Andrea Andretto
L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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ANDREA ANDRETTO
L’IDEA DI FELICITA’ NELLA
«CITTA’ DI DIO»
di Sant’Agostino Vescovo di Ippona
INDICE
1. Sintetici cenni biografici di Agostino di Ippona.
2. L’opera: «La città di Dio». Un primo abbozzo sintetico di presentazione.
3. L’opera: «La città di Dio». Struttura e contenuti dei singoli capitoli.
4. Il concetto di felicità nell’opera «Città di Dio». Recensione di passi salienti.
4.1. Gli dei pagani non possono assicurare la felicità.
4.2. La dea pagana Felicità. Solo il culto al vero Dio reca in dono la felicità!
4.3. La felicità è trascendente rispetto ai beni materiali.
4.4. La felicità nel tempo.
4.5. La felicità degli angeli.
4.6. Rilettura agostiniana del tema platonico della felicità.
4.7. Il «Cristo mediatore» in ordine al raggiungimento della felicità.
4.8. Quando l’uomo è felice?
4.9. La dimensione corporea: dato irrinunciabile perché un’esistenza abbia a dirsi
felice.
4.10. La felicità nell’esperienza topica di Adamo e Eva.
4.12. La felicità associata al concetto di pace.
4.13. Gli elementi qualificanti la felicità eterna
5. Proposta sistematica conclusiva.
Andrea Andretto
L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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1. Sintetici cenni biografici di Agostino di Ippona
Agostino nasce a Tagaste da padre pagano e madre (Monica) fervente cristiana. Viene inviato a
Cartagine, grazie al padre, per compiere gli studi di retorica. In questo periodo di studi nutre una forte
passione per l’Ortensius di Cicerone. Nel 384 lo troviamo a Roma, da Simmaco, come oratore ufficiale di
corte. Decide poi di trasferirsi a Milano, ove incontra Ambrogio, e rimane affascinato dalla sua
predicazione. Il biennio 384-386 è un periodo di forte travaglio spirituale. “L’incontro” dapprima con le
“Enneadi” di Plotino, e poi con la “voce nel giardino” che suggeriva di aprire la Bibbia al passo di Rm 13,
portano Agostino alla conversione. Nel 387 viene battezzato dal vescovo Ambrogio. A Ostia nello
stesso anno muore la mamma Monica. Nel 388 torna in Africa e fonda una comunità religiosa. Nel 391
viene ordinato sacerdote. Nel 395 Agostino viene elevato alla cattedra episcopale di Ippona. Durante il
suo ministero episcopale nutre un forte interesse per la riforma del clero, facendo in modo che
quest’ultimo sia organizzato in comunità. Anche la liturgia e il catecumenato sono al centro
dell’attenzione del Santo Vescovo di Ippona. Egli si interessa inoltre della “evangelizzazione dei neri”, e
approfitta dei ritagli di tempo, per il lavoro intellettuale. La sua azione magisteriale ha come scopo, oltre
alla formazione del popolo affidatogli, la predicazione contro le eresie del tempo. Prima tra tutte il
MANICHEISMO (Agostino si prodiga per difende la dignità della Chiesa Cattolica, e il suo diritto esclusivo
a dirsi Chiesa di Cristo; difende la validità l’Antico Testamento come preparazione del Nuovo
Testamento). Altra eresia è il DONATISMO, i cui seguaci tendevano a fondare una chiesa di rigoristi
epurata e staccata dai lapsi (A tal proposito Agostino sostiene fermamente, contro chi accusava i ministri
ordinati che avevano rinnegato la fede in tempo di persecuzione, che la grazia sacramentale agisce per se
stessa e che le condizioni soggettive del ministro sono secondarie). Altra eresia è il PELAGIANESIMO
(Agostino si prodiga per sottolineare il primato della grazia nel cammino della vita cristiana, contro
coloro che pretendevano di attribuire la salvezza agli sforzi compiuti dagli uomini). Agostino muore nel
395.
2. L’opera: «La città di Dio». Un primo abbozzo sintetico di presentazione.
Ci serviamo dell’introduzione di A. Landi1 alla traduzione dell’opera agostiniana in lingua italiana, per
fornire le coordinate storiche del testo. «I visigoti, popolo “germanico” proveniente dalla Scandinavia e già riuscito
vincitore dalle truppe imperiali romane a Andrianopoli (nel 378), dal 401 erano entrati in Italia agli ordini di Alarico e,
con alterne fortune, erano arrivati fino alle porte di Roma. Allora però (nel 408) si erano ritirati dopo aver ottenuto un
riscatto. Ora, nel 410, riattaccano l’Urbe e, grazie a un tradimento, entrano in città. Non furono tante, forse le
distruzioni materiali, ma il solo fatto che l’urbe, maestra e dominatrice di popoli subisse una tale umiliazioni, disorientò
gli animi»2. Questo fatto sconcertante porta Agostino a redigere la presente opera: «uno sforzo eroico per svincolarsi dalla
tradizione, per dare coscienza e significato nuovo, nei disegni della divina Provvidenza, a tutta la storia degli uomini, sacra
e profana, il modello di tutta la storiografia, il quadro di tutta la pubblicistica medievale»3. Landi continua «Dunque
agli animi disorientati dei cristiani e agli amari commenti dei pagani, Agostino si rivolse con l’intento di calmare gli spiriti
e di difendere la verità. Cominciava a serpeggiare una voce: Roma era stata fiorente finchè aveva onorato gli dei; ora il Dio
dei cristiani non la sa proteggere; forse anzi, coi suoi precetti di pazienza e di perdono rende inetto un popolo di forti! Si
diffonde, insomma, la convinzione che non si può scindere la grandezza di Roma dal mantenimento del paganesimo che
invece gli imperatori stavano ormai osteggiando. Agostino coglie l’occasione per mettere mano ad una nuova opera che
influisca radicalmente sulla mentalità comune, che aiuti gli uomini a considerare i fatti, anche catastrofici, alla luce di un
Dio provvidente che li guida, un’opera che dia i principi di una nuova filosofia sociale»4.
Agostino nella sua monumentale opera, affronta il dramma dell’esistenza di due città, esistenza che
trova il fondamento in due tipi di amori. Così ancora Landi si esprime «due amori hanno costruito due città:
l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha edificato la città terrena, visibile e peritura: è Roma, e misticamente
l’insieme degli uomini che regolano la propria vita secondo il proprio arbitrio, indipendentemente dalla legge di Dio;
l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé ha edificato la città celeste, invisibile, eterna: essa è in perenne crescita, dalla
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 11.
3 G. FALCO, La santa romana repubblica, Milano 1963, Ricciardi. pp. 50-51
4 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 12-13.
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prima chiamata di Dio ad Abramo fino al tempo della Chiesa e dell’impero romano-cristiano; essa fatica e affronta
difficoltà di ogni genere qui in terra, ma in cielo celebrerà un riposo senza fine nel possesso di Dio; La città terrena coi suoi
imperi è destinata a cadere; alla civiltà cristiana è garantita la vittoria finale. Tuttavia la distinzione fra gli “abitanti” di
queste due città non è così netta: essi vivono in terra mescolati fra loro fino al giorno in cui il giudizio di Dio non rivelerà
la loro appartenenza.»5.
6. L’opera: «La città di Dio». Struttura e contenuti dei singoli capitoli.
Potremmo suddividere l’opera agostiniana in due grandi sezioni.
a) L’impotenza degli dei pagani (Libri I – X)
b) La città degli uomini e la città di Dio (libri XI – XXII)
Ricorrendo al prezioso lavoro di G. Borgogno 6 , il quale all’inizio di ogni singolo libro annota
sinteticamente i contenuti che Agostino intende sviluppare , riportiamo i temi trattati dal Vescovo di
Ippona nei singoli libri della sua opera.
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L’IMPOTENZA DEGLI DEI
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Sant’Agostino riprende i pagani che attribuivano alla religione cristiana, la quale
proibisce il culto agli dei, le calamità del mondo di allora, e specialmente la
devastazione di Roma per opera dei goti. Tratta dei beni e dei mali, comuni, allora
come sempre, ai buoni e ai cattivi. Confuta infine le insolenze di coloro che
contestavano alle donne cristiane violate dai soldati la loro pudicizia
I mali che hanno desolato Roma prima della venuta di Cristo quando ancora fioriva il
culto dei falsi dèi, i quali, non solo non hanno saputo liberare i loro adoratori da quelli
che sono i veri mali, o, per lo meno, i maggiori, e cioè la corruzione e i vizi, ma anzi,li
hanno resi schiavi di essi.
