PARTE PRIMA PRINCIPI GENERALI VI PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO E ACCESSO CAPO I IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO Capitolo I IL PRINCIPIO DELLA TRASPARENZA E GLI ALTRI PRINCIPI DELL’ATTIVITA’ AMMNISTRATIVA L’art. 97 della Costituzione ed i principi in esso sanciti ha rappresentato fin dal primo dopoguerra e rappresenta ancora oggi il cardine ed il parametro normativo cui tutta l’azione amministrativa deve uniformarsi ed ispirarsi. Tuttavia, è indubbio che i principi di legalità, imparzialità e buon andamento (pur se concretamente interpretabili da dottrina e giurisprudenza in accezioni e sfumature ampie e late) hanno ben presto rivelato, a fronte di un facere amministrativo che soprattutto negli anni della Statalizzazione diveniva sempre più invasivo e fagocitante, il limite di non poter da soli rispondere a tutte le esigenze di tutela che il privato cittadino o la collettività nel suo 1 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio insieme reclamavano contrapponendosi al pubblico operato. Ecco, che, soprattutto negli ultimi decenni di grande sviluppo industriale, affermazione delle nuove tecnologie ed avvio dell’imponente processo di Privatizzazione del Settore Pubblico, dei suoi servizi e delle sue strutture operanti nel mercato, si è determinata l’emersione di nuovi e neonati interessi/diritti o beni immateriali (come la privacy, la trasparenza amministrativa o l’ambiente) da disciplinare e salvaguardare, prima ancora che dal cittadino, dall’Apparato Pubblico e da tutelare all’interno dell’Apparato Pubblico quando questi espleti le sue funzioni interferendo, e talvolta vincolando, i diritti del singolo sia nella vita sociale che in quella economica ed imprenditoriale. Tuttavia, come spesso accade agli ordinamenti moderni, anche in questo caso la legge non si è rivelata al passo con i tempi e per molti anni in nessuna legge o disposizione normativa italiana sono stati riconosciuti o disciplinati concetti quali la salvaguardia dell’ambiente, la riservatezza della vita privata del singolo e tanto meno l’obbligatorietà per un privato di conoscere e partecipare ai procedimenti amministrativi che, una volta definiti, espletano i loro effetti sulla sua sfera di interessi e diritti. Solo l’enorme sforzo dei Giudici e dei Commentatori, come si spiegherà più avanti, hanno consentito, laddove fosse possibile, di estendere l’interpretazione dei principi tradizionali quali il rispetto delle leggi, il dovere dell’imparzialità ed il buon andamento dell’attività amministrativa, e di tutelare così beni o diritti sconosciuti al dettato legislativo nazionale. Pertanto, pur se certamente “nuovi principi” quale la tutela dell’ambiente, piuttosto che della privacy o la garanzia di trasparenza dell’agire amministrativo piuttosto che l’efficienza dello stesso, sono “figli” dei tre tradizionali (legalità, imparzialità e buon andamento), altrettanto certo è che questi, senza un riconoscimento legislativo esplicito, applicati all’agire della Pubblica Amministrazione non avrebbero mai posseduto quella forza vincolante e cogente necessaria ad imporne un rispetto uniforme, generale e permanente. Basti pensare che, finchè non si è disciplinata per legge la trasparenza amministrativa, si riteneva che questa potesse essere esaudita anche solo con la garanzia che il cittadino fosse informato dei provvedimenti adottati dalla Pubblica Amministrazione pur se, a quel punto, si trattava di decisioni definitive non più contestabili o verificabili e finchè 2 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio non si è imposta per legge la tutela dell’ambiente e si è definito l’ambiente quale “bene giuridico” da salvaguardare autonomamente, si riteneva che garantita la tutela della salute del cittadino, fossero di per sè tutelati anche territorio, clima ed ecosistemi. Accanto dunque ai tradizionali principi regolatori dell’azione amministrativa, vale a dire quelli costituzionalmente sanciti dall’art 97 Cost. della legalità ( obbligo per la P.A. di agire in conformità e rispetto della legge ), di imparzialità ( secondo giustizia, coerenza e lealtà ) e buon andamento ( agire secondo le modalità più idonee ed opportune al fine di garantire l’efficace, l’efficienza, la speditezza e l’economicità dell’azione amministrativa con il minor sacrificio degli interessi dei singoli), dottrina e giurisprudenza fin dall’inizio degli anni settanta hanno riconosciuto ed affermato, come esistente nel nostro ordinamento, un nuovo parametro dispositivo, che seppur non previsto esplicitamente dalla Carta costituzionale e dalla legge ordinaria fino al 1990, era in ogni caso riconducibile a quelli positivizzati e posti dalla Costituzione alla base dell’attività amministrativa: il principio della trasparenza della attività amministrativa. Ma cosa si intende per trasparenza? Il significato cui ancora oggi si fa riferimento quando ci si riferisce al concetto di trasparenza risulta da una affermazione pronunciata dall’On. Turati di cui si trova traccia nei Lavori Parlamentari del 1908 il quale riteneva che “ dove un superiore pubblico interesse non imponga un segreto momentaneo la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro”. Non si può sapere con sicurezza se Turati sia stato il primo a usare l’espressione “casa di vetro” applicata alla amministrazione ma è certo che tale espressione continua tuttora ad essere usata per individuare l’esigenza del privato cittadino a vedere assicurata dal sistema una maggiore apertura della amministrazione pubblica verso gli amministrati ed in genere verso la società nel suo complesso. Per tale impostazione e, come suggerisce l’etimologia del termine trasparenza (trans + apparente = ciò che appare attraverso), è implicita l’esistenza di due entità distinte, una al di qua e una al di là di una barriera, il vetro : una rappresentata dalla casa Stato, l’apparato burocratico costituito da una pluralità di soggetti che esercitano poteri molto 3 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio incisivi sulla vita del privato godendo di ampi margini di discrezionalità, l’altra dai soggetti che a tale potere sono subordinati, cioè gli amministrati. L’esigenza di maggiore trasparenza e chiarezza sull’operato della P.A. è cresciuta, come detto, man mano che nei decenni si ampliavano gli ambiti di intervento dello Stato Amministrazione, e di conseguenza cresceva sempre più la necessità di un sistema di garanzie per il privato che sempre più subiva tali ingerenze, seppur giustificate, dall’interesse pubblico. Il problema di consentire la conoscenza dei documenti amministrativi e in particolare degli atti del procedimento era già avvertita in Italia nel immediato dopoguerra dal momento che la Commissione per gli Studi attinenti alla Riorganizzazione dello Stato, presieduta da Forti ed istituita nel 1945, segnalava nella sua relazione all’Assemblea Costituente la necessità di affermare “il diritto del cittadino di avere visione e copia degli atti amministrativi” al fine di combattere il mal vezzo esistente nella amministrazione di ostacolare tale conoscenza. Problema grave è sempre stato tuttavia il fatto che il principio della trasparenza era concetto privo di fondamento giuridico non essendo espressamente riconosciuto né dalla legge costituzionale né dalla legge ordinaria. Dottrina e giurisprudenza hanno così compiuto nei decenni un opera di ricostruzione del concetto e del significato da dare alla trasparenza amministrativa cercando di “ancorarla” e di farla risultare quale espressione di uno dei principi costituzionalmente posti a regolare l’attività amministrativa. Si sono così affermate due tesi del concetto di trasparenza : - una restrittiva correlata al diritto all’informazione - una più ampia invece collegata ai principi dell’art. 97 della Cost. Un orientamento inizialmente prevalso in dottrina durante il dibattito culturale sulla libertà d’informazione iniziato negli anni settanta, poneva in relazione la trasparenza amministrativa con l’ art. 21 della Costituzione che enuncia al comma 1 il principio di libertà di manifestazione del pensiero. 