GAETANO OLIVA
Vecchi tempi
di Harold Pinter (1971)
Note di regia
Edizione a cura di Alessandra Serra. Harold Pinter, Teatro, vol.II, Torino, Einaudi, 1996
Quasi tutte le opere di Pinter sono orientate prevalentemente verso il passato, passato che spesso si
rivela fantasmatico, inconsistente, contraddittorio, e quindi inconoscibile. Una serie di drammi
scritti negli anni settanta, noti collettivamente come Memory plays, commedie della memoria ma
che potrebbero anche essere etichettati, altrettanto giustamente, come Forgetting plays, commedie
della dimenticanza o dell’oblio mette a fuoco, in modo più dichiarato e sistematico, la questione del
ricordo e della sua rappresentazione.
Il primo di questi, Old Times (Vecchi tempi), la commedia più riflessiva e ludicamente filosofica di
Pinter, drammatizza il problema della conoscibilità del passato personale ed interpersonale tramite
un altro triangolo di interlocutori-avversari che si danno battaglia su ciò che è (forse) avvenuto.
Nell’opera, l’autore sperimenta l’efficacia drammaturgica della descrizione dei complessi
meccanismi della memoria: i tre protagonisti, Anna, Kate e il marito di quest’ultima Deeley,
confrontano i ricordi degli anni giovanili vissuti insieme senza tuttavia essi coincidano. La battuta di
Anna «io ricordo cose che magari non sono mai avvenute, ma proprio perché le ricordo diventano
reali» (pag. 108), sintetizza bene non solo il gioco stilistico che regge il dramma, ma in primo luogo
la peculiare poetica del ricordo elaborata da Pinter. E’ significativo che i personaggi si chiedano
frequentemente e reciprocamente ti ricordi?
E’ un testo apparentemente oscuro che diventa chiarissimo a chi abbia almeno una volta cercato di
far quadrare, dentro il proprio passato, le aspettative con le esperienze, e i desideri con le loro
realizzazioni.
In Vecchi tempi, i tre protagonisti occupano per la maggior parte del tempo la stessa zona del
palcoscenico, in una condizione di quasi assoluta staticità e le loro battute sembrano seguire
direzioni molto diverse, parallelamente ai movimenti della loro memoria. Ciò è evidente fin dalla
didascalia iniziale, che descrive l’immobilità e la distanza fisica, che è prima di tutto la distanza
spirituale e sentimentale dei personaggi.
Le parole del testo hanno la funzione di suoni messi là per esaltare le pause che, cadendo gravi e
misurate costituiscono la reale essenza del dialogo. E’ un procedimento che, in teatro Pinter
sviluppa fino agli estremi del virtuosismo nella sua tarda produzione, da Old Times (che Visconti
fece cechovianamente tradurre a Guerrieri Tanto tempo fa) fino a Ashes to Ashes (Ceneri alle
ceneri)
Vecchi tempi mette in scena, in quello che un tempo fu il salotto vittoriano, non dei personaggi ma i
fantasmi dei personaggi che oggi non possono più esistere, falsati, ingigantiti, deviati dal ricordo
che confonde i piani e altera le rette del carattere.
Nella fattoria in cui Deeley e Kate spendono le scene di un matrimonio da quarantenni benestanti,
appare Anna, attesa con inquietudine e quasi evocata nella conversazione della coppia. Anna è la
donna accanto alla quale, vent’anni prima, Kate ha conosciuto il mondo, l’intensa vita intellettuale
della Londra degli anni Cinquanta: i teatri, le gallerie d’arte, l’atmosfera eccitante dei ritrovi e dei
pub giusti. Cosi ora Anna, l’unica e la migliore amica di Kate, possiede una fetta della vita di lei,
come un tempo, forse, ne ha posseduto il cuore. Per il marito Deeley, spinto prima dalla curiosità e
poi da un dichiarato timore, Anna rappresenta una minaccia al proprio lineare rapporto
matrimoniale: in lei vede il riemergere di un’intimità lontana cui un tempo, forse, non era stato
ammesso, la denuncia dello squallore sentimentale della sua unione, la sfida al proprio potere di
uomo sopra Kate. Fra Deeley e Anna la lotta è inevitabile. Inizialmente Deeley cerca la complicità
della donna, le canticchia ancora i sempreverdi motivi di Gershwin e le rievoca pomeriggi passati in
qualche cinema di periferia a vedere film. Poi sempre più livido di fronte alle due donne
sprofondate oramai nella rievocazione di vecchi nomi del passato, Deeley sputa finalmente in faccia
ad Anna un disgusto che non trova altra origine se non nella paura. Chi alla fine soccomba, Pinter
non lo dice. Anzi, restando fermi alla lettera del testo, non sapremo nemmeno mai se Anna sia
davvero ospite in casa di Deeley e Kate, o non sia piuttosto una proiezione fantasmatica della
coppia, o se addirittura Anna e Kate non rappresentino in realtà due facce diverse di una stessa
donna.