Nel libro precedente Agostino ha trattato dei mali che guastano i costumi e l’animo; in
questo libro tratta delle sventure e mali esterni sofferti dai romani senza interruzione
della fondazione di Roma, per i quali essi non ebbero alcun aiuto dagli dei, pure, prima
di Cristo, avevano libertà di servirli
La grandezza e la durata dell’impero romano non si debbono attribuire a Giove o ad
altri pagani, a ognuno dei quali si credeva di dover affidare singoli uffici e persino le
infime mansioni, ma al solo vero Dio, autore della felicità, arbitro e giudice delle
potenze della terra
Sant’Agostino continua a ragionare sullo sviluppo della potenza romana e combatte
l’opinione di coloro che l’attribuiscono alla Fortuna o al Caso. Tratta quindi della
prescienza divina e dimostra che essa non distrugge affatto il libero arbitrio della
volontà. Si trattiene poi intorno ai costumi degli antichi romani, indagando per quali
virtù o per quale giudizio divino, essi abbaino avuto l’esistenza di quel Dio che non
adoravano. Da ultimo esamina quale sia la felicità degli imperatori cristiani
Fino a questo punto Sant’Agostino ha discusso contro quelli che propugnano il
dovere del culto degli dèi per ottenere beni in questa vita temporale: ora discute
contro coloro che lo propugnano per la vita eterna. Nel confutarli con i seguenti
cinque libri, egli mostra in primo luogo quale bassa opinione abbia avuto degli dei lo
stesso Varrone, autorevolissimo scrittore di teologia pagana; parla della triplice
divisione della teologia ammessa da costui: favolosa, naturale, civile, e dimostra che
quella civile e quella favolosa non giovano in nulla per la felicità della vita futura
Gli dei prescelti dalla teologia civile: Giano, Giove, Saturno e altri ancora. Ma neppure
con il loro culto si può pervenire alla felicità della vita eterna
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 13.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. (Borgogno è il traduttore dell’opera e il redattore delle note)
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LA CITTÀ DEGLI UOMINI
LA CITTÀ DI DIO
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Tratta della terza specie di teologia: la naturale. Incomincia a discutere con i platonici
– superiori a tutti gli altri filosofi e più vicini alla religione cristiana – la quale
riguardante il culto degli dei appartenenti a questa teologia, per vedere se esso giovi al
conseguimento della felicità eterna. Confuta anzitutto Apuleio e tutti quelli che
ritengono necessario il culto dei demoni come messaggeri e interpreti tra gli dèi e gli
uomini. Dimostra quindi che proprio i demoni, pieni di vizi, hanno introdotto tutte
quelle cose che le persone oneste e prudenti rigettano e condannano, cioè le sacrileghe
invenzioni dei poeti, gli spettacoli teatrali, i malefici e i delitti delle arti magiche, e
prova che, se essi favoriscono e si dilettano di queste cose, non possono in nessuno
modo, conciliare gli uomini con gli dèi buoni
Dopo aver parlato nel libro precedente del riprovevole culto dei demoni, che si
manifestano in mille modi, spiriti cattivi, sant’Agostino passa a confutare coloro che
fanno distinzione tra demoni buoni e demoni cattivi. Dimostra falsa tale distinzione e
prova che a nessun demone, ma soltanto a Cristo compete l’ufficio di mediatore degli
uomini affinché conseguano la beatitudine eterna
Sant’Agostino insegna qui che gli angeli buoni non permettono che il culto divino o di
latria, espresso con sacrifici, sia reso ad altri che all’unico Dio al quale essi stessi
servono. Poi discute contro Porfirio circa il principio e la via di purificazione e di
liberazione dell’anima.
Comincia la seconda parte di quest’opera. In essa si espone la dottrina delle due città,
la terrena e la celeste, cioè: la loro origine (exortus), il loro sviluppo (procursus), la loro
destinazione finale (fines debiti). In questo libro sant’Agostino dimostra anzitutto
come le due città ebbero origine dalla separazione degli angeli buoni dai cattivi; poi
tratta della creazione del mondo seguendo il racconto biblico di Genesi..
In questo libro sant’Agostino si pone la questione dell’origine della volontà buona di
alcuni angeli e della cattiva di altri: la buona volontà degli uni è causa della loro felicità,
la cattiva volontà degli altri è causa della loro miseria. Poi tratta della creazione
dell’uomo e dimostra che fu creato non «ab aeterno», ma nel tempo e non da altro
creatore che Dio
In questo libro sant’Agostino insegna che la morte degli uomini è castigo, e fu causato
dal peccato di Adamo
Sant’Agostino tratta nuovamente del peccato del primo uomo che è la causa della vita
carnale e delle passioni sregolate; soprattutto mostra che la vergognosa libidine è
castigo della disobbedienza a Dio, e cerca il modo con cui l’uomo avrebbe generato i
figli senza libidine se non avesse peccato..
Dopo aver trattato nei quattro libri immediatamente precedenti dell'origine delle due
città, la terrena e la celeste, sant'Agostino parla, in altrettanti libri, del loro sviluppo, ed
esamina i principali capitoli della storia sacra che riguardano tale argomento. In questo
libro considera i capitoli della Genesi che parlano di Caino e Abele e della loro
discendenza fino al diluvio
Nella prima parte di questo libro, ossia dal capitolo primo fino al dodicesimo, è
narrato lo sviluppo della città celeste e della città terrena da Noè ad Abramo, secondo
la traccia della storia sacra. Nella seconda parte è narrato lo sviluppo storico della sola
città celeste, da Abramo fino ai re d’Israele
In questo libro si tratta dello sviluppo della città di Dio all’epoca dei re e dei profeti,
da Samuele a Davide fino a Cristo, e si espongono le profezie di quei tempi
riguardanti Cristo e la sua Chiesa che sono contenute nei libri sacri dei Re, dei Salmi e
di Salomone
Sant’Agostino parla del cammino delle due città, la terrena e la celeste, dal tempo di
Abahamo fino alla fine del mondo. Tratta gli oracoli intorno a Cristo, quelli delle
sibille e quelli soprattutto dei sacri vati che scrissero dall’inizio del Regno di Roma
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Nel presente libro sant’Agostino discute sulla destinazione finale delle due città: la
terrena e la celeste. Esamina le teorie dei filosofi circa la fine dei vari beni e dei vari
mali e la vanità dei loro sforzi nel procurare la felicità in questa vita. E mentre confuta
costoro dimostra quale sia la beatitudine e la pace della città celeste (ossia del popolo
cristiano) che può essere già posseduta quaggiù e che si può sperare nel futuro.
Il giudizio finale e le testimonianze del Nuovo e del Vecchio Testamento che lo
preannunciano..
Il fine proprio della città di Satana, ossia il supplizio eterno dei dannati e gli argomenti
degli increduli contro tale supplizio
Il fine proprio della città di Dio, cioè l’eterna felicità dei santi. Sant’Agostino conferma
la fede nella resurrezione dei corpi e spiega come avverrà. Dopo aver detto quale sarà
la vita dei santi nei loro corpi immortali e spirituali chiude l’opera
Dopo avere elencato i temi dei singoli libri ci occupiamo ora di vedere quale sia la concezione
Agostiniana di felicità nei vari libri della “città di Dio”.
4. Il concetto di felicità nell’opera «Città di Dio». Recensione di passi salienti.
4.1. GLI DEI PAGANI NON POSSONO ASSICURARE LA FELICITÀ.
Come abbiamo avuto modo di dire nella nostra introduzione, l’opera agostiniana che stiamo
analizzando prende in considerazione nella prima sezione la falsità del culto agli dei pagani. In relazione
al tema che stiamo trattando, quello della felicità, l’intento di Agostino sarà quello di mettere in evidenza
come tali dei non possano offrire la vera felicità.
Un primo esempio lo reperiamo nel libro primo, capitolo quindicesimo: «Il caso di Regolo,
prigioniero spontaneo per fedeltà a un giuramento, è un esempio e tuttavia la sua pietà verso gli dei non
gli giovò»7.
«Infatti col suo esempio ci insegnò che gli dei non possono nulla per la felicità
temporale dei loro adoratori, perché egli, che li onorava, fu vinto e fatto
prigioniero, e quando volle mantenere il giuramento fatto, venne ucciso con un
nuovo supplizio orribile e inaudito»8.
Secondo S. Agostino il culto agli dei falsi, quelli che venivano adorati prima ancora che Cristo fosse
conosciuto, porta l’uomo a ricercare la felicità nelle realtà terrene e materiali. Questa è l’idea dell’autore
nel libro secondo, capitolo ventesimo: «Di quale felicità vogliono godere e con quale moralità vivere
coloro che accusano il tempo della venuta del cristianesimo».