4 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio La trasparenza trovava per i Commentatori il suo fondamento nel diritto all’informazione o meglio nel diritto ad informarsi. La trasparenza dunque intesa come “un capitolo applicato al diritto all’informazione” ( Loiodice, voce “Informazione” in Enc. del Dir., vol. XXI, 1974, Milano). Questa concezione, restrittiva, partendo dal presupposto che ogni soggetto è un“operatore conoscitivo”, portatore del “diritto ad essere informato” e libero di svolgere “attività conoscitiva intesa come libera acquisizione di notizie”, è giunta asostenere che ogni soggetto ha diritto di conoscere ed essere informato della attività amministrativa, ha diritto e facoltà di prendere visione degli atti amministrativi, di conoscere il contenuto , insomma di avervi accesso. La trasparenza amministrativa, sarebbe risultata così assicurata dal solo accesso agli atti amministrativi e sarebbe stata garantita nel momento in cui fossero stati predisposti i mezzi e le modalità per rendere accessibili gli atti amministrativi. L’atto andava, dunque, reso pubblico, conoscibile, accessibile quale condizione necessaria e sufficiente a garantire la trasparenza e la realizzazione del diritto all’informazione. Questa teoria comportava tuttavia una duplice e criticabile conseguenza. Innanzi tutto, determinava l’immedesimazione, la sovrapposizione del concetto di trasparenza con quello di pubblicità degli atti amministrativi( Allegretti,”Imparzialità degli amm.”, Padova, 1965). La trasparenza si riduceva (ecco il perché di tesi restrittiva) a mera necessità di rendere noti e conoscibili gli atti della P.A., quella che nel diritto in generale viene chiamato regime di Pubblicità degli atti. In secondo luogo tale costruzione teorica portava ad individuare come “figura chiave”, come strumento centrale, come unica forma di attuazione ed operatività del principio di trasparenza, l’accesso (Marrana). Tuttavia il principio di trasparenza è anche questo ma non solo. 5 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio Il significato di trasparenza che si afferma in dottrina a partire dagli anni ottanta e che la giurisprudenza progressivamente fa proprio è, infatti, più ampio ed articolato. La trasparenza viene invocata per scongiurare il realizzarsi di attività sommerse, o la indebita soddisfazione d’interessi personali con l’amministrazione occulta della “cosa” pubblica e per far fronte al pericolo di manipolazioni o sotterfugi nell’utilizzo di strumenti istituzionali. Con tale concetto si vuole dunque esprimere la necessità di un’azione amministrativa manifesta, inequivoca e precisa nei suoi fondamenti giustificativi e nei suoi effetti. La richiesta di trasparenza in termini di chiarezza e di inequivocità ha per oggetto, quindi, tutto l’agire dalla amministrazione non soltanto l’accesso ai documenti amministrativi contenenti informazioni sulle decisioni già adottate. In altri termini, l’esigenza di trasparenza riguarda necessariamente in primo luogo il processo decisionale durante il suo svolgimento e soltanto successivamente i risultati di tale processo ( Arena, “L’accesso ai documenti amministrativi”, Mulino,1991) rappresentati dal provvedimento. Questa ricostruzione del concetto di trasparenza è ampiamente confermata dalla giurisprudenza di quegli anni che ha correlato e posto a fondamento della trasparenza i principi tradizionali ma nel contempo ha saputo distinguerla da questi e renderla autonomo principio dell’agire amministrativo (si veda ad esempio: TAR Puglia, Bari, 13 dicembre 1985 n. 783 ( in Foro Amm., 1987, I, 330) nella quale il principio di trasparenza è correlato ai principi di imparzialità e correttezza laddove si impone alla P.A. di rispettare tutta la sequenza logico temporale di un procedimento e C.d.S. IV 12 aprile 1986 n. 325 ( in Foro Amm. 1986, I, 797) trasparenza correlata al principio di imparzialità diviene sinonimo di chiarezza laddove si impone alla P.A. di evitare qualsiasi oscurità ed incertezza in un procedimento per il rilascio di una concessione di autolinee.) In questa sua accezione lata, la trasparenza può essere quindi intesa come vero e proprio parametro su cui fondare l’intera attività amministrativa. 6 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio Come è stato opportunamente affermato, “il concetto di trasparenza dell’azione più che rappresentare un istituto giuridicamente preciso, riassume un modo di essere dell’amministrazione, un obbiettivo o un parametro cui commisurare lo svolgimento dell’azione delle figure soggettive pubbliche. Insomma, la trasparenza dell’azione amministrativa appare il risultato al cui raggiungimento cospirano e concorrono strumenti diversi, dalla possibilità del destinatario di assistere al compimento dell’atto e di partecipare al procedimento amministrativo, alle modalità di svolgimento della seduta dell’organo collegiale, della conoscibilità degli atti attraverso la configurazione di un diritto di accesso; né certo importanza secondaria assume la stessa motivazione del provvedimento come strumento per conoscere obbiettivi e ragioni dell’agire dei soggetti pubblici ai fini vuoi della tutela degli interessati, vuoi del c.d. controllo democratico dei cittadini sull’amministrazione” (Villata,”La trasparenza dell’azione amm.”, Dir. Proc. amm.,1987, p.528 ss.). Tuttavia, pur riconosciuta dal “diritto vivente” fatto di sentenze e commenti degli operatori giuridici, nel nostro ordinamento fino alla legge 241/90, mancava una disciplina che riconoscesse il principio di trasparenza quale principio generale ma era invece possibile individuare vari testi di legge che hanno rappresentano degli antecedenti circoscritti della legge sul procedimento, assicurando una disciplina della trasparenza settoriale cioè in ambiti limitati dell’attività amministrativa. Così ad esempio la legge n. 756/1967 c.d. “Legge ponte sull’urbanistica” sanciva che “chiunque può prendere visione presso uffici comunali delle licenze edilizie ( concessioni) e ricorrere eventualmente contro il rilascio delle stesse se in contrasto con la legge o regolamenti”. Ancora, l’art. 7 della legge n. 142/90 “legge sulla autonomie locali” aveva stabilito il principio di pubblicità degli atti amministrativi Comunali e Provinciali ad eccezione degli atti riservati per legge o per effetto di temporanea e motivata dichiarazione del Sindaco per possibile pregiudizio alla riservatezza di persone,gruppi o imprese, nonchè il diritto di accesso di tutti i cittadini agli atti degli Enti Locali e potere di estrarne copia. Tuttavia mancava ancora una legge che positivizzasse in un unico testo tutti questi principi figli di un'unica aspirazione maggiormente garantista della attività 7 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio amministrativa pur già affermati in ordine sparso in testi di legge settoriali o già pacificamente accettati dalla giurisprudenza. La grande novità e il grande merito della legge 7 agosto 1990 n. 241 è proprio quello di essere stata la prima legge di disciplina generale del procedimento amministrativo dopo che per oltre un secolo in Italia l’attività dei pubblici poteri era regolata da principi normativi posti da legge di settore per singole fattispecie procedimentali ma mai da disposizioni univoche e generalmente applicabili. La 241 ha, dunque, fissato con norme di diritto positivo principi fondamentali che prima della sua approvazione si ritenevano affermati solo in virtù di un consolidato orientamento giurisprudenziale senza che tuttavia avessero la forza dispositiva e la forza vincolante di cui solo la legge o l’atto avente forza di legge è dotato. Infatti, oltre al criterio della trasparenza, la Legge n. 241/90 (come modificata dalla legge n. 15/2005) con l’art. 1, enunciando i “principi generali” dell’attività amministrativa, afferma che questa “persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia” e pubblicità e di non aggravamento del procedimento. Pertanto, il legislatore, nell’esplicitare prima di tutto i parametri ispiratori dell’agire pubblico, non prescrive solo che esso debba essere accessibile e trasparente, ma va oltre imponendo che esso debba non solo assicurare un equilibrio di tipo economico tra risorse impiegate e risultati da ottenere (economicità) ma anche e soprattutto che l’operato amministrativo assicuri dei risultati e raggiunga degli obiettivi, rivelandosi dunque efficace ed efficiente. Se ciò non fosse, l’interesse pubblico sarebbe certamente leso, in un caso, dalla eccessiva dispendiosità dell’azione amministrativa o, nell’altro, dal mancato raggiungimento degli scopi prefissati. Si tratta, dunque, di principi generali che rappresentano oggi, una volta affermati esplicitamente in una legge dello Stato, i criteri non derogabili di ogni attività, procedimento e azione della Pubblica Amministrazione quando questa espleti i suoi poteri autoritativi nei confronti del soggetto privato. 