Il Concilio Vaticano Secondo: allora e oggi - WebDiocesi

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Il Concilio Vaticano II: allora e oggi
Card. Walter Kasper
Presidente del Pontificio Consilio per la Promozione dell’unità dei cristiani
I. Cosa si prefiggeva il Concilio?
Il Concilio Vaticano II è stato per me una esperienza affascinante e marcante della
mia vita. Mi ricordo ancora esattamente il momento in cui, la sera del 25 gennaio del
1959, udii la notizia che Papa Giovanni XXIII, in S. Paolo fuori le mura, aveva
convocato un Sinodo a Roma ed un Concilio ecumenico, ed aveva annunciato la
revisione del Diritto Canonico. Nessuno se lo era aspettato, tanto meno la Curia
romana. Si disse che nessuno dei cardinali presenti a S. Paolo aveva reagito; non
c’era stato neanche il più piccolo applauso: tutti erano rimasti come pietrificati.
Dopo il Concilio Vaticano I e la dogmatizzazione della giurisdizione universale e
dell’infallibilità del Papa, molti vescovi e teologi erano dell’opinione che un Concilio
ecumenico non fosse più necessario, e che fosse quindi improbabile. Si pensava che
il Papa potesse governare la Chiesa da solo e da solo decidere sulle questioni
dottrinali. Pertanto, l’annuncio stesso di un nuovo Concilio ebbe l’effetto di un
terremoto; esso scosse le teorie ecclesiologiche di una Chiesa dalla struttura
unilateralmente piramidale. Ecco che all’improvviso diventava d’attualità il tema del
rapporto tra Papa e Vescovi, tra primato e collegialità. La convocazione del Concilio
implicava già un’intera ecclesiologia.
Ed ecco comparire anche problemi che, fino ad allora, erano stati discussi soltanto
all’interno di circoli ristretti. Naturalmente si sapeva che già il Concilio Vaticano I
aveva tentato di riprendere in mano l’insieme dell’ecclesiologia, ma che, a causa
della sua sospensione anticipata, era riuscito a definire soltanto la questione del
primato e dell’infallibilità del Papa. Si era dunque occupato della “punta” primaziale
della Chiesa, senza toccare la oggi cosiddetta “base della Chiesa”. L’insieme
dell’ecclesiologia ne risultava così sbilanciato.
Già nel periodo tra le due guerre, alcuni movimenti di rinnovamento, quali il
movimento liturgico, il movimento biblico e quello ecumenico, avevano cercato di
ovviare a questo squilibrio. Ricordiamo anche il movimento di rinnovamento
patristico che, diffusosi soprattutto a partire dalla Francia, comprendeva nomi
importanti come Chenu, De Lubac, Daniélou, Congar, ecc. Questi studiosi volevano
rinnovare la “vecchia” teologia dei Padri per superare una visione meramente
istituzionale e giuridica della Chiesa e rivalorizzarne la dimensione mistica.
Non fu compito facile. Molti di loro furono guardati con sospetto ed emarginati.
Soltanto con il Concilio se ne riconobbe il valido contributo; si dovette aspettare a
dopo il Concilio affinché Papa Giovanni Paolo II nominasse cardinali Daniélou, De
Lubac e Congar.
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Ma prima del Concilio erano state espressi anche segni incoraggianti. Papa Pio XII
fu lungimirante abbastanza da considerare in modo positivo i suddetti movimenti:
ancora in tempo di guerra, nel 1943, comparirono le encicliche “Mystici corporis”
sulla Chiesa e “Divino afflante spiritu” sull’interpretazione della Scrittura; dopo la
guerra, l’enciclica sulla liturgia “Mediator Dei”, che è da collegarsi alle prime
riforme liturgiche, e soprattutto al rinnovamento della vigilia pasquale. Nella Francia
fin da allora secolarizzata, sorse un movimento missionario che portò all’attenzione
di tutti il fenomeno dei sacerdoti lavoratori. Si diffuse il motto “Francia, terra di
missione”. Era quello l’inizio di ciò che Papa Giovanni Paolo II ha definito la “nuova
evangelizzazione”.
La crisi interna della Chiesa, dunque, si era profilata già molto tempo prima del
Concilio Vaticano II. Non è il Concilio ad averla generata o aggravata, come alcuni
affermano oggi; esso, piuttosto, ha potuto bloccarla temporaneamente fino alla fine
degli anni sessanta, quando la crisi è esplosa con particolare violenza. Il Concilio,
con grande tempismo, fornì una specie di “rete” per tenerla sotto controllo,
impedendole di acuirsi.
Così, già alla fine degli anni cinquanta, avevano fatto la loro comparsa sul
palcoscenico sia i primi segni di crisi che i nuovi movimenti ecclesiali di
rinnovamento. Entrambi, dopo l’annuncio della convocazione del Concilio,
ritornarono impetuosamente in primo piano con la forza di un terremoto e di
un’eruzione lavica. Si opponevano, da un lato idee di riforma che oggi, in parte,
definiremmo utopiche e dall’altro tendenze considerate all’epoca conservatrici; si
delineava lo scontro tra forze che spingevano in avanti e forze che volevano
mantenere lo status quo.
All’inizio, molte cose non erano così ovvie. Ad esempio, non era chiaro cosa
intendesse Papa Giovanni XXIII con il termine “Concilio ecumenico”. Si riferiva ad
“ecumenico” nel senso canonico tradizionale, ovvero pensava ad un Concilio
dell’episcopato universale cattolico presieduto dal Papa, oppure usava il termine
nell’accezione più moderna e corrente, intendendo un Concilio che comprendesse
anche i non cattolici, ed in particolare le Chiese orientali? Papa Giovanni XXIII
trovò una soluzione di compromesso, l’unica possibile in quel tempo: egli si attenne
al concetto tradizionale di Concilio, ma invitò anche osservatori di altre Chiese, i
quali, tramite il nuovo Segretariato per la promozione dell’unità presieduto dal
cardinale Augustin Bea, poterono esercitare un’influenza non trascurabile sullo
svolgimento del Concilio stesso.