Quello che mi interessa di più sono le nebbie del passato. C’è un momento in cui Deeley confessa ad Anna di averla
incontrata, vent’anni prima, in un pub. Potrebbe essere successo, oppure no. Ma se te lo chiedono, come ti puoi
ricordare chi hai incontrato vent’anni prima, e in che occasione? […] Il fatto è che è terribilmente difficile definire
anche ciò che è accaduto ieri. Sai quella vecchia idea cattolica: il senso del peccato. Beh, a forza di immaginarlo, il
peccato, uno se lo sente davvero.
(Intervista con Mel Gussow, A Conversation [Pause] with Harold Pinter, “New York Times Magazine”, 5 dicembre
1971.)
Nella commedia, la coppia, Deeley e Kate, ricevono una visita da parte di Anna, una vecchia amica
di Kate. L’incipit della pièce presenta la coppia al centro della scena, illuminata, mentre (la figura
di Anna rimane immobile, in penombra davanti alla finestra) (didascalia).Deeley e Kate non danno
segno di accorgersi di Anna, alla quale il loro ellittico discorso iniziale sembra sì riferirsi, ma al
passato:
KATE: (dopo una riflessione) Scura.
Pausa.
DEELEY: Grassa o magra?
KATE: Più piena di me. Mi pare.
Pausa.
DEELEY: Parli di allora?
KATE: Sì.
DEELEY: Magari ora non lo è più. (Pausa)
(pag. 97)
Nel pubblico si crea subito un dubbio ontologico, relativo alla presenza materiale o meno di Anna,
nel qui-ora della situazione di apertura. Il tempo e il luogo in cui Anna si situa sembrano piuttosto
esistere solo nella memoria di Kate come una sorta di idea o ombra platonica. Immediatamente
dopo, tuttavia, Anna si sposta al centro della scena, materializzandosi in pieno e partecipando alla
conversazione domestica. Anzi, l’asse dialogico principale muove da Deeley-Kate a Deeley-Anna,
mentre Kate sostituisce Anna come terza persona, diventando a sua volta oggetto dei ricordi degli
altri due, e pertanto appartenente più al passato che al presente.
Fra Anna e Deeley, i quali, ci viene fatto sapere o credere, si erano conosciuti a loro volta vent’anni
prima, malgrado Deeley sostenesse inizialmente di non conoscere Anna, si instaura una forma di
rivalità non solo per l’affetto della Kate attuale, ma anche e soprattutto riguardo alla ricostruzione
memoriale della storia di Kate. E una rivalità essenzialmente narrativa, un susseguirsi di racconti
solo tangenzialmente compatibili fra di loro. Centrale in questa gara fra passati rivali è un duello
metacinematografico. comprendente due aneddoti su altrettante visite al cinema. Deeley racconta di
essere andato, da solo, in uno squallido cinema di periferia, a vedere il classico noir inglese, Odd
Man Out (Il fuggiasco 1947):
DEELEY: Le cose andarono così. Io mi ero infilato in un cinema di terza, a vedermi Il fuggiasco.
Era un orrendo pomeriggio estivo, stavo camminando senza meta. Ricordo d’aver pensato, questo
quartiere ha qualcosa di familiare, e poi all’improvviso mi sono ricordato che mio padre mi aveva
comprato il primo triciclo proprio in quel quartiere, il primo e l’unico. Comunque, c’era il negozio
di biciclette e c’era quel cinema di terza dove davano Il fuggiasco, nell’atrio c’erano due maschere,
una delle due si stava accarezzando i seni e l’altra le stava dicendo «brutta troia», quella che si stava
accarezzando i seni emetteva degli «mmnnn», molto sensuali, come se stesse godendo e allo stesso
tempo sorrideva alla sua collega, decisi di entrare, in quel pomeriggio afoso, in quel luogo sperduto
e di vedermi Il fuggiasco e trovai Robert Newton fantastico. E lo penso ancora. Mi butterei nel
fuoco per lui, anche adesso. C’era solo un’altra persona in tutta la sala, in tutto il cinema, lei. Era lì,
eterea, immobile, seduta più o meno al centro della sala. lo invece ero seduto dilato e non mi
spostai. Finito il film mi alzai e me ne andai, e notai che, nonostante James Mason fosse morto, la
prima maschera aveva l’aria sfinita, rimasi in piedi un po’ sotto il sole, pensando, credo, a qualcosa,
quando anche quell’unica ragazza uscì e penso di essermi girato verso di lei e di averle detto, non
trovi che Robert Newton sia fantastico, anche lei ha detto qualcosa, Dio solo sa cosa, ma mi ha
guardato. e io ho pensato Gesù dai, ce l’hai fatta, ci sta, e poi quando ci siamo seduti in un bar a
bere un tè, lei prima ha posato gli occhi sulla tazza, poi li ha rialzati, mi ha guardato e mi ha detto,
Robert Newton è davvero notevole. Fu quindi Robert Newton a unirci e solo Robert Newton potrà
separarci.