8 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio Capitolo II IL PROCEDIMENTO ED IL SUO RESPONSABILE La legislazione italiana non contiene una definizione di procedimento amministrativo e, dunque, pur avendo il legislatore regolato e disciplinato le fasi e le modalità di svolgimento delle varie tipologie di procedimento amministrativo ed avere sancito dei principi generali sempre applicabili ad essi, non è rinvenibile nell’ordinamento italiano una norma legislativa che definisca cosa si intenda per procedimento. Tuttavia, una definizione è certamente enunciabile ed il procedimento, ormai per unanime indirizzo sia della Dottrina che della Giurisprudenza, è definito come “quella serie concatenata di atti ed operazioni tra loro coordinate ed integrate, provenienti da soggetti pubblici o persone giuridiche private che operano come amministrazioni, previsti da norme primarie preordinate alla produzione di un provvedimento finale, come tale suscettibile di produrre effetti innovativi nell’ordinamento” (MAZZAROLLI, Diritto Amministrativo, Monduzzi Editore, 2001). Ciò che, dunque, qualifica e caratterizza il “processo” amministrativo è la concatenazione di atti ed azioni che, seppur autonome ed eterogenee tra loro, hanno lo scopo comune e precipuo di consentire all’Amministrazione l’emanazione di un provvedimento capace di produrre gli effetti giuridici propri di una determinata fattispecie (VIRGA). Che si tratti, dunque, di un contratto piuttosto che di una concessione o di una convenzione piuttosto che di un decreto di esproprio, il provvedimento finale, valido ed efficace rappresenta l’atto conclusivo del procedimento del quale rispecchia i caratteri, evidenzia le risultanze ed, in taluni casi, conserva i vizi. Alla luce di ciò, la disciplina che si è prefissata di garantire la trasparenza dell’agire amministrativo, non poteva non prevedere, prima di ogni altra, due fondamentali obblighi cui l’Amministrazione soggiace al momento della ultimazione del procedimento, proprio quando l’esternazione delle decisioni assunte riveste il carattere di risultato di tutte le azioni compiute dalla stessa, oltre che il fine ultimo previsto dalla legge. Il legislatore della legge n. 241/1990, dunque, per debellare il diffuso “malcostume” delle Amministrazioni di evitare, in taluni casi, di adottare decisioni definitive e, in taluni 9 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio altri, di esplicitare nei provvedimenti conclusivi le ragioni delle determinazioni assunte, ha non solo imposto per legge, l’obbligo di conclusione esplicita del procedimento (art. 2) ma ha, in più, prescritto l’obbligatorietà della motivazione del provvedimento amministrativo (art. 3). Il silenzio dell’Amministrazione, che fino agli anni ottanta, rappresentava uno dei grandi problemi del rapporto tra privato e pubblico, con l’introduzione dell’art. 2 della legge n. 241/90, che recita “Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la Pubblica Amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso”, è stato regolamentato, in senso negativo, prevedendo che in tutti i casi di mancata risposta esplicita da parte dell’Ente Pubblico ad una istanza o di eguale “non” conclusione di un procedimento avviato d’ufficio, tale contegno sia di per sè illegittimo e censurabile da parte degli organi giurisdizionali: esito esplicito, dunque, di ogni procedimento, prescritto dalla legge e preteso da questa entro un termine anch’esso determinato. Infatti, decorso inutilmente il termine temporale previsto dalla legge, che in via generale è fissato in 90 giorni, ma può anche essere diversamente modulato a seconda dei procedimenti purchè ciò sia previsto da appositi Regolamenti adottati dalle Amministrazioni Statali e dagli Enti Locali, il silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione è oggi qualificato quale palese inadempimento ad un obbligo di legge e può, dunque, dall’interessato essere “impugnato” avanti al giudice amministrativo, anche senza necessità di preventiva diffida (art. 2 comma 5). L’unica forma di silenzio oggi, dunque, ammessa dal nostro ordinamento, ma solo “nei casi espressamente previsti dalla legge”, è quella di silenzio-assenso, ove il mancato espresso pronunciamento dell’Amministrazione, entro il termine di legge, comporta l’accoglimento automatico di quanto richiesto. L’esempio più comune di tale fattispecie è rappresentato dalla denuncia di inizio attività (D.I.A.) ove la disciplina edilizia espressamente prevede che trascorsi 30 giorni dalla presentazione della dichiarazione nei modi di legge, la stessa si intende assentita automaticamente, senza necessitò di espressa approvazione dell’Ufficio Pubblico competente. Tuttavia, laddove manchi una esplicita norma di legge speciale che lo preveda, l’inerzia dell’Ente Pubblico non produce alcun effetto se non quello di rappresentare la mancata 10 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio ottemperanza ad un obbligo oggi generale prescritto dall’ordinamento vigente e comportare la conseguente responsabilità per l’organo amministrativo inadempiente. Ma questo, come accennato, non è che il primo obbligo per la Pubblica Amministrazione introdotta dalla legge n. 241/90. Infatti, non solo il provvedimento deve essere adottato entro i termini, ma deve “indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione in relazione dell’istruttoria” (art. 3). Comune contenuto di tutti i provvedimenti amministrativi, diviene, dunque, l’obbligatorietà della motivazione, la quale adempie, così, a due fondamentali finalità: se da un lato, imponendo l’esplicitazione dei motivi delle decisioni assunte, infatti, garantisce, almeno in termini astratti, che l’operato amministrativo debba esprimersi secondo canoni di “legalità”, dall’altro, consentendo la verifica dall’esterno delle risultanze istruttorie, assicura, in egual modo, la soddisfazione delle esigenze di “trasparenza” cui la normativa del 1990 è ispirata. Senza dire, poi, che l’omessa o insufficiente motivazione del provvedimento quale esplicita violazione di legge, rappresenta, dunque, oggi, autonomo motivo di illegittimità formale dell’atto, sufficiente di per sè a vulnerarne, qualora sussistente, la regolarità divenendo, così, un rafforzato strumento di tutela per gli interessi privati colpiti dagli effetti del provvedimento. Tuttavia, imposti gli obblighi legge esaminati, il legislatore doveva evitare che la “spersonalizzazione” dell’attività amministrativa svilisse l’intento della legge. La normativa sul procedimento ha dovuto, così, porre rimedio ad un altro inaccettabile aspetto che, di regola, si verificava di una volta che il cittadino “veniva a contatto” con l’Amministrazione. Prima del 1990, infatti, risultava pressochè impossibile, soprattutto nelle Amministrazioni Statali, non solo conoscere quale soggetto all’interno dell’Ente fosse delegato a definire un determinato procedimento ma anche a quale ufficio ne spettasse la gestione e la competenza. 