Le Commissioni preparatorie, sotto il prevalente influsso della Curia romana,
dimostrarono di non avere la stessa visione. Nei documenti preparatori esse
ribadirono la dottrina e la prassi tradizionali, credendo che i Padri conciliari, una
volta riunitisi, avrebbero subito applaudito. Così, molte attese iniziali sembravano
destinate a trasformarsi in delusione.
Ma furono soprattutto due eventi a ravvivare queste aspettative. Il primo fu il
discorso di apertura di Papa Giovanni XXIII pronunciato l’11 ottobre 1962. Il Papa
parlò dei profeti di sciagura ed aggiunse di essere di un altro parere; egli menzionò
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addirittura la nuova Pentecoste che si attendeva dal Concilio. Compito del Concilio,
fece osservare, non era quello di ripetere la dottrina tradizionale della Chiesa. Certo,
l’insegnamento trasmesso dal Magistero doveva naturalmente essere mantenuto
senza cambiamenti. Ma l’obiettivo centrale del Concilio era quello pastorale.
Occorre infatti fare una distinzione tra il contenuto del depositum fidei, con le verità
preservate dal Magistero, ed il modo in cui tali verità vengono annunciate. Il Papa
non invitava dunque a brandire come arma la forza, ma incoraggiava ad usare la
misericordia, intesa come mezzo di salvezza. Erano toni nuovi, toni che infondevano
coraggio.
Il giorno successivo accadde nuovamente qualcosa di totalmente inatteso. La Curia
propose di mantenere, come commissioni conciliari, le commissioni preparatorie da
essa controllate. Questo era troppo, anche per grandi e stimati uomini di Chiesa come
i cardinali Liénard di Lille e Frings di Colonia. Quest’ultimo aveva portato con sé un
giovane teologo chiamato Joseph Ratzinger. Entrambi i cardinali riscossero
un’approvazione immediata quando dissero: ancora non ci conosciamo; discutiamo
prima della faccenda e decidiamo domani. I Padri conciliari avevano così dimostrato
di voler prendere in mano direttamente ciò che competeva loro.
Ma quale era il tema del Concilio? Quale era il filo conduttore? Anche questo non
era esattamente chiaro all’inizio. Erano stati preparati numerosissimi documenti, che
tuttavia non lasciavano intravedere nessun nesso che li legasse in un insieme
organico. Fu merito dei cardinali Suenens (Melchen) e Montini (Milano) l’aver
formulato il programma, che ricevette il plauso generale: “La Chiesa ad intra e ad
extra”. La Chiesa ad intra, ovvero il mistero e la struttura della Chiesa; la Chiesa ad
extra, ovvero la missione della Chiesa nel mondo di oggi.
Con questa doppia tematica, la Chiesa aveva deciso di studiare la sua stessa natura e
vocazione per la prima volta dopo duemila anni. Essa aveva preso coscienza di sé. Il
Concilio realizzava ciò che i teologi sia cattolici che protestanti avevano predetto
quando avevano definito il XX secolo come il secolo della Chiesa. Ricordiamo a tal
proposito le parole di Romano Guardini nel 1922: “è stato avviato un processo
religioso di una portata immensa: la Chiesa si risveglia negli animi”. Ed è proprio
quello che stava accadendo.
Naturalmente durante lo svolgimento del Concilio non mancarono scontri a volte
duri tra le due opposte direzioni. Il regolamento prevedeva una maggioranza di due
terzi, sufficiente per poter deliberare. Tuttavia, Papa Paolo VI si attenne, a ragione,
alla prassi tradizionale che richiedeva il consenso comune (il che non significava
unanimità). Egli non voleva alienare la minoranza conservatrice con un semplice
meccanismo di voti. Dimostrò più volte la sua volontà di andarle incontro quando
propose formule di compromesso per ottenere un consenso più ampio possibile.
E provò che non tutti i compromessi sono insoddisfacenti soluzioni di ripiego.
Esistono anche saggi compromessi, che si concentrano sull’essenziale e sul più
ampio consenso realizzabile in un dato momento, ma sanno anche lasciare al futuro
ciò che non può ricevere un consenso immediato, nella fiducia che in seguito ci
saranno ulteriori sviluppi e sarà possibile una recezione.
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Ed ecco che uno dei meriti maggiori di Papa Paolo VI, purtroppo non abbastanza
riconosciuto, è proprio quello di aver “messo in piedi” il Concilio ed averne
implementato gli orientamenti nella pratica attraverso molte riforme introdotte in
seguito su questioni fondamentali. Tale risultato è ancora più apprezzabile se
consideriamo che tutto ciò è avvenuto senza grandi spaccature. Possiamo dire
pertanto che, con il Concilio, la Chiesa cattolica ha dato impulso ad un rinnovamento
e ad una riforma che, durante il secolo scorso, non trovano uguali in nessun altra
Chiesa.
Questo successo è stato possibile grazie, e non “nonostante”, il ministero petrino.
Senza la decisione autorevole di Papa Giovanni XXIII, il Concilio non sarebbe mai
stato realizzato; così, senza l’equilibrio instancabile di Paolo VI, il Concilio non
avrebbe avuto il suo buon esito. Il Concilio Vaticano II è un grande dono che lo
Spirito Santo ha fatto alla Chiesa; è un evento dello Spirito nella Chiesa. La Chiesa,
grazie al Concilio, ha acquisito una più profonda coscienza di sé come popolo di Dio,
Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito, e come segno quasi-sacramentale nel mondo e
per il mondo. Attraverso il Concilio, lo Spirito ha indicato il cammino che la Chiesa
deve seguire nel XXI secolo. Non potremo mai essere grati abbastanza per questo
splendido dono.
II. L’ermeneutica del Concilio
Dopo il Concilio, è avvenuto quello che di solito accade dopo tutti i grandi concili
della storia. Allo scontro sulla giusta definizione, è seguito lo scontro, tuttora acceso,
sulla giusta interpretazione e recezione. I tempi postconciliari sono sempre stati
tempi agitati, addirittura turbolenti. È stato così dopo il primo Concilio ecumenico di
Nicea (325) e dopo il quarto Concilio ecumenico di Calcedonia (451). Non c’è da
sorprendersi dunque che anche dopo il Concilio Vaticano II l’atmosfera fosse
tempestosa.