Pausa.
ANNA: Era bravo anche F.J. McCormick.
DEELEY: Lo so che era bravo anche F.J. McCormick. Ma non fu lui a unirci.
Pausa.
DEELEY: Allora l’hai visto anche tu il film? ANNA Sì.
DEELEY: Quando?
ANNA: Oh... molto tempo fa.
(pag. 107-108)
Nel cinema erano presenti, dunque, solo un’altra spettatrice e due maschere, una delle quali si
dilettava a massaggiarsi il seno. Dopo il film Deeley riuscì a sedurre la spettatrice, che poi si rivela
essere stata Kate. Anna, a sua volta, racconta di essere andata con Kate in un cinema di un quartiere
periferico a vedere un film dallo stesso titolo:
ANNA: Ricordo, per esempio, che una domenica [Kate] mi disse, da dietro il giornale, vieni, presto,
presto, vieni con me e, afferrate le borse al volo, siamo saltate su un autobus, dirette verso un
quartiere sconosciuto, e ci siamo viste un film magnifico che si intitolava, Il fuggiasco, eravamo
praticamente le uniche in tutta la sala.
(pag. 111-112)
Dato che Kate appare in entrambi i racconti, il pubblico deve presumere che si tratti della medesima
occasione, e che quindi tutti e tre erano presenti in quel cinema, anche se nessuno dei narratori
accenna alla presenza dell’altro: a meno che, nel racconto di Deeley, Anna non fosse altro che una
delle due maschere, forse proprio quella impegnata in attività autoerotiche.
L’effetto di queste reminiscenze solo parzialmente coincidenti è di suggerire l’arbitrarietà ed
inaffidabilità della ricostruzione mnemonica. Qualsiasi confine fra narrazione storica e narrazione
inventata diventa velleitaria. D’altronde, la stessa Anna afferma esplicitamente che ricordarsi ciò
che è avvenuto e ricordarsi ciò che la memoria ha solo inventato è la stessa cosa:
ANNA: A volte ci si ricorda di cose anche se non sono mai avvenute. Io ricordo cose che magari
non sono mai avvenute, ma proprio perché le ricordo diventano reali.
(pag. 108)
Il problema drammatizzato da Pinter, quello dell’affidabilità del ricordo come fonte di sapere è
sempre stato il punto dolente della riflessione filosofica e psicologica sulla memoria, soprattutto in
ambito inglese, fin da quando Thomas Reid, alla fine del Settecento, mise in questione la possibilità
di inferire un evento passato da un dato di memoria. Quello a cui Reid faceva riferimento critico è la
cosiddetta teoria rappresentativa della memoria, secondo la quale ricordarsi un evento del passato
significa in parte percepire qualcosa che non è passato, ma che esiste al momento in cui la persona
esperisce il ricordo. Questo è stato il modello dominante della memoria fin da Aristotele, che ne
parla come “immagine” dell’evento, mentre Agostino parla di impressione, e Locke e Hume di
“idea”, ecc. Nel Novecento le critiche alla teoria rappresentativa vanno dall’estremo del realismo
ingenuo che sostiene che la memoria non è immagine o idea bensì esperienza diretta: «la memoria
può essere, la percezione diretta ed immediata di eventi o situazioni passati»; all’altro estremo di
varie forme di scetticismo, che arrivano ad affermare perfino che «Mi ricordo E (evento) può essere
vero anche se E non è avvenuto». Pinter mette in gioco, consapevolmente o meno, tutta la gamma di
possibili posizioni conoscitive sulla memoria, dall’apparente realismo (Anna, nell’incipit. sembra
essere realmente presente in quanto ricordata) all’estremo scetticismo (l’affermazione di Anna,
citata sopra, «A volte ci si ricorda di cose anche se non sono mai avvenute», ossia, mi ricordo E
anche se E non è avvenuto, non è che un attacco epistemologico al modello rappresentativo della
memoria come immagine del passato).
