse di non aver fatto abbastanza per gli ebrei nel corso della seconda guerra mondiale, "era un sant'uomo". Disse: "Metteva un po' soggezione. Era ieratico. Trasmetteva austerità ma anche regalità. Era insieme sacerdote e sovrano. Non credo che amasse molto i preamboli nelle conversazioni. E poi voleva sempre risposte molto precise. Era un Papa innovatore, seppure attaccato alla tradizione. Per lui la tradizione era una forza a cui aggrapparsi. Insieme non amava le devianze. Una devianza che combatté con forza fu quella dei comunisti cattolici di Franco Rodano. Un giorno la polizia fascista arrestò Rodano perché anti-fascista. Poco tempo dopo Pio XII dovette fare un discorso rivolto agli operai. Gli scrissi: "Per favore, non parli di Rodano. È in prigione e la considererebbe una pugnalata alle spalle". E, infatti, Pio XII, non ne parlò. Qualche giorno dopo andai col consiglio superiore della Fuci dal Papa. Mi guardò con occhi severi e mi chiese: "Andava bene il discorso?"". Ricordi appesi al filo della memoria. Parole che dicono quanto stretto fosse, per Andreotti, il legame con il Vaticano. Ma più che con il Vaticano, coi Papi. Disse di lui ancora Tonini: "Assieme a Giorgio La Pira, Aldo Moro, Luigi Gedda e altri fu tra i primi a rispondere all'appello di Pio XII rivolto ai politici: "Fatevi valere". E quella classe di nuovi dirigenti politici si fece davvero valere nell'immediato dopo guerra". Prima di Pacelli, Andreotti conobbe Pio XI. A dodici anni si trovò in un'udienza nell'aula concistoriale. Raccontò: "Quando lo vidi rimasi di stucco. Gridava e si mise pure a piangere. Ero atterrito tanto che svenni e finii dietro una tenda bianca. Piangeva perché tutti lo accusavano di aver sbagliato a fare il concordato con Mussolini tanto che, nonostante l'accordo, i circoli cattolici erano ancora perseguitati". Dopo Pacelli invece, Giovanni XXIII. I due s'incontrarono un giorno a Venezia. "Mi trattenne a colazione e mi disse: "Riposati un po'. Ti faccio fare la pennichella nel letto di Pio X". E così fu", raccontò ancora lo stesso Andreotti. Montini, futuro Paolo VI, fu invece assistente alla Fuci, l'associazione dei giovani cattolici della quale Andreotti fu presidente. Con Montini, dunque, egli aveva una certa familiarità. Disse: "Ricordo un discorso al Campidoglio in cui disse che fu una provvidenza per la Chiesa la caduta dello Stato Pontificio: piovvero critiche inverosimili". Poi Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Il primo Andreotti non fece a tempo a conoscerlo. Wojtyla invece lo conobbe bene. Disse: "Quando compii ottant'anni mi chiamò. Pensai fosse lo scherzo di qualcuno e invece era lui. Mi disse: "Non dica ottanta ma dica che è entrato nel nono decennio di vita"". Poi Joseph Ratzinger. Quando era cardinale andò al Senato, in quel momento presieduto da Marcello Pera. Andreotti ricordava sempre quel giorno: "Alla fine tutti dissero: "Abbiamo ascoltato il cardinale Pera e il presidente Ratzinger". Fece, infatti, un discorso di alta politica". Dopo l'elezione i due s'incontrarono e Ratzinger gli disse: "Lei non invecchia mai". E con Bergoglio. Un'amicizia "filtrata" da don Giacomo Tantardini. Andreotti per anni ha diretto 30Giorni, il mensile che Tantardini ispirava e sul quale Bergoglio è stato più volte intervistato. Ma il legame fu anche precedente l'esperienza di 30Giorni, riconducibile agli anni in cui Pio Laghi, amico di Casaroli e Silvestrini (e dunque indirettamente di Andreotti) era nunzio in Argentina. Certo, non sempre i rapporti col Vaticano furono idilliaci. Nel 1978 fu Andreotti a firmare la legge sull'aborto. Disse in merito Tonini:"Non lo critico per questo. Credo non avesse altra scelta. E così molti hanno pensato in Vaticano. Abdicare come probabilmente avrebbe voluto fare, avrebbe voluto dire consegnare il paese non si sa a chi. Ne eravamo tutti consapevoli. E la cosa andava evitata. Fu un grande dolore