In questo contesto, va purtroppo menzionata la scissione del gruppo dell’arcivescovo
Lefebvre. Il motivo non era tanto la Messa così detta tridentina in latino, quanto una
visione unilateralmente statica della tradizione. A questa si contrapponeva una
visione unilateralmente progressiva. Molti erano del parere che il Concilio fosse solo
un primo gradino della “rampa di lancio”, che doveva essere lasciato il più preso
possibile per potersi proiettare liberi nel futuro; per costoro, il rinnovamento voluto
dal Concilio era ben più ampio di quello espresso nei singoli documenti; si trattava
dunque di interpretare i testi in questo spirito, basandosi sulle formulazioni più
innovative e lasciando da parte quelle che erano considerate come semplici
compromessi.
Mi ricordo molto bene il discorso di commiato dell’allora professore Joseph
Ratzinger, quando prese congedo da Münster per andare ad insegnare a Tubinga. In
modo pregnante, egli disse di aver nel frattempo imparato che anche “tramandare”,
“preservare” e “rimanere” sono parole importanti del Nuovo Testamento. Sulla stessa
linea, Papa Benedetto XVI, nel discorso rivolto alla Curia romana per il Natale del
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2005, ha distinto l’ermeneutica
dall’ermeneutica della riforma.
della
discontinuità
e
dell’interruzione
Difatti, tradizione e rinnovamento non sono realtà opposte, ma complementari. Il
Concilio non voleva una nuova Chiesa, ma una Chiesa rinnovata nello spirito della
Sacra Scrittura e della Tradizione. Il Concilio Vaticano II si è inscritto
consapevolmente nella linea di tutti gli altri concili precedenti ed è in questo contesto
che deve essere interpretato. Esso non abroga né il Concilio di Trento, né il Concilio
Vaticano I. Interpreta la Tradizione non come un oggetto pietrificato, come una
vecchia moneta da passarsi di mano in mano, ma come una realtà viva e vitale, nella
quale lo Spirito di Dio ci rivela l’unico, immutabile e sempre valido Vangelo in
modo fresco e dinamico, ovvero nella sua inalterabile ed inesauribile novità.
Ciò significa che il processo di recezione del Concilio Vaticano II è lungi dall’esser
terminato. Mi riferirò qui solo ad uno di questi problemi di ermeneutica: la distanza
di tempo. Da un punto di vista storico, i quarant’anni trascorsi dalla fine del Concilio
Vaticano II rappresentano un arco di tempo limitato, ma dal punto di vista politico,
culturale ed intellettuale sono avvenuti cambiamenti molto profondi a livello
mondiale. Il primo grande evento è stato la rivoluzione studentesca del 1968, che ha
comportato una vera e propria rivoluzione culturale ed ha impartito un nuovo
impulso alle tendenze illuministe e secolarizzanti. Così nell’era così detta
postmoderna al posto del pensiero unitario ed universale della tradizione occidentale
si è diffuso un eclettismo ed individualismo di prospettive, a cui spesso ci si riferisce
con il termine di relativismo.
Un secondo grande mutamento è la svolta politica del 1989/90 avvenuta nell’Europa
centrale e dell’est, con il crollo del muro di Berlino che ne è divenuto il simbolo. Il
mondo diviso in due campi ideologici ha lasciato il posto ad un mondo globalizzato,
caratterizzato da un pluralismo culturale e religioso e carico di un forte potenziale di
conflitto: il molto citato “clash of civilisations” (Huntington) ed il flagello del
terrorismo internazionale. L’ occidente secolarizzato si trova confrontato ad un islam
radicalizzato e, nell’emisfero meridionale, al rapido diffondersi di vecchie e nuove
sette.
Anche nella nostra società possiamo parlare di una riscoperta della religione; la
secolarizzazione ha lasciato dietro di sé un vuoto che adesso vuole essere colmato e
che spinge verso una nuova religiosità. Dobbiamo però essere coscienti che si tratta
di un fenomeno ambivalente. Da una parte dobbiamo riconoscere che, a partire dagli
scatenati anni settanta, all’interno della Chiesa sono sorti diversi movimenti
spirituali; essi sono un segno dell’azione dello Spirito Santo nel nostro tempo.
Dall’altra, va osservato che si è diffusa una grande varietà di “esperienze” religiose
sul tipo del “do it yourself”, “fai da te” spirituale, che non ricerca una trascendenza
verso l’alto, ma solo una più profonda conoscenza del sé. Non si tratta più di una
religione che adora Dio nel suo mistero, ma di una religione che ricerca il benessere
personale ed è concentrata sull’io. Johann Baptist Metz ha parlato delle forme di un
ateismo dalle sfaccettature religiose. Le regole per il discernimento di quello che è
spirituale e cristiano (Romano Guardini) mi sembrano essere tornate di grande
attualità ed importanza.
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Il mondo interconnesso e globalizzato, diventato in realtà impossibile da
comprendere nel suo insieme, pluralistico, frammentato ed estremamente
individualista, ha perso il suo orientamento; all’inizio del XXI secolo vacilla tra
speranza e stanchezza. Esso è profondamente diverso dall’epoca del Concilio
Vaticano II, dalla metà del XX secolo segnato dalla guerra fredda e dall’era Kennedy
relativamente ottimista. Nella situazione in cui oggi ci troviamo, ci chiediamo quale
sia il significato per noi del Concilio Vaticano II. Sia Papa Giovanni Paolo II che
Papa Benedetto XVI hanno sostenuto che il Concilio è il fondamento e la bussola per
il cammino della Chiesa nel XXI secolo. Ci domandiamo allora: cosa può dirci il
Concilio oggi? Ha davvero cose da dirci? Qual è il suo messaggio per oggi e per
domani? Nel frattempo è forse diventata necessaria una riforma della riforma?
Oppure il Concilio è così superato che dobbiamo aspettarne uno nuovo?