«… Con le leggi si badi più a chi nuoce all’altrui vigna che chi nuoce alla
propria vita. Che sia condotto innanzi ai giudici solo chi è molesto e nocivo alla
roba, alla casa, alla salute altrui; per il resto ognuno faccia quello che più gli
piace delle cose sue con gli amici e con chiunque altro ne abbia voglia.
Abbondino le pubbliche meretrici per tutti coloro che ne vvoglio approfittare e
specialmente per quelli che non possono procurarsi una concubina. Si
costruiscano delle case grandi e ornate; si bandiscano spesso suntuosi conviti;
ovunque si crederà e sarà possibile, si giochi, si beva, si vomiti, si scialacqui di
giorno e di notte.. … sia ritenuto nemico pubblico colui al quale dispiace una
Regolo, generale dell’esercito romano, prigioniero dei Cartaginesi, viene inviato a Roma per fare lo scambio dei prigionieri
sotto giuramento (in nome degli dei) di ritorno qualora non avesse ottenuto lo scopo prefisso. Regolo convince il popolo
romano del contrario, e viene fatto morire chiuso in una botte piena di chiodi pungenti.
8 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 61-63.
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tale felicità, e il popolo non dia ascolto a chiunque oserà tentare di cambiarla o
levarla, ma anzi lo scacci dalle abitazioni e lo tolga dal mondo»9
Ancora nel medesimo libro secondo, al capitolo ventitreesimo «Le varie vicissitudini non dipendono
dal favore o dall’avversione degli dei, ma dal giudizio del vero Dio» Agostino parla della felicità
temporale che è procurata anche senza l’aiuto degli dei. Ma nello stesso capitolo l’autore parla anche di
una vera felicità che è connessa al culto a Dio.
«… gli uomini dunque possono procurarsi la felicità temporale che tanto amano,
anche senza l’aiuto degli dei: uomini come Mario possono accumulare beni,
godere salute, forza, ricchezze, avere onori, dignità, vita lunga malgrado la
collera degli dei»… … «La felicità più vera è quella che ha origine della bontà
di chi rende culto a Dio, perché da lui soltanto viene elargita».
Nel libro quarto, al capitolo terzo «La grandezza dell’impero che non si acquista se non mediante le
guerre è da considerare un bene per le persone sagge e felici», Agostino mette in evidenza come la
felicità non sia connivente con l’esperienza della schiavitù e della guerra, ma sia ancora una volta da
associare al culto del vero Dio.
«Anzitutto però, vorrei ricercare con quale ragione e con quale prudenza
possono gloriarsi della vastità e grandezza dell’impero, quando non si può
dimostrare che siano felici coloro che sono sempre in guerra, tra il sangue dei
cittadini o di nemici, comunque sempre di uomini, schiavi di paurosi terrori e di
crudeli passioni, per acquistare una gioia che è come il vetro, il quale più splende
tanto più è fragile, onde si deve fortemente temere che all’improvviso si spezzi»10.
«Come questi due uomini, così due famiglie, due popoli due regni, sono soggetti
alla regola dell’onestà: solo applicando questa norma con retta intenzione, si
vedrà facilmente dove sia la vanità e dove sia la felicità». Ecco perché quando si
adora il vero Dio o lo si onora con veri sacrifici e buoni costumi, è utile che i
buoni estendano lontano e per lungo tempo il loro regno, non tanto per essi,
quanto per il benessere di quelli sui quali regnano: poiché per ciò che li riguarda
personalmente, la loro pietà, la loro onestà, grandi doni di Dio, bastano a
renderli veramente felici in questa vita, e a far loro acquistare la vita eterna
Anche nel capitolo dodicesimo del libro sesto «Gli dei non possono assolutamente dare la vita
eterna», Agostino difende spassionatamente l’idea dell’imprescindibilità del culto al vero Dio per
ottenere la felicità. Interessante notare come in questa sede la felicità venga associata alla vita eterna, e
l’infelicità alla morte eterna.
«Ma chi non dà la vera felicità, può dare la vita eterna? Poiché noi chiamiamo
vita eterna quella vita in cui vi è felicità senza fine. Infatti se l’anima vive nelle
pene eterne che tortureranno anche gli spiriti immondi, questo è piuttosto morte
eterna che vita; poiché non vi è nessuna morte peggiore di quando la morte non
muore. Ma l’anima umana, essendo stata creata immortale, non può essere
privata della sua vita: la sua somma morte, perché è l’allontanamento dalla vita
di Dio nel supplizio eterno. Per conseguenza, la vita eterna, cioè la vita
eternamente beata, ci può essere data soltanto da Colui che dà la vera felicità.
Che non la possano dare gli dèi venerati dalla teologia civile ne sono convinti gli
stesso loro adoratori; perciò essi non si devono venerare per i beni temporali e
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 125-129.
Lo schiavo non è felice perché non può occuparsi di se stesso liberamente. Da questo passo si evince come in Agostino la
libertà abbia un peso non indifferente nella determinazione della felicità.
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terreni, come ho dimostrato nei primi cinque libri, e tanto meno per la vita
eterna che incomincia dopo la morte, come ho detto in questo libro, servendomi
anche degli altri»11.
4.2. LA DEA PAGANA FELICITÀ.. SOLO IL CULTO AL VERO DIO RECA IN DONO LA FELICITÀ
Dal capitolo ottavo del libro quarto sino al termine del libro settimo, Agostino ha una chiara
intenzione redazionale: canzonare le principali divinità pagane. Agostino è molto preparato in materia,
anche perché profondo conoscitore delle opere di Varrone, teologo del paganesimo romano.
L’aspetto che più interessa il nostro studio è la critica serrata che Agostino rivolge al culto romano
in onore della felicità.
Un primo esempio lo troviamo al capitolo diciottesimo del libro quarto: «Perché distinguono la
felicità dalla fortuna coloro che le ritengono dee?». Agostino in questa sede ci offre due indicazioni
preziose, una sorta di “fenomenologia della felicità”. La prima indicazione è che dalla cattiveria e dal
male non può nascere la felicità (perché altrimenti non è più felicità! – dice Agostino – ). La seconda
indicazione è che la felicità e la condizione di uomini buoni che hanno acquisito dei meriti.
«Che dire del fatto che anche la Felicità è una dea12? Ha avuto un tempio e un
altare sul quale le hanno offerto sacrifici appropriati. Avrebbe dovuta essere
adorata essa sola perché qual bene può mancare dove lei si trova? Ma cosa
significa il fatto che sia ritenuta dea e come tale venga adorata anche la
Fortuna? E’ forse diversa la Felicità dalla Fortuna? Sì, perché la Fortuna può
essere anche cattiva mentre la felicità quando è cattiva, non è più felicità»… …
«La felicità è quella dei buoni, che hanno in virtù dei meriti acquisiti; la
fortuna, invece, che si dice buona, è quella che viene casualmente ai buoni e ai
cattivi senza riguardo dei loro meriti.»13
Agostino continua la sua riflessione al capitolo ventunesimo, del libro quarto «Non comprendono i
doni di Dio, i pagani avrebbero dovuto contentarsi della virtù della felicità». Anche in questa sezione
l’autore vuole mettere in evidenza in prima battuta la provenienza della felicità dall’unico Dio (l’idea di
“dea felicità” è una creazione della vanità umana); in seconda battuta il Vescovo di Ippona vuole
sottolineare lo stretto legame che esiste tra virtù e felicità.
«Queste due dee furono create dalla vanità non dalla verità, poiché esse sono
doni del vero Dio, non delle dee. Del resto, là dove si trovano la Virtù e la
felicità, che cos’altro si cerca? Che cosa può bastare a chi non basta la Virtù e
la Felicità? La virtù infatti comprende tutto quello che si deve fare, e la Felicità
tutto quello che si deve desiderare» … «Quale necessità, dunque, di adorare sì
gran numero di dei (io non li ho ricordati tutti e neppure i pagani sono stati
capaci di immaginare e di distribuire per tutte le comodità umane, considerate
singolarmente e divise una per una, i relativi dèi particolari, uno per ciascuna)
per i beni sia spirituali che temporali, bastando a concederli tutti la sola Felicità
senza ricorrere a nessun altro, non solo acquistare i beni, ma anche per evitare i
mali?»14
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 362.
Nota del curatore dell’edizione italiana: «il culto della dea Felicità non era molto antico: fu introdotto in Roma da L. Licinio Loculo,
console nel 74 a.C., il quale le fece anche erigere il primo tempio nel quartiere Velabro. A Roma tale culto ebbe un notevole successo, non così nelle
province dell’impero
13 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 237.
