Sir IN MORTE DI ANDREOTTI "Figlio di una grande storia" Lo

annuncio pubblicitario
Sir
IN MORTE DI ANDREOTTI
"Figlio di una grande storia"
Lo storico Francesco Malgeri ripercorre la figura del senatore a vita scomparso a Roma all'età di 94 anni,
ricordandone innanzitutto la sua dimensione di politico della prima Repubblica, con la quale si è quasi
identificato. E precisa: "Generalmente nei mass media l'esperienza della Dc viene presentata e giudicata
con un senso quasi di 'fastidio', se non come qualcosa da respingere. Invece io penso che si tratti di un
grande momento della storia politica nazionale"
Luigi Crimella
Poco dopo le ore 12 di oggi si è spento a Roma il senatore a vita Giulio Andreotti. Aveva 94 anni. La notizia
ha fatto subito il giro dei notiziari televisivi, radiofonici e su internet. Andreotti ha accompagnato sempre
con ruoli di primo piano oltre 50 anni di storia italiana e anche negli ultimi anni, pur anziano, non ha
mancato di far sentire la sua voce e di offrire i suoi arguti giudizi che non mancavano ogni volta di stupire.
Sulla sua figura il Sir ha rivolto alcune domande allo storico, già docente all’Università Sapienza di Roma,
Francesco Malgeri, che ha retto la cattedra di storia contemporanea e che oggi all’interno dell’“Istituto Luigi
Sturzo” fa parte del Comitato che cura l’“Archivio Giulio Andreotti”.
Anzitutto, quale valutazione dà “a caldo” della figura di Giulio Andreotti, nel giorno della sua scomparsa?
“Mi pare si possa dire che ha segnato profondamente la storia italiana della cosiddetta ‘prima Repubblica’,
nel senso che si tratta di una persona, di un politico di primo piano che ha iniziato con De Gasperi e che ha
concluso alla vigilia della crisi della stessa prima Repubblica. È stato infatti uno degli ultimi presidenti del
Consiglio prima del cambiamento della vita politica italiana”.
Qual è il suo tratto specifico, se ce n’è uno in particolare?
“Direi più di uno. Ha lasciato impronte importanti sia all’interno del suo partito, la Democrazia Cristiana, sia
nella vita politica nazionale. Basti pensare al suo ruolo alla guida di vari ministeri, dalla Difesa agli Esteri ad
altri. Ha sempre avuto posizioni di primo piano, anche a livello europeo e internazionale. Per lui, come per
tutti i leader, la storia è sempre da scrivere e da riscrivere. Tuttavia non c’è dubbio che siamo davanti a una
figura di grande rilievo”.
Cosa può dire dell’Andreotti “cattolico in politica”?
“È partito giovanissimo dall’Azione Cattolica e dalla Fuci, di cui è stato anche presidente nazionale negli
anni della seconda guerra mondiale. Era vicino a una figura come Giovan Battista Montini, poi Papa Paolo
VI. Nei confronti del mondo cattolico ha sempre mantenuto una posizione importante, di prestigio, e ha
sempre avuto anche all’interno della Chiesa rapporti di amicizia e collaborazione che lo hanno collocato tra
le figure di primo piano del mondo cattolico. Il suo impegno in politica nel corso dei decenni si è del resto
manifestato sotto forma di una testimonianza laicale molto precisa e stagliata”.
Qualcuno già oggi, come avvenne in passato, dà di Andreotti un giudizio quale politico “pragmatico” se non
“spregiudicato”. Lei cosa ne pensa?
“Il pragmatismo deve far parte di un politico, che è chiamato a confrontarsi con situazioni diverse e
momenti storici particolari. Andreotti certamente è stato capace di cogliere nei diversi momenti della sua
esperienza politica le spinte per scelte da fare sulla base di un’analisi del quadro generale che aveva di
fronte e che lui sapeva leggere con la sua intelligente penetrazione e arguzia da tutti riconosciute. Ad
esempio negli anni della ‘solidarietà nazionale’, benché la sua figura non sembrasse avvalorare questa
scelta, egli assunse questa posizione teorizzata da Aldo Moro, giudicandola importante per la storia del
Paese”.
Cosa ci può dire dell’“Archivio Giulio Andreotti”, che lo scomparso qualche anno fa aveva deciso di donare
all’“Istituto Luigi Sturzo”?
“Andreotti ha voluto donare gran parte della considerevole mole di appunti e carte della sua lunga vita
politica. Già molti studiosi hanno iniziato a consultare questo fondo e comincia a emergere la storia del
nostro Paese con la particolare prospettiva con cui Andreotti la guardava: quella di un vero cultore di fatti,
persone e documenti. Egli amava conservare molte cose, non soltanto i suoi appunti diretti ma anche ritagli
di giornali, estratti di testi e documenti vari, una vera e propria miniera già in qualche modo organizzata che
farà molto felici gli studiosi. Del resto, giusto dal proprio archivio Andreotti aveva tratto i suoi numerosi e
validi libri di memorie e incontri con personaggi della storia dell’ultimo mezzo secolo. Questa attività di
scrittore è forse stata un po’ trascurata, ma Andreotti è stato sicuramente un valido protagonista e insieme
storico del suo tempo. Basti pensare alla biografia di De Gasperi, che rimane uno dei testi più importanti
scritti sul grande statista trentino. Nei suoi libri emerge sempre la sua arguzia e intelligenza, di uomo
politico colto e deciso, ma anche attento a sdrammatizzare, per quanto possibile, gli eventi della storia”.
Se dovesse parlare a un gruppo di studenti universitari della figura di Andreotti oggi, come lo
presenterebbe?
“Certamente è stato un personaggio complesso, tutta la sua esperienza storica va rivisitata con calma. In
questo senso la storia farà il suo corso. Ma sulla base di quello che sappiamo e di cui abbiamo
documentazione mi sembra si tratti di una figura centrale della politica italiana, che rappresenta l’immagine
di un periodo storico-politico ricco di risultati. Generalmente nei mass media l’esperienza della Dc viene
presentata e giudicata con un senso quasi di ‘fastidio’, se non come qualcosa da respingere. Invece io penso
che si tratti di un grande momento della storia politica nazionale”.
________
Sir
SEI MILIONI DI FOLLOWERS
I tweet di Francesco
sbancano la Rete
I numeri sono assolutamente incoraggianti. La rivincita dello spagnolo e il fenomeno del latino.
Monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali: "Lo stile
comunicativo del Papa si adatta molto ai tweet. Il suo modo di comunicare è essenziale e immediato. Usa
un linguaggio diretto e molte metafore, che colpiscono chi ascolta. Parla per frasi brevi, spesso suddivise
in tre punti o tre parole, quasi fosse un metodo d'insegnamento"
Vincenzo Corrado
Hanno superato quota 6 milioni i followers del Papa se si sommano gli account nelle 9 lingue ora disponibili.
Quello principale, in inglese (@Pontifex), ne conta 2.474.133; è seguito dallo spagnolo con circa 2.256.837.
Poi vengono l’italiano (704.911), il portoghese (299.301), il francese (133.319), il tedesco (102.160), il
polacco (84.046) e l’arabo (57.387). Ma prima di questi ultimi due ci sono i “seguaci” dell’account in latino:
92.813. A fornire i dati aggiornati al Sir è monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle
comunicazioni sociali, che non nasconde la sua sorpresa per i numeri in latino. Lingua, questa, riflette mons.
Tighe, che “si sposa bene con il modo di comunicare di Papa Francesco e che aiuta a pensare con precisione
e sobrietà”.
Mons. Tighe, 6 milioni di followers è un vero e proprio boom per l’account del Papa.
“I dati dicono questo. Dal lancio dell’account, nel dicembre 2012, ad oggi, si è rilevata una crescita
continua, che ha subito un’accelerazione con l’attenzione creata dall’elezione di Papa Francesco. Molta
gente nel mondo ha scoperto l’esistenza di un profilo Twitter ufficiale del Pontefice. C’è stata la possibilità
di parlarne e, forse, è cresciuta la visibilità. Abbiamo registrato un incremento nei followers, in modo
particolare tra quelli di lingua spagnola. Ma c’era da attenderselo, viste le origini di Papa Francesco.
Potremmo dire che si è rivelata molto strategica e, in un certo senso, provvidenziale la decisione di creare
un account del Papa”.