consumato in anni difficilissimi. Ma quella firma non intaccò la stima vaticana nei suoi confronti". E ancora: "Insomma, ha sempre saputo come muoversi oltre il Tevere. Diciamo che sapeva come tenere i rapporti senza compromettere nessuno. In tanti anni non ha mai compromesso nessuno della Santa Sede. Cosa non da poco e non da tutti. Non è stato con la Santa Sede un "furbetto", uno che faceva i propri interessi alle spalle altrui. Tutt'altro. Consigliava e si lasciava consigliare". (06 maggio 2013) _________ Repubblica Draghi: "Ridurre la disoccupazione, rischio di proteste distruttive" Il governatore punta il dito contro "la concentrazione dei redditi che penalizza i più deboli". Ai governi chiede di tagliare la spesa senza alzare le tasse e di non cancellare gli sforzi fatti sul debito. Bce "pronta ad agire di nuovo" sui tassi MILANO - Non è forse il primo 'allarme sociale' che viene lanciato e messo in relazione con la crisi economica. Ma se a suonare il campanello è il numero uno della Banca centrale europea in persona, il livello d'allerta sale. "E' indubbio che una crescita duratura sia condizione essenziale per ridurre la disoccupazione, in particolare quella giovanile". Così il presidente della Bce, Mario Draghi, nella sua lectio magistralis all'università Luiss Guido Carli, in occasione della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in Scienze politiche. "In alcuni Paesi - ha aggiunto Draghi - questa ha raggiunto livelli che incrinano la fiducia in dignitose prospettive di vita e che rischiano di innescare forme di protesta estreme e distruttive". In Europa, ha poi annotato, da quasi "vent'anni è in atto una tendenza alla concentrazione dei redditi delle famiglie che penalizza i più deboli". Per questo, secondo il presidente della Bce occorre "una più equa partecipazione ai frutti della ricchezza nazionale" che aumenta "la coesione sociale" e conduce "al successo economico". Contro la concentrazione dei redditi in atto in Europa e per una "più equa partecipazione ai frutti della produzione della ricchezza nazionale" occorre rimuovere le barriere che limitano le opportunità degli individui, ha detto Draghi. E in questo senso "le riforme strutturali assumono un significato più ampio di quello di mero strumento di crescita". Oltre a questi rilievi, il governatore si è concentrato sull'analisi della situazione economica e della salute dei conti pubblici. E' innanzitutto arrivata la conferma che la Bce "è pronta ad agire di nuovo sui tassi" dopo aver abbassato il costo del denaro al minimo storico dello 0,5%. Si sta considerando a tal proposito anche l'opzione di tassi di deposito negativi per le banche. Draghi ha invitato - come in altre circostante - a "mitigare" gli effetti recessivi del risanamento dei conti privilegiando "le riduzioni di spesa pubblica corrente e quella delle tasse". Secondo Draghi in Europa, infatti, "la tassazione è già elevata in qualunque confronto internazionale". Se in alcuni Paesi, inoltre, "la crescita è più debole che in altri" la ragione non è da imputare solo al "credito è scarso". Il numero uno dell'Eurotower ricorda infatti che "era più debole anche prima della crisi, nonostante una crescita spesso tumultuosa della spesa pubblica, perché non si erano volute affrontare fragilità strutturali di cui oggi sentiamo tutto il peso". Anche per questo "le politiche di bilancio devono essere mantenute su sentieri sostenibili"; il riferimento è a situazioni - come quella italiana - "di alto debito", dove non si devono cancellare gli sforzi fatti. (06 maggio 2013) _________ Repubblica Siria, colpo di mortaio verso Israele. Usa: "Nessuna notizia su uso gas dei ribelli" La deflagrazione non ha fatto vittime. Fonti governative avevano ribadito che ci sarebbe stata una "risposta all'attacco" di ieri a Damasco. Gli Stati Uniti e la commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite smentiscono