14 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 241.
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Agostino giunge quindi a interrogare ipoteticamente il culto pagano, domandando il perché non ci
sia che un unico culto alla dea felicità. L’autore, partendo dalla considerazione della felicità come unico
bene per tutti gli uomini, si domanda che bisogno ci sia di officiare culti ad altri dei, se il dono che più
conta per l’uomo lo fornisce la dea felicità. E’ lo stesso Agostino a rispondere. A fare problema secondo
il Santo Vescovo di Ippona è ancora una volta il culto agli dei falsi, perchè la felicità non può che venire
dal culto all’unico vero Dio. Siamo al capitolo ventitreesimo del libro quarto, e prima di lasciare ancora
una volta la parola ad Agostino vogliamo rilevare come l’autore stesso ponga in evidenza la valenza
antropologica (per ogni uomo, nessuno escluso!) della questione della felicità
«Se i libri e il culto dei pagani sono veri e se la Felicità è una dea, perché non fu
istituito un culto per lei sola potendo essa concedere ogni bene e rendere d’un
tratto tutti felici? Non è infatti per essere felici che si desidera questa o quella
cosa?» …«Ma come poteva esservi una vera felicità dove non c’era la vera
pietà? La pietà, infatti, è i culto del vero Dio, non il culto di tanti falsi dei
quanti sono i demoni» «Nessuno dubita infatti che si possa facilmente trovare
un uomo che tema d’essere fatto re, ma certo non si trova nessuno che non voglia
essere felice» 15 … «Non può essere felice chi adora la Felicità come dea e
abbandona Iddio, datore della felicità, come non può essere sfamato che lambisce
un pane dipinto e non chiede il pane vero all’uomo che lo possiede»16
In un maniera simile Agostino si esprime nella prefazione al libro quinto della sua opera.
«Ma coloro i quali ritengono che i pianeti determino, indipendentemente dalla
volontà di Dio, quello che dobbiamo fare e quello che dobbiamo godere o soffrire,
sono da disapprovare non solo da chi professa la vera religione, ma anche da chi
ne ha una falsa, qualunque essa sia. Infatti, a che cosa tende questa opinione se
non a sopprimere ogni culto divino e ogni preghiera».17
Agostino allo stesso proposito lega il senso del sacrificio offerto all’unico Dio all’ottenimento della
felicità. E lo fa al capitolo sesto del libro decimo della sua opera, a proposito de « Il vero e perfetto
sacrificio»:
«Vero sacrificio dunque è qualsiasi opera che contribuisce a unirci a Dio con
una santa unione, riferita cioè a quell’ultimo fine per il conseguimento del quale
diventiamo veramente felici»18
Il tema della valenza antropologica della felicità torna al capitolo terzo del libro decimo: «Il vero
culto di Dio…»
«Chi ama se stesso non desidera altro che la propria felicità»19
Giungiamo quindi a comprendere che nella produzione di Sant’Agostino vi è un legame inscindibile
tra servizio all’unico Dio e dono della felicità. Così Agostino si esprime nel capitolo venticinquesimo del libro
Nota del curatore dell’edizione italiana: «Questa è una affermazione ricorrente assai spesso nelle opere di sant’Agostino
(cfr. Epist., 104, 4, 12; 130, 4,9; Serm., 51,2; 150,4; 231, 4; 306,3; De moribus eccles. Cathol et manich., I, 3,4; De libero arbitrio I,
14;30; II, 9, 26; De magistero, 14, 46; Enarrat. in Ps, 33, 2, 15; Confessiones X, 20, 29 e 21, 31; De Trinitate, XIII, 8, 11 e 20, 25; De
nat. Et grata, 46, 54; Contra Julianum, libri IV, 3, 19; VI; Contra Juliani responsionem, VI, 11, 12)
16 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 245.
17 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 267.
18 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 529.
19 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 524.
15
Andrea Andretto
L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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quarto «Un solo Dio deve essere adorato; anche chi non ne conosce il nome sente che è lui il datore
della felicità»:
«Si rifiuti la chiassosa moltitudine di innumerevoli demoni; che questo Dio non
basti a colui il quale non si accontenta dei suoi doni: non meriti cioè di adorare
il Dio datore della felicità colui a cui non basta l’essere felice. Colui che si
soddisfa della felicità (ma non c’è uomo che debba desiderare di più!), serva
all’unico Dio, datore di essa. E tale Dio non è quello che essi chiamano Giove,
poiché se lo riconoscessero datore della felicità non andrebbero in cerca, sotto il
nome della stessa felicità, di un altro dio da cui riceverla, né crederebbero di
dover adorare Giove stesso al quale attribuiscono tante inique azioni. Si dice
infatti che egli fu adultero seduttore delle mogli altrui e impudico amante e
rapitore di un bel giovane»20.
Al termine del libro quarto, al capitolo trentatreesimo «Dio solo è arbitro e giudice dei re e dei regni
della terra», Agostino completa la sua posizione sulla felicità. Essa non è solo il dono che proviene dal
servizio reso all’unico Dio, ma è il dono escatologico. E’ questa una idea che troveremo affermata in
modo più puntuale nel libro diciannovesimo. Così si esprime ancora Agostino.
«Quel Dio dunque che è autore e dispensatore della felicità perché è il solo e
vero Dio, dà i regni della terra ai buoni e ai cattivi. Egli non li dona a caso,
perché è Dio e non la Fortuna, ma secondo l’ordine delle cose e dei tempi: ordine
ignoto a noi, ma perfettamente conosciuto da lui; ordine al quale egli non è
soggetto, ma che anzi egli regge e dispone come Signore e moderatore. La felicità
invece non la dà ai buoni, e possono possederla o non possederla tanto i sudditi
come i principi; ma il possesso perfetto di essa si avrà solo in quella vita dove
non vi saranno più né padroni né servi. Iddio perciò concede i regni della terra ai
buoni e ai cattivi affinché coloro che lo servono, pur essendo ancor incipienti nella
virtù, non desiderino da lui questi doni come se fossero qualche cosa di grande.
E questo è il mistero del Vecchio Testamento in cui era nascosto e adombrato il
Nuovo: nel Vecchio Testamento le promesse e i doni erano di ordine terrestre,
ma le persone spirituali di allora comprendevano, senza tuttavia rivelarlo
apertamente, che quelle cose temporali erano figura delle eterne e in quali doni
divini consista la vera felicità»21.
Al capitolo undicesimo del libro quinto «La provvidenza universale di Dio le cui leggi abbracciano
ogni cosa», ritorna ancora l’idea di felicità come dono del vero Dio. In questo contesto però il tema
della felicità è legato a quello della provvidenza divina:
«Questo Dio, dunque, sommo e vero che, con il suo Verbo e con lo Spirito
santo, sono Tre in uno, questo Dio unico, onnipotente, creatore di ogni anima e
di ogni corpo, sorgente di felicità per tutti coloro che sono felici nella verità e non
nella vanità…. … ebbene è assolutamente inconcepibile che questo dio abbia
voluto lasciare i regni degli uomini, i loto domini e il loro servizio fuori delle leggi
della sua Provvidenza»22.
Non a caso Agostino affermerà che la felicità è una grazia propria dell’unione con Dio. Così afferma
il vescovo di Ippona al capitolo decimo del libro ottavo «Superiorità del cristiano paragonato al
filosofo»:
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 250.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 262.
22 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 290.
20
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Andrea Andretto
L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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«il cristiano non ignora che abbiamo avuto una grazia che ci rende felici
unendoci a Dio»23.
4.3. LA FELICITÀ È TRASCENDENTE RISPETTO AI BENI MATERIALI.
Agostino, lo abbiamo già intuito, è convinto che la felicità piena si dà solamente nell’escatologia
perché essa è «vera ricchezza dello Spirito». L’autore quindi, in piena conformità ai dettami evangelici su
ricchezze e tesori, ammonisce sull’importanza di non riporre le proprie aspettative di felicità nei beni
materiali. Siamo al capitolo diciottesimo del libro quinto «I cristiani non hanno da gloriarsi dei sacrifici
che hanno fatto per amore della patria celeste dopo che i romani han mostrato di sapere fare così tanto
per la gloria umana.