In queste settimane è anche cresciuta la frequenza dei tweet. Il Papa dei gesti si afferma, quindi, come
efficace comunicatore della Rete?
“Il ritmo dei tweet è aumentato. Si tratta, ovviamente, di una decisione approvata dal Pontefice. Lo stile
comunicativo di Papa Francesco si adatta molto ai tweet. Il suo modo di comunicare è essenziale e
immediato. Usa un linguaggio diretto e molte metafore, che colpiscono chi ascolta. Parla per frasi brevi,
spesso suddivise in tre punti o tre parole, quasi fosse un metodo d’insegnamento: ‘Vi lascio tre parole, tre
suggerimenti, tre consigli...’. E poi c’è un dato molto importante: quando il Papa parla davanti alle folle, in
piazza San Pietro o in altri luoghi, è come se si rivolgesse a ogni singola persona. Riesce a toccare il cuore di
tutti i presenti. Ognuno sente sue le parole del Pontefice. Questo aiuta molto”.
I 140 caratteri di un tweet non sono pochi per una comunicazione efficace?
“Non sono pochi. La maggior parte dei versetti del Vangelo ne ha di meno: pensiamo alle Beatitudini, che
sono molto più brevi. Circa l’efficacia di questa forma di comunicazione mi piace ricordare, ancora una
volta, la parabola del buon seminatore: il seme cade su un terreno sassoso o in mezzo ai rovi dei pregiudizi
negativi e soffoca, ma cade anche su un terreno buono e disponibile e così porta frutto e si moltiplica. La
parola del Papa può incontrare un’accoglienza entusiastica, ma anche un rifiuto. Certamente, però, in tanti
possono sentire il Papa più vicino, possono ascoltare in silenzio una parola per loro da condividere con altri
followers. Insomma, un punto di partenza per sviluppare un dialogo profondo alla luce del Vangelo. Twitter,
in questo, è un’ottima strategia: un pensiero breve ha più possibilità di stimolare la riflessione o
incoraggiare la gente a tornare a leggere un discorso”.
Come vengono accolti i tweet del Papa? Quali risposte si riscontrano?
“Quando il Papa twitta, ci sono molte reazioni nel mondo. Le risposte sono sempre più positive. L’obiettivo
è che i tweet del Santo Padre suscitino domande tra le persone di differenti Paesi, lingue e culture. Queste
domande potranno, a loro volta, essere affrontate dai credenti e dai responsabili delle Chiese locali. La sfida
per la Chiesa nel mondo dei nuovi media è stabilire una presenza ramificata, capillare. Il Papa inizia il
dialogo, poi tocca a noi - Chiese locali, istituzioni, credenti tutti - procedere con le risposte. La presenza del
Papa su Twitter rappresenta una voce di unità e di guida. Con l’obiettivo di creare un link, stabilire un
contatto. Come spesso accade quando s’invia un sms a un amico scrivendo: ‘Ti sto pensando’. La
comunicazione è sempre tesa a creare legami. E, in particolare, per Papa Francesco è tesa a costruire ponti
con tutti, soprattutto con chi vive nelle periferie, come ha detto più volte”.
Siamo ormai alla vigilia della 47ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebra il 12 maggio
con il tema “Reti sociali: porte di verità e di fede; nuovi spazi di evangelizzazione”. Quale messaggio giunge
dalla presenza del Papa su Twitter? Può essere vista come una nuova forma di servizio al Vangelo?
“La scelta di Benedetto XVI e, ora, di Francesco di avere un profilo ufficiale del Papa è davvero coraggiosa. E
intende dare visibilità anche in Rete all’annuncio del Vangelo. Si tratta di un altro modo di condividere la
Parola con il mondo. È una presenza che può far nascere domande, suscitare un interesse per la fede, un
primo incontro con il Vangelo... Per alcuni - è chiaro - si tratta di un inizio, sostenuto da un linguaggio
d’impatto, che aiuta ad aprire la porta. È una proposta che nel contesto del mondo digitale invita alla
riflessione. Le nuove tecnologie hanno costruito un nuovo ambiente e per noi è molto importante trovare il
modo di essere presenti”.
__________
Corriere della sera
LA TESTIMONIANZA
Lì sul suo letto vestito di blu
con il rosario nero tra le mani
Nella stanza di Andreotti crocifisso e ricordi
Ha il solito doppiopetto blu presidenziale. E se non fosse per il rosario nero che gli avvolge le mani
intrecciate sul grembo, e perché è sdraiato sul letto vestito di tutto punto con gli occhi chiusi, potrebbe
quasi sembrare il Giulio Andreotti di sempre. Ma il piccolo presepe vivente che lo circonda, stavolta, non è
nella sua stanza da letto per ascoltare le battute al curaro, o le perle di buonsenso romano-papalino. Le tre
bombole a ossigeno accostate alla parete raccontano giorni di sofferenza. E il senatore a vita Emilio
Colombo, vecchio alleato e avversario in decine di congressi democristiani e di quasi altrettanti governi, si
fa un segno della croce che non è solo un saluto a lui ma il commiato a un'epoca della storia d'Italia.
In questa stanza nella penombra al quarto piano di corso Vittorio Emanuele che si affaccia sul Tevere e sul
Vaticano, sorvegliato e protetto da un grande crocifisso di porcellana appeso sopra al letto, è morto ieri
mattina, poco dopo mezzogiorno, l'uomo-simbolo della Prima Repubblica. In quel momento in casa c'erano
soltanto Gloria, la badante filippina che lo assisteva con altri due connazionali, e Giancarlo Buttarelli, il capo
della scorta con lui da oltre trentacinque anni. C'era anche la signora Livia, ma per fortuna non si è accorta
di nulla. E anche adesso, alle cinque del pomeriggio, mentre un silenzioso viavai di amici e mondi
tramontati viene accompagnato a salutarlo per l'ultima volta, la moglie è in cucina in compagnia della
cognata Antonella Danese. Forse non capisce quanto è successo. I figli vogliono che non si accorga che suo
marito Giulio se n'è andato a novantaquattro anni.
Già, ci sono anche gli Andreotti: la tribù più discreta e invisibile del potere romano. Per il momento Stefano
e Serena, due dei quattro figli. Gli altri, Lamberto, presidente della multinazionale Meyers Squibb, arriverà
da New York in serata, e la figlia maggiore Marilena è partita da Torino, dove vive. In compenso ci sono
alcuni dei nipoti, Giulio Andreotti e Giulia Ravaglioli, figlio il primo di Stefano e l'altra di Serena e del
giornalista della Rai Marco Ravaglioli. Ci sono anche Marco e Luca Danese, i cugini. E sono loro, tutti
insieme, ad accogliere ex ambasciatori e capi di gabinetto, alti burocrati e parlamentari figli della diaspora
scudocrociata; e naturalmente sacerdoti. Il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, si è offerto di
celebrare la messa. E anche il suo predecessore, il decano del Sacro Collegio, Angelo Sodano.
«E il cardinale Fiorenzo Angelini non viene?», si chiedono nel salottino con le cineserie e le scatoline
d'argento allineate in ordine su un tavolino rotondo col drappo di velluto marrone. No, non ce la fa. E
nemmeno il cardinale Achille Silvestrini. Sono molto vecchi anche loro, reduci di mille battaglie e pezzi
d'antiquariato del «partito romano» italo-vaticano. Ci sono invece il vescovo Matteo Zuppi, parroco di
Santa Maria in Trastevere, la chiesa della comunità di Sant'Egidio, e padre Luigi Venturi, il parroco di San
Giovan Battista dei Fiorentini, la chiesa di quartiere dove oggi alle 17 si celebreranno i funerali in forma
privata: perché la famiglia non vuole una cerimonia di Stato. Parlano tutti del «Presidente», come
continuano a chiamarlo ricordando pagine ormai ingiallite di storia repubblicana. E la famiglia, con
discrezione e garbo, ringrazia e stringe mani. Ma sempre un po' appartata, cordiale e insieme vigile. Come
se concedesse per l'ultima volta il padre e il nonno a quelle persone che lo hanno visto più di loro.