III. L’attualità del Concilio
In questo contesto, è naturalmente impossibile soffermarci su tutti i documenti
conciliari e su tutte le questioni ivi trattate. Mi limiterò pertanto alle quattro
Costituzioni, che costituiscono la “colonna vertebrale” del pensiero conciliare,
all’interno del quale possono essere facilmente inclusi gli altri testi, ovvero i nove
Decreti e le tre Dichiarazioni. Mi riallaccio così al Sinodo dei vescovi straordinario
del 1985, che ha avuto luogo in occasione dei vent’anni del Concilio e che ne ha
definito gli argomenti principali sulla base delle quattro Costituzioni: Mysterium
ecclesiae (LG); Verbum Dei audiens et proclamans (DV); mysteria Christi celebrans
(SC); pro salute mundi (GS).
1. Mysterium ecclesiae. Abbiamo già detto che il tema del Concilio era “la Chiesa ad
intra e ad extra”. Ma come parla il Concilio della Chiesa? La risposta ci viene
direttamente dal primo capitolo della Costituzione sulla Chiesa “Lumen gentium”,
che si intitola “il mistero della Chiesa”, a differenza del progetto preparatorio, che
iniziava con la struttura gerarchica. Molti vescovi si erano difatti opposti
vivacemente a questo progetto, esigendo che venissero superati trionfalismo,
giuridismo e clericalismo e che la Chiesa non fosse presentata per prima cosa come
istituzione ma come mistero.
Gran parte della discussione postconciliare finì per ripercorrere vecchi binari. Furono
soprattutto le questioni strutturali ad essere abbordate: il ruolo e la partecipazione dei
laici, il rapporto tra primato ed episcopato, le strutture collegiali nella Chiesa, ecc.
Tutte queste sono questioni certamente importanti e trovano un saldo punto
d’appoggio nel pensiero conciliare, i cui impulsi di riforma sono tutt’altro che spenti;
tuttavia non toccano il tema centrale del Concilio, che è la natura, ovvero il mistero
della Chiesa.
Mistero non significa qualcosa di vago, di imprecisabile e di nebuloso. Il mistero
nella Sacra Scrittura, e soprattutto nelle Lettere della prigionia (Efesini e Colossesi),
indica l’eterna volontà di salvezza, l’eterno disegno salvifico di Dio, che si è
concretizzato storicamente in Gesù Cristo ed è reso sempre presente ed operante
nella Chiesa tramite lo Spirito Santo. Mistero non significa che la Chiesa è una
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semplice realtà invisibile dello Spirito, ma che, al contrario, è una realtà
concretamente visibile, per analogia con l’incarnazione di Cristo. Essa, come dice il
Concilio più volte, sussiste nella Chiesa cattolica; in essa trova concretizzazione (cf.
LG 8). Mistero significa allora ciò che la tradizione latina esprime con il termine
sacramentum: una forma visibile ed uno strumento visibile di salvezza. Ecco come il
Concilio definisce la Chiesa: essa è “in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia
il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere
umano” (LG 1).
Quest’affermazione, che ritroviamo anche in altri documenti conciliari, non contiene
minimamente l’idea di una Chiesa concentrata su se stessa, che si occupa e si
preoccupa solo di sé. Come segno quasi-sacramentale, la Chiesa orienta ad una realtà
che va oltre: essa è un riflesso dell’eterna volontà salvifica di Dio in Gesù Cristo.
Non la Chiesa, ma Cristo è “Lumen gentium”, la luce dei popoli; la Chiesa, secondo
un famoso paragone utilizzato dai Padri della Chiesa, non risplende, come la luna, di
luce propria. Essa è luce solo in Cristo. Il Concilio intende dunque la Chiesa in modo
teocentrico e cristocentrico.
La Chiesa orienta, oltre se stessa, anche alla salvezza dell’uomo e del mondo. Questa
salvezza avviene nella comunione con Dio e con gli altri. Come Gesù Cristo è venuto
“per i molti”, così anche la Chiesa esiste per l’umanità e per il mondo. È una Chiesa
povera che serve, e che è spesso perseguitata. Essa “prosegue il suo pellegrinaggio
fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” (LG 8). È il popolo di Dio,
pellegrino nella storia degli uomini.
Sarebbe pertanto sbagliato pensare che i maggiori risultati del Concilio siano stati
ottenuti soltanto, o principalmente, nelle questioni strutturali. Il Concilio mirava
innanzitutto ad un rinnovamento spirituale, che intendeva realizzare la vocazione
comune alla santità (cf. Capitolo V) ed incoraggiare una vita secondo il Vangelo e
secondo la verità delle beatitudini annunciate nel discorso della montagna.
Ciò vale anche per il Decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”. Questo
documento riprende l’ecclesiologia di “Lumen gentium” e la sviluppa ulteriormente
nella prospettiva di un superamento delle divisioni tra i cristiani. Ciò rappresenta una
rivoluzione davanti alla polemica confessionale esistita fino ad allora. Il Decreto non
sminuisce le differenze; tuttavia, invece di partire da ciò che divide i cristiani, parte
da ciò che li unisce e, riconoscendone la profonda seppur incompleta comunione,
invita al dialogo (cf. LG 15; UR 3). È alquanto significativo che il Concilio non
abbia visto l’ecumenismo principalmente come un’attività esteriore o come un
insieme di dialoghi teologici tra specialisti (per quanto importanti entrambi gli aspetti
possano essere). Il cuore e l’anima dell’impegno ecumenico è l’ecumenismo
spirituale: la conversione a Gesù Cristo, che comporta la purificazione della memoria
e della parola, la vita secondo il Vangelo e la preghiera per l’unità.
Quest’ecumenismo spirituale deve poi produrre gesti e segni concreti (cf. UR 8).