Carla del Ponte che aveva accusato gli insorti siriani di aver fatto ricorso alle armi chimiche TEL AVIV - Continuano a colpirsi. Dopo l'attacco di Tel Aviv ieri notte a Damasco, il giorno dopo un colpo di mortaio sparato dalla Siria è esploso nel Golan, presso un villaggio israeliano. Non ci sono vittime. La deflagrazione è stata udita in maniera distinta dagli abitanti. Secondo la radio militare, l'episodio avrebbe comunque un carattere "accidentale". Sarebbe da collegarsi, a suo parere, ai combattimenti in corso sul versante siriano della linea di demarcazione fra l'esercito di Bashar al Assad e le forze ribelli. All'indomani dell'accusa di aver fatto ricorso alle armi chimiche, e in particolare al gas sarin, rivolta da Carla del Ponte ai ribelli siriani, l'ex procuratore capo presso i Tribunali Onu per l'ex Jugoslavia e per il Ruanda è stata smentita dalla stessa commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite di cui fa parte. In una nota l'organismo inquirente precisa infatti che "non sono state raggiunte prove conclusive circa l'uso di armi chimiche in Siria da alcuna delle parti in conflitto". La Commissione "sta investigando su tutte le accuse di violazioni in Siria e renderà note le proprie conclusioni nel Consiglio del 3 giugno". Altrettanto hanno fatto gli Stati Uniti, puntualizzando di "non disporre d'informazioni" sul fatto che "i ribelli siriani siano in grado o intendano usare il sarin". Della questione discuterà domani il segretario di Stato americano John Kerry, alla sua prima missione a Mosca, con il presidente russo Vladimir Putin: Kerry, è stato anticipato, cercherà una "prova" dell'impegno del Cremlino nella ricerca di una soluzione politica alla crisi. Anche la Nato è al corrente del "probabile utilizzo" di armi chimiche nel conflitto siriano, ma "non siamo nelle condizioni di dire chi le abbia usate", ha aggiunto nella conferenza stampa mensile a Bruxelles, il segretario generale Anders Fogh Rasmussen. "E' della massima importanza che agli ispettori dell'Onu sia accordato un accesso libero e totale affinché accertino cosa è realmente accaduto". Ma "è deplorevole - ha aggiunto - che le autorità siriane abbiamo rifiutato tale accesso". La posizione di Israele. Dopo i due raid aerei in territorio siriano nel giro di appena 48 ore, Israele cerca di placare il regime di Bashar al Assad, chiarendo che suo unico obiettivo rimangono le milizie sciite libanesi di Hezbollah, cui sarebbero stati destinati i missili distrutti nei bombardamenti, e non Damasco. Lo Stato ebraico avrebbe inoltre fatto pervenire allo stesso Assad, tramite i canali diplomatici, un messaggio segreto nel quale chiarisce di non avere la minima intenzione di interferire nel conflitto tra lealisti e ribelli. Almeno pubblicamente, però, la Siria ha manifestato di non considerare sufficienti tali precisazioni. La reazione siriana. Fonti governative riservate avevano anzi ribadito che ci sarebbe stata una "risposta all'aggressione" subita, non necessariamente a breve termine, anche perché in questo momento "gli israeliani sono in stato di massima allerta". Damasco intende pertanto "aspettare", ma una reazione a suo dire ci sarà comunque. Il colpo di mortaio di oggi potrebbe non essere accindentale. Ma non ci sono conferme ufficiali. Dal canto suo il vice capo dello stato maggiore interforze iraniano, generale Masoud Jazayeri, ha respinto le accuse d'Israele, sostenendo che le armi prese di mira, quali che fossero e a chiunque fossero indirizzate, non provenivano da Teheran, del cui aiuto la Siria "non ha bisogno". Vittime. Sono state identificate 169 vittime, tra cui 34 donne e 19 minori, del duplice massacro compiuto in Siria tra il 2 e il 3 maggio scorsi nella regione costiera di Banias e attribuito alle milizie lealiste, ha riferito il Centro per la documentazione delle violazioni in Siria. Il Vdc (vdc-sy.info) pubblica in inglese e in arabo