Non è una veglia di potenti, ma di vecchi amici. Sì, sembra che Andreotti avesse anche amici. Non piange
nessuno, perché probabilmente il «divo Giulio», o «Belzebù», come lo chiamano tuttora gli avversari più
irriducibili, non approverebbe. Anche Pier Ferdinando Casini e Gianni Letta sono confusi fra l'avvocato
Barone e Luigi Turchi e il figlio Franz. Parlano come se tutto fosse uguale a prima. Le segretarie, Daniela e
Patrizia, raccontano che lo studio a palazzo Giustiniani ormai era un guscio vuoto da mesi; e che da febbraio
i figli avevano deciso di restituirlo al Senato per non tenere occupate le stanze in nome di una finzione. È
passato a salutare anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Sono arrivati appena si è saputa la notizia
Franco e Sandra Carraro. C'è la signora Santarelli, figlia di un amico storico dell'ex presidente. E figli e nipoti
osservano, rispondono alle domande, sorridono perfino, con gentilezza.
Quando Stefano Andreotti presenta a un Gianni Letta affranto il figlio, dicendogli: «Ecco Giulio Andreotti»,
c'è un attimo di sorpresa. Poi spunta un ragazzo alto, con i capelli un po' lunghi, in giacca blu e cravatta, che
ha il nome del nonno e fa l'avvocato. L'altro, quello «vero», è sul letto con la coperta verde di lana a fiori e
la foto di madre Teresa di Calcutta sul comodino, nella stanza a metà corridoio: quella annunciata dalla
mensola di vetro dove sono esposti una parte dei campanelli d'argento che il senatore a vita ha collezionato
per gran parte della sua lunga vita. Oltre la porta a due ante, in questo appartamento bello ma senza lusso,
riposa quello che per decenni è stato considerato il sopravvissuto per antonomasia. Al punto che gli piaceva
dire con civetteria: «Io, in fondo, sono postumo di me stesso». Perché lui continuava a vivere mentre
finivano la Guerra fredda, la Prima e la Seconda Repubblica, e morivano o si dimettevano i Papi.
Non l'avevano schiantato né i processi per mafia, dai quali era uscito assolto e, per alcuni reati, solo
prescritto, né un potere che aveva regole, riferimenti e protagonisti lontani ormai anni luce da lui. Finché
era esistito un modo diviso fra Occidente e comunismo, Andreotti era parso eterno. Era il «suo» mondo, nel
quale si muoveva con la leggiadria e il cinismo di chi ne conosceva non solo le apparenze, ma anche il
sottosuolo. Aveva presieduto i suoi primi governi nel 1972, alleato con i liberali. Il terzo era stato nel 1976,
appoggiato dal Pci. E l'ultimo, il settimo, nel 1989, a capo di un'alleanza con i socialisti di Bettino Craxi:
l'ultimo della Prima Repubblica. Obiettivo: preservare la continuità dello Stato democristiano e un
progresso senza avventure; e garantire il Vaticano, l'Europa e gli Usa come stelle polari. La Dc era solo uno
strumento per governare. In realtà, la forza e il potere andreottiani erano fuori, non dentro al partito.
La sua base elettorale erano la Ciociaria, la burocrazia ministeriale romana, i conventi di suore, le
congregazioni religiose. Come disse una volta lo scomparso capo dello Stato, Francesco Cossiga, Andreotti
era «il popolo del Papa dentro la Dc». Oppure «un cardinale esterno», nella definizione dello storico Andrea
Riccardi. Dei democristiani, di cui era un esemplare unico e dunque atipico, diffidava: forse perché aveva
visto come erano stati rapidi a giubilare il suo mentore politico, Alcide De Gasperi, alla fine del centrismo e
all'inizio degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Non per nulla non aveva mai ricoperto cariche di partito,
tranne quella di capogruppo alla Camera. E la sua corrente era piccola, combattiva e così variegata, per
usare un eufemismo, che gli altri la chiamavano con una punta di razzismo «le truppe di colore»
andreottiane.
Erano la sua piccola massa di manovra per ottenere ministeri; per garantirsi una longevità governativa
dovuta non tanto alle sue strategie, quanto al ruolo di conservatore del sistema e conoscitore della
macchina dello Stato. Eppure, quando la Dc finì insieme con la Guerra fredda, lui ne rimase un cultore
nostalgico: capiva che l'archiviazione dell'unità politica dei cattolici era anche quella dei suoi punti cardinali
e della sua cultura politica. Dopo la diaspora scudocrociata, a piazza del Gesù, sede storica della Dc a Roma,
non voleva andare. Diceva che gli sembrava un condominio litigioso, con un partitino diverso a ogni piano.
Da anni non era più un burattinaio. Anzi, rischiava di essere usato per operazioni politiche che non
condivideva. Accadde nel 2006, quando Silvio Berlusconi lo candidò alla presidenza del Senato contro un
altro ex democristiano, Franco Marini, scelto dal centrosinistra. Si illuse di essere «una goccia d'olio» in
grado di sbloccare la situazione.
Ma fu la sua ultima illusione di potere, prima di un lungo oblìo dal quale è uscito solo ieri poco dopo
mezzogiorno; e prima di essere di nuovo usato da partiti nei quali non si riconosce, come è accaduto dopo
la notizia della sua morte. Il piccolo mondo antico che ieri si è ritrovato nel suo appartamento si è
mimetizzato e adattato ai nuovi potenti. Ma sapeva che l'uomo adagiato in doppiopetto blu nella stanza
accanto, e poi nella bara all'ingresso di casa, era la loro autobiografia: lo specchio nel quale per decenni la
maggioranza silenziosa e moderata dell'Italia si era riflessa. Si tratta di un'Italia che ha rifiutato fino
all'ultimo la sua scomparsa, perpetuando il mito dell'eternità andreottiana per non ammettere di essere
postuma anche lei di se stessa. Ma «c'est fini», è finita, confessava a se stesso da tempo il suo segretario a
palazzo Giustiniani, Salvatore Ruggieri.
E stavolta è finita davvero. Andreotti sarà ricordato come quello della battuta sul «potere che logora chi
non ce l'ha»: un monumento lessicale a un potere senza alternativa, cresciuto negli ultimi anni della Dc; e
pagato a caro prezzo quando quella stagione si è chiusa. Peccato che pochi ne ricordino un'altra, di molti
anni prima. Chiesero all'allora ministro di qualcosa che avrebbe fatto se avesse avuto il potere assoluto.
Andreotti ci pensò un secondo. Poi rispose: «Sicuramente qualche sciocchezza». Era una lezione di
democrazia che molti, a cominciare da lui, hanno finito per rimuovere.
Massimo Franco
7 maggio 2013 | 8:22
_________
Corriere della sera
SECONDO LA SUA SEGRETARIA NON CI SARANNO FUNERALI DI STATO NÉ CAMERA ARDENTE
È morto Giulio Andreotti, aveva 94 anni
È deceduto oggi alle 12 e 25 nella sua abitazione romana
Giulio Andreotti è morto alle 12 e 25 nella sua abitazione romana. Lo hanno reso noto i suoi familiari. Aveva
compiuto 94 anni il 14 gennaio scorso. L'ex senatore a vita era stato ricoverato il 3 maggio dell'anno scorso
al Policlinico Gemelli di Roma per una crisi respiratoria. Da allora, dimesso dall'ospedale, le sue condizioni
erano migliorate ma non si era mai ripreso completamente.
CASA - Davanti al portone del civico 326 di Corso Vittorio Emanuele, la casa di Andreotti dove è stata
allestita la camera ardente, si è riunita una folla di giornalisti, cameramen e fotografi oltre a qualche curioso
che riprende la scena con il cellulare o la videocamera. A portare il cordoglio alla famiglia è giunto l'ex
ministro e sottosegretario, amico da sempre, Vincenzo Scotti e Giulia Bongiorno, storico avvocato del
senatore a vita, visibilmente commossa all'uscita.
LA MESSA - Per Andreotti niente camera ardente al Senato ma nella sua amatissima casa-studio di Corso
Vittorio e funerali privati presso la Chiesa di san Giovanni dei Fiorentini a Roma, a pochi passi dalla propria
abitazione. «Andreotti veniva a messa tutti i giorni eccetto da quando si è ammalato, circa un anno fa. Da
allora ero io ad andare a casa sua per portargli la comunione», racconta don Luigi Veturi, parroco di San
Giovanni Battista dei Fiorentini. «È da maggio dell'anno scorso - ricorda ancora il sacerdote - che ha avuto
un calo continuo. Poi nelle ultime settimane il peggioramento è stato netto».