Mi pare che sia proprio questa dimensione spirituale ad essere ricercata oggi, al di là
di tutte le barriere confessionali. Molti uomini e donne avvertono il vuoto interiore
lasciato dal mondo secolarizzato; in loro si risveglia la nostalgia di Dio e la
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consapevolezza di essere profondamente uniti agli altri cristiani che vivono
seriamente la loro fede. Uno dei segni ecumenici più incoraggianti è la rete di
contatti che si sta attualmente diramando tra movimenti spirituali di provenienza
cattolica, protestante, anglicana e ortodossa, come pure il diffondersi di comunità
ecumeniche sul tipo di Taizé, dove si fa fin da ora l’esperienza di una comunione
senza dover prendere le distanze da nessuno, come ha scritto Fratello Roger Schutz
un mese prima della sua tragica morte. In questo senso, sono convinto che il futuro
della Chiesa dipenderà dal futuro dell’ecumenismo.
2. Ma cosa dovremo fare? La risposta ci viene fornita dalla Costituzione sulla
rivelazione divina “Dei verbum”. La Costituzione descrive la Chiesa come verbum
Dei religiose audiens et fideliter proclamans, come Chiesa che ascolta la Parola di
Dio piena di timore reverenziale e l’annuncia fedelmente. Si tratta di una definizione
straordinaria.
Il Concilio ha dovuto percorrere un lungo cammino prima di arrivare a questa
formula. Come è stato detto, il Concilio era stato preceduto dal movimento biblico,
che aveva condotto ad una rivoluzione biblica della spiritualità ed aveva assestato un
duro colpo alla neoscolastica. Ma rimaneva il problema di come conciliare Scrittura e
Tradizione, tema sul quale si accese una violenta controversia sia prima che durante
il Concilio. Si trattava di decidere se la Bibbia fosse compiuta ed in un certo senso
“autosufficiente” dal punto di vista del contenuto, tanto da contenere implicitamente
“in germe” tutte le verità salvifiche; se così era, la Tradizione andava intesa non
come un completamento del contenuto biblico, ma come una sua ulteriore
spiegazione ed interpretazione. Alla fine di un lungo dibattito, il Concilio decise di
lasciare tale argomento in sospeso e si concentrò su una questione ben più importante
e fondamentale. Al posto del rapporto tra Scrittura e Tradizione, fu inserito all’ordine
del giorno il tema del rapporto tra Parola di Dio e Chiesa.
La Parola di Dio non può essere fatta coincidere solo con la Parola scritta nella Sacra
Scrittura o con la dottrina della Chiesa. I dogmi, certo, hanno il loro fondamento
nella Parola di Dio; essi le rendono testimonianza, ma non sono Parola di Dio.
Quando il Concilio parla di Parola di Dio, intende, nel senso della Sacra Scrittura, la
Parola di Dio vivente nello Spirito, che viene annunciata ed accolta nella fede; la
Parola che opera in modo dinamico nella Chiesa attraverso lo Spirito e che poi si
esprime nell’insegnamento, nella vita e nella liturgia della Chiesa. La Costituzione
sulla rivelazione menziona la “viva voce dell’Evangelo”, con cui Dio “non cessa di
parlare con la sposa del suo Figlio diletto” (DV 8).
Ecco dunque che la Costituzione si apre con una formula potremmo dire ad effetto,
assolutamente geniale, che equivale ad una definizione del significato di Chiesa:
“Dei verbum religiose audiens et fideliter proclamans”, la Chiesa è là dove si
ascolta la Parola di Dio pieni di timore reverenziale e la si proclama fedelmente. Ciò
significa che la Chiesa non trae vita da se stessa, ma è una Chiesa in ascolto, che vive
della Parola a lei rivolta da Dio. Tale Parola è per lei sorgente, nutrimento e norma.
Come la Chiesa non vive di se stessa, così neppure vive solo per se stessa. La Chiesa
è inviata ad annunciare al mondo la Parola di Dio come Parola di vita; la sua natura è
una natura missionaria (cf. AG 2). Nella formula sopraccitata, la Costituzione
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riassume dunque l’intera natura della Chiesa nella doppia azione dell’ascolto e
dell’annuncio. Per questo è importante che la Chiesa definisca se stessa innanzitutto
non come Chiesa che insegna, ma come Chiesa che ascolta; solo dopo aver ascoltato,
essa potrà insegnare. Il documento conciliare evidenzia la centralità irrinunciabile
della Parola di Dio e la prioritaria importanza dell’ascolto rispetto al discorrere e al
fare. La Chiesa non è in primo luogo una Chiesa che discorre, ma è una Chiesa che
ascolta e in silenzio riflette.
Nei capitoli successivi, la Costituzione sulla rivelazione non si accontenta di dare
un’interpretazione astratta di questo insegnamento. Nel sesto ed ultimo capitolo,
intitolato “La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa”, accenna alle conseguenze
pratiche. Vengono menzionate le due mense a cui si nutre la Chiesa, la mensa della
Parola di Dio e la mensa del Corpo di Cristo (cf. DV 21), e si citano le parole di San
Girolamo: “L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo” (DV 25). Per
questo, la lettura e lo studio della Sacra Scrittura devono essere l’anima e la misura
della vita, dell’insegnamento e della spiritualità.
Da ciò il Concilio trae diverse conseguenze per la vita e la spiritualità della Chiesa,
come pure per la formazione teologica. A mio parere, il maggiore impulso al
rinnovamento è rappresentato dalla riscoperta in chiave moderna della Lectio divina,
altamente stimata dai Padri della Chiesa e dalla tradizione monastica, ovvero la
lettura e l’interpretazione spirituale della Sacra Scrittura legata alla preghiera. Nella
Lectio divina la Parola della Sacra Scrittura non è semplicemente intesa come un
testo storico. L’esegesi storica ha certamente un ruolo importante da svolgere, ma
solo come strumento che permette di capire la Parola della Scrittura come una Parola
che mi viene rivolta qui ed oggi, come un appello ed un invito, come una lettera
d’amore. Il Concilio ha osservato infatti che, nella Lectio divina, avviene un “dialogo
tra Dio e l’uomo” (DV 25).