11 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio La conseguenza di tale situazione era così la frammentazione dell’azione amministrativa e la sua dilatazione temporale nonchè la totale impossibilità di controllo dall’esterno sullo stato del procedimento aggravata dalla contestuale carenza di responsabilità civile e penale degli amministratori, assicurata dall’ignoranza dei titolari del procedimento che, non avendo l’obbligo di sottoscrizione personale, non potevano, se non in casi limite, essere chiamati a rispondere di inerzie, inadempimenti e carenze pur se del tutto ingiustificate. Con l’entrata in vigore della legge n. 241/90, è stata regolamentata e prevista la nuova figura del Responsabile del Procedimento o dell’Ufficio Responsabile cui è affidata, in ragione delle specifiche competenze, la gestione del procedimento e, di conseguenza, espletata l’istruttoria, l’onere di definirlo nei termini di legge con provvedimento espresso e motivato ed assumendone così, ogni responsabilità connessa. L’art. 4 stabilisce, dunque, “Ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento, le pubbliche amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l’unità organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonchè dell’adozione del provvedimento finale” e di conseguenza, come sancito dall’art. 5, “Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sè o ad altro dipendente addetto all’unità la responsabilità della istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento nonchè, eventualmente, dell’adozione del provvedimento finale. Fino a quando non sia effettuata l’assegnazione di cui al comma 1, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa determinata a norma del comma 1 dell’art. 4.”. Al Responsabile del Procedimento, dunque, ai sensi dell’art. 6, “spetta: - valutare, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione e i presupposti rilevanti per l’emanazione del provvedimento finale; - compiere tutti gli atti di istruttoria necessari, quali accertamenti tecnici, ispezioni, richiesta di documenti, di rettifiche o di dichiarazioni (tenendo in adeguato conto la normativa in tema di autocertificazione di cui al D.P.R. 445/2000) etc.; - proporre l’indizione o, avendone la competenza, indire le conferenze di servizi di cui all’art. 14; - curare le comunicazioni, pubblicazioni e notificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti; 12 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio - adottare, se ne ha la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmettere gli atti all’organo competente per l’adozione.” Si tratta, dunque, della totale gestione del procedimento affidata ad uno o più soggetti individuati che comporta, da un lato, autonomia e discrezionalità da parte di questi nel dettare tempi e modalità della procedura ma, dall’altro, determina la responsabilizzazione non più e non solo dell’ufficio amministrativo (il singolo Dirigente o i singoli Dirigenti dell’Ufficio) ma anche e soprattutto dell’organo amministrativo che, una volta avvenuta “l’assegnazione” del procedimento, non potrà più sottrarsi dal rigoroso rispetto delle norme procedimentali e dei termini in esse fissati. Capitolo III LA PARTECIPAZIONE AL PROCEDIMENTO Le ultime disposizioni esaminate hanno, dunque, assicurato al privato sia di poter conoscere a quale Ufficio ed a quale Organo compete la gestione del procedimento che lo interessa sia di aver diritto ad ottenere la conclusione del procedimento con un provvedimento esplicito che dia contezza delle motivazioni di fatto e di diritto delle determinazioni adottate dall’Amministrazione. Tuttavia, l’ulteriore intento della normativa generale sull’azione amministrativa era quello di predisporre degli strumenti legislativi utili ed idonei a permettere al privato anche di istaurare un “contraddittorio” con la Pubblica Amministrazione, durante lo svolgimento delle varie fasi dello stesso, fornendogli la possibilità, se del caso, di intervenire in esso e partecipare al processo decisionale, al punto di essere addirittura nelle condizioni di poter contribuire a modificarne le risultanze. Il legislatore va, dunque, oltre al concetto di trasparenza in senso stretto e giunge a codificare le norme sulla partecipazione al procedimento che segnano la nascita, nel nostro ordinamento, di ulteriori obblighi per l’Ente Pubblico e di nuovi diritti per il cittadino. Le disposizioni, di cui agli artt. 7 – 10 bis della legge n. 241/90, così, se da un lato impongono alla Pubblica Amministrazione, nello specifico al Responsabile del Procedimento, sia di comunicare agli interessati l’avvio del procedimento sia nei casi di procedimenti avviati su istanza del privato, di informare l’istante prima della adozione del provvedimento definitivo i motivi ostativi all’accoglimento della sua richiesta, 13 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio dall’altro, riconoscono al privato, sia il diritto di visionare gli atti del procedimento e presentare memorie scritte che l’autorità avrà l’obbligo di valutare, sia il diritto di osservare per iscritto al preavviso di diniego. Il privato deve, dunque, essere posto nelle condizioni di conoscere dell’andamento dell’iter amministrativo che lo riguarda e, oltre a ciò, può intervenirvi attivamente fino a contestare quanto sostenuto dall’Amministrazione. L’art. 7, dunque, prevede, innanzitutto, che “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento.”. L’Amministrazione, art. 8, provvede, dunque, a dare notizia dell’avvio del procedimento mediante comunicazione scritta, la quale deve indicare: “a) l’amministrazione competente; b) l’oggetto del procedimento promosso; c) l’ufficio e la persona responsabile del procedimento; c-bis) la data entro la quale, secondo i termini previsti dall’articolo 2, commi 2 o 3, deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione; c-ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza; d) l’ufficio in cui si può prendere visione degli atti.”. Lo scopo fondamentale di tale prescrizione è facilmente intuibile e risiede nella garanzia, per il privato che presumibilmente subirà gli effetti delle determinazioni dell’Amministrazione, di essere per tempo informato che l’Ente ha dato impulso ad un procedimento e di che tipo di procedimento si tratta. Non si può, infatti, ignorare, ad esempio, che il titolare di una concessione demaniale, per uno stabilimento balneare non può che avere interesse a venire informato, appena questo venga avviato, del “processo” di revoca della sua concessione od il proprietario del fondo in via di espropriazione a conoscere del procedimento che presumibilmente sfocerà nel decreto di esproprio della sua proprietà. A comunicazione avvenuta, dopo che l’art. 9 ha precisato anche che “Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonchè i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di 14 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio intervenire nel procedimento.”, affermando così che tale diritto è riconosciuto non solo ai destinatari delle comunicazioni di avvio ma anche a coloro che siano titolari di una posizione giuridica soggettiva che possa essere “intaccata” dalle decisioni dell’Amministrazione, la Legge fornisce, con la disposizione seguente (art. 10), all’interessato ed all’intervenuto, gli strumenti di partecipazione al procedimento, statuendo che questi “hanno diritto: a) di prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall’articolo 24; b) di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento.”