I FUNERALI - Le esequie saranno celebrate domani alle 17. Niente funerali di Stato dunque, come anticipato
da Patrizia Chilelli, storica segretaria del presidente, al suo fianco dal 1989: «Le esequie saranno celebrate
nella sua parrocchia con gli stretti familiari. Era un grande uomo che mi ha insegnato tanto. Solo chi gli è
stato davvero a fianco ha potuto capire l'uomo, non solo il politico». Numerose le reazioni dopo la
diffusione della notizia. La prima dichiarazione è dell'ex sodale dc, Cirino Pomicino: «Lo stato d'animo è
quello di chi ha perduto un amico e un maestro di vita e di politica, nei prossimi anni si vedrà cosa Giulio
Andreotti ha dato al Paese». Il Coni, intanto, ha dato disposizione a tutte le federazioni sportive (quindi,
Figc compresa) di osservare un minuto di silenzio in onore del sette volte premier.
Giulio Andreotti, l'uomo
LA CARRIERA POLITICA - Nato a Roma il 14 gennaio 1919, sposato con la signora Livia, padre di 4 figli,
Andreotti è stato tra gli uomini più importanti della Democrazia Cristiana. Presidente del Consiglio per 7
volte, senatore a vita, ha ricoperto numerosi incarichi di governo: 8 volte ministro della Difesa, 5 volte
ministro degli Esteri, 3 volte ministro delle Partecipazioni statali, 2 volte ministro delle Finanze, ministro del
Bilancio e ministro dell'Industria, una volta ministro del Tesoro, ministro dell'Interno (il più giovane della
storia repubblicana), ministro dei Beni culturali e ministro delle Politiche comunitarie. Figura controversa,
secondo i giudici ebbe rapporti molto ravvicinati (concreta collaborazione) con la mafia almeno fino al
1980.
ALL'ESTERO - Dalla Gran Bretagna alla Spagna scomparsa di Andreotti irrompe come «breaking news» sui
media internazionali, rimbalzando nella fascia dedicata alle «urgentissime» sui siti della britannica Bbc, dei
quotidiani spagnoli El Mundo e El Pais e, oltralpe, della France tv che lo descrive come «figura emblematica
della Democrazia cristiana». In Francia la notizia è in evidenza anche su Le Figaro mentre in Germania
irrompe sulla prima pagina del tabloid Bild.
Nino Luca
@Nino_Luca
6 maggio 2013 | 20:48
_________
Corriere della sera
IL NODO FISCALE
Imu, pressing di Bruxelles sull'Italia
«Entro metà mese i conti aggiornati»
Vanno compensati abolizione Imu e rinvio aumento dell'Iva
Passano i giorni ma il nodo dell'Imu (abolizione, rinvio, soppressione, restituzione?) non si scioglie, anzi si
aggroviglia un po' di più. Lunedì è entrata in campo anche l'Unione europea: Bruxelles, ha scritto l'agenzia
Ansa citando fonti interne alla Commissione Ue, si aspetta entro metà mese che il governo italiano
presieduto da Enrico Letta presenti il programma di stabilità aggiornato, con le compensazioni
dell'abolizione dell'Imu e del rinvio dell'aumento dell'Iva. D'altronde sul fronte finanziario il governo deve
subito mettere in campo alcune misure. Oltre a Imu e Iva, ci sono anche da trovare le risorse per la Cassa
integrazione in deroga. In tutto si tratta di un pacchetto da circa 6 miliardi di euro, che dovrebbe prendere
la forma del decreto legge.
Letta: con la Germania non è un match di calcio
LAVORO - Ma non c'è solo il fronte conti pubblici, c'è anche quello dell'emergenza lavoro, come hanno
ricordato sia il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi («Rischi di proteste distruttive a causa
della disoccupazione») sia lo stesso Enrico Letta nell'incontro con il premier spagnolo Mariano Rajoy, in cui
si è deciso di creare una task force congiunta italo-iberica per il lavoro: «Quello della disoccupazione
giovanile è il tema centrale. La lotta alla disoccupazione deve essere l'ossessione principale dell'Europa».
Letta ha voluto anche rassicurare l'Europa sul fatto che l'Italia assolverà ai suoi obblighi.
ENTRATE - Ma la situazione si presenta comunque incerta: segnale di queste incertezze è il dato sulle
entrate tributarie nel primo trimestre: ammontano a 87,7 miliardi di euro con una flessione dello 0,3%
rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Lo ha comunicato il ministero dell'Economia
commentando però che nonostante la crisi «il gettito tiene». Tra le ipotesi che si cerca di verificare in
queste ore, anche la possibilità di chiedere più tempo per il pareggio strutturale. Ma da Bruxelles arrivano
segnali non positivi rispetto a questa ipotesi. «Per l'Italia raggiungere il pareggio di bilancio strutturale è
molto importante alla luce del debito molto elevato del Paese», ha detto il portavoce del commissario Olli
Rehn. «L'abrogazione della procedura per deficit eccessivo richiede un deficit sotto il 3% per quest'anno e
per il prossimo, quindi guardiamo soprattutto a questo e insistiamo che il programma di consolidamento
dei conti sia accompagnato dalle riforme essenziali per rafforzare l'economia italiana», ha aggiunto il
portavoce di Rehn.
Redazione Online
6 maggio 2013 | 22:40
_________
Corriere della sera
LA CRISI TRA LE DUE COREE
Nord Corea, rimossi i missili Musadan
dalle rampe di lancio nell'est del Paese
La notizia da fonti Usa. Si placa il timore di nuovi test missilistici nello scacchiere asiatico
La Corea del Nord avrebbe rimosso dalle rampe di lancio poste sulle coste orientali i missili «Musudan»,
considerati in grado di trasportare testate nucleari. L'affermazione è attribuita dall'agenzia Reuters e dal
sito web del network americano Cnn a fonti dell'amministrazione americana. Per settimane, la possibilità
che il regime di Kim Jong-un potesse effettuare nuovi test missilistici usando questi siti aveva allarmato le
diplomazie internazionali.
NON OPERATIVI - Gli Stati Uniti, aggiunge la Reuters, non credono che i missili Musudan siano stati trasferiti
in altre basi di lancio, piuttosto in luoghi dove non sarebbero più operativi.
Redazione Online
6 maggio 2013 (modifica il 7 maggio 2013)
__________
Repubblica
Andreotti, l'amico dei Pontefici
Da Pio XII a Benedetto XVI, il rapporto con il Vaticano e i Papi decisivo nella storia privata e politica del
Divo. "Andreotti ascoltava la Santa Sede e la Santa Sede ascoltava lui", disse il cardinale Tonini. Wojtyla
lo benedisse durante la beatificazione di Padre Pio mentre era in corso il processo Pecorelli
di PAOLO RODARI
Giulio Andreotti e il Vaticano. Più che una lunga amicizia, un feeling strutturale. "Per anni ha vissuto come
fosse un segretario di Stato Vaticano permanente", disse di lui Francesco Cossiga, volendo significare che
tutto si può dire di Andreotti ma non che si muovesse senza cercare sempre e costantemente il confronto
con il Vaticano, la Chiesa, i suoi governanti. Non solo, negli anni della grande Ostpolitik verso i regimi del
blocco comunista, Andreotti faceva sul fronte laico ciò che i cardinali Casaroli e Silvestrini facevano sul
fronte ecclesiale.
"Andreotti ascoltava la Santa Sede e la Santa Sede ascoltava lui", disse in occasione dei suoi novant'anni il
cardinale Ersilio Tonini, che raccontò delle tante amicizie che Andreotti poteva vantare oltre il Tevere. "Il
suo più grande amico in Vaticano fu il cardinale Fiorenzo Angelini. Nacque a campo Marzio, nel cuore della
vecchia Roma. Forse per questo Andreotti lo sentiva particolarmente amico".
Già, la vecchia Roma. È qui che Andreotti tesse i primi rapporti coi monsignori d'oltre il Tevere. Impara a
conoscerli, a stimarli, a capire che per lui, per il suo modo d'essere, la loro amicizia era importante.
Conobbe il futuro Pio XII, allora monsignor Pacelli, in casa della sorella di quest'ultimo, Elisabetta sposata
Rossignani. Disse Andreotti: "Abitavamo vicini in via dei Prefetti. Pacelli vi portava del cioccolato per le
nipoti. E me lo offriva pure a me sul loro terrazzo. Per la verità, l'allora monsignor Eugenio mi diceva poco.
Nella zona di via dei Prefetti ero molto più interessato ai giocatori della Roma che mangiavano da sora
Emma".