Tutte queste affermazioni hanno naturalmente un’importanza fondamentale anche a
livello ecumenico. Infatti è proprio sulla Scrittura che ci siamo divisi dai nostri
fratelli e dalle nostre sorelle protestanti; adesso è sulla Scrittura che dobbiamo
ritrovare l’unità. Insieme dobbiamo leggere e studiare la Parola di Dio, ascoltando le
voci di coloro che lo hanno fatto prima di noi. Dobbiamo riflettere sulla Scrittura
tenendo conto delle interpretazioni di tutti i tempi; dobbiamo considerarla come un
libro appartenente a tutta la Chiesa.
3. L’immagine delle due mense sopra menzionata ci conduce all’altro tema nodale
del Concilio e alla seconda “arteria vitale” della Chiesa: la Chiesa è mysteria Christi
celebrans. Questo era l’argomento trattato nel primo documento discusso e
promulgato dal Concilio, ovvero la Costituzione sulla liturgia “Sacrosanctum
Concilium”, che ha avuto un fortissimo impatto sulla vita ecclesiale. Alcune delle
innovazioni della riforma liturgica postconciliare, ispirata da questa Costituzione,
sono andate perfino al di là di quanto era stato espresso nelle affermazioni del
documento (ad esempio la progressiva scomparsa del latino e la celebratio versus
populum).
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Dopo il Concilio, si dette la precedenza al rinnovamento delle forme “esteriori” del
culto: l’introduzione della lingua del popolo, la riforma del rito e dei testi liturgici, la
partecipazione attiva del popolo di Dio, la più ampia varietà dei servizi liturgici e
l’inculturazione dei gesti e dei simboli liturgici. In questo campo, molte comunità
sono riuscite ad introdurre in modo adeguato una celebrazione eucaristica più viva e
coinvolgente, permettendo a molti fedeli di sperimentare la liturgia in una
dimensione nuova e più profonda. D’altra parte ci sono sicuramente stati (e ci sono
tuttora) abusi ed usi impropri. Non sono dunque mancate recriminazioni da parte di
gruppi tradizionalisti all’interno della Chiesa
Lo stesso Papa Giovanni Paolo II, soprattutto con la sua ultima enciclica intitolata
“Ecclesia de Eucharistia”, si è riallacciato al pensiero della Costituzione liturgica. Il
titolo del documento ci dice che la Chiesa non vive di se stessa, ma vive della Parola
di Dio che si concretizza nei sacramenti e soprattutto nella celebrazione eucaristica.
La Chiesa vive dell’Eucaristia ed è là dove essa viene celebrata per donare agli
uomini il pane di Vita. L’Eucaristia è sorgente e culmine di tutta la vita ecclesiale (cf.
LG 11; SC 10).
Di fatti nella liturgia, ed in particolar modo nell’Eucaristia, si attua l’opera della
redenzione. La liturgia “contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella
loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo” (SC 2). Il coinvolgimento
consapevole ed attivo dei fedeli (cf. SC 11; 14; 48) non si esaurisce nella semplice
partecipazione esteriore, ma significa essenzialmente che il credente impara ad essere
una cosa sola con il sacrificio di se stesso compiuto da Gesù secondo la volontà del
Padre per il bene nostro e per la nostra salvezza (cf. SC 48). La trasformazione del
pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo ha lo scopo di operare la nostra
stessa trasformazione, la nostra Pasqua e la nostra salvezza (cf. SC 61). La
partecipazione consapevole ed attiva dei fedeli si esprime nell’adorazione e
nell’omaggio reso a Dio (cf. SC 33). Lo slogan utilizzato durante il raduno dei
giovani a Colonia è valido anche per ogni celebrazione eucaristica: “Siamo venuti
per adorare il Signore”.
Seguendo il pensiero dei Padri della Chiesa (tra cui in particolare S. Agostino) e dei
grandi teologi dell’alto medioevo, la Costituzione liturgica non si ferma alla
partecipazione personale e all’identificazione del singolo con il sacrificio di Cristo;
l’Eucaristia mira in ultima analisi all’unità della Chiesa, la quale è la res effettiva
dell’Eucaristia, come dice Tommaso d’Aquino. Per questo il Concilio cita
espressamente le famose parole di S. Agostino, sostenendo che l’Eucaristia è segno
di unità e vincolo di carità (cf. SC 47). Agostino arriva perfino a dire che sull’altare è
il nostro mistero. Nell’Eucaristia diventiamo ciò che siamo: il Corpo di Cristo.
Questo insegnamento è diventato il punto di partenza e di aggancio dell’ecclesiologia
eucaristica della communio, sviluppatasi dopo il Concilio; tale ecclesiologia, ispirata
alla Prima Lettera ai Corinzi (10,16 s.), è fondamentale per il dialogo con le Chiese
ortodosse. Attraverso la condivisione dell’unico pane, dell’unico Corpo eucaristico di
Cristo, diventiamo l’unico Corpo ecclesiale di Cristo, che è la Chiesa. La Chiesa
comprende allora se stessa come communio eucaristica; essa è sempre presente là
dove viene celebrata l’Eucaristia. La communio eucaristica è immagine e icona della
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comunione trinitaria tra Padre, Figlio e Spirito (cf. LG 4). In quanto immagine ed
attualizzazione dell’unità di Dio nella Trinità delle persone divine, l’unità della
Chiesa non può essere un’unità dettata dall’uniformazione, ma solo un’unità nella
diversità e una diversità nell’unità.
Ovunque l’Eucaristia è celebrata, anche nel luogo più remoto e nelle condizioni di
massima povertà, là è presente la Chiesa universale, che, tramite tale celebrazione, si
estende fino alla nuova Vita, fino alla communio sanctorum. La celebrazione
eucaristica anticipa la nuova creazione e l’unità escatologica di tutti i popoli. Per
questo, come la comunità primitiva, dobbiamo essere εν αγγαλιασει, nella gioia (Atti
2,46), ovvero dobbiamo celebrare con giubilo l’Eucaristia come festa dei redenti
foriera di vera speranza.