una lista dettagliata, con le generalità complete di ogni vittima, degli uccisi il 2 maggio a Bayda e il 3 maggio a Ras an Nabaa, quartiere di Banias. In entrambi i casi, le vittime sono registrate come "civili". Nell'elenco il Vdc distingue tra "civili" e "non civili", dove questi ultimi sono i ribelli. Dei 169 civili uccisi in queste due località a maggioranza sunnita, 79 sono stati "giustiziati" a Bayda, sobborgo a sud-est di Banias il 2 maggio. Tra loro risultano nove donne e otto minori (neonati, bambini, adolescenti). Altri 94 sono stati uccisi l'indomani a Ras an Nabaa, quartiere meridionale di Banias. Qui sono cadute 25 donne e 11 minori. Le tv del regime. La tv di Stato siriana ha annunciato che a breve la cittadina di Qusayr, situata nella Siria centrale, tra Homs e il confine col Libano, sarà conquistata dall'esercito governativo e sarà "ripulita dalla presenza di terroristi". Dal canto loro, i residenti che a Qusayr resistono armati affermano - con video pubblicati su Internet - che le forze del presidente Bashar al Assad sostenute dai miliziani libanesi di Hezbollah, bombardano la città con bombe incendiarie. (06 maggio 2013) __________ Repubblica Istat: "Ripresa economica dal 2014" Ma la disoccupazione aumenterà Le previsioni macroeconomiche dell'Istituto di statistica mostrano un quadro più fosco di quello dipinto dal governo e dalla Ue: l'anno prossimo il tasso di senza lavoro salirà al 12,3%, quest'anno Pil in calo dell'1,4% MILANO - La recessione finirà nel 2013, ma gli strascichi della crisi economica si sentiranno per tutto l'anno prossimo: se l'economia tornerà a crescere (+0,7% secondo le stime dell'Istat), la disoccupazione non accennerà a diminuire, anzi aumenterà fino al 12,3%. Sono le previsioni macroeconomiche dell'istituto nazionale di Statistica secondo cui alla fine del 2013 il Pil calerà dell'1,4%, mentre l'anno prossimo - con il traino della domanda interna - crescerà dello 0,7%. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, invece, continueranno a manifestarsi "segnali di debolezza" con un "rilevante" incremento del tasso di disoccupazione all'11,9% (+1,2 punti percentuali rispetto al 2012) fino a raggiungere il 12,3% l'anno prossimo. Numeri, quelli dell'Istat, che divergono, non poco, dalle previsione del governo e che - soprattutto mostrano un quadro più fosco di quello dipinto dalla Ue. Secondo le ultime stime dell'esecutivo, infatti, il Pil dovrebbe calare dell'1,3% quest'anno (in linea con con la Ue, mentre per Moody's scenderà dell'1,8%), ma crescere dell'1,3% nel 2014 (le previsioni di Bruxelles sono invece le stesse dell'Istat). Sul fronte del lavoro il divario resta ampio: per Palazzo Chigi il tasso dovrebbe muoversi dall'11,6% di quest'anno all'11,8% del prossimo, mentre per la Ue salirà dall'11,8% al 12,2%. Analizzando le differenze tra l'attuale quadro di previsione e quello presentato dall'Istat a novembre 2012, il tasso di crescita del Pil italiano è stato rivisto al ribasso per nove decimi di punto nel 2013. Tale differenza è in parte dovuta alle nuove ipotesi sul commercio mondiale e alla revisione delle serie di contabilità nazionale e per la parte restante a una contrazione maggiore di quanto inizialmente atteso dei consumi privati. Nel complesso, precisa l'Istituto, le previsioni attuali rientrano all'interno dell'intervallo di confidenza delle previsioni presentate a novembre 2012. A condizionare l'economia sarà soprattutto il calo della spesa delle famiglie che a causa della contrazione dei redditi disponibili, quest'anno, diminuirà dell'1,6% con un moderato aumento dello 0,4% l'anno prossimo. "Il pagamento dei debiti delle amministrazioni pubbliche verso i creditori privati può avere moderati effetti espansivi nel 2014". Lo afferma l'Istat nelle Prospettive per l'economia italiana nel 20132014, aggiungendo che "in particolare, l'immissione di liquidità nel sistema economico, potrebbe