L'amicizia con Pacelli continuò per anni. Per lui Pacelli, al di là delle accuse di non aver fatto abbastanza per
gli ebrei nel corso della seconda guerra mondiale, "era un sant'uomo". Disse: "Metteva un po' soggezione.
Era ieratico. Trasmetteva austerità ma anche regalità. Era insieme sacerdote e sovrano. Non credo che
amasse molto i preamboli nelle conversazioni. E poi voleva sempre risposte molto precise. Era un Papa
innovatore, seppure attaccato alla tradizione. Per lui la tradizione era una forza a cui aggrapparsi. Insieme
non amava le devianze. Una devianza che combatté con forza fu quella dei comunisti cattolici di Franco
Rodano. Un giorno la polizia fascista arrestò Rodano perché anti-fascista. Poco tempo dopo Pio XII dovette
fare un discorso rivolto agli operai. Gli scrissi: "Per favore, non parli di Rodano. È in prigione e la
considererebbe una pugnalata alle spalle". E, infatti, Pio XII, non ne parlò. Qualche giorno dopo andai col
consiglio superiore della Fuci dal Papa. Mi guardò con occhi severi e mi chiese: "Andava bene il discorso?"".
Ricordi appesi al filo della memoria. Parole che dicono quanto stretto fosse, per Andreotti, il legame con il
Vaticano. Ma più che con il Vaticano, coi Papi. Disse di lui ancora Tonini: "Assieme a Giorgio La Pira, Aldo
Moro, Luigi Gedda e altri fu tra i primi a rispondere all'appello di Pio XII rivolto ai politici: "Fatevi valere". E
quella classe di nuovi dirigenti politici si fece davvero valere nell'immediato dopo guerra".
Prima di Pacelli, Andreotti conobbe Pio XI. A dodici anni si trovò in un'udienza nell'aula concistoriale.
Raccontò: "Quando lo vidi rimasi di stucco. Gridava e si mise pure a piangere. Ero atterrito tanto che svenni
e finii dietro una tenda bianca. Piangeva perché tutti lo accusavano di aver sbagliato a fare il concordato
con Mussolini tanto che, nonostante l'accordo, i circoli cattolici erano ancora perseguitati".
Dopo Pacelli invece, Giovanni XXIII. I due s'incontrarono un giorno a Venezia. "Mi trattenne a colazione e mi
disse: "Riposati un po'. Ti faccio fare la pennichella nel letto di Pio X". E così fu", raccontò ancora lo stesso
Andreotti.
Montini, futuro Paolo VI, fu invece assistente alla Fuci, l'associazione dei giovani cattolici della quale
Andreotti fu presidente. Con Montini, dunque, egli aveva una certa familiarità. Disse: "Ricordo un discorso
al Campidoglio in cui disse che fu una provvidenza per la Chiesa la caduta dello Stato Pontificio: piovvero
critiche inverosimili".
Poi Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Il primo Andreotti non fece a tempo a conoscerlo. Wojtyla invece lo
conobbe bene. Disse: "Quando compii ottant'anni mi chiamò. Pensai fosse lo scherzo di qualcuno e invece
era lui. Mi disse: "Non dica ottanta ma dica che è entrato nel nono decennio di vita"".
Poi Joseph Ratzinger. Quando era cardinale andò al Senato, in quel momento presieduto da Marcello Pera.
Andreotti ricordava sempre quel giorno: "Alla fine tutti dissero: "Abbiamo ascoltato il cardinale Pera e il
presidente Ratzinger". Fece, infatti, un discorso di alta politica". Dopo l'elezione i due s'incontrarono e
Ratzinger gli disse: "Lei non invecchia mai".
E con Bergoglio. Un'amicizia "filtrata" da don Giacomo Tantardini. Andreotti per anni ha diretto 30Giorni, il
mensile che Tantardini ispirava e sul quale Bergoglio è stato più volte intervistato. Ma il legame fu anche
precedente l'esperienza di 30Giorni, riconducibile agli anni in cui Pio Laghi, amico di Casaroli e Silvestrini (e
dunque indirettamente di Andreotti) era nunzio in Argentina.
Certo, non sempre i rapporti col Vaticano furono idilliaci. Nel 1978 fu Andreotti a firmare la legge
sull'aborto. Disse in merito Tonini:"Non lo critico per questo. Credo non avesse altra scelta. E così molti
hanno pensato in Vaticano. Abdicare come probabilmente avrebbe voluto fare, avrebbe voluto dire
consegnare il paese non si sa a chi. Ne eravamo tutti consapevoli. E la cosa andava evitata. Fu un grande
dolore consumato in anni difficilissimi. Ma quella firma non intaccò la stima vaticana nei suoi confronti". E
ancora: "Insomma, ha sempre saputo come muoversi oltre il Tevere. Diciamo che sapeva come tenere i
rapporti senza compromettere nessuno. In tanti anni non ha mai compromesso nessuno della Santa Sede.
Cosa non da poco e non da tutti. Non è stato con la Santa Sede un "furbetto", uno che faceva i propri
interessi alle spalle altrui. Tutt'altro. Consigliava e si lasciava consigliare".
(06 maggio 2013)
_________
Repubblica
Draghi: "Ridurre la disoccupazione,
rischio di proteste distruttive"
Il governatore punta il dito contro "la concentrazione dei redditi che penalizza i più deboli". Ai governi
chiede di tagliare la spesa senza alzare le tasse e di non cancellare gli sforzi fatti sul debito. Bce "pronta
ad agire di nuovo" sui tassi
MILANO - Non è forse il primo 'allarme sociale' che viene lanciato e messo in relazione con la crisi
economica. Ma se a suonare il campanello è il numero uno della Banca centrale europea in persona, il
livello d'allerta sale. "E' indubbio che una crescita duratura sia condizione essenziale per ridurre la
disoccupazione, in particolare quella giovanile". Così il presidente della Bce, Mario Draghi, nella sua lectio
magistralis all'università Luiss Guido Carli, in occasione della cerimonia di conferimento della laurea honoris
causa in Scienze politiche. "In alcuni Paesi - ha aggiunto Draghi - questa ha raggiunto livelli che incrinano la
fiducia in dignitose prospettive di vita e che rischiano di innescare forme di protesta estreme e distruttive".
In Europa, ha poi annotato, da quasi "vent'anni è in atto una tendenza alla concentrazione dei redditi delle
famiglie che penalizza i più deboli". Per questo, secondo il presidente della Bce occorre "una più equa
partecipazione ai frutti della ricchezza nazionale" che aumenta "la coesione sociale" e conduce "al successo
economico". Contro la concentrazione dei redditi in atto in Europa e per una "più equa partecipazione ai
frutti della produzione della ricchezza nazionale" occorre rimuovere le barriere che limitano le opportunità
degli individui, ha detto Draghi. E in questo senso "le riforme strutturali assumono un significato più ampio
di quello di mero strumento di crescita".
Oltre a questi rilievi, il governatore si è concentrato sull'analisi della situazione economica e della salute dei
conti pubblici. E' innanzitutto arrivata la conferma che la Bce "è pronta ad agire di nuovo sui tassi" dopo
aver abbassato il costo del denaro al minimo storico dello 0,5%. Si sta considerando a tal proposito anche
l'opzione di tassi di deposito negativi per le banche. Draghi ha invitato - come in altre circostante - a
"mitigare" gli effetti recessivi del risanamento dei conti privilegiando "le riduzioni di spesa pubblica
corrente e quella delle tasse". Secondo Draghi in Europa, infatti, "la tassazione è già elevata in qualunque
confronto internazionale". Se in alcuni Paesi, inoltre, "la crescita è più debole che in altri" la ragione non è
da imputare solo al "credito è scarso". Il numero uno dell'Eurotower ricorda infatti che "era più debole
anche prima della crisi, nonostante una crescita spesso tumultuosa della spesa pubblica, perché non si
erano volute affrontare fragilità strutturali di cui oggi sentiamo tutto il peso". Anche per questo "le politiche
di bilancio devono essere mantenute su sentieri sostenibili"; il riferimento è a situazioni - come quella
italiana - "di alto debito", dove non si devono cancellare gli sforzi fatti.
(06 maggio 2013)
_________
Repubblica
Siria, colpo di mortaio verso Israele.