La celebrazione eucaristica non deve dunque essere una copia imperfetta della nostra
routine quotidiana, una noiosa imitazione dei nostri festeggiamenti mondani. Essa
deve piuttosto lasciar trasparire un raggio della trascendenza divina, del mistero di
Dio, della sua forza liberatrice, redentrice, consolatrice. Questo è proprio quello che
molti ricercano oggi e che affascina non pochi giovani. Nella celebrazione
eucaristica, nel mezzo di un mondo percepito spesso come grigio e sconsolato, si
apre uno spiraglio che ci lascia scorgere un altro mondo e che ce lo rende presente.
Ogni celebrazione eucaristica è allora una festa della speranza.
4. Queste riflessioni ci portano all’ultimo punto che desidero presentare, che è stato
menzionato nella Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo di oggi, “Gaudium
et spes”: la Chiesa è pro salute mundi. La Chiesa non vive né di se stessa, né per se
stessa, ma vive della Parola e del Sacramento ed esiste per rendere servizio al
disegno divino di salvezza del mondo e di ogni essere umano.
La Costituzione pastorale è un “unicum”; essa rappresenta una novità nei duemila
anni di storia dei concili. Il titolo stesso, “Costituzione pastorale”, suggerisce la
novità del contenuto. Il documento non si sofferma tanto sui principi della fede, ma
vuole compiere un’analisi del tempo, dei “segni del tempo”, per valutare la relazione
con i fenomeni e le realtà terrene, spesso condizionati da situazioni specifiche, e
riflettere sulla scienza, la cultura, la coppia, la famiglia, il lavoro, l’economia,
l’ordinamento sociale, la guerra e la pace e perfino il problema del conflitto atomico.
A causa della grande varietà dei temi affrontati, spesso la Costituzione pastorale è
stata definita, con una vena di derisione, come “arca di Noè” dove si è voluto stipare
tutto ciò che non entrava negli altri documenti.
Ma una questione non ha trovato posto in modo esplicito nella Costituzione
pastorale. E si tratta proprio della questione fondamentale del nostro tempo: il
problema della libertà, la cui “punta dell’iceberg” è, sul piano teorico, pratico e
politico, la libertà religiosa. Durante il Concilio, tale problematica aveva acceso le
discussioni più lunghe e difficili, che avevano rischiato di portare ad un’impasse. Poi
ecco sopraggiungere la svolta, con la Dichiarazione sulla libertà religiosa,
“Dignitatis humanae”, che affermava il diritto della persona e delle comunità alla
libertà sociale e civile nelle questioni religiose.
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Tale documento, in modo molto più chiaro di “Gaudium et spes”, affronta dunque la
tematica moderna della libertà. Esso costata, sin dalla prima frase, che nel nostro
tempo la coscienza della dignità umana si fa sempre più viva; afferma poi che la
verità può essere riconosciuta solo nella libertà. L’allora cardinale Wojtila, che
diventerà Papa Giovanni Paolo II, fece un apprezzatissimo intervento proprio
sull’intimo nesso che lega verità e libertà. Se è innegabile che la verità può essere
riconosciuta solo nella libertà, è altrettanto certo che la libertà trova la sua piena
realizzazione solo nella verità. L’importanza di tali affermazioni per il dialogo con le
altre religioni, e soprattutto con l’ebraismo e con l’islam, è stata evidenziata dalla
Dichiarazione “Nostra aetate”. Questo documento, insieme a “Dignitatis humanae”,
costituisce la base sulla quale si svilupperà la politica di promozione dei diritti umani
del Pontificato di Giovanni Paolo II sia nei confronti del conflitto tra i due campi
della cortina di ferro, che nelle prese di posizione a favore della giustizia e della
libertà nel terzo mondo.
Insieme alla Costituzione pastorale, questi documenti hanno permesso di compiere
un passo decisivo e di superare la cosiddetta epoca costantiniana di simbiosi tra
Chiesa e Stato, tra sfera terrena e sfera spirituale. Essi hanno affermato la legittima
autonomia di campi come la scienza e la cultura, l’economia e la politica (cf. GS 36;
42; 56; 75). Al contempo, si sono espressi in maniera veemente e decisa contro la
tentazione laicistica di relegare la Chiesa al suo stesso interno, per così dire “dentro
la sacrestia”. Il loro scopo è infatti quello di superare la frattura che esiste tra la fede
e la vita di tutti giorni, frattura considerata dalla Costituzione pastorale come una
delle più gravi distorsioni del nostro tempo (cf. GS 42). La Chiesa non lascia che la
si limiti alla sfera del personale e del privato, ma vuol far sentire la sua voce
pubblicamente quando si tratta di prendere posizione sulle questioni umane
fondamentali, non nel proprio interesse ma nell’interesse dell’umanità. Per questo,
con i sopraccitati documenti, la Chiesa non si rivolge soltanto ai propri fedeli ma a
tutta la famiglia umana; non si occupa soltanto di problemi interni di fede e di
disciplina, ma affronta questioni essenziali per l’uomo odierno.
Se la consideriamo più attentamente, vediamo comunque che la Costituzione
pastorale non tratta soltanto la dimensione “ad extra”. Il suo titolo non è: “La Chiesa
e il mondo contemporaneo”, ma “La Chiesa nel mondo contemporaneo”. La Chiesa
non si atteggia a “Mater e Magistra” davanti al mondo, ma concepisce se stessa
come parte del mondo; e con il mondo si sente solidale. Significativa è la prima frase
della Costituzione, molto citata: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce
degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (GS 1).
Il riconoscimento della legittima autonomia delle realtà terrene e dei vari campi di
attività umana dimostra che non solo il titolo e non solo molti dei temi della
Costituzione sono nuovi, ma che nuovo è anche il modo di affrontare i vari
argomenti. Il documento riconosce l’importanza del dialogo con il mondo
contemporaneo; il dialogo diventa così uno dei concetti principali e ricorrenti sia nel
pensiero del Concilio Vaticano II che nei dibattiti postconciliari (cf. GS 3; 19; 21; 25;
40; 43; 56; 85; 90; 92). La Costituzione pastorale non vuole redarguire il mondo
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dall’alto del pulpito, ma condividere le esperienze dell’uomo con le sue gioie e le sue
sofferenze.