. Tali poteri, oggi garantiti in via generale ed indiscriminata, assicurano effettività al contraddittorio tra privato e Pubblica Amministrazione che, iniziato con la comunicazione di avvio, prosegue con l’accesso agli atti e la valutazione ed il controllo da parte dell’interessato delle ragioni fondanti del procedimento e del rispetto dell’iter formale prescritto e sfocia, poi, nella possibilità di produzione di scritti e documenti di cui l’Amministrazione ha l’obbligo di tener conto nella prosecuzione e nella conclusione del procedimento. Le memorie ed i documenti di provenienza privata rappresentano, dunque, la massima espressione dell’intento partecipativo della norma del 1990, permettendo all’interessato di interloquire con il Responsabile del procedimento fino al punto di porre in discussione, mediante eccezioni tecniche oltrechè argomentazioni giuridiche, l’indirizzo assunto dall’Amministrazione che ha nel provvedimento annunciato il suo naturale esito. Eguale ispirazione ha condotto all’adozione anche del più recente art. 10 bis, il quale disciplina la già accennata “comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza”, imponendo che “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo.” Questo nuovo incombente, assente nella prima stesura della legge n. 241/90 ed inserito con la riforma della legge n. 15/2005, completa le disposizioni sulla partecipazione ed attiene solo agli specifici procedimento avviati su istanza di parte, in cui è al privato, 15 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio necessitando di un atto, nella maggior parte dei casi autorizzatorio o concessorio, a dare impulso all’iter processuale. In tali casi, pertanto, il Responsabile ha l’onere, laddove ravvisi la sussistenza di ragioni tecniche o giuridiche che impediscano un positivo riscontro all’istanza, di informare il richiedente dei motivi ostativi all’accoglimento. Il cosiddetto “preavviso di diniego” consente così all’istante, una volta conosciuti, di opporre delle contestazioni ai motivi di diniego, presentando entro 10 giorni dalla comunicazione, anche in questo caso specifico delle osservazioni scritte e documentazione aggiuntiva che l’Autorità ha l’obbligo di valutare e prendere in considerazione. Conferma di ciò si rinviene nella esplicita previsione, ancor più rigorosa di quella generale che prescrive che “Dall’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale.” Il privato, sia esso destinatario passivo di un atto o attivo richiedente di un provvedimento amministrativo, è titolare, dunque, per effetto della normativa sul procedimento, di diritti e facoltà che ne hanno rafforzato la posizione nei confronti della Pubblica Amministrazione, anche quando questo espleti poteri autoritativi, consentendone l’intervento attivo nel processo decisionale al punto di poterne attuare addirittura un “condizionamento”, se giuridicamente fondato. La tempestiva e corretta attivazione di tali strumenti, qualificati dall’ordinamento, come veri e propri diritti, rappresenta l’innovazione più importante e rilevante della norma del 1990 che, unita alla disciplina dell’accesso e del silenzio, certamente hanno dato reale effettività a quel principio della trasparenza che, nella sua accezione più lata, ha portato alla teorizzazione, prima, ed alla attuazione, poi, della partecipazione del privato al procedimento ed all’istaurazione di un efficace contraddittorio tra questi e la Pubblica Amministrazione. 16 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio CAPO II IL DIRITTO DI ACCESSO Capitolo I NOZIONE E PRESUPPOSTI L’accesso a norma dell’art. 22 della L. 241/90, consiste nel potere riconosciuto all’interessato di esaminare e di estrarre copia di documenti della Pubblica Amministrazione. Questa è la definizione che ci fornisce già di per sè tutti gli elementi utili a comprendere portata e limiti dell’istituto così come disciplinato dalla norma. Infatti, chiarito che per accesso si intende materialmente la possibilità di prendere visione, analizzare ed anche estrarre copia degli atti amministrativi, la norma prevede che i legittimati attivi ad esercitare il diritto sono solo i soggetti “interessati” vale a dire i privati compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi (si pensi alle associazioni di categoria) che posseggano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento di cui si chiede l’accesso. Ciò significa che non tutti i cittadini e non in ogni caso, possono avanzare pretese di accesso ad atti amministrativi, ma legittimati a farlo sono solo coloro che siano portatori di un interesse “serio e non riconducibile a mera curiosità” (C.d.S. IV 20.10.1998 n. 1477) e siano personalmente e direttamente coinvolti dagli effetti giuridici dell’azione amministrativa senza che, tuttavia, sia necessario, anche che tali effetti necessariamente arrechino un pregiudizio ad un diritto o ad un interesse del privato. Infatti, in merito a questo ultimo aspetto, su cui si è lungamente discusso, le sentenze amministrative hanno chiarito che la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che i provvedimenti o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti indipendentemente dall’ esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente e della sua attuabilità con la tutela giurisdizionale di posizioni giuridiche concrete (ex multis : C.d.S. Sez. V, 10 Gennaio 2007, n. 55). Se, dunque, il proprietario di un bene in procinto di essere espropriato ha certamente legittimazione ad accedere agli atti di quel procedimento espropriativo, è, per la legge, altrettanto legittimo che anche il proprietario del fondo vicino, non espropriato, possa chiedere di avere visione degli atti di quello stesso procedimento perchè interessato, ad 17 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio esempio, a conoscere dall’Ente espropriante che destinazione avrà quel fondo, pur se il procedimento espropriativo in corso non arreca danni o pregiudizi diretti ed attuali alla sua proprietà. Per quanto poi attiene le associazioni o enti esponenziali rappresentativi di interessi collettivi o diffusi, come ad esempio Legambiente, WWF, CODACONS, ADUSBEF ecc., dopo che tali enti (portatori di interessi di rilevanza comune, quale la tutela dell’ambiente o dei diritti del consumatore) hanno per anni in Tribunale reclamato una autonoma legittimazione spesso negata dai giudici perchè non prevista dall’originario testo della legge, con la novella della Legge n. 241 emanata nel 2005 sono stati riconosciuti titolari del diritto di accesso a patto che vi sia “pertinenza” tra i loro fini statutari e l’ambito di operatività dell’atto amministrativo cui accedere (C.d.S. Sez. VI, 16 dicembre 1998, n. 1683). Esemplicativamente se gli obiettivi statutari di una associazione quale Legambiente, sono quelli, come pare verosimile, della tutela dell’ambiente e dei suoi ecosistemi, certamente potrà avere accesso ad esempio, ad atti attinenti il procedimento di bonifica di un sito inquinato ma non potrà, senza dubbio, richiedere alla Pubblica Amministrazione atti che riguardino le procedure di approvazione dei prezzi dei biglietti delle Ferrovie dello Stato che, al contrario, potrebbero riguardare altra associazione quale il CODACONS. Il requisito dell’interesse e della pertinenza rappresentano, dunque, rispettivamente per il singolo e per l’organismo associativo, il presupposto necessario ed inderogabile per poter azionare legittimamente l’accesso che altrimenti, in loro carenza, potrebbe venire negato dall’Ente Pubblico. Se, dunque, la legge pone comunque dei legittimi limiti alla legittimazione attiva, ha tuttavia contribuito ad allargare (soprattutto dopo le modifiche della L. n. 15/2005) l’ambito di operatività della fattispecie per quel che attiene la legittimazione passiva. Recependo,infatti, gli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi negli ultimi anni, volti a ritenere accessibili non solo i provvedimenti delle Pubbliche Amministrazioni “tradizionali” ma anche degli organismi privati ma svolgenti attività o servizi di rilevanza pubblica, l’art. 22 lett. e) nel definire la “pubblica amministrazione” precisa che 18 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio tali sono da intendersi “tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”. Era del resto impensabile, visto lo spirito e la ratio della legge sull’accesso, che enti pur oggi privatizzati, come ad esempio le Ferrovie dello Stato, ma gestori di pubblici servizi talvolta strategici per la vita economica e sociale del paese, solo