«Non sono le ricchezze della terra che possono rendere felici noi e i nostri figli,
perché noi le possiamo perdere durante la nostra vita o dovremo lasciarle dopo la
nostra morte a persone sconosciute e forse indesiderate. Solo Dio può renderci
felici perché è la vera ricchezza dello Spirito»24
Agostino afferma la stessa idea nel libro decimo al capitolo diciottesimo «Contro coloro che negano
doversi credere ai libri che narrano i miracoli per mezzo dei quali Dio ha ammaestrato il suo popolo».
Egli insiste sulla fondazione teologica e non cosmo-antropologica della felicità.
«Con questo nostro lavoro… … ci proponiamo di parlare di Dio, il solo che
comunica la felicità fondata, non sulle sue creature, ma su se stesso. Ecco perché
il profeta dice: Per me la felicità è stare unito con Dio (Sal 72,28)»25
4.4. LA FELICITÀ NEL TEMPO.
Il vescovo di Ippona parla anche di una felicità che si può realizzare nella vita presente, nella città
terrena della Chiesa militante. Agostino nel parla al capitolo ventiquattresimo del libro quinto «La
felicità degli imperatori cristiani». L’idea di felicità che viene qui tratteggiata nasce dall’associazione della
felicità stessa alla rettitudine di governo e di operato dell’imperatore cristiano, alla sua capacità di
mantenere l’umiltà non montando in superbia. In altre parole la felicità terrena è la conseguenza di una
vita conforme ai dettami evangelici fondamentali. Così si esprime Agostino.
«Invece chiamiamo “felici” i principi se regnano con giustizia, se, tra le
adulazioni e gli ossequi di coloro che li corteggiano servilmente, non si
inorgogliscono e si ricordano che sono dei semplici uomini; se pongono il loro
potere a servizio della maestà sovrana di Dio per estenderne il culto; se temono,
amando, adorano il vero Dio; se amano di più per il regno in cui non temono
rivali; se sono pronti a perdonare e lenti a punire; se puniscono unicamente per
la necessità di governare o di difendere lo stato e mai per soddisfare al desiderio
di vendetta; se sono indulgenti nel perdonare, non per lasciare impunito il delitto,
ma per la speranza della correzione; se, dovendo prendere qualche severo
provvedimento, lo sanno mitigare con la larghezza dei benefici e con la dolcezza
della misericordia. Chiamiamo felici i principi se frenano le passioni tanto più
quanto facilmente potrebbero soddisfarle; se preferiscono comandare ai loro
sregolati desideri anziché a tutti i popoli della terra, e se fanno tutte queste cose
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 532.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 305.
25 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1037.
23
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L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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non per amore di una gloria vana, ma per amore della vita eterna; se sono
diligenti nell’offrire al vero Dio il sacrificio dell’umiltà, della propiziazione dei
loro peccati, dalla preghiera. Tali sono gl’imperatori cristiani che diciamo essere
felici su questa terra nella speranza, e nella realtà quando si compirà quello che
ora aspettiamo»26.
Una idea simile Agostino la difende al capitolo dodicesimo del libro undicesimo « La felicità dei
giusti, non ancora in possesso del premio della divina promessa, e quella dei primi uomini prima del
peccato».
«Secondo il nostro parere, gli angeli non sono i soli tra le creature ragionevoli e
intellettuali che meritino di essere chiamate felici. Chi oserebbe negare la felicità
dei primi uomini nel paradiso terrestre, prima del peccato, sebbene fosse loro
sconosciuta la durata della loro beatitudine, se cioè sarebbe stata temporanea o
eterna (sarebbe stata eterna, se non avessero peccato)? E anche oggi non
chiamiamo forse felici – e non senza ragione – coloro che vediamo vivere nella
giustizia e nella pietà con la speranza della futura immortalità, senza nessun
delitto che sconvolga la loro coscienza, fiduciosi di ottenere dalla divina
misericordia il perdono dei peccati di fragilità? Costoro sono certi, sì del primo se
persevereranno, ma non sono però certi della propria perseveranza. Chi fra gli
uomini, infatti, può essere certo di perseverare sono alla fine nell’esercizio e nel
progresso della giustizia, se non viene reso tale mediante qualche rivelazione di
colui che, su questo punto, non rivela a tutti il suo giusto e segreto giudizio, e
tuttavia non inganna nessuno? Ora, per ciò che riguarda la gioia di un bene
presente, il primo uomo nel paradiso terrestre era più felice di quanto lo possa
essere qualsiasi giusto nella debolezza di questa vita mortale; ma per ciò che
riguarda la speranza di un bene futuro è più felice, anche tra i tormenti del
corpo, qualsiasi persona giusta che non quella incerta del suo destino in mezzo
alle delizie del paradiso. Perché il giusto conosce non come opinione probabile,
ma come verità certa, che al termine di tutte le prove godrà senza fine, in
compagnia degli angerli, dell’intima unione con il sommo Dio.»27
E’ pure vero che il principio di fondo con il quale Agostino legge il tema della felicità è quello
escatologico. E’ pure interessante notare come in Agostino non sia sufficiente desiderare la felicità, ma è
pure necessario amare la felicità desiderata. Nel capitolo venticinquesimo del libro quattordicesimo
«Sulla terra è impossibile la vera beatitudine» così Agostino si esprime:
«se ben riflettiamo, solo l'uomo felice vive come vuole e nessuno é felice se non é
giusto. Ma il giusto non vivrà come vuole fino a quando non sarà pervenuto a
quello stato in cui saranno definitivamente bandite la morte, l'errore, la
sofferenza e non si avrà la certezza che tutto é eterno... ... non si può possedere
la vita felice se non la si ama. Perciò, se la si ama e la si possiede, bisogna
necessariamente amarla al di sopra di tutte le altre cose, poiché tutto ciò che si
ama deve essere amato per essa. D'altra parte, se la si ama quanto merita di
essere amata, é impossibile amarla in tal modo senza volerla eterna. La vita
sarà beata solo quando sarà eterna.»28
La felicità in questa vita secondo Agostino è data dalla speranza. Il santo Vescovo di Ippona parla
pure di una falsa felicità che è quella che si “accontenta” della felicità temporale non pensando a quella
26AGOSTINO,
La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 320.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 610.
28 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 802.
27
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L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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futura. Così si esprime Agostino nel capitolo ventesimo del libro diciannovesimo «I cittadini della città
celeste, già durante questa vita, sono felici nella speranza».
«Poiché dunque il sommo bene della città di Dio è l’eterna e perfetta pace – non
quella per cui “passano” i mortali tra la nascita e la morte, ma la pace in cui
sono stabiliti gli immortali, al riparo da ogni avversità - , chi potrà negare che
una tale vita sia perfettamente felice, e che, in un confronto con essa, sia molto
infelice la presente, anche se intessuta dei più grandi beni dell’anima, del corpo,
della fortuna? Tuttavia chi vive questa vita ordinandola al fine di quell’altra
che ama ardentemente e spera con fiducia, giustamente può essere chiamato felice
anche ora, ma più per la speranza di quella futura che per l’esperienza di
quella attuale. La vita presente senza quella speranza è una falsa felicità e una
grande miseria: infatti non dispone dei veri beni dell’anima. Poiché non è vera
sapienza quella che discerne con prudenza i beni di quaggiù, li amministra con
fortezza, li usa con temperanza e li distribuisce con giustizia, ma non dirige la
sua intenzione verso il bene supremo in cui Dio sarà in tutte le cose, in una
eternità sicura e in una pace perfetta»29.
4.5. LA FELICITÀ DEGLI ANGELI.
L’unico vero Dio, quello dei cristiani, non è solo l’autore della felicità degli uomini, ma anche di
quella degli angeli. Agostino, insistendo sulla necessità di «distinguere il creatore dalle creature, per
evitare di rendere culto a tanti dèi quante sono le opere di uno solo» (capitolo trentesimo, libro settimo),
così afferma
«Molte opere le fa anche per mezzo degli angeli, ma lui solo è la sorgente della
felicità degli angeli. E se per certe cose manda gli angeli agli uomini, non è per
mezzo degli angeli, ma sa se stesso che rende felici e gli uomini e gli angeli. E’
da questo unico e vero Dio che noi speriamo la vita eterna»30.
4.6. RILETTURA AGOSTINIANA DEL TEMA PLATONICO DELLA FELICITÀ.
Agostino, affermando che «Intorno alla teologia bisogna discutere con i platonici: la loro opinione
va anteposta alle certezze di tutti gli altri filosofi» (capitolo quinto, libro ottavo), rilegge originalmente
l’idea platonica di felicità. Il filosofo greco è convinto che la felicità la si ottenga praticando la filosofia.