sostenere consumi e investimenti privati, contribuendo a migliorare le aspettative di famiglie e imprese sulle loro condizioni economiche". (06 maggio 2013) _________ La stampa EDITORIALI 07/05/2013 Andreotti, gli storici si divideranno LUIGI LA SPINA Come al solito, è stato Napolitano a indicare la strada sulla quale si dovevano incamminare i commenti: bisogna riconoscere l’eccezionale ruolo svolto da Andreotti nelle vicende della nostra Repubblica, ma il giudizio su di lui va affidato alla storia. Così, nella scia della duplicità, peraltro simbolo di una vita che per i suoi detrattori aveva l’accezione della doppiezza, si sono indirizzate quasi tutte le dichiarazioni d’ordinanza in occasione della sua morte. Eppure, questa volta il nostro presidente-bis della Repubblica potrebbe essersi sbagliato ad affidare con tanta fiducia al supremo tribunale del tempo. Se la politica, infatti, si è ritirata nel limbo dell’imbarazzo di fronte alla sua indecifrabile personalità, anche la giustizia, almeno quella terrena, non è riuscita, dopo anni e anni di indagini, a emettere una sentenza che non avesse, appunto, il carattere dell’ambiguità e della doppiezza: per metà assoluzione e per metà condanna. È possibile quindi, anzi è molto probabile, che anche gli storici futuri si divideranno sulla sua figura e finiranno per arrendersi, pure loro, di fronte al vero incrollabile muro di ingiudicabilità che impedisce di emettere il verdetto definitivo su di lui: il mistero. L’uomo che per sessant’anni è stato sempre sul palcoscenico della vita pubblica, sempre in prima fila, sempre protagonista delle luci della politica e persino dello spettacolo, se ne è andato senza accendere neanche il più piccolo spiraglio sul retroscena di quella ribalta. Come per suggellare la sua vita nella definizione dell’uomo più misterioso della nostra Prima Repubblica e per lanciare, da accanito scommettitore alle corse quale era, l’ultima sua sfida, proprio alla storia: far breccia, finalmente, nel muro del suo mistero. L’imbarazzo della politica d’oggi nei confronti di Andreotti non deriva, però, solo dall’indecifrabilità dello statista romano, ma da un sottile legame, forse persino un po’ inquietante legame, del nostro presente a quel passato. Come se il richiamo di quella presenza non si spegnesse neanche con la sua morte e, anzi, il momento della sua scomparsa segnasse, per una beffa della cronaca di questi giorni, una coincidenza di segni che riaccende il ricordo e l’attualità della sua esperienza politica. Se Andreotti è stato l’essenza della cosiddetta «democristianità» nella storia della nostra Repubblica, è quasi banale osservare che Letta, con Alfano suo vice, sono i giovani dc a cui è affidato il rinnovamento della politica italiana, perché forse quel carattere è l’araba fenice della nazione. Meno ovvio dell’anagrafe partitica, è il metodo di governo proclamato dal neopresidente del Consiglio nel suo discorso di investitura alle Camere, la concretezza. Non è stata sempre questa la maniera con cui Andreotti ha definito il suo modo di governare gli italiani, fino a intitolare la sua storica rivista di corrente con il nome di «Concretezza», appunto? Da tutti i commentatori, poi, è stato rievocato il precedente storico delle «larghe intese» sulle quali si regge il governo Letta, il primo esperimento del genere, quello inaugurato nel ’76 proprio da Andreotti, definito della «non sfiducia» e proseguito, due anni dopo, sempre da lui a palazzo Chigi, con il ministero della solidarietà nazionale. I brividi della memoria, però, non si fermano qui, perché, purtroppo, richiamano altri ricordi, più sanguinosi. Perché quel governo con cui Andreotti ebbe la fiducia anche dei comunisti, nel marzo ’78, nacque sull’onda del rapimento di Moro e dell’uccisione dei suoi uomini di scorta come l’esecutivo Letta è stato battezzato dalla sparatoria contro i carabinieri davanti al