Usa: "Nessuna notizia su uso gas dei ribelli"
La deflagrazione non ha fatto vittime. Fonti governative avevano ribadito che ci sarebbe stata una "risposta
all'attacco" di ieri a Damasco. Gli Stati Uniti e la commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite smentiscono
Carla del Ponte che aveva accusato gli insorti siriani di aver fatto ricorso alle armi chimiche
TEL AVIV - Continuano a colpirsi. Dopo l'attacco di Tel Aviv ieri notte a Damasco, il giorno dopo un colpo di
mortaio sparato dalla Siria è esploso nel Golan, presso un villaggio israeliano. Non ci sono vittime. La
deflagrazione è stata udita in maniera distinta dagli abitanti. Secondo la radio militare, l'episodio avrebbe
comunque un carattere "accidentale". Sarebbe da collegarsi, a suo parere, ai combattimenti in corso sul
versante siriano della linea di demarcazione fra l'esercito di Bashar al Assad e le forze ribelli.
All'indomani dell'accusa di aver fatto ricorso alle armi chimiche, e in particolare al gas sarin, rivolta da Carla
del Ponte ai ribelli siriani, l'ex procuratore capo presso i Tribunali Onu per l'ex Jugoslavia e per il Ruanda è
stata smentita dalla stessa commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite di cui fa parte. In una nota
l'organismo inquirente precisa infatti che "non sono state raggiunte prove conclusive circa l'uso di armi
chimiche in Siria da alcuna delle parti in conflitto". La Commissione "sta investigando su tutte le accuse di
violazioni in Siria e renderà note le proprie conclusioni nel Consiglio del 3 giugno".
Altrettanto hanno fatto gli Stati Uniti, puntualizzando di "non disporre d'informazioni" sul fatto che "i ribelli
siriani siano in grado o intendano usare il sarin". Della questione discuterà domani il segretario di Stato
americano John Kerry, alla sua prima missione a Mosca, con il presidente russo Vladimir Putin: Kerry, è
stato anticipato, cercherà una "prova" dell'impegno del Cremlino nella ricerca di una soluzione politica alla
crisi.
Anche la Nato è al corrente del "probabile utilizzo" di armi chimiche nel conflitto siriano, ma "non siamo
nelle condizioni di dire chi le abbia usate", ha aggiunto nella conferenza stampa mensile a Bruxelles, il
segretario generale Anders Fogh Rasmussen. "E' della massima importanza che agli ispettori dell'Onu sia
accordato un accesso libero e totale affinché accertino cosa è realmente accaduto". Ma "è deplorevole - ha
aggiunto - che le autorità siriane abbiamo rifiutato tale accesso".
La posizione di Israele. Dopo i due raid aerei in territorio siriano nel giro di appena 48 ore, Israele cerca di
placare il regime di Bashar al Assad, chiarendo che suo unico obiettivo rimangono le milizie sciite libanesi di
Hezbollah, cui sarebbero stati destinati i missili distrutti nei bombardamenti, e non Damasco. Lo Stato
ebraico avrebbe inoltre fatto pervenire allo stesso Assad, tramite i canali diplomatici, un messaggio segreto
nel quale chiarisce di non avere la minima intenzione di interferire nel conflitto tra lealisti e ribelli. Almeno
pubblicamente, però, la Siria ha manifestato di non considerare sufficienti tali precisazioni.
La reazione siriana. Fonti governative riservate avevano anzi ribadito che ci sarebbe stata una "risposta
all'aggressione" subita, non necessariamente a breve termine, anche perché in questo momento "gli
israeliani sono in stato di massima allerta". Damasco intende pertanto "aspettare", ma una reazione a suo
dire ci sarà comunque. Il colpo di mortaio di oggi potrebbe non essere accindentale. Ma non ci sono
conferme ufficiali. Dal canto suo il vice capo dello stato maggiore interforze iraniano, generale Masoud
Jazayeri, ha respinto le accuse d'Israele, sostenendo che le armi prese di mira, quali che fossero e a
chiunque fossero indirizzate, non provenivano da Teheran, del cui aiuto la Siria "non ha bisogno".
Vittime. Sono state identificate 169 vittime, tra cui 34 donne e 19 minori, del duplice massacro compiuto in
Siria tra il 2 e il 3 maggio scorsi nella regione costiera di Banias e attribuito alle milizie lealiste, ha riferito il
Centro per la documentazione delle violazioni in Siria. Il Vdc (vdc-sy.info) pubblica in inglese e in arabo una
lista dettagliata, con le generalità complete di ogni vittima, degli uccisi il 2 maggio a Bayda e il 3 maggio a
Ras an Nabaa, quartiere di Banias. In entrambi i casi, le vittime sono registrate come "civili". Nell'elenco il
Vdc distingue tra "civili" e "non civili", dove questi ultimi sono i ribelli. Dei 169 civili uccisi in queste due
località a maggioranza sunnita, 79 sono stati "giustiziati" a Bayda, sobborgo a sud-est di Banias il 2 maggio.
Tra loro risultano nove donne e otto minori (neonati, bambini, adolescenti). Altri 94 sono stati uccisi
l'indomani a Ras an Nabaa, quartiere meridionale di Banias. Qui sono cadute 25 donne e 11 minori.
Le tv del regime. La tv di Stato siriana ha annunciato che a breve la cittadina di Qusayr, situata nella Siria
centrale, tra Homs e il confine col Libano, sarà conquistata dall'esercito governativo e sarà "ripulita dalla
presenza di terroristi". Dal canto loro, i residenti che a Qusayr resistono armati affermano - con video
pubblicati su Internet - che le forze del presidente Bashar al Assad sostenute dai miliziani libanesi di
Hezbollah, bombardano la città con bombe incendiarie.
(06 maggio 2013)
__________
Repubblica
Istat: "Ripresa economica dal 2014"
Ma la disoccupazione aumenterà
Le previsioni macroeconomiche dell'Istituto di statistica mostrano un quadro più fosco di quello dipinto
dal governo e dalla Ue: l'anno prossimo il tasso di senza lavoro salirà al 12,3%, quest'anno Pil in calo
dell'1,4%
MILANO - La recessione finirà nel 2013, ma gli strascichi della crisi economica si sentiranno per tutto l'anno
prossimo: se l'economia tornerà a crescere (+0,7% secondo le stime dell'Istat), la disoccupazione non
accennerà a diminuire, anzi aumenterà fino al 12,3%. Sono le previsioni macroeconomiche dell'istituto
nazionale di Statistica secondo cui alla fine del 2013 il Pil calerà dell'1,4%, mentre l'anno prossimo - con il
traino della domanda interna - crescerà dello 0,7%. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, invece,
continueranno a manifestarsi "segnali di debolezza" con un "rilevante" incremento del tasso di
disoccupazione all'11,9% (+1,2 punti percentuali rispetto al 2012) fino a raggiungere il 12,3% l'anno
prossimo.
Numeri, quelli dell'Istat, che divergono, non poco, dalle previsione del governo e che - soprattutto mostrano un quadro più fosco di quello dipinto dalla Ue. Secondo le ultime stime dell'esecutivo, infatti, il Pil
dovrebbe calare dell'1,3% quest'anno (in linea con con la Ue, mentre per Moody's scenderà dell'1,8%), ma
crescere dell'1,3% nel 2014 (le previsioni di Bruxelles sono invece le stesse dell'Istat). Sul fronte del lavoro il
divario resta ampio: per Palazzo Chigi il tasso dovrebbe muoversi dall'11,6% di quest'anno all'11,8% del
prossimo, mentre per la Ue salirà dall'11,8% al 12,2%.
Analizzando le differenze tra l'attuale quadro di previsione e quello presentato dall'Istat a novembre 2012,
il tasso di crescita del Pil italiano è stato rivisto al ribasso per nove decimi di punto nel 2013. Tale differenza
è in parte dovuta alle nuove ipotesi sul commercio mondiale e alla revisione delle serie di contabilità
nazionale e per la parte restante a una contrazione maggiore di quanto inizialmente atteso dei consumi
privati. Nel complesso, precisa l'Istituto, le previsioni attuali rientrano all'interno dell'intervallo di
confidenza delle previsioni presentate a novembre 2012.