«Se per Platone il sapiente è colui che imita, conosce, ama questo Dio e trova la
sua felicità nel partecipare alla vita di lui, che bisogno c’è ancora di esaminare
altri filosofi? Nessuno di essi si è avvicinato a noi più dei platonici»31
Ancora il nostro autore, sostenendo nel capitolo ottavo del libro ottavo la superiorità dei platonici
in filosofia morale, afferma il primato della facoltà conoscitiva nell’esperienza della felicità («come l’occhio
gode della luce»). In seconda battuta Agostino pone nuovamente in evidenza la realtà divina come luogo
proprio della ricerca della felicità; il vescovo di Ippona è convinto assertore della impossibilità di trovare
nei godimenti del corpo e dell’anima la felicità. Specifichiamo infine che Agostino sposa l’idea platonica
dell’associazione felicità – filosofia, perché è convinto che filosofare altro non sia che amare Dio.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1174.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 362.
31 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 411.
29
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L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
13
«L’ultima parte è la morale, in greco chiamata etica, che tratta la questione del
Sommo bene. Se a esso riferiamo tutti i nostri atti, se lo desideriamo vivamente
per se steso e non per altro, il suo possesso ci rende beati, senza più farci cercare
altro. Ecco perché lo si dice anche fine: perché è in ordine a esso che vogliamo
tutti gli altri beni, ma lui lo vogliamo unicamente per se stesso. Ora, alcuni
dissero che questo sommo bene, sorgente di ogni felicità, ci viene dal corpo, altri
dall’anima e altri da tutt’e due insieme. Vedendo che l’uomo è composto di
anima e di corpo, credevano infatti, che sia l’una sia l’altro, sia tutt’e due
insieme, potessero dargli quella felicità che è il fine di tutte le azioni, a cui si
deve riferire quanto si fa senza cercare altro all’infuori di quanto si può a esso
riferire. Coloro dunque che si dice abbiano aggiunto un terzo genere di beni
chiamati estrinseci, come l’onore, la gloria, la ricchezza e simili, non l’aggiunsero
come fine ultimo, cioè come bene da desiderarsi per se stesso, ma come un bene
desiderato in vista di un altro, che sarà bene per i buoni e male per i cattivi.
Perciò coloro che cercarono questo bene dell’uomo o nell’anima o nel corpo o in
tutti e due, hanno pensato che esso dovesse cercarsi soltanto nell’uomo. E chi lo
cercò nel corpo lo cercò nella parte meno nobile dell’uomo; chi lo cercò nell’anima
lo cercò nella parte più nobile; chi lo cercò in tutti e due, lo cercò nell’uomo
intero. Ma in un caso o nell’altro, lo hanno sempre cercato nell’uomo. Queste
differenze, pur essendo soltanto tre, hanno dato origine, non a tre tendenze
filosofiche, ma a moltissime, così che infinite sono le opinioni circa il bene del
corpo, dello spirito e di tutti e due insieme. Cedano dunque costoro a quei filosofi
i quali non hanno posto la felicità dell’uomo nei godimenti del corpo né in quelli
dell’anima, ma nel gaudio del possesso di Dio, quel gaudio di cui si gioisce non
come l’anima gode del corpo o di se stessa o come l’amico gode dell’amico, ma
come l’occhio gode della luce, se si può mettere un termine di paragone tra queste
cose; come avviene ciò lo dimostreremo altrove, con l’aiuto di dio, in quanto mi
sarà possibile. Ora basta ricordare che Platone pone il sommo bene nella virtù,
la quale può essere raggiunta soltanto da chi conosce e imita Iddio, vera e unica
sorgente della felicità. Egli non dubita perciò di asserire che filosofare è amare
Dio, la cui natura è incorporea. Di qui si deduce che l’amante della sapienza,
cioè il filosofo, troverà la felicità soltanto quanto incomincerà a godere del
possesso di Dio, sebbene non diventi subito beato chi possiede ciò che ama (molti,
amando infatti ciò che non dovrebbero amare, sono infelici, e più infelici ancora
quando possono goderne). Tuttavia nessuno è felice se non gode di ciò che ama.
Coloro stessi che amano cose cattive, non si ritengono beati perché amano, ma
perché godono dell’oggetto amato. Colui dunque che gode di ciò che ama e ama il
vero e sommo bene, da chi sarà ritenuto infelice se non da un infelice in sommo
grado? Platone dice che il vero e sommo bene è Dio; vuole perciò che il filosofo
sia amanti di Dio affinché, essendo la filosofia una guida alla vita beata, chi
avrà amato Dio diventi beato godendolo»32.
Ancora, Agostino sostiene fine del bene è essere felici. Il santo Vescovo di Ippona riconosce quindi
la bontà dell’attività filosofica al fine del rendere un uomo felice. Così egli si esprime nel capitolo primo
del libro diciannovesimo «Il problema sul fine dei beni e dei mali è discusso secondo Varrone da
duecentottantotto scuole».
«Il fine del nostro bene è quello in vista del quale si devono desiderare tutti gli
altri beni, ma esso deve essere desiderato per se stesso; il fine del male è quello in
vista del quale si devono evitare tutti gli altri mali, e dev’essere evitato per se
stesso»… … «Chiamiamo dunque fine del bene non quello per cui il bene è
32
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 437
Andrea Andretto
L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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annullato al punto da non esistere più, ma quello per cui il bene incomincia e
viene condotto fino alla sua pienezza». Platone e i suoi successori alla direzione
dell’Accademia (vecchia e nuova) sono concordi nell’affermare secondo Varrone
che «l’uomo non ha altra ragione per filosofare che il suo desiderio di essere felice:
ciò che rende felici però è lo stesso fine del bene; non vi è dunque altro motivo di
filosofare che il fine del bene. Perciò quella scuola che non ricerca il fine del bene
non può chiamarsi scuola filosofica.»33
4.7. IL «CRISTO MEDIATORE» IN ORDINE AL RAGGIUNGIMENTO DELLA FELICITÀ.
Uno dei temi più ricorrenti nella produzione teologica agostiniana è quello della mediazione di
Cristo34. In questa sede l’autore dell’opera cerca di leggere l’imprescindibile ruolo cristologico in ordine
al raggiungimento della felicità antropologica. Viene sottolineata la motivazione della singolarità
cristologica in ordine alla mediazione della felicità eterna. Tale motivazione è da rinvenire
nell’associazione che il Cristo fa di ogni uomo al suo mistero salvifico di passione morte e risurrezione.
Ascoltiamo Agostino stesso così come si esprime al capitolo quindicesimo del libro nono «L’uomo
Cristo - Gesù mediatore tra Dio e gli uomini»
«Se però, secondo l’opinione più probabile e più attendibile, tutti gli uomini,
finchè sono mortali, devono necessariamente essere infelici, bisogna cercare un
mediatore che non sia soltanto uomo, ma anche Dio, affinché mediante la sua
felice mortalità, possa sollevare gli uomini dalla miseria mortale alla eterna
beatitudine… … fu dunque necessario che il mediatore tra noi e Dio unisse
una mortalità transitoria a una beatitudine permanente, per essere confrme, in
ciò che è transitorio agli uomini destinati alla morte e trasferire questi stessi da
in mezzo ai morte, a ciò che non ha fine» «L’uomo, dunque, mortale e infelice,
molto lontano dagli dei immortali e beati, qual mediatore sceglierà perché lo
conduca all’immortalità e alla beatitudine? Ciò che potrebbe piacere
nell’immortalità dei demoni non è che infelicità; ciò che potrebbe scandalizzare
nella mortalità di Cristo non esiste più. Là quindi si deve temere un’infelicità
eterna; qui non si deve paventare la morte perché non fu eterna, e solo si deve
amare l’eterna beatitudine. Se il mediatore immortale e infelice si interpone, lo fa
per non lasciare entrare nessuno nella beata eternità, poiché ciò che impedisce di
arrivarvi, cioè la miseria stessa, persiste sempre. Il Mediatore mortale e felice,
invece, s’interpone affinché, superata la mortalità, si faccia dei morti altrettanti
immortali come ha dimostrato con la sua risurrezione, e si mutino gl’infelici in
beati: beati di quella beatitudine della quale egli non fu mai privo»35.
4.8. QUANDO L’UOMO È FELICE?
Agostino, nel capitolo tredicesimo del libro undicesimo, «Gli angeli sono stati creati tutti nello
stesso grado di felicità, così che quelli che caddero non sapevano che sarebbero caduto, e quelli che
resistettero ricevettero la prescienza della loro perseveranza solo dopo la caduta degli altri?» cerca di
poter delineare quali siano le condizioni della felicità. Esse possono essere ricondotte, secondo il
vescovo di Ippona, all’assenza di turbamento, di dubbio, di errore, perseverando quindi in una
condizione di gioia sicura.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1129.