Parlamento. Non bisogna, naturalmente, dar troppo peso a quelle che sono solo suggestioni di eredità partitiche e coincidenze di tempi molto diversi per formulare confronti, e meno che mai, previsioni del tutto ingannevoli. Ma la scomparsa dell’ultimo grande statista democristiano e i troppi chiaroscuri dei commenti di ieri una lezione utile la danno, invece. Fino a quando l’Italia non sarà capace di fare i conti con la sua storia, anche recente, di riconoscerne virtù e vizi senza sempre voler assolvere la propria parte e sempre condannare quella avversaria, ma ammettendo l’inestricabile partecipazione di tutti sia alle prime sia ai secondi, l’ombra di Andreotti e del suo mistero continueranno a incombere sulla politica italiana. _________ La stampa 6/05/2013 - ERA ALLA GUIDA DELLA TESTATA GIORNALISTICA REGIONALE Si lancia dal sesto piano di sede Rai Si suicida il vicedirettore Petruccioli I carabinieri intervenuti all’esterno della redazione Rai in via Borgo Sant’Angelo 23 Una giornata di lutto per le redazioni del giornalismo che perdono in modo drammatico uno dei «papà del Televideo», primo servizio Teletext in Italia. Paolo Petruccioli, 57 anni, vicedirettore della Testata giornalistica regionale della Rai, oggi si è suicidato lanciandosi da una finestra degli uffici Rai di Borgo Sant’Angelo a Roma. Prima di suicidarsi, Petruccioli ha spedito l’ultima mail alla moglie, annunciando le sue intenzioni. La donna ha tentato di fare il possibile per evitare il tragico gesto. Ma era troppo tardi. Dietro il gesto, si ipotizza, potrebbe esserci il rapporto ormai in crisi con la moglie. Negli ultimi tempi - raccontano gli amici - si stavano separando e i litigi ormai si susseguivano giorno dopo giorno. Secondo quanto accertato dagli investigatori, i quali hanno sentito colleghi ed amici del giornalista, una causa del gesto potrebbe essere proprio il non più idilliaco rapporto con la coniuge. Quest’ultima, destinataria dell’ultima mail scritta da Petruccioli, avrebbe tentato di tutto per evitare la tragedia. L’attuale vice direttore del TgR del Lazio lavorava alla Rai da trent’anni, dal 1982, fin da quando aveva 26 anni: con il suo lavoro aveva contribuito, in passato, alla nascita e allo sviluppo del Televideo, primo servizio di teletext in Italia. È stato vicedirettore di Rai Sport, di Rai Radio 1, delle Relazioni Esterne, di Televideo e infine della testata giornalistica regionale. Ad esprimere profondo cordoglio alla famiglia di Petruccioli e alla redazione è stata «l’Associazione stampa romana, ricordando il su percorso professionale. Ma a ricordarlo è stata anche la redazione del Giornale Radio, nella quale il giornalista aveva lavorato per cinque anni. Per il comitato di redazione del Gr Rai, Petruccioli «è stato per tutti un esempio di serietà, competenza e generosità umana e professionale. Noi del Giornale Radio lo ricordiamo con profondo affetto e abbracciamo idealmente tutta la famiglia di Paolo». Stesse parole per l’esecutivo `Usigrai´, che ha espresso in una nota sgomento per la notizia della morte del vice direttore della Tgr. Ricorderemo sempre il collega serio, mite, rigoroso. A parlare di «giornata nera per il giornalismo romano» è stata anche la Federazione nazionale della stampa. __________ La stampa POLITICA 06/05/2013 - IL CASO Cittadinanza, l’appello dei vescovi “Un diritto che va riconosciuto a tutti” Il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Angelo Bagnasco ALESSANDRA PIERACCI «La cittadinanza è uno dei diritti umani che certamente deve essere riconosciuto anche alle persone che approdano sul nostro suolo, individuando quelle condizioni di equità e giustizia che sono naturalmente indispensabili per tutte le leggi. Tutto questa resta comunque a indicare che questo diritto deve essere prima o poi, in un modo nell’altro, nel modo più equo riconosciuto. Soprattutto oggi che la globalizzazione e quindi i flussi migratori