A condizionare l'economia sarà soprattutto il calo della spesa delle famiglie che a causa della contrazione
dei redditi disponibili, quest'anno, diminuirà dell'1,6% con un moderato aumento dello 0,4% l'anno
prossimo. "Il pagamento dei debiti delle amministrazioni pubbliche verso i creditori privati può avere
moderati effetti espansivi nel 2014". Lo afferma l'Istat nelle Prospettive per l'economia italiana nel 20132014, aggiungendo che "in particolare, l'immissione di liquidità nel sistema economico, potrebbe sostenere
consumi e investimenti privati, contribuendo a migliorare le aspettative di famiglie e imprese sulle loro
condizioni economiche".
(06 maggio 2013)
_________
La stampa
EDITORIALI
07/05/2013
Andreotti, gli storici si divideranno
LUIGI LA SPINA
Come al solito, è stato Napolitano a indicare la strada sulla quale si dovevano incamminare i commenti:
bisogna riconoscere l’eccezionale ruolo svolto da Andreotti nelle vicende della nostra Repubblica, ma il
giudizio su di lui va affidato alla storia.
Così, nella scia della duplicità, peraltro simbolo di una vita che per i suoi detrattori aveva l’accezione della
doppiezza, si sono indirizzate quasi tutte le dichiarazioni d’ordinanza in occasione della sua morte. Eppure,
questa volta il nostro presidente-bis della Repubblica potrebbe essersi sbagliato ad affidare con tanta
fiducia al supremo tribunale del tempo. Se la politica, infatti, si è ritirata nel limbo dell’imbarazzo di fronte
alla sua indecifrabile personalità, anche la giustizia, almeno quella terrena, non è riuscita, dopo anni e anni
di indagini, a emettere una sentenza che non avesse, appunto, il carattere dell’ambiguità e della doppiezza:
per metà assoluzione e per metà condanna. È possibile quindi, anzi è molto probabile, che anche gli storici
futuri si divideranno sulla sua figura e finiranno per arrendersi, pure loro, di fronte al vero incrollabile muro
di ingiudicabilità che impedisce di emettere il verdetto definitivo su di lui: il mistero.
L’uomo che per sessant’anni è stato sempre sul palcoscenico della vita pubblica, sempre in prima fila,
sempre protagonista delle luci della politica e persino dello spettacolo, se ne è andato senza accendere
neanche il più piccolo spiraglio sul retroscena di quella ribalta. Come per suggellare la sua vita nella
definizione dell’uomo più misterioso della nostra Prima Repubblica e per lanciare, da accanito
scommettitore alle corse quale era, l’ultima sua sfida, proprio alla storia: far breccia, finalmente, nel muro
del suo mistero.
L’imbarazzo della politica d’oggi nei confronti di Andreotti non deriva, però, solo dall’indecifrabilità dello
statista romano, ma da un sottile legame, forse persino un po’ inquietante legame, del nostro presente a
quel passato. Come se il richiamo di quella presenza non si spegnesse neanche con la sua morte e, anzi, il
momento della sua scomparsa segnasse, per una beffa della cronaca di questi giorni, una coincidenza di
segni che riaccende il ricordo e l’attualità della sua esperienza politica.
Se Andreotti è stato l’essenza della cosiddetta «democristianità» nella storia della nostra Repubblica, è
quasi banale osservare che Letta, con Alfano suo vice, sono i giovani dc a cui è affidato il rinnovamento
della politica italiana, perché forse quel carattere è l’araba fenice della nazione. Meno ovvio dell’anagrafe
partitica, è il metodo di governo proclamato dal neopresidente del Consiglio nel suo discorso di investitura
alle Camere, la concretezza. Non è stata sempre questa la maniera con cui Andreotti ha definito il suo
modo di governare gli italiani, fino a intitolare la sua storica rivista di corrente con il nome di
«Concretezza», appunto? Da tutti i commentatori, poi, è stato rievocato il precedente storico delle «larghe
intese» sulle quali si regge il governo Letta, il primo esperimento del genere, quello inaugurato nel ’76
proprio da Andreotti, definito della «non sfiducia» e proseguito, due anni dopo, sempre da lui a palazzo
Chigi, con il ministero della solidarietà nazionale.
I brividi della memoria, però, non si fermano qui, perché, purtroppo, richiamano altri ricordi, più
sanguinosi. Perché quel governo con cui Andreotti ebbe la fiducia anche dei comunisti, nel marzo ’78,
nacque sull’onda del rapimento di Moro e dell’uccisione dei suoi uomini di scorta come l’esecutivo Letta è
stato battezzato dalla sparatoria contro i carabinieri davanti al Parlamento.
Non bisogna, naturalmente, dar troppo peso a quelle che sono solo suggestioni di eredità partitiche e
coincidenze di tempi molto diversi per formulare confronti, e meno che mai, previsioni del tutto
ingannevoli. Ma la scomparsa dell’ultimo grande statista democristiano e i troppi chiaroscuri dei commenti
di ieri una lezione utile la danno, invece. Fino a quando l’Italia non sarà capace di fare i conti con la sua
storia, anche recente, di riconoscerne virtù e vizi senza sempre voler assolvere la propria parte e sempre
condannare quella avversaria, ma ammettendo l’inestricabile partecipazione di tutti sia alle prime sia ai
secondi, l’ombra di Andreotti e del suo mistero continueranno a incombere sulla politica italiana.
_________
La stampa
6/05/2013 - ERA ALLA GUIDA DELLA TESTATA GIORNALISTICA REGIONALE
Si lancia dal sesto piano di sede Rai
Si suicida il vicedirettore Petruccioli
I carabinieri intervenuti all’esterno della redazione Rai in via Borgo Sant’Angelo 23
Una giornata di lutto per le redazioni del giornalismo che perdono in modo drammatico uno dei «papà del
Televideo», primo servizio Teletext in Italia. Paolo Petruccioli, 57 anni, vicedirettore della Testata
giornalistica regionale della Rai, oggi si è suicidato lanciandosi da una finestra degli uffici Rai di Borgo
Sant’Angelo a Roma. Prima di suicidarsi, Petruccioli ha spedito l’ultima mail alla moglie, annunciando le sue
intenzioni. La donna ha tentato di fare il possibile per evitare il tragico gesto. Ma era troppo tardi. Dietro il
gesto, si ipotizza, potrebbe esserci il rapporto ormai in crisi con la moglie. Negli ultimi tempi - raccontano gli
amici - si stavano separando e i litigi ormai si susseguivano giorno dopo giorno. Secondo quanto accertato
dagli investigatori, i quali hanno sentito colleghi ed amici del giornalista, una causa del gesto potrebbe
essere proprio il non più idilliaco rapporto con la coniuge. Quest’ultima, destinataria dell’ultima mail scritta
da Petruccioli, avrebbe tentato di tutto per evitare la tragedia.
L’attuale vice direttore del TgR del Lazio lavorava alla Rai da trent’anni, dal 1982, fin da quando aveva 26
anni: con il suo lavoro aveva contribuito, in passato, alla nascita e allo sviluppo del Televideo, primo servizio
di teletext in Italia. È stato vicedirettore di Rai Sport, di Rai Radio 1, delle Relazioni Esterne, di Televideo e
infine della testata giornalistica regionale.
Ad esprimere profondo cordoglio alla famiglia di Petruccioli e alla redazione è stata «l’Associazione stampa
romana, ricordando il su percorso professionale. Ma a ricordarlo è stata anche la redazione del Giornale
Radio, nella quale il giornalista aveva lavorato per cinque anni. Per il comitato di redazione del Gr Rai,
Petruccioli «è stato per tutti un esempio di serietà, competenza e generosità umana e professionale. Noi
del Giornale Radio lo ricordiamo con profondo affetto e abbracciamo idealmente tutta la famiglia di Paolo».
Stesse parole per l’esecutivo `Usigrai´, che ha espresso in una nota sgomento per la notizia della morte del
vice direttore della Tgr. Ricorderemo sempre il collega serio, mite, rigoroso. A parlare di «giornata nera per
il giornalismo romano» è stata anche la Federazione nazionale della stampa.
__________
La stampa
POLITICA
06/05/2013 - IL CASO
Cittadinanza, l’appello dei vescovi
“Un diritto che va riconosciuto a tutti”
Il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Angelo Bagnasco
ALESSANDRA PIERACCI
«La cittadinanza è uno dei diritti umani che certamente deve essere riconosciuto anche alle persone che
approdano sul nostro suolo, individuando quelle condizioni di equità e giustizia che sono naturalmente
indispensabili per tutte le leggi. Tutto questa resta comunque a indicare che questo diritto deve essere
prima o poi, in un modo nell’altro, nel modo più equo riconosciuto. Soprattutto oggi che la globalizzazione
e quindi i flussi migratori delle persone sono sempre più un fenomeno evidente. Le forme ius soli, iius
sanguinis o altre modalità devono essere valutate bene dal mondo della politica per scegliere la cosa più
equa rispetto al bene generale». Lo ha detto il presidente della Cei Angelo Bagnasco.