G. MADEC, La patria e la via. Borla.
35 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 501.
33
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L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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«la beatitudine richiede due condizioni: godere senza il minimo turbamento del
bene immutabile che è Dio e perseverare eternamente in questa gioia senza
l’incertezza del minimo dubbio, né l’inganno del minimo errore»36
Una interessante osservazione di Agostino porta inoltre a vedere che la felicità non sia solo il
risultato che nasce dal culto al vero Dio. La felicità in Agostino coinvolge il soggetto nella sua singolarità.
In specie, il soggetto è felice perché non può più perdere se stesso. Così si esprime Agostino al capitolo
primo del libro dodicesimo «Gli angeli, sia buoni che cattivi hanno una medesima natura»:
«Pertanto, sebbene non tutte le creature possano essere felici (gli animali, le
piante, le pietre e altre cose simili non possono riceve né comprendere questo
dono), quelle però che lo possono, non lo possono per se stesse, poiché sono state
fatte dal nulla, ma lo possono in grazia di colui che le ha create. Infatti
POSSEDENDO LUI SONO BEATE, non possedendo sono infelici; colui che è
felice in se stesso e non per un altro bene, non può essere infelice, proprio perché
non può perdere se stesso.37
Cosa vuol dire quindi per Agostino essere felici? Vuol dire essere nella condizione in cui “Dio è
tutto in tutti”. (1 Cor 15,28). Così si esprime il santo Vescovo di Ippona del capitolo quarantanovesimo
del libro diciottesimo «Diffusione indiscriminata della Chiesa nella quale in questo mondo agli eletti
mescolavano i cattivi».
«In questo mondo perverso, dunque, in questi giorni cattivi in cui la Chiesa,
mediante l’umiliazione presente, va acquistando la grandezza futura e viene
ammaestrata con il pungolo del timore, con le angosce del dolore, con l molestie
delle fatiche, con i pericoli delle tentazioni, e non trova altra gioia che nella
speranza, molti empi si mescolano con i buoni; e gli uni e gli altri si raccolgono
nella rete di cui parla il Vangelo (Mt 13,47-50), e, chiusi in essa, nuotano
mescolati in questo mondo come in un mare, finchè verrà raggiunta la spiaggia
in cui i cattivi saranno separati dai buoni, e nei buoni Dio, come in un suo
tempio sarà tutto in tutti (1 Cor 15,28)»38
L’uomo è felice quando riesce a percepire e conoscere il Sommo bene; l’uomo è felice quando
raggiunge la vita eterna. Così si esprime Agostino nel quarto capitolo del libro diciannovesimo
«Se mi si domanda quale è la risposta della città di Dio a ognuna di queste
questioni e, prima di tutto, che cosa ne pensa sul fine dei beni e dei mali, essa
risponderà che la vita eterna è il sommo bene e la morte eterna è il sommo
male.»39
La felicità per l’uomo consiste nell’essere finalmente se stesso. Questa idea viene sapientemente
sostenuta dal Santo Vescovo di Ippona nel capitolo undicesimo del libro diciannovesimo «La
beatitudine della pace eterna in cui consiste il fine supremo dei santi: qui sta la vera perfezione»
«Sal 14712-14 “ha rinforzato le sbarre delle tue porte” … … più nessuno
potrà entrare e più nessuno potrà uscire… … Bene grande e insuperabile che
otterremo nella Gerusalemme celeste è la pace»40.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 611.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 651.
38 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1113.
39 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1139.
40 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1155.
36
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L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
16
4.9. LA DIMENSIONE CORPOREA: DATO IRRINUNCIABILE PERCHÉ UN’ESISTENZA ABBIA A DIRSI FELICE.
Agostino, ha già più volte sottolineato il carattere escatologico della felicità compiuta, della felicità
che è dono di Dio. Questa felicità non può non essere percepita dall’uomo che in un corpo. Proprio a
questo punto Agostino dovrà tematizzare l’evento centrale del cristianesimo: la risurrezione dei morti.
L’uomo felice di cui parla il santo Vescovo di Ippona è quindi l’uomo risorto, l’uomo che percepisce la
felicità in un corpo che non conosce più connivenze con il male, la corruttibilità la morte. Cosi si
esprime Agostino nel capitolo diciannovesimo del libro tredicesimo «Contro la dottrina di coloro che
non credono che, se i primi uomini non avessero peccato, sarebbero stati immortali».
«La fede cristiana insegna che i primi uomini sono stati creati tali che, se non
avessero peccato non sarebbero mai morti e, divenuti immortali per il merito
dell’obbedienza, sarebbero vissuti in eterno con i loro corpi; insegna pure che i
santi, nella risurrezione, avranno quei medesimo corpi nei quali faticarono qui
sulla terra, e li avranno tale che la loro carne non proverà corruzione o gravezza
alcuna e la loro beatitudine sarà esente da ogni dolore e infelicità»41
In un simile modo Agostino si esprime nel capitolo ventiseiesimo del libro ventiduesimo
«L’affermazione di Porfirio, secondo il quale i beati devono fare a meno del corpo, è contraddetta da
Platone, il quale dice che il Dio sommo ha promesso agli dèi non sarebbero mai stati spogliati del
corpo».
«Non è dunque necessario che le anime, per essere felici, sfuggano ogni corpo, ma
è necessario che ricevano un corpo incorruttibile. E in quale corpo incorruttibile
conviene che esse gioiscano, se non in quello in cui ha sofferto durante il tempo
della corruttibilità?»42
4.10. LA FELICITÀ NELL’ESPERIENZA TOPICA DI ADAMO E DI EVA.
Agostino dedica il capitolo decimo del libro quattordicesimo «Bisogna credere che i nostri
progenitori siano stati esenti da passioni prima di peccare», alla ricostruzione di una possibile vita felice
per Adamo ed Eva subordinatamente al rispetto del precetto divino.
«Chi può dirsi veramente felice quando è esposto al timore o al dolore» «Come
dunque i primi uomini erano felici, liberi da ogni perturbazione dell’animo e da
ogni malattia del corpo, così sarebbe stata felice tutta la società umana se essi
non avessero commesso quel peccato che trasmisero ai loro posteri e se i loro
posteri non avessero commesso delle iniquità degne di condanna. E questa
felicità sarebbe durata fino a quando, in virtù di quella benedizione per cui fu
detto: crescete e moltiplicatevi, si fosse compiuto il numero dei santi predestinati.
Allora sarebbe stata data loro una benedizione superiore, quella concessa ai
santi angeli, grazie alla quale ognuno da allora sarebbe certo di non più peccare
né morire, e la vita dei santi, senza alcuna fatica né dolore o morte, sarebbe
stata quale la otterremo nella finale risurrezione con la incorruttibilità dei corpi,
dopo aver portato tutte le prove di quaggiù»43
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 729.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1418.
43 AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 775.
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Andrea Andretto
L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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4.12. LA FELICITÀ ASSOCIATA AL CONCETTO DI PACE
Agostino associa il concetto di felicità al concetto della pace; egli lo fa al capitolo tredicesimo del
libro diciannovesimo «La pace universale, in mezzo a qualsiasi turbamento, non può sfuggire alla legge
della natura, poiché, sotto il giusto Giudico ognuno giunge in forza dello stesso a ciò cui meritò con la
propria volontà.
«Il concetto di pace-indispensabile per la felicità è legato al concetto di ordine.
«La pace del corpo dunque è la concatenazione armoniosa delle sue parti; la
pace dell’anima non ragionevole è la quiete ben regolata dei suoi appetti; la pace
tra il corpo e l’anima è la vita e la salute ben ordinate dell’essere animato; la
pace tra l’uomo mortale e Dio è l’obbedienza ordinata nella fede alla legge
eterna; la pace degli uomini è la loro concordia ben regolata; la pace della casa è
l’ordinata concordia dei suoi abitanti nel comandare e nell’obbedire; la pace della
città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere
vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine»44.
4.12. GLI ELEMENTI QUALIFICANTI LA FELICITÀ ETERNA
Concludendo questa nostra miscellanea di tesi scelti dell’opera agostiniana «La città di Dio»,
riportiamo l’ultimo capitolo di questo monumentale testo. Ci preme mettere in evidenza gli elementi
qualificanti della felicità eterna, così come vengono esposti da Agostino.
a) La felicità è assenza di male
b) La felicità è la presenza di Dio in tutto e in tutti
c) La felicità è attribuire l’onore solamente a chi ne è degno
d) La felicità è percepire la propria libertà come realmente libera, ossia non più connivente con le
inclinazioni al male.
e) La felicità eterna come compimento di quella domanda che non si è comunque mai smarrita
anche nonostante il peccato originale
f) La felicità è visione di Dio.