delle persone sono sempre più un fenomeno evidente. Le forme ius soli, iius sanguinis o altre modalità devono essere valutate bene dal mondo della politica per scegliere la cosa più equa rispetto al bene generale». Lo ha detto il presidente della Cei Angelo Bagnasco. Ieri, il ministro Cecile Kyenge aveva indicato come prioritario un intervento sulla cittadinanza, provocando una levata di scudi dal Pdl. Il premier Letta continua a mostrarsi prudente: «Il tema mi sta a cuore, ma so che alcune di queste materie sono fuori dal discorso programmatico e so che su questi temi occorre che ci siano delle discussioni e dei dibattiti e non e’ detto che si possano trovare delle intese. Stessa cosa per il reato di immigrazione clandestina. Vedremo se riusciremo a trovare un’ intesa’». Oggi la Lega è tornata a chiedere l’abolizione del ministero per l’Integrazione, mentre il Pdl ha definitivamente affossato la proposta di Kyenge. «Qualcuno dovrebbe spiegare al ministro Kyenge che la cittadinanza ai figli di immigrati, in qualsiasi forma essa possa arrivare, non interessa a nessuno. Per gli immigrati non è certo l’unico problema a cui guardare. Il lavoro, la casa, la salute e tanto altro angoscia la vita di uno straniero in Italia, come peraltro di tutti gli italiani» ha detto Souad Sbai, ex parlamentare del Pdl, giornalista e scrittrice di origine marocchina. Segnali di apertura da Renata Polverini. «Coerentemente con il mio impegno passato, sosterrò convintamente la battaglia del Ministro Cecile Kyenge sullo ius soli. È un tema che bisogna affrontare». Favorevole, invece, Vincenzo Spadafora, presidente dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza: «Oggi in Italia quasi un quinto dei bambini nasce da almeno un genitore straniero e quasi un milione di ragazzi di origine straniera frequenta le nostre scuole, ovvero l’8,5% della popolazione scolastica. È una realtà della nostra società con cui dobbiamo fare i conti, una questione che la politica dovrebbe affrontare mettendo da parte ogni possibile velo ideologico. Se è vero che la capacità della politica è quella di interpretare i bisogni della società, un passo avanti sul diritto di cittadinanza non è più rinviabile». ________ La stampa POLITICA 06/05/2013 Letta a Milano rilancia l’Expo: “Da follia visionaria a prioritò” “La mafia resterà fuori dai lavori” Sette anni fa «era una follia visionaria, un sogno», nel 2015 l’obiettivo del governo è far diventare l’Expo «un grandissimo successo». L’esposizione universale milanese è «una vera e reale priorità» per il presidente del Consiglio Enrico Letta, anche perché «il suo successo è una delle cartine di tornasole attorno al quale si valuterà la riuscita di questo governo». È per questo che si farà carico «in prima persona di trovare le soluzioni per superare eventuali ostacoli», è per questo che dalle promesse è passato in fretta ai fatti, visto che «sarà uno snodo per agganciare una ripresa per il nostro Paese». Il primo atto concreto del governo è quindi la nomina dell’ad di Expo Spa Giuseppe Sala come commissario unico dell’evento, con la firma del decreto avvenuta a Milano assieme ai quattro soci istituzionali, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il governatore lombardo Roberto Maroni, il presidente della Provincia milanese Guido Podestà, e il presidente della Camera di commercio Carlo Sangalli. Assieme a Letta ci sono i ministri Maurizio Lupi (Infrastrutture), Nunzia De Girolamo (Politiche agricole) e Massimo Bray (Turismo), a capo dei dicasteri che saranno coinvolti nell’evento, oltre al sottosegretario con la delega all’Expo Maurizio Martina. Ci sono quindi rappresentanti del centrodestra e del centrosinistra, tecnici e politici in puro spirito larghe intese in quella che Letta chiama «la squadra Italia», e che il premier intende allargare anche a «tutti coloro che hanno avuto un ruolo in questi anni nella nascita di