Nella sua messa in scena dell’arbitrarietà dei vecchi tempi (giustamente al plurale), Pinter assegna,
come si è visto, un ruolo particolare al cinema come luogo della memoria più o meno (ricostruita.
tanto che la stessa trama meta-mnemonica della commedia si rivela un complesso intreccio fra
scena e schermo (non è un dato casuale che Pinter scrisse l’opera durante gli anni dell’intensa
collaborazione con Losey, un anno prima dell’impresa di The Proust Screenplay).
Il cinema ha la sua storia anche e soprattutto nell’immaginario, e contribuisce a costituirci come
soggetti alla stessa stregua di altre storie o esperienze. Il nostro senso del passato non è che un
miscuglio di rappresentazioni mentali frammentarie che sono sempre e comunque mediate e che
non distinguono fra immagini e immagini di immagini, come appunto inquadrature di film oppure i
versi delle vecchie canzoni cantate insieme da Deeley e Anna (come se fossero loro la coppia con
un passato comune), canzoni meta-mnemoniche sugli oggetti del ricordo amoroso: «These foolish
things », «They Can’t Take That Away From Me», ecc.
E il film oggetto della contesa memoriale ha precise implicazioni per la situazione in scena. Lo
stesso titolo originale del film di Carol Reed è assai emblematico: odd man out è l’intruso o
l’escluso rispetto ad altri che fanno coppia o gruppo in un gioco a tre o più partecipanti. Nel caso
del film la questione posta dal titolo è se l’escluso, o perdente, sarà il protagonista, il fuggiasco
leader dell’IRA, Johnny McQueen (James Mason), ferito in una rapina, oppure il suo oppositore,
l’eccentrico pittore ubriaco Lukey (Robert Newton), che lo invita nel suo attico a farsi ritrarre in
quella che si rivelerà una sorta di maschera della morte. McQueen muore, ma con lui muore per
scelta propria anche la sua amata Kathleen (Kathleen Ryan), in modo da fare coppia con il
fuggiasco e mettere in minoranza l’altro, il già emarginato artista.
Anche la commedia presenta una battaglia triangolare in cui tutti e tre rischiano di essere definiti
come la persona odd, l’escluso, facendo i turni come terza persona oggetto del discorso e del
ricordo altrui. Il titolo di odd man alla fine sembra essere assegnato a Deeley, anche perché unico
uomo (man, appunto) rispetto alle altre due che forse, tra l’altro, hanno formato a loro volta una
coppia sentimentale, in questo caso lesbica. E ironico, poi, che Deeley si identifichi tanto con
Robert Newton, non solo perché l’attore, molto sopra le righe, è tutt’altro che “fantastico” nella
parte dello sciagurato Lukey (a differenza dello straordinario James Mason, oppure del bravissimo
caratterista F.J. McCormick, difeso da Anna, nella parte di Shell, vagabondo che nasconde
McQueen), ma anche perché Deeley in questo modo si segnala come il diverso e come l’oppositore,
ruolo coperto da Newton nel film, se non addirittura come il villain della pièce. Al tempo stesso tale
identificazione può essere letta come una ammissione della fragilità del suo rapporto con Kate:
«Solo Robert Newton potrà separarci» segna la differenza rispetto alla coppia nel film, che né
Newton-Lukey né la stessa morte riesce a separare.
Il riflesso più importante del film per la commedia riguarda la stessa struttura di quest’ultima: è
un’opera sapientemente costruita come montaggio di “inquadrature” che si susseguono e si
sciolgono (si veda l’immagine di apertura già menzionata), e come fluido alternarsi di dialoghi e di
flashback. D’altronde, il testo a stampa segnala tale ibridazione da parte del linguaggio filmico: il
primo atto conclude con la didascalia Fade (dissolvenza). Ed è forse sintomatica la battuta
scherzosa, ma anche non poco presuntuosa, di Deeley: «Il mio nome è Orson Welles».
La commedia, inoltre, stabilisce rapporti intertestuali non solo con il cinema di Carol Reed ma
anche con quello di Joseph Losey. Il gioco territoriale, con capovolgimento del rapporto di potere,
che occupa il centro dell’opera ha una decisa parentela con i film sceneggiati da Pinter per Losey
negli anni Sessanta, come nell’inversione della relazione padrone-servo in The Servant (Il servo) o
nel conflitto conversazionale, in Accident (L’incidente), fra accademici oxfordiani (il debole
Stephen e lo spietato Charlie) per le attenzioni della studentessa austriaca Anna. Non a caso, la parte
di Rosalind, moglie di Stephen, è recitata dall’allora moglie di Pinter, Vivien Merchant (mentre
Pinter stesso è presente come attore nella parte di Mr Bell). La Merchant recitò, poi, a distanza di
quattro anni, la parte di Anna nel primo allestimento londinese di Old Times, in modo che la sua
immagine “congelata” all’inizio della pièce si configurasse anche come ricordo cinematografico.