«Quanto sarà grande quella felicità in cui non vi sarà più nessun male, non
mancherà nessun bene e si loderà Dio che sarà tutto in tutti! Io non so infatti
che altro si possa fare in quel soggiorno dove non ci sarà pigrizia né lavoro per
indigenza. Tutte le membra, tutti gli organi interiori del corpo incorruttibile, che
ora sono impegnati nelle diverse funzioni imposte dalla necessità, concorreranno
a lodare Dio, perché allora non ci sarà più nessuna necessità, ma una felicità
piena, varia, sicura, eterna… …Si può tuttavia dire che tanto il loro aspetto
come i loro movimenti e attitudini, saranno pieni di grazia e di bellezza in quel
luogo dove non vi sarà niente di sconveniente.»
«Lassù vi sarà la vera gloria perché nessuno sarà lodato per errore né per
adulazione; là il vero onore non sarà negato a chi lo merita e non sarà dato a
nessun indegno. D’altra parte, nessun indegno lo pretenderà in quel regno dove
non sarà ammesso se non chi ne è degno.»
«Lassù vi sarà la vera pace e non si patirà male alcuno né da parte di se stessi
né da parte di altri. Premio della virtù sarà Dio stesso, datore della virtù, lui
che ha promesso se stesso come la migliore e massima ricompensa che possa
44
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1160.
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L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
esistere…. … Io sarò l’oggetto che soddisferà tutti i loro desideri; io sarò tutto
quello che gli uomini possono onestamente desiderare: vita, salute, cibo,
ricchezza, gloria, onore, pace e tutti i beni (questo è pure il senso delle parole
dell’Apostolo: affinché Dio sia tutto in tutte le cose). Lui ancora sarà la fine dei
nostri desideri: lo contempleremo senza fine, lo ameremo senza saziarcene, lo
loderemo senza stanchezza. E questo dono, questo affetto, questa occupazione
sarà comunque a tutti come a tutti sarà comunque la vita eterna.»
«Non si invidierà coloro che saranno a un grado superiore (come ora non vi è
invidia tra gli angeli e egli arcangeli)»
«E non bisogna credere che i santi saranno privati del libero arbitrio per il fatto
che non potranno più sentire la tendenza al peccato. Al contrario, questo libero
arbitrio, sarà ancora più libero perché non sentirà più l’inclinazione al male, al
punto da trovare un’irremovibile attrattiva a non peccare. Infatti il primo libero
arbitrio dato all’uomo quando fu creato giusto, fu quello di poter non peccare,
però poteva ugualmente peccare; l’ultimo che gli sarà dato sarà così potente che
l’uomo non potrà più peccare. Ma anche quello sarà un dono di Dio e non della
natura. Dio non può peccare per natura, ma l’essere che partecipa Dio riceva da
lui la grazia di non poter più peccare. Era necessario osservare una
gradazione in questo dono divino: dare all’inizio un libero arbitrio
grazie al quale l’uomo poteva non peccare; dare alla fine un libero arbitrio
grazie al quale egli non potrà più peccare: il primo per acquistare dei meriti,
l’ultimo per ricevere la ricompensa.  Peccando l’uomo ha perduto la felicità e
la pietà, ma non ha perduto la volontà di essere felici.»
«In quella città, dunque, vi sarà una volontà libera, un’unica volontà in tutti i
suoi membri e inseparabile nei singoli, esente da ogni male e ripiena di ogni
bene, la quale godrà incessantemente delle delizie di una gioia immortale, non
ricorderà più le sue colpe e le sue miserie, senza tuttavia dimenticare la sua
liberazione per non essere ingrata verso il suo Liberatore. Ognuno allora
conserverà il ricordo dei suoi mali passati quanto alla loro conoscenza
speculativa, ma, quanto alla loro sensazione reale, li dimenticherà tutti, così
come il più quotato dei medici conosce quasi tutte le malattie del corpo, come si
possono conoscere con lo studio e l’esercizio della professione, ma non conosce per
esperienza i mali che non ha sofferto lui steso.»  Per Agostino la conoscenza
del peccato è necessaria perché «Diversamente, se essi dimenticassero di essere
stati degli infelici, come potrebbero cantare – come dice il salmista (Sal 45,11)
– “in eterno le misericordie del Signore” 45 . Eppure quella città non avrà
maggior gioia di quella di cantare questo cantico alla gloria del Salvatore che si
ha redenti con il suo sangue.»
«Là, nel riposo, vedremo che lui è Dio, cosa che noi abbiamo voluto usurpargli
quando ci siamo allontanati da Lui per dare ascolto alle parole del seduttore,
separandoci così dal vero Dio, il quale, per mezzo della grazia, ci aveva
promesso di diventare dèi per partecipazione alla sua divinità, non per
diserzione… … Ristabiliti dalla sua bontà e resi perfetti da una grazia
superiore, noi godremo dell’eterno riposo nel vedere che lui è Dio, e saremo
riempiti di lui quando egli sarà tutto in tutti.»46.
45
46
Infelicità qui è detta in relazione al peccato.
AGOSTINO, La città di Dio, Roma 1979, Paoline. p. 1430
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L’idea di felicità nella «Città di Dio di S. Agostino
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5. Proposta sistematica conclusiva.
Cerchiamo di articolare la riflessione conclusiva secondo uno schema puntale.
5.1.
Secondo Sant’ Agostino la felicità è prima di tutto domanda. L’esistenza felice è l’attesa
di ogni uomo nonostante la dimensione del peccato.
5.2.
La felicità è dono della provvidenza divina per coloro che nella vita terrena si dedicano
al servizio e al culto del vero Dio
5.3.
La felicità non è data dal numero più o meno ampio di possedimenti di ricchezza nella
vita terrena. La felicità è commisurata all’aver “fissato il proprio cuore nel tesoro” che è
Gesù Cristo. Agostino crede pertanto nella fondazione teologica e non cosmo-antropologica
della felicità.
5.4.
La felicità può essere una condizione anche della storia terrena dell’uomo, ma essa è
possibile solo se quest’ultimo
a) vive in conformità ai dettami evangelici (pratica il diritto e la giustizia, vive
nella fede, nella sobrietà)
b) pone la sua speranza in quella felicità eterna e incorruttibile che Dio solo può
donare.
5.5.
La felicità è la condizione non solo dell’antropologico ma anche delle creature angeliche.
5.6.
La felicità è il fine del bene e la filosofia è amore alla sapienza. Se la sapienza è
identificabile con Dio, allora si può dire a ragione che si può trovare la felicità nella
pratica della filosofia. Questa rilettura del tema platonico della felicità è ancora attuale. Ci
permettiamo a tale proposito di citare il teso di Lau Maronff “Plato, no prozac”. Lo
studioso del City College di New York mette in evidenza come lo studio filosofico,
invece di psico-farmaci, possa aiutare a superare malattie depressive.
5.7.
Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore incarnato, morto e risorto, è il mediatore tra Dio e
l’uomo. Proprio per aver sostenuto l’esperienza umana della morte e averla
definitivamente superata, egli può essere nella sua umano-divinità il mediatore della
felicità e della salvezza universale.
5.8.
La facoltà della conoscenza è quella che viene maggiormente coinvolta nella percezione
nella fruizione della felicità
5.9.
L’uomo è felice quando si trova in assenza di dubbio, di dolore, di errore. Ma
soprattutto l’uomo è felice quando possiede se stesso, quando non è più tentato dal
male. Per questo la libertà è realmente tale solo quando l’uomo è in Paradiso. E la
condizione paradisiaca è la condizione delle “sbarre” salmiche (Sal 147, 12) che non
permettono di sfuggire il compito di essere soggetti unici, originali, irripetibili.
5.10.
La felicità intesa come Frui Deo viene percepita grazie a un corpo, il corpo risorto e
glorificato, il corpo che sarà finalmente libero da ogni corruzione.
5.11.
Felicità è anche sinonimo di pace, di ordine sociale giusto. La felicità è data secondo S.
Agostino dall’obbedienza alla legge
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5.12.
Felicità è la visione di quel Dio che “sarà tutto in tutti”, quel Dio che appagherà il
desiderio umano di conoscenza.
5.13.
C’è un legame tra virtù e felicità. La virtù dice ciò che bisogna fare, la felicità ciò che
bisogna desiderare
5.14.
La felicità non va solo desiderata, ma va anche amata.