Expò’, come l’ex premier Romano Prodi. Se Expo «rappresenta veramente il cuore delle possibilità di ripresa» del Paese, l ossessione del governo sarà evitare l’infiltrazione di qualsiasi forma di illegalità: «La criminalità e le mafie non pensino che l’Expo sia un’occasione di avere mano libera. Avremo una vigilanza doppia, tripla, quadrupla, saremo duri e inflessibili. Nessuno attorno a questa vicenda può pensare di fare il furbo e infilarsi e usare questa grandissima occasione per attività illecite e illegali». Da affrontare e risolvere in meno di due anni ci sono ancora non poche questioni, dalle opere da completare ai fondi da trovare, compresa la possibilità di una deroga al patto di stabilità, fino ai grandi Paesi come gli Stati Uniti ancora da coinvolgere. Letta è ben consapevole che «non tutti gli Expo del passato sono stati dei successi», ma «c’è una fortuna in questa vicenda: c’è una scadenza, e per noi italiani quando c’è una scadenza è sempre meglio. Faremo del nostro meglio perché le scadenze vengano rispettate». Il governo nominerà un commissario per i rapporti con il Bie e Giuseppe Sala per primo ha voluto sottolineare che la sua “promozione” non significa che ci sarà «un uomo solo al comando», anche perché «andiamo verso un ultimo miglio lungo, che durerà due anni, ma che siamo consapevoli non sarà scevro di polemiche e di difficoltà. Ma i conti si faranno alla fine». Soddisfatti anche il sindaco di Milano Giuliano Pisapia («dagli impegni a parole si passa ai fatti»), e il governatore lombardo Roberto Maroni: «Oggi si volta pagina per la realizzazione delle infrastrutture. Siamo ottimisti, c’é una scadenza e la rispetteremo». _________ La stampa ESTERI 06/05/2013 - LA PROTESTA Libia, le milizie assediano i ministeri: “Avanti fino alle dimissioni di Zeidan” Tripoli, miliziani circondano ministeri Cresce la tensione a Tripoli all’indomani dell’approvazione della legge che estromette gli ex fedelissimi di Gheddafi da tutti gli incarichi pubblici Forti della vittoria ottenuta con l’approvazione della legge per l’esclusione dalla vita politica degli ex dignitari di Muammar Gheddafi, i miliziani libici che da qualche giorno tengono in assedio alcuni ministeri di Tripoli, esigono adesso le dimissioni del gabinetto guidato dal primo ministro Ali Zeidan. “Siamo determinati a continuare il nostro movimento fino alle dimissioni di Ali Zeidan”, ha detto il portavoce del gruppo armato, Oussama Kaabar, alla France Presse. La legge contro gli ex collaboratori del regime è stata approvata ieri dal Parlamento (Cgn - Congresso generale nazionale) con 164 voti a favore e 4 contrari. Deve essere ancora ratificata dalla Commissione giuridica dell’organo parlamentare. La legge esclude dal suo ufficio il presidente del Cgn, Mohamed alMegaryef, che era stato ambasciatore in India sotto il regime del Colonnello, negli anni Ottanta. Ma rischia di escludere almeno quattro ministri del governo di Zeidan e una quindicina di deputati. Gli uomini armati, affiancati da veicoli con mitragliatrici a bordo e cannoni antiaereo, continuano a circondare i ministeri della Giustizia e degli Affari esteri. “L’adozione della legge sull’esclusione politica costituisce un passo importante sulla buona strada. Ma dobbiamo ancora esaminare alcuni punti di questa legge - ha dichiarato Kaabar, membro del “Coordinamento per l’esclusione politica” e vicepresidente del Consiglio superiore dei Rivoluzionari libici - d’altro canto siamo decisi a far cadere il governo di Ali Zeidan”, ha detto Kaabar, accusando il premier libico di “provocare i rivoluzionari (Thowars)”, i gruppi di ex ribelli che hanno combattuto contro il regime di Gheddafi. Il governo di Ali Zeidan aveva lanciato alcuni giorni fa una campagna per evacuare dalla capitale le “milizie di fuorilegge”. Ieri, inoltre, lo stesso Zeidan ha accusato gli organizzatori delle proteste di avere «ambizioni politiche personali».