Ma come è possibile farlo? Come può esprimersi la Chiesa in modo autorevole sulle
molteplici questioni che riguardano la vita dell’uomo? Tocchiamo qui forse la novità
più interessante della Costituzione. Essa non ricorre al fondamento classico del
diritto naturale, che equipara tutti gli esseri umani e costituisce un ponte di
comprensione universale tra credenti e non credenti, tra cristiani e fedeli di altre
religioni. Il documento conciliare prende una strada diversa, poiché parte non dai
presupposti della fede naturale, dai praeambula fidei, ma dal centrum fidei, dal
messaggio di Gesù Cristo.
Questo è possibile grazie all’universalità della cristologia, fondata soprattutto su
Colossesi 1,15-20: “…poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose… Tutte
le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui” (cf. Gv 1,3; Ef 1,3-10;
Ebr 1,2). Così, alla fine della sua introduzione, la Costituzione pastorale afferma in
modo programmatico: “la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà
sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua
altissima vocazione […]. Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la
chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. […] Così nella luce di Cristo […] il
Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell'uomo e per cooperare
nella ricerca di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo” (GS 10).
Questi argomenti cristologici, che ritroviamo anche in altri punti (cf. GS 22; 32; 39;
45; 93), sono stati poi regolarmente ripresi e approfonditi da Papa Giovanni Paolo II,
il quale, come padre conciliare, aveva partecipato attivamente alla stesura della
Costituzione pastorale.
Tale documento aveva in un certo modo previsto lo sviluppo del pluralismo
postmoderno; aveva percepito la crisi del mondo moderno, la rimessa in discussione
dei grandi ideali dell’epoca moderna e di tutta la cultura occidentale. L’allora
cardinale Joseph Ratzinger, nella sua disputa con Jürgen Habermas a Monaco, aveva
a ragione sostenuto che l’argomento basato sul diritto naturale era ormai non
utilizzabile, poiché nel mondo odierno pluralista di fatto non esiste più il fondamento
comune di tale pensiero. A causa del processo di decolonizzazione e di
emancipazione dall’Europa, neppure l’eurocentrismo ha più un senso. Nel cosiddetto
terzo mondo, l’idea del diritto naturale spesso è considerato come un’importazione
coloniale. Ecco allora che dobbiamo porci una difficile domanda kerygmatica di
teologia fondamentale: in questa nuova società pluralista, come può la Chiesa, con il
suo messaggio universale, essere veramente compresa da tutti?
La soluzione suggerita dal Concilio è in un certo senso profetica. Partendo dal
proprio messaggio particolare, dal proprio linguaggio biblico specifico, si scopre la
legge iscritta nel cuore anche dei pagani (cf. Rom 2,15) e così si illumina una realtà
spesso è offuscata. Così si apre al dialogo e all’incontro con altre correnti, religioni e
ideologie, al fine di rendere comprensibile tale messaggio. Il messaggio cristiano
riporta alla luce l’ordine naturale insito in ogni essere umano, poiché in Cristo Dio
non ha rivelato soltanto sé stesso, ma ha rivelato anche l’uomo all’uomo (cf. GS 22).
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Come ha detto Giovanni Paolo II, la Chiesa, proprio con il suo messaggio
cristologico, dimostra di essere “esperta” della realtà degli uomini.
Con il suo argomentare dialogico, la Costituzione centra esattamente, in modo
profetico, quella che è l’aporia odierna fondamentale, già “in nuce” in quel tempo, e
dà praticamente la stessa risposta che aveva dato Pietro, nel sesto capitolo del
Vangelo di Giovanni. Quando Gesù chiede ai suoi discepoli: “Forse anche voi volete
andarvene?”, Pietro replica: “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”
(Gv 6, 66-69).
Ciò significa che, in quanto Chiesa, dobbiamo avere il coraggio di essere noi stessi,
dobbiamo avere il coraggio di proclamare il messaggio di Gesù Cristo, sicuri della
forza della nostra fede. Solo così potremo essere credibili e farci comprendere anche
dagli altri, nel modo migliore e più veritiero. Domandiamo allora a noi stessi e ai
nostri interlocutori: chi può dirci parole più vere e più convincenti? Dove trovare
simili parole di vita?
E chiediamoci infine: qual è il messaggio che il Concilio può darci oggi? All’inizio
delle nostre riflessioni, pareva che la Chiesa fosse al centro dell’attenzione. Ma
abbiamo poi visto che il Concilio non la tratta in modo isolato, ma la iscrive nel più
ampio contesto del mistero di Cristo. Gesù Cristo, tramite la Parola ed il Sacramento,
è sempre presente e operante. Questa visione cristocentrica si estende fino a
diventare una cristologia universale, che dimostra la sua forza nell’aporia odierna e ci
aiuta a superarla. L’essenza del messaggio conciliare si riassume in fondo nel titolo
stesso della Costituzione pastorale: “Lumen gentium- Jesus Christus”, Gesù Cristo,
luce del mondo. Secondo il Vangelo di Giovanni, Cristo è la luce che “splende nelle
tenebre” (Gv 1,5), è “la luce del mondo” (Gv 8,12). Egli rischiara le tenebre con la
sua luce e ci mostra la via d’uscita nell’aporia in cui ci troviamo.
Il Concilio ha visto con grande lucidità gli squilibri della società moderna, i suoi lati
oscuri e le sue lacerazioni e li ha anche chiamati per nome. Ma non ha ceduto al
pessimismo, al disfattismo apocalittico. Con lo sguardo sempre volto alla croce e alla
risurrezione di Gesù Cristo, ha annunciato Cristo come nuovo Adamo e ha
proclamato il messaggio di una vera speranza, vincitrice nel mondo.
E la speranza è diventata merce preziosa ai nostri giorni, poiché spesso a mancarci
sono proprio le prospettive per il futuro. Il messaggio del Concilio Vaticano II è
dunque oggi non meno attuale di quanto lo era quarant’anni fa. È bene riprenderlo,
attingere ancora alla sua ricchezza e farlo nuovamente risplendere sia nell’annuncio
che nella vita della Chiesa. Questo messaggio cristologico è lungi dall’essersi
esaurito, anzi, è luce e speranza anche per oggi.
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