perchè trasformati in soggetti di diritto privato restassero esclusi dall’applicazione delle disposizioni sull’accesso e, in generale, sul procedimento amministrativo. Tale concetto vale anche per l’individuazione degli atti accessibili. Infatti, il legislatore per definire il documento amministrativo, inteso come “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetico o di altra specie, detenuta da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse”, ha ulteriormente specificato che ciò vale “indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”, subordinando così alla legge sull’accesso, non solo i provvedimenti e gli atti amministrativi in senso stretto (come ad esempio le autorizzazioni o le concessioni) in cui l’amministrazione eserciti pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa persegua le proprie finalità istituzionali mediante un’attività sottoposta in tutto o in parte alla disciplina prevista per i rapporti tra soggetti privati” (C.d.S. Ad. Plen., 22.04.1999 n. 4). Ecco che, ad esempio, se il Comune di Ferrara delibera di stipulare una polizza di assicurazione, atto certamente privatistico, per tutelare i terzi da eventuali danni procurati dagli automezzi di sua proprietà, questo contratto, pur non essendo un atto o un provvedimento amministrativo, è certamente accessibile da chi dimostri di avere un interesse legittimo a visionarlo e ne faccia richiesta. La disciplina sull’accesso, inoltre, tenuto conto della delicatezza della materia inerente la conoscibilità generalizzata di atti e documenti della Pubblica Amministrazione, ha previsto divieti che in taluni casi si possono ritenere assoluti ed in altri relativi, a seconda che siano o meno derogabili dalla Pubblica Amministrazione. Vale a dire che in presenza di determinate condizioni di diritto o di fatto, la norma non consente di per sè l’accesso in quanto la divulgazione di dati o atti potrebbe determinare 19 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio il rischio di lesione di altri interessi pubblici o privati ritenuti preminenti dell’ordinamento. Recita, infatti, il comma 1 dell’art. 24 che il diritto di accesso è escluso: “a) per i documenti coperti da segreto di Stato ... e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge... (ad esempio il segreto professionale); b) nei procedimenti tributari...; c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione; d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.” Inoltre, “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, in modo tale da scongiurare che taluni, pur se interessati a determinati documentazione talmente procedimenti ampia ed possano avanzare indiscriminata, da delle richieste concretizzare non su il soddisfacimento di un concreto e personale interesse giuridico ma bensì una “ispezione” sull’operato dell’Ente, cui sono ordinariamente già preposti organi pubblici (ex multis: C.d.S., Sez. VI, 10 febbraio 2006, n. 555). Si tratta, in questi casi, di divieti assoluti, vale a dire, sempre applicabili e mai derogabili ma ve ne sono altri che in determinate circostanze, prescritte dalla norma, possano essere derogati in considerazione della necessità di tutela di eguali diritti contrapposti a quello dell’accesso. La regolamentazione di tali casi, infatti, è lasciata dalla L. 241, a normazione secondaria e successiva alla legge, in modo tale che, caso per caso, l’Ente deputato alla tutela di tali interessi possa normare a seconda delle specifiche esigenze. Ecco che, previa adozione di un apposito Regolamento, il Governo “può prevedere casi di sottrazione all’accesso di documenti amministrativi: a) quando ... dalla loro divulgazione possa derivare una lesione ... alla sicurezza e alla difesa nazionale, all’esercizio della sovranità nazionale ...; b) quando l’accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di formazione, di determinazione e di attuazione della politica monetaria e valutaria; 20 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio c) quando i documenti riguardino ... le azioni strettamente strumentali alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità...; d) quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari...; e) quando i documenti riguardino l’attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro e gli atti interni connessi all’espletamento del relativo mandato;” Al di là dei casi senza dubbio importanti ma certamente più rari, quale ad esempio la sicurezza della difesa nazionale, in questa elencazione, particolare attenzione, merita l’inserimento tra le riserve all’accesso della tutela della privacy, di cui al punto e), non solo perchè una volta riconosciuto come diritto dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 38/1973) prima e dal legislatore poi (L. 675/1999), il diritto di riservatezza ha rappresentato un “nuovo diritto” per il nostro ordinamento al pari di quello alla trasparenza ed all’accesso, ma anche perchè proprio la contrapposizione tra l’esigenza di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e quella ex adverso di tutelare la sfera privata personale e imprenditoriale dei soggetti privati ha rappresentato il tema più spinoso e complesso che la Dottrina e la Giurisprudenza prima ed il legislatore poi hanno dovuto affrontare nei recenti ultimi dieci anni. Con l’entrata in vigore, infatti, della legge sull’accesso nel 1990 e della privacy nel 1999, si è concretizzato, anche legislativamente, il conflitto tra due opposti valori: da un lato il diritto alla riservatezza che quale espressione del right to be alone, cioè della potestà ad escludere soggetti estranei dalla propria sfera di intimità personale e nel governo dei propri dati personali mentre dall’altro il diritto di accesso ai documenti amministrativi di cui all’art. 22 della L. 241 espressione del più ampio diritto all’informazione amministrativa la cui base etica è rinvenuta nel disposto degli artt. 21 e 97 della Costituzione. E’ stato chiaro sin da subito, infatti, che una volta acconsentito ad ogni interessato di poter avere libero accesso alla documentazione di una Amministrazione, la riservatezza dei dati e delle informazioni di terzi che in tali documenti fossero contenuti, sarebbe stata violata. 21 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio Ma cosa si intende per diritto alla privacy? I primi a parlare di riservatezza sono stati due americani Warren e Brandeis nel 1890 quando come reazione alle indiscrezioni dell’”Evening Gazette”di Boston sulle amicizie della signora Warren e sulle nozze della figlia Brandeis, parlarono di right to be alone cioè il “diritto di essere lasciati soli”. In Italia i primi casi di emersione del diritto alla riservatezza si collocano non a caso nei primi anni Cinquanta quando caduto il regime fascista, gli organi di stampa godevano di una libertà più ampia nel pubblicare fatti e notizie. Il primo caso rilevante fu quello del tenore Caruso in cui il Tribunale di Roma venne chiamato a decidere se fosse o meno lecita la rappresentazione cinematografica a carattere autobiografico della vita del tenore in cui venivano riferiti episodi e comportamenti della vita privata del personaggio senza il consenso dei familiari. Il Tribunale capitolino (Trib. Roma 14 settembre 1953, FI, 1953, I, 115) affermò per la prima volta che pur non prevedendolo il nostro ordinamento in modo esplicito riconosce l’esistenza di un diritto alla riservatezza “nel divieto di qualsiasi ingerenza estranea nella sfera della vita privata della persona e di qualsiasi indiscrezione da parte di terzi su fatti e comportamenti personali che non pubblici per loro natura non sono destinati alla pubblicità delle persone che essi riguardano” e “per la ricostruzione e la disciplina di tale diritto ci si deve riferire in mancanza di esplicite norme di legge alla disciplina del diritto all’immagine al quale è come manifestazione della riservatezza della persona”. La Corte di Cassazione si è in quegli anni opposta a questa affermazione ed andando contro il crescente bisogno di tutela della privacy che nella società si faceva sempre più pressante, forte di una interpretazione rigorosa della normativa vigente al tempo, ha affermato in una sentenza del 1957 (Cass. n. 4487/1957, in FI, 1957, I, 4) che “nel nostro ordinamento nessuna disposizione autorizza a ritenere che sia sancito il rispetto assoluto dell’intimità della vita privata essendo soltanto riconosciuti e tutelati in modi diversi singoli diritti soggettivi della persona come la tutela dell’immagine, ma l’aspirazione alla privatezza non riceve protezione salvo che l’operato dell’agente offendendo l’onore e il decoro o la reputazione della persona ricada nello schema generale del fatto illecito”. 