Ieri, il ministro Cecile Kyenge aveva indicato come prioritario un intervento sulla cittadinanza, provocando
una levata di scudi dal Pdl. Il premier Letta continua a mostrarsi prudente: «Il tema mi sta a cuore, ma so
che alcune di queste materie sono fuori dal discorso programmatico e so che su questi temi occorre che ci
siano delle discussioni e dei dibattiti e non e’ detto che si possano trovare delle intese. Stessa cosa per il
reato di immigrazione clandestina. Vedremo se riusciremo a trovare un’ intesa’».
Oggi la Lega è tornata a chiedere l’abolizione del ministero per l’Integrazione, mentre il Pdl ha
definitivamente affossato la proposta di Kyenge. «Qualcuno dovrebbe spiegare al ministro Kyenge che la
cittadinanza ai figli di immigrati, in qualsiasi forma essa possa arrivare, non interessa a nessuno. Per gli
immigrati non è certo l’unico problema a cui guardare. Il lavoro, la casa, la salute e tanto altro angoscia la
vita di uno straniero in Italia, come peraltro di tutti gli italiani» ha detto Souad Sbai, ex parlamentare del
Pdl, giornalista e scrittrice di origine marocchina. Segnali di apertura da Renata Polverini. «Coerentemente
con il mio impegno passato, sosterrò convintamente la battaglia del Ministro Cecile Kyenge sullo ius soli. È
un tema che bisogna affrontare».
Favorevole, invece, Vincenzo Spadafora, presidente dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza:
«Oggi in Italia quasi un quinto dei bambini nasce da almeno un genitore straniero e quasi un milione di
ragazzi di origine straniera frequenta le nostre scuole, ovvero l’8,5% della popolazione scolastica. È una
realtà della nostra società con cui dobbiamo fare i conti, una questione che la politica dovrebbe affrontare
mettendo da parte ogni possibile velo ideologico. Se è vero che la capacità della politica è quella di
interpretare i bisogni della società, un passo avanti sul diritto di cittadinanza non è più rinviabile».
________
La stampa POLITICA
06/05/2013
Letta a Milano rilancia l’Expo:
“Da follia visionaria a prioritò”
“La mafia resterà fuori dai lavori”
Sette anni fa «era una follia visionaria, un sogno», nel 2015 l’obiettivo del governo è far diventare l’Expo
«un grandissimo successo». L’esposizione universale milanese è «una vera e reale priorità» per il
presidente del Consiglio Enrico Letta, anche perché «il suo successo è una delle cartine di tornasole attorno
al quale si valuterà la riuscita di questo governo».
È per questo che si farà carico «in prima persona di trovare le soluzioni per superare eventuali ostacoli», è
per questo che dalle promesse è passato in fretta ai fatti, visto che «sarà uno snodo per agganciare una
ripresa per il nostro Paese». Il primo atto concreto del governo è quindi la nomina dell’ad di Expo Spa
Giuseppe Sala come commissario unico dell’evento, con la firma del decreto avvenuta a Milano assieme ai
quattro soci istituzionali, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il governatore lombardo Roberto Maroni, il
presidente della Provincia milanese Guido Podestà, e il presidente della Camera di commercio Carlo
Sangalli.
Assieme a Letta ci sono i ministri Maurizio Lupi (Infrastrutture), Nunzia De Girolamo (Politiche agricole) e
Massimo Bray (Turismo), a capo dei dicasteri che saranno coinvolti nell’evento, oltre al sottosegretario con
la delega all’Expo Maurizio Martina. Ci sono quindi rappresentanti del centrodestra e del centrosinistra,
tecnici e politici in puro spirito larghe intese in quella che Letta chiama «la squadra Italia», e che il premier
intende allargare anche a «tutti coloro che hanno avuto un ruolo in questi anni nella nascita di Expò’, come
l’ex premier Romano Prodi.
Se Expo «rappresenta veramente il cuore delle possibilità di ripresa» del Paese, l ossessione del governo
sarà evitare l’infiltrazione di qualsiasi forma di illegalità: «La criminalità e le mafie non pensino che l’Expo
sia un’occasione di avere mano libera. Avremo una vigilanza doppia, tripla, quadrupla, saremo duri e
inflessibili. Nessuno attorno a questa vicenda può pensare di fare il furbo e infilarsi e usare questa
grandissima occasione per attività illecite e illegali».
Da affrontare e risolvere in meno di due anni ci sono ancora non poche questioni, dalle opere da
completare ai fondi da trovare, compresa la possibilità di una deroga al patto di stabilità, fino ai grandi
Paesi come gli Stati Uniti ancora da coinvolgere. Letta è ben consapevole che «non tutti gli Expo del passato
sono stati dei successi», ma «c’è una fortuna in questa vicenda: c’è una scadenza, e per noi italiani quando
c’è una scadenza è sempre meglio. Faremo del nostro meglio perché le scadenze vengano rispettate».
Il governo nominerà un commissario per i rapporti con il Bie e Giuseppe Sala per primo ha voluto
sottolineare che la sua “promozione” non significa che ci sarà «un uomo solo al comando», anche perché
«andiamo verso un ultimo miglio lungo, che durerà due anni, ma che siamo consapevoli non sarà scevro di
polemiche e di difficoltà. Ma i conti si faranno alla fine». Soddisfatti anche il sindaco di Milano Giuliano
Pisapia («dagli impegni a parole si passa ai fatti»), e il governatore lombardo Roberto Maroni: «Oggi si volta
pagina per la realizzazione delle infrastrutture. Siamo ottimisti, c’é una scadenza e la rispetteremo».
_________
La stampa ESTERI
06/05/2013 - LA PROTESTA
Libia, le milizie assediano i ministeri:
“Avanti fino alle dimissioni di Zeidan”
Tripoli, miliziani circondano ministeri
Cresce la tensione a Tripoli all’indomani dell’approvazione
della legge che estromette
gli ex fedelissimi di Gheddafi
da tutti gli incarichi pubblici
Forti della vittoria ottenuta con l’approvazione della legge per l’esclusione dalla vita politica degli ex
dignitari di Muammar Gheddafi, i miliziani libici che da qualche giorno tengono in assedio alcuni ministeri di
Tripoli, esigono adesso le dimissioni del gabinetto guidato dal primo ministro Ali Zeidan.
“Siamo determinati a continuare il nostro movimento fino alle dimissioni di Ali Zeidan”, ha detto il
portavoce del gruppo armato, Oussama Kaabar, alla France Presse.
La legge contro gli ex collaboratori del regime è stata approvata ieri dal Parlamento (Cgn - Congresso
generale nazionale) con 164 voti a favore e 4 contrari. Deve essere ancora ratificata dalla Commissione
giuridica dell’organo parlamentare. La legge esclude dal suo ufficio il presidente del Cgn, Mohamed alMegaryef, che era stato ambasciatore in India sotto il regime del Colonnello, negli anni Ottanta. Ma rischia
di escludere almeno quattro ministri del governo di Zeidan e una quindicina di deputati.
Gli uomini armati, affiancati da veicoli con mitragliatrici a bordo e cannoni antiaereo, continuano a
circondare i ministeri della Giustizia e degli Affari esteri. “L’adozione della legge sull’esclusione politica
costituisce un passo importante sulla buona strada. Ma dobbiamo ancora esaminare alcuni punti di questa
legge - ha dichiarato Kaabar, membro del “Coordinamento per l’esclusione politica” e vicepresidente del
Consiglio superiore dei Rivoluzionari libici - d’altro canto siamo decisi a far cadere il governo di Ali Zeidan”,
ha detto Kaabar, accusando il premier libico di “provocare i rivoluzionari (Thowars)”, i gruppi di ex ribelli
che hanno combattuto contro il regime di Gheddafi.
Il governo di Ali Zeidan aveva lanciato alcuni giorni fa una campagna per evacuare dalla capitale le “milizie
di fuorilegge”. Ieri, inoltre, lo stesso Zeidan ha accusato gli organizzatori delle proteste di avere «ambizioni
politiche personali».
Scarica