22 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio Così è stato fino agli anni ’70 quando i mutamenti sociali hanno determinato un radicale diverso approccio al problema della privacy recepito anche dalla giurisprudenza. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 38/1973, per prima ha dato riconoscimento esplicito di diritto inviolabile alla riservatezza attraverso la lettura degli artt.2,3 comma 2 e 13 della Cost., intese come disposizioni che riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo fra i quali rientrano anche quello proprio del decoro, dell’onore, della rispettabilità, riservatezza , intimità e reputazione e poi la Cassazione, con la pronuncia (Cassazione n.2129/1975 in FI, 1975,I, 2895) ha sancito l’esistenza del diritto alla riservatezza che “consiste nella tutela di quelle situazioni personali e familiari le quali anche se verificatesi fuori del domicilio non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile contro le ingerenze che sia pure con mezzi leciti per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore , la reputazione e il decoro non siano tuttavia giustificate da interessi pubblici preminenti.” Si è così giunti alla emanazione della Legge 31 dicembre 1996 n. 675 modificata poi dal D. L.vo 30 giugno 2003 n. 196, che ha per prima riconosciuto la privacy come diritto e ne ha disciplinato contenuti e tutele. La legge rappresenta il recepimento in Italia della Convenzione Europea di Strasburgo n. 108/1981 e della Direttiva Comunitaria 95/46/CE che avevano, già in ambito europeo, imposto il principio del trattamento regolamentato dei dati personali e sensibili e della loro utilizzazione non abusiva. La normativa in esame, regolando appunto il trattamento dei dati, definito come ogni operazione di raccolta, conservazione ed elaborazione di qualsiasi informazione attinente alle persone fisiche ed alle persone giuridiche, ha, per quanto concerne le Amministrazioni Pubbliche, stabilito che il trattamento dei dati personali da parte di queste è consentito solo per lo svolgimento delle loro funzioni istituzionali, mentre quello afferente ai dati sensibili, quali informazioni di tipo sanitario, giudiziario, religioso o politico, è possibile solo laddove previsto da norme di legge (artt. nn. 4, 18-22 del D. L.vo n. 196/2003). 23 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio Egualmente, il legislatore, ha altresì stabilito che anche la divulgazione dei dati in possesso degli Enti Pubblici non è mai consentita al di fuori dei casi in cui la legge lo preveda. Inoltre, come si evince dall’art. 24 della L. 241/90 che va coordinata con il testo di legge sulla privacy, non solo la riservatezza delle persone fisiche ossia la riservatezza dell’individuo rispetto alla propria sfera domestica e in pieno riferimenti all’intima sfera privata della persona, è stata considerata degna di tutela dal legislatore, ma anche la c.d. riservatezza d’impresa quale riservatezza commerciale e/o industriale esplicantesi sotto forma di riservatezza di gruppi, persone giuridiche, enti ed associazioni, gode dello stesso trattamento. Sotto quest’ultimo aspetto, non viene tanto in rilievo il diritto al riserbo personale come diritto ad escludere altri dalla propria sfera di intimità quanto piuttosto l’esigenza di impedire la divulgazione di segreti, ritrovati, conoscenze, esperienze ed accorgimenti tecnici, commerciali ed industriali accumulati dall’impresa nel corso dello svolgimento della relativa attività imprenditoriale ed assolutamente necessari per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale ed assolutamente necessari per lo svolgimento dell’attività produttiva che devono restare riservati e quindi sottratti all’altrui conoscenza (know how). La lesione della riservatezza d’impresa, dunque, si realizzerebbe tutte le volte che l’esercizio del diritto di accesso in particolare nella sua forma tipica dell’estrazione di copia determini il turbamento dello svolgimento dell’attività d’impresa o produttiva. Ma la lesione della riservatezza commerciale può aversi anche con la semplice visione degli atti quando si determini la conoscenza della notizia destinata a rimanere riservata causando così la perdita di competitività dell’impresa con conseguente perdita di profitto. Tornando, dunque, al rapporto tra diritto di accesso e tutela della privacy, l’aspetto di maggiore difficoltà è stato dunque la ricerca di un punto di equilibrio e di composizione del conflitto fra gli individuati opposti valori, punto sul quale la legge sull’accesso del 1990 e la prima normativa sulla privacy del 1996 non aveva fornito sufficiente chiarezza. Infatti, sia Giurisprudenza che Dottrina si sono negli anni divise tra coloro che hanno ritenuto prevalente sempre il diritto alla privacy su quello all’accesso e coloro che, invece, hanno considerato in ogni caso l’esigenza di trasparenza dell’operato della 24 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio Pubblica Amministrazione, dominante sulla riservatezza dei dati dei terzi (preminente rispetto alla riservatezza C.d.S. A.P. del 4 febbraio 1997 n. 5 e C.d.S. A.P. n. 119/1996), senza, tuttavia, rinvenire dei criteri o parametri univoci che potessero consentire di contemperare entrambe le esigenze e garantire uniformità di giudizio. A distanza di quindici anni dalla prima stesura della legge sul procedimento ed a più di sette dalla prima legge sulla privacy del 1996, il legislatore è finalmente intervenuto sul problema ed ha fornito dei criteri generali, con il combinato disposto degli artt. 59 e 60 del D. L.vo n. 196/2003, che possono essere così sintetizzati e semplificati: a) deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici in un processo giudiziario; b) quando il trattamento concerne dati sensibili quali ad esempio lo stato di salute, le abitudini e dati giudiziari o politici, l’accesso da parte di terzi è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare in sede giudiziaria consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile. Ciò significa, dunque, che quando l’accesso a documenti contenenti dati di terzi personali o anche sensibili o giudiziari, è necessario, per la tutela del richiedente in sede giudiziaria e per la difesa dei propri interessi giuridici, la Pubblica Amministrazione non può opporre alcun divieto o limite alla visione di tali documenti, ritenendo così che gli interessi sottostanti alla richiesta di accesso, in tali peculiari situazioni, siano preminenti e prevalenti rispetto alla segretezza e riservatezza dei dati da acquisire. Capitolo II IL PROCEDIMENTO Il diritto di accesso, come detto, si esercita mediante esame ed estrazione di copie di documenti amministrativi (l’esame è gratuito mentre il rilascio di copia è subordinato al costo di riproduzione ed all’imposta di bollo, quando prevista dalla legge). 25 Tuttavia, Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio ciò è consentito, a patto che le regole procedimentali previste dalla normativa che regolano tempi e modi di esercizio dell’accesso siano rispettate. Infatti, dal momento che la Pubblica Amministrazione deve essere posta nelle condizioni di verificare che non sussistano ragioni ostative all’accesso, la legge (art. 25) ha previsto che l’interessato debba presentare una richiesta scritta di accesso ai documenti rivolta all’Ente che ha formato il documento o che lo detiene, specificando i motivi per i quali richiede l’accesso e specificando, laddove possibile, gli estremi degli atti o dei provvedimenti da visionare. Una volta presentata l’istanza, la Pubblica Amministrazione competente ha trenta giorni per consentire l’accesso o per diniegarlo, naturalmente previa esplicitazione dei motivi per i quali tale rifiuto è stato opposto. Nel caso, tuttavia, di silenzio dell’Ente, scaduti i 30 giorni, l’istanza si intende respinta (silenzio-rifiuto) e dunque, l’istante, qualora non condivida i motivi di diniego, se l’ente si è espresso o non abbia ottenuto alcuna risposta, può, a quel punto, in ogni caso, ricorrere alla Giustizia Amministrativa, con apposito ricorso che verrà discusso e deciso dal TAR entro 30 giorni, oppure, per gli atti di Comuni, Province e Regioni, rivolgersi al Difensore Civico territorialmente competente e per gli atti Amministrazioni Centrali e periferiche dello Stato (ad esempio i Ministeri) alla Commissione per l’Accesso ai documenti amministrativi istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 27). Il difensore civico o la Commissione per l’accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza. Scaduto infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Se il difensore civico o la Commissione per l’accesso ritengono illegittimo il diniego o il differimento, ne informano il richiedente e lo comunicano all’autorità disponente. Se questa non emana il provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico o della Commissione, l’accesso è consentito. Se l’accesso è negato o differito per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione provvede, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale il parere si intende reso. 26 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio Le sentenze di primo grado in materia di accesso, così come le decisioni definitive del Difensore Civico o della Commissione, sono, entro trenta giorni, impugnabili avanti all’organo giurisdizionale competente che sarà il Consiglio di Stato nel primo caso, appellando così la sentenza di primo grado, ed , invece, il TAR per le determinazioni di Difensore Civico o della Commissione. Oltre a decidere sulla sussistenza o meno dei presupposti per l’accesso, “il giudice amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina direttamente l’esibizione dei documenti richiesti”ordine a cui l’Amministrazione, a quel punto, non potrà sottrarsi. Capitolo III L’ACCESSO IN MATERIA AMBIENTALE Disciplina specifica o derogatoria rispetto alla normativa generale in materia di accesso agli atti, è quella che attiene all’accesso alle informazioni ambientali, contenute nel Decreto Legislativo n. 195/2005, il quale ha dato attuazione in Italia alla Direttiva Europea 2003/4/CE. Tale normativa, come detto, è caratterizzata innanzitutto dalla specialità in quanto applicabile solo alle informazioni ambientali, definite dalla legge in modo molto ampio come “qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente: 1) lo stato degli elementi dell’ambiente, quali l’aria, l’atmosfera, l’acqua, il suolo, il territorio, i siti naturali; 2) fattori quali le sostanze, l’energia, il rumore, le radiazioni od i rifiuti, anche quelli radioattivi, le emissioni, gli scarichi ed altri rilasci nell’ambiente, che incidono o possono incidere sugli elementi dell’ambiente, individuati al numero 1); 3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, .. che incidano o possono incidere sugli elementi e sui fattori dell’ambiente di cui ai numeri 1) e 2); 4) le relazioni sull’attuazione della legislazione ambientale; 27 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio 5) le analisi costi-benefici ed altre analisi ed ipotesi economiche, usate nell’ambito delle misure e delle attività di cui al numero 3); 6) lo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli edifici d’interesse culturale;” Inoltre, la particolarità, ancora più rilevante, dell’accesso in tali materie, è rappresentata dalla non necessità di un interesse da parte del richiedente a visionare la documentazione che abbia attinenza ambientale. Infatti, come specificato dall’art. 3 del D. L.vo n. 195/2005, “l’Autorità pubblica rende disponibile, secondo le disposizioni del presente decreto, l’informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”, derogando così probabilmente al presupposto più importante richiesto dalla normativa generale che, come si ricorderà, esige un interesse concreto, serio ed attuale che va esplicitato dal richiedente nella sua istanza sulla cui effettiva sussistenza la Pubblica Amministrazione, che detiene la documentazione, può e deve vigilare, potendo anche rifiutare di concedere l’accesso laddove valuti la richiesta non sorretta dai presupposti di legge. Tutto ciò non è possibile, invece, in materia ambientale ove, dunque, la Pubblica Amministrazione, una volta ricevuta l’istanza dovrà rendere visionabile la documentazione entro il termine generale di 30 giorni, senza poter opporre alcunchè, salvo che non contesti il contenuto ambientale degli atti stessi. In tal caso resta ferma la competenza esclusiva della Giustizia Amministrativa, e dunque dei TAR, a sindacare gli eventuali dinieghi all’accesso della Pubblica Amministrazione, o il ricorso al riesame del Difensore Civico ed alla Commissione, secondo le regole generali già spiegate, contenute nell’art. 25 della L. n. 241/90. Tuttavia, anche l’accesso all’informazione ambientale è sottoposta a taluni limiti (art. 5 D. L.vo n. 195/2005) e può essere negato non solo nel caso in cui: “a) l’informazione richiesta non è detenuta dall’autorità pubblica alla quale è rivolta la richiesta di accesso; b) la richiesta è manifestamente irragionevole avuto riguardo alle finalità di cui all’art. 1; c) la richiesta è espressa in termini eccessivamente generici; d) la richiesta concerne materiali, documenti o dati incompleti o in corso di completamento; 28 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio e) la richiesta riguarda comunicazioni interne, tenuto, in ogni caso, conto dell’interesse pubblico tutelato dal diritto di accesso;” ma anche quando, richiamando la disciplina generale, “la divulgazione dell’informazione reca pregiudizio: a) alla riservatezza delle deliberazioni interne delle autorità pubbliche, secondo quanto stabilito dalle disposizioni vigenti in materia; b) alle relazioni internazionali, all’ordine e sicurezza pubblica o alla difesa nazionale; c) allo svolgimento di procedimenti giudiziari o alla possibilità per l’autorità pubblica di svolgere indagini per l’accertamento di illeciti; d) alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali; e) ai diritti di proprietà intellettuale; f) alla riservatezza dei dati personali o riguardanti una persona fisica; g) agli interessi o alla protezione di chiunque abbia fornito di sua volontà le informazioni richieste, in assenza di un obbligo di legge; h) alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, cui si riferisce l’informazione, come nel caso dell’ubicazione di specie rare;”. Infine, aspetto peculiare e non privo di rilevanza, inserito da questa recente normativa, è il principio della qualità della informazione sancito dall’art. 9, che prescrive che l’Autorità ha l’obbligo di detenere informazioni ambientali aggiornate, precise e confrontabili, imponendo che tale garanzia debba essere assicurata dal Ministro dell’Ambiente e dall’Agenzia per la protezione dell’Ambiente che deve elaborare specifiche tecniche per la tenuta aggiornata dei dati ambientali. Si afferma, dunque, nel nostro ordinamento un nuovo onere per le Amministrazioni, che consiste nel dovere assicurare non solo che le informazioni ambientali siano disponibili e conoscibili alla collettività, ma anche che le stesse debbano essere periodicamente aggiornate, presumendo così standard di monitoraggio dell’ambiente cui la Pubblica Amministrazione dovrà necessariamente uniformarsi. 29 Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio