Discipline 1-VI Procedimento amministrativo e accesso

PARTE PRIMA
PRINCIPI GENERALI
VI
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO E
ACCESSO
CAPO I
IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Capitolo I
IL PRINCIPIO DELLA TRASPARENZA E GLI ALTRI PRINCIPI DELL’ATTIVITA’
AMMNISTRATIVA
L’art. 97 della Costituzione ed i principi in esso sanciti ha rappresentato fin dal primo
dopoguerra e rappresenta ancora oggi il cardine ed il parametro normativo cui tutta
l’azione amministrativa deve uniformarsi ed ispirarsi.
Tuttavia, è indubbio che i
principi di legalità, imparzialità e buon andamento (pur se concretamente interpretabili
da dottrina e giurisprudenza in accezioni e sfumature ampie e late) hanno ben presto
rivelato, a fronte di un facere amministrativo che soprattutto negli anni della
Statalizzazione diveniva sempre più invasivo e fagocitante, il limite di non poter da soli
rispondere a tutte le esigenze di tutela che il privato cittadino o la collettività nel suo
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
insieme reclamavano contrapponendosi al pubblico operato. Ecco, che, soprattutto negli
ultimi decenni di grande sviluppo industriale, affermazione delle nuove tecnologie ed
avvio dell’imponente processo di Privatizzazione del Settore Pubblico, dei suoi servizi e
delle sue strutture operanti nel mercato, si è determinata l’emersione di nuovi e neonati
interessi/diritti o beni immateriali (come la privacy, la trasparenza amministrativa o
l’ambiente) da disciplinare e salvaguardare, prima ancora che dal cittadino,
dall’Apparato Pubblico e da tutelare all’interno dell’Apparato Pubblico quando questi
espleti le sue funzioni interferendo, e talvolta vincolando, i diritti del singolo sia nella
vita sociale che in quella economica ed imprenditoriale.
Tuttavia, come spesso accade agli ordinamenti moderni, anche in questo caso la legge
non si è rivelata al passo con i tempi e per molti anni in nessuna legge o disposizione
normativa italiana sono stati riconosciuti o disciplinati concetti quali la salvaguardia
dell’ambiente, la riservatezza della vita privata del singolo e tanto meno l’obbligatorietà
per un privato di conoscere e partecipare ai procedimenti amministrativi che, una volta
definiti, espletano i loro effetti sulla sua sfera di interessi e diritti.
Solo l’enorme sforzo dei Giudici e dei Commentatori, come si spiegherà più avanti,
hanno consentito, laddove fosse possibile, di estendere l’interpretazione dei principi
tradizionali quali il rispetto delle leggi, il dovere dell’imparzialità ed il buon andamento
dell’attività amministrativa, e di tutelare così beni o diritti sconosciuti al dettato
legislativo nazionale.
Pertanto, pur se certamente “nuovi principi” quale la tutela dell’ambiente, piuttosto che
della privacy o la garanzia di trasparenza dell’agire amministrativo piuttosto che
l’efficienza dello stesso, sono “figli” dei tre tradizionali (legalità, imparzialità e buon
andamento), altrettanto certo è che questi, senza un riconoscimento legislativo esplicito,
applicati all’agire della Pubblica Amministrazione non avrebbero mai posseduto quella
forza vincolante e cogente necessaria ad imporne un rispetto uniforme, generale e
permanente.
Basti pensare che, finchè non si è disciplinata per legge la trasparenza amministrativa, si
riteneva che questa potesse essere esaudita anche solo con la garanzia che il cittadino
fosse informato dei provvedimenti adottati dalla Pubblica Amministrazione pur se, a
quel punto, si trattava di decisioni definitive non più contestabili o verificabili e finchè
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non si è imposta per legge la tutela dell’ambiente e si è definito l’ambiente quale “bene
giuridico” da salvaguardare autonomamente, si riteneva che garantita la tutela della
salute del cittadino, fossero di per sè tutelati anche territorio, clima ed ecosistemi.
Accanto dunque ai tradizionali principi regolatori dell’azione amministrativa, vale a dire
quelli costituzionalmente sanciti dall’art 97 Cost. della legalità ( obbligo per la P.A. di
agire in conformità e rispetto della legge ), di imparzialità ( secondo giustizia, coerenza e
lealtà ) e buon andamento ( agire secondo le modalità più idonee ed opportune al fine di
garantire l’efficace, l’efficienza, la speditezza e l’economicità dell’azione amministrativa
con il minor sacrificio degli interessi dei singoli), dottrina e giurisprudenza fin dall’inizio
degli anni settanta hanno riconosciuto ed affermato, come esistente nel nostro
ordinamento, un nuovo parametro dispositivo, che seppur non previsto esplicitamente
dalla Carta costituzionale e dalla legge ordinaria fino al 1990, era in ogni caso
riconducibile a quelli positivizzati e posti dalla Costituzione alla base dell’attività
amministrativa: il principio della trasparenza della attività amministrativa.
Ma cosa si intende per trasparenza?
Il significato cui ancora oggi si fa riferimento quando ci si riferisce al concetto di
trasparenza risulta da una affermazione pronunciata dall’On. Turati di cui si trova
traccia nei Lavori Parlamentari del 1908 il quale riteneva che “ dove un superiore
pubblico interesse non imponga un segreto momentaneo la casa dell’amministrazione
dovrebbe essere di vetro”.
Non si può sapere con sicurezza se Turati sia stato il primo a usare l’espressione “casa di
vetro” applicata alla amministrazione ma è certo che tale espressione continua tuttora ad
essere usata per individuare l’esigenza del privato cittadino a vedere assicurata dal
sistema una maggiore apertura della amministrazione pubblica verso gli amministrati
ed in genere verso la società nel suo complesso.
Per tale impostazione e, come suggerisce l’etimologia del termine trasparenza (trans +
apparente = ciò che appare attraverso), è implicita l’esistenza di due entità distinte, una
al di qua e una al di là di una barriera, il vetro : una rappresentata dalla casa Stato,
l’apparato burocratico costituito da una pluralità di soggetti che esercitano poteri molto
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
incisivi sulla vita del privato godendo di ampi margini di discrezionalità, l’altra dai
soggetti che a tale potere sono subordinati, cioè gli amministrati.
L’esigenza di maggiore trasparenza e chiarezza sull’operato della P.A. è cresciuta, come
detto, man mano che nei decenni si ampliavano gli ambiti di intervento dello Stato Amministrazione, e di conseguenza cresceva sempre più la necessità di un sistema di
garanzie per il privato che sempre più subiva tali ingerenze, seppur giustificate,
dall’interesse pubblico.
Il problema di consentire la conoscenza dei documenti amministrativi e in particolare
degli atti del procedimento era già avvertita in Italia nel immediato dopoguerra dal
momento che la Commissione per gli Studi attinenti alla Riorganizzazione dello Stato,
presieduta da Forti ed istituita nel 1945, segnalava nella sua relazione all’Assemblea
Costituente la necessità di affermare “il diritto del cittadino di avere visione e copia
degli atti amministrativi” al fine di combattere il mal vezzo esistente nella
amministrazione di ostacolare tale conoscenza.
Problema grave è sempre stato tuttavia il fatto che il principio della trasparenza era
concetto privo di fondamento giuridico non essendo espressamente riconosciuto né
dalla legge costituzionale né dalla legge ordinaria.
Dottrina e giurisprudenza hanno così compiuto nei decenni un opera di ricostruzione
del concetto e del significato da dare alla trasparenza amministrativa cercando di
“ancorarla” e di farla risultare quale espressione di uno dei principi costituzionalmente
posti a regolare l’attività amministrativa.
Si sono così affermate due tesi del concetto di trasparenza :
- una restrittiva correlata al diritto all’informazione
- una più ampia invece collegata ai principi dell’art. 97 della Cost.
Un orientamento inizialmente prevalso in dottrina durante il dibattito culturale sulla
libertà d’informazione iniziato negli anni settanta, poneva in relazione la trasparenza
amministrativa con l’ art. 21 della Costituzione che enuncia al comma 1 il principio di
libertà di manifestazione del pensiero.
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
La trasparenza trovava per i Commentatori il suo fondamento nel diritto
all’informazione o meglio nel diritto ad informarsi.
La trasparenza dunque intesa come “un capitolo applicato al diritto all’informazione” (
Loiodice, voce “Informazione” in Enc. del Dir., vol. XXI, 1974, Milano).
Questa concezione, restrittiva, partendo dal presupposto che ogni soggetto è
un“operatore conoscitivo”, portatore del “diritto ad essere informato” e libero di
svolgere “attività conoscitiva intesa come libera acquisizione di notizie”, è giunta
asostenere che ogni soggetto ha diritto di conoscere ed essere informato della attività
amministrativa, ha diritto e facoltà di prendere visione degli atti amministrativi, di
conoscere il contenuto , insomma di avervi accesso.
La trasparenza amministrativa, sarebbe risultata così assicurata dal solo accesso agli atti
amministrativi e sarebbe stata garantita nel momento in cui fossero stati predisposti i
mezzi e le modalità per rendere accessibili gli atti amministrativi.
L’atto andava, dunque, reso pubblico, conoscibile, accessibile quale condizione
necessaria e sufficiente a garantire la trasparenza e la realizzazione del diritto
all’informazione.
Questa teoria comportava tuttavia una duplice e criticabile conseguenza.
Innanzi tutto, determinava l’immedesimazione, la sovrapposizione del concetto di
trasparenza con quello di pubblicità degli atti amministrativi( Allegretti,”Imparzialità degli
amm.”, Padova, 1965).
La trasparenza si riduceva (ecco il perché di tesi restrittiva) a mera necessità di
rendere noti e conoscibili gli atti della P.A., quella che nel diritto in generale viene
chiamato regime di Pubblicità degli atti.
In secondo luogo tale costruzione teorica portava ad individuare come “figura chiave”,
come strumento centrale, come unica forma di attuazione ed operatività del principio di
trasparenza, l’accesso (Marrana).
Tuttavia il principio di trasparenza è anche questo ma non solo.
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Il significato di trasparenza che si afferma in dottrina a partire dagli anni ottanta e che la
giurisprudenza progressivamente fa proprio è, infatti, più ampio ed articolato.
La trasparenza viene invocata per scongiurare il realizzarsi di attività sommerse, o la
indebita soddisfazione d’interessi personali con l’amministrazione occulta della “cosa”
pubblica e per far fronte al pericolo di manipolazioni o sotterfugi nell’utilizzo di
strumenti istituzionali. Con tale concetto si vuole dunque esprimere la necessità di
un’azione amministrativa manifesta, inequivoca e precisa nei suoi fondamenti
giustificativi e nei suoi effetti.
La richiesta di trasparenza in termini di chiarezza e di inequivocità ha per oggetto,
quindi, tutto l’agire dalla amministrazione non soltanto l’accesso ai documenti
amministrativi contenenti informazioni sulle decisioni già adottate.
In altri termini, l’esigenza di trasparenza riguarda necessariamente in primo luogo il
processo decisionale durante il suo svolgimento e soltanto successivamente i risultati di
tale processo ( Arena, “L’accesso ai documenti amministrativi”, Mulino,1991) rappresentati
dal provvedimento.
Questa ricostruzione del concetto di trasparenza è ampiamente confermata dalla
giurisprudenza di quegli anni che ha correlato e posto a fondamento della trasparenza i
principi tradizionali ma nel contempo ha saputo distinguerla da questi e renderla
autonomo principio dell’agire amministrativo (si veda ad esempio: TAR Puglia, Bari, 13
dicembre 1985 n. 783 ( in Foro Amm., 1987, I, 330) nella quale il principio di trasparenza è
correlato ai principi di imparzialità e correttezza laddove si impone alla P.A. di
rispettare tutta la sequenza logico temporale di un procedimento e C.d.S. IV 12 aprile
1986 n. 325 ( in Foro Amm. 1986, I, 797) trasparenza correlata al principio di imparzialità
diviene sinonimo di chiarezza laddove si impone alla P.A. di evitare qualsiasi oscurità
ed incertezza in un procedimento per il rilascio di una concessione di autolinee.)
In questa sua accezione lata, la trasparenza può essere quindi intesa come vero e proprio
parametro su cui fondare l’intera attività amministrativa.
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
Come è stato opportunamente affermato, “il concetto di trasparenza dell’azione più che
rappresentare un istituto giuridicamente preciso, riassume un modo di essere
dell’amministrazione, un obbiettivo o un parametro cui commisurare lo svolgimento
dell’azione delle figure soggettive pubbliche. Insomma, la trasparenza dell’azione
amministrativa appare il risultato al cui raggiungimento cospirano e concorrono
strumenti diversi, dalla possibilità del destinatario di assistere al compimento dell’atto e
di partecipare al procedimento amministrativo, alle modalità di svolgimento della
seduta dell’organo collegiale, della conoscibilità degli atti attraverso la configurazione di
un diritto di accesso; né certo importanza secondaria assume la stessa motivazione del
provvedimento come strumento per conoscere obbiettivi e ragioni dell’agire dei soggetti
pubblici ai fini vuoi della tutela degli interessati, vuoi del c.d. controllo democratico dei
cittadini sull’amministrazione” (Villata,”La trasparenza dell’azione amm.”, Dir. Proc.
amm.,1987, p.528 ss.).
Tuttavia, pur riconosciuta dal “diritto vivente” fatto di sentenze e commenti degli
operatori giuridici, nel nostro ordinamento fino alla legge 241/90, mancava una
disciplina che riconoscesse il principio di trasparenza quale principio generale ma era
invece possibile individuare vari testi di legge che hanno rappresentano degli
antecedenti circoscritti della legge sul procedimento, assicurando una disciplina della
trasparenza settoriale cioè in ambiti limitati dell’attività amministrativa.
Così ad esempio la legge n. 756/1967
c.d. “Legge ponte sull’urbanistica”
sanciva che
“chiunque può prendere visione presso uffici comunali delle licenze edilizie (
concessioni) e ricorrere eventualmente contro il rilascio delle stesse se in contrasto con la
legge o regolamenti”. Ancora, l’art. 7 della legge n. 142/90 “legge sulla autonomie
locali” aveva stabilito il principio di pubblicità degli atti amministrativi Comunali e
Provinciali ad eccezione degli atti riservati per legge o per effetto di temporanea e
motivata dichiarazione del Sindaco per possibile pregiudizio alla riservatezza di
persone,gruppi o imprese, nonchè il diritto di accesso di tutti i cittadini agli atti degli
Enti Locali e potere di estrarne copia.
Tuttavia mancava ancora una legge che positivizzasse in un unico testo tutti questi
principi figli
di
un'unica aspirazione
maggiormente garantista della attività
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
amministrativa pur già affermati in ordine sparso in testi di legge settoriali o già
pacificamente accettati dalla giurisprudenza.
La grande novità e il grande merito della legge 7 agosto 1990 n. 241 è proprio quello di
essere stata la prima legge di disciplina generale del procedimento amministrativo dopo
che per oltre un secolo in Italia l’attività dei pubblici poteri era regolata da principi
normativi posti da legge di settore per singole fattispecie procedimentali ma mai da
disposizioni univoche e generalmente applicabili.
La 241 ha, dunque, fissato con norme di diritto positivo principi fondamentali che prima
della sua approvazione si ritenevano affermati solo in virtù di un consolidato
orientamento giurisprudenziale senza che tuttavia avessero la forza dispositiva e la
forza vincolante di cui solo la legge o l’atto avente forza di legge è dotato.
Infatti, oltre al criterio della trasparenza, la Legge n. 241/90 (come modificata dalla legge
n. 15/2005) con l’art. 1, enunciando i “principi generali” dell’attività amministrativa,
afferma che questa “persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di
economicità, efficacia” e pubblicità e di non aggravamento del procedimento.
Pertanto, il legislatore, nell’esplicitare prima di tutto i parametri ispiratori dell’agire
pubblico, non prescrive solo che esso debba essere accessibile e trasparente, ma va oltre
imponendo che esso debba non solo assicurare un equilibrio di tipo economico tra
risorse impiegate e risultati da ottenere (economicità) ma anche e soprattutto che
l’operato amministrativo assicuri dei risultati e raggiunga degli obiettivi, rivelandosi
dunque efficace ed efficiente.
Se ciò non fosse, l’interesse pubblico sarebbe certamente leso, in un caso, dalla eccessiva
dispendiosità dell’azione amministrativa o, nell’altro, dal mancato raggiungimento degli
scopi prefissati.
Si tratta, dunque, di principi generali che rappresentano oggi, una volta affermati
esplicitamente in una legge dello Stato, i criteri non derogabili di ogni attività,
procedimento e azione della Pubblica Amministrazione quando questa espleti i suoi
poteri autoritativi nei confronti del soggetto privato.
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
Capitolo II
IL PROCEDIMENTO ED IL SUO RESPONSABILE
La legislazione italiana non contiene una definizione di procedimento amministrativo e,
dunque, pur avendo il legislatore regolato e disciplinato le fasi e le modalità di
svolgimento delle varie tipologie di procedimento amministrativo ed avere sancito dei
principi generali sempre applicabili ad essi, non è rinvenibile nell’ordinamento italiano
una norma legislativa che definisca cosa si intenda per procedimento.
Tuttavia, una definizione è certamente enunciabile ed il procedimento, ormai per
unanime indirizzo sia della Dottrina che della Giurisprudenza, è definito come “quella
serie concatenata di atti ed operazioni tra loro coordinate ed integrate, provenienti da soggetti
pubblici o persone giuridiche private che operano come amministrazioni, previsti da norme
primarie preordinate alla produzione di un provvedimento finale, come tale suscettibile di
produrre effetti innovativi nell’ordinamento” (MAZZAROLLI, Diritto Amministrativo,
Monduzzi Editore, 2001).
Ciò che, dunque, qualifica e caratterizza il “processo” amministrativo è la concatenazione
di atti ed azioni che, seppur autonome ed eterogenee tra loro, hanno lo scopo comune e
precipuo di consentire all’Amministrazione l’emanazione di un provvedimento capace
di produrre gli effetti giuridici propri di una determinata fattispecie (VIRGA).
Che si tratti, dunque, di un contratto piuttosto che di una concessione o di una
convenzione piuttosto che di un decreto di esproprio, il provvedimento finale, valido ed
efficace rappresenta l’atto conclusivo del procedimento del quale rispecchia i caratteri,
evidenzia le risultanze ed, in taluni casi, conserva i vizi.
Alla luce di ciò, la disciplina che si è prefissata di garantire la trasparenza dell’agire
amministrativo, non poteva non prevedere, prima di ogni altra, due fondamentali
obblighi
cui
l’Amministrazione
soggiace
al
momento
della
ultimazione
del
procedimento, proprio quando l’esternazione delle decisioni assunte riveste il carattere
di risultato di tutte le azioni compiute dalla stessa, oltre che il fine ultimo previsto dalla
legge.
Il legislatore della legge n. 241/1990, dunque, per debellare il diffuso “malcostume” delle
Amministrazioni di evitare, in taluni casi, di adottare decisioni definitive e, in taluni
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
altri, di esplicitare nei provvedimenti conclusivi le ragioni delle determinazioni assunte,
ha non solo imposto per legge, l’obbligo di conclusione esplicita del procedimento (art.
2) ma ha, in più, prescritto l’obbligatorietà della motivazione del provvedimento
amministrativo (art. 3). Il silenzio dell’Amministrazione, che fino agli anni ottanta,
rappresentava uno dei grandi problemi del rapporto tra privato e pubblico, con
l’introduzione dell’art. 2 della legge n. 241/90, che recita “Ove il procedimento consegua
obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la Pubblica
Amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso”,
è stato regolamentato, in senso negativo, prevedendo che in tutti i casi di mancata
risposta esplicita da parte dell’Ente Pubblico ad una istanza o di eguale “non”
conclusione di un procedimento avviato d’ufficio, tale contegno sia di per sè illegittimo e
censurabile da parte degli organi giurisdizionali: esito esplicito, dunque, di ogni
procedimento, prescritto dalla legge e preteso da questa entro un termine anch’esso
determinato.
Infatti, decorso inutilmente il termine temporale previsto dalla legge, che in via generale
è fissato in 90 giorni, ma può anche essere diversamente modulato a seconda dei
procedimenti purchè ciò sia previsto da appositi Regolamenti adottati dalle
Amministrazioni Statali e dagli Enti Locali, il silenzio serbato dalla Pubblica
Amministrazione è oggi qualificato quale palese inadempimento ad un obbligo di legge
e può, dunque, dall’interessato essere “impugnato” avanti al giudice amministrativo,
anche senza necessità di preventiva diffida (art. 2 comma 5).
L’unica forma di silenzio oggi, dunque, ammessa dal nostro ordinamento, ma solo “nei
casi espressamente previsti dalla legge”, è quella di silenzio-assenso, ove il mancato espresso
pronunciamento
dell’Amministrazione,
entro
il
termine
di
legge,
comporta
l’accoglimento automatico di quanto richiesto. L’esempio più comune di tale fattispecie
è rappresentato dalla denuncia di inizio attività (D.I.A.) ove la disciplina edilizia
espressamente prevede che trascorsi 30 giorni dalla presentazione della dichiarazione
nei modi di legge, la stessa si intende assentita automaticamente, senza necessitò di
espressa approvazione dell’Ufficio Pubblico competente.
Tuttavia, laddove manchi una esplicita norma di legge speciale che lo preveda, l’inerzia
dell’Ente Pubblico non produce alcun effetto se non quello di rappresentare la mancata
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
ottemperanza ad un obbligo oggi generale prescritto dall’ordinamento vigente e
comportare la conseguente responsabilità per l’organo amministrativo inadempiente.
Ma questo, come accennato, non è che il primo obbligo per la Pubblica Amministrazione
introdotta dalla legge n. 241/90.
Infatti, non solo il provvedimento deve essere adottato entro i termini, ma deve “indicare
i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione
dell’Amministrazione in relazione dell’istruttoria” (art. 3).
Comune contenuto di tutti i provvedimenti amministrativi, diviene, dunque,
l’obbligatorietà della motivazione, la quale adempie, così, a due fondamentali finalità: se
da un lato, imponendo l’esplicitazione dei motivi delle decisioni assunte, infatti,
garantisce, almeno in termini astratti, che l’operato amministrativo debba esprimersi
secondo canoni di “legalità”, dall’altro, consentendo la verifica dall’esterno delle
risultanze istruttorie, assicura, in egual modo, la soddisfazione delle esigenze di
“trasparenza” cui la normativa del 1990 è ispirata.
Senza dire, poi, che l’omessa o insufficiente motivazione del provvedimento quale
esplicita violazione di legge, rappresenta, dunque, oggi, autonomo motivo di
illegittimità formale dell’atto, sufficiente di per sè a vulnerarne, qualora sussistente, la
regolarità divenendo, così, un rafforzato strumento di tutela per gli interessi privati
colpiti dagli effetti del provvedimento.
Tuttavia, imposti gli obblighi legge esaminati, il legislatore doveva evitare che la
“spersonalizzazione” dell’attività amministrativa svilisse l’intento della legge.
La normativa sul procedimento ha dovuto, così, porre rimedio ad un altro inaccettabile
aspetto che, di regola, si verificava di una volta che il cittadino “veniva a contatto” con
l’Amministrazione.
Prima
del
1990,
infatti,
risultava
pressochè
impossibile,
soprattutto
nelle
Amministrazioni Statali, non solo conoscere quale soggetto all’interno dell’Ente fosse
delegato a definire un determinato procedimento ma anche a quale ufficio ne spettasse
la gestione e la competenza.
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
La conseguenza di tale situazione era così la frammentazione dell’azione amministrativa
e la sua dilatazione temporale nonchè la totale impossibilità di controllo dall’esterno
sullo stato del procedimento aggravata dalla contestuale carenza di responsabilità civile
e penale degli amministratori, assicurata dall’ignoranza dei titolari del procedimento
che, non avendo l’obbligo di sottoscrizione personale, non potevano, se non in casi
limite, essere chiamati a rispondere di inerzie, inadempimenti e carenze pur se del tutto
ingiustificate.
Con l’entrata in vigore della legge n. 241/90, è stata regolamentata e prevista la nuova
figura del Responsabile del Procedimento o dell’Ufficio Responsabile cui è affidata, in
ragione delle specifiche competenze, la gestione del procedimento e, di conseguenza,
espletata l’istruttoria, l’onere di definirlo nei termini di legge con provvedimento
espresso e motivato ed assumendone così, ogni responsabilità connessa.
L’art. 4 stabilisce, dunque, “Ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento,
le pubbliche amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo
ad atti di loro competenza l’unità organizzativa responsabile della istruttoria e di ogni altro
adempimento procedimentale, nonchè dell’adozione del provvedimento finale” e di conseguenza,
come sancito dall’art. 5, “Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a
sè o ad altro dipendente addetto all’unità la responsabilità della istruttoria e di ogni altro
adempimento inerente il singolo procedimento nonchè, eventualmente, dell’adozione del
provvedimento finale.
Fino a quando non sia effettuata l’assegnazione di cui al comma 1, è
considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa
determinata a norma del comma 1 dell’art. 4.”.
Al Responsabile del Procedimento, dunque, ai sensi dell’art. 6, “spetta:
- valutare, ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione e i
presupposti rilevanti per l’emanazione del provvedimento finale;
- compiere tutti gli atti di istruttoria necessari, quali accertamenti tecnici, ispezioni, richiesta di
documenti, di rettifiche o di dichiarazioni (tenendo in adeguato conto la normativa in tema di
autocertificazione di cui al D.P.R. 445/2000) etc.;
- proporre l’indizione o, avendone la competenza, indire le conferenze di servizi di cui all’art. 14;
- curare le comunicazioni, pubblicazioni e notificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti;
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
- adottare, se ne ha la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmettere gli atti all’organo
competente per l’adozione.”
Si tratta, dunque, della totale gestione del procedimento affidata ad uno o più soggetti
individuati che comporta, da un lato, autonomia e discrezionalità da parte di questi nel
dettare
tempi
e
modalità
della
procedura
ma,
dall’altro,
determina
la
responsabilizzazione non più e non solo dell’ufficio amministrativo (il singolo Dirigente
o i singoli Dirigenti dell’Ufficio) ma anche e soprattutto dell’organo amministrativo che,
una volta avvenuta “l’assegnazione” del procedimento, non potrà più sottrarsi dal
rigoroso rispetto delle norme procedimentali e dei termini in esse fissati.
Capitolo III
LA PARTECIPAZIONE AL PROCEDIMENTO
Le ultime disposizioni esaminate hanno, dunque, assicurato al privato sia di poter
conoscere a quale Ufficio ed a quale Organo compete la gestione del procedimento che
lo interessa sia di aver diritto ad ottenere la conclusione del procedimento con un
provvedimento esplicito che dia contezza delle motivazioni di fatto e di diritto delle
determinazioni adottate dall’Amministrazione.
Tuttavia, l’ulteriore intento della normativa generale sull’azione amministrativa era
quello di predisporre degli strumenti legislativi utili ed idonei a permettere al privato
anche di istaurare un “contraddittorio” con la Pubblica Amministrazione, durante lo
svolgimento delle varie fasi dello stesso, fornendogli la possibilità, se del caso, di
intervenire in esso e partecipare al processo decisionale, al punto di essere addirittura
nelle condizioni di poter contribuire a modificarne le risultanze.
Il legislatore va, dunque, oltre al concetto di trasparenza in senso stretto e giunge a
codificare le norme sulla partecipazione al procedimento che segnano la nascita, nel
nostro ordinamento, di ulteriori obblighi per l’Ente Pubblico e di nuovi diritti per il
cittadino.
Le disposizioni, di cui agli artt. 7 – 10 bis della legge n. 241/90, così, se da un lato
impongono alla Pubblica Amministrazione, nello specifico al Responsabile del
Procedimento, sia di comunicare agli interessati l’avvio del procedimento sia nei casi di
procedimenti avviati su istanza del privato, di informare l’istante prima della adozione
del provvedimento definitivo i motivi ostativi all’accoglimento della sua richiesta,
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
dall’altro, riconoscono al privato, sia il diritto di visionare gli atti del procedimento e
presentare memorie scritte che l’autorità avrà l’obbligo di valutare, sia il diritto di
osservare per iscritto al preavviso di diniego.
Il privato deve, dunque, essere posto nelle condizioni di conoscere dell’andamento
dell’iter amministrativo che lo riguarda e, oltre a ciò, può intervenirvi attivamente fino a
contestare quanto sostenuto dall’Amministrazione.
L’art. 7, dunque, prevede, innanzitutto, che “Ove non sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è
comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono
intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un
provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili,
diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse
modalità, notizia dell’inizio del procedimento.”.
L’Amministrazione, art. 8, provvede, dunque, a dare notizia dell’avvio del
procedimento mediante comunicazione scritta, la quale deve indicare:
“a) l’amministrazione competente;
b) l’oggetto del procedimento promosso;
c) l’ufficio e la persona responsabile del procedimento;
c-bis) la data entro la quale, secondo i termini previsti dall’articolo 2, commi 2 o 3, deve
concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione;
c-ter) nei procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza;
d) l’ufficio in cui si può prendere visione degli atti.”.
Lo scopo fondamentale di tale prescrizione è facilmente intuibile e risiede nella garanzia,
per
il
privato
che
presumibilmente
subirà
gli
effetti
delle
determinazioni
dell’Amministrazione, di essere per tempo informato che l’Ente ha dato impulso ad un
procedimento e di che tipo di procedimento si tratta.
Non si può, infatti, ignorare, ad esempio, che il titolare di una concessione demaniale,
per uno stabilimento balneare non può che avere interesse a venire informato, appena
questo venga avviato, del “processo” di revoca della sua concessione od il proprietario
del fondo in via di espropriazione a conoscere del procedimento che presumibilmente
sfocerà nel decreto di esproprio della sua proprietà.
A comunicazione avvenuta, dopo che l’art. 9 ha precisato anche che “Qualunque soggetto,
portatore di interessi pubblici o privati, nonchè i portatori di interessi diffusi costituiti in
associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di
14
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
intervenire nel procedimento.”, affermando così che tale diritto è riconosciuto non solo ai
destinatari delle comunicazioni di avvio ma anche a coloro che siano titolari di una
posizione
giuridica
soggettiva
che
possa
essere
“intaccata”
dalle
decisioni
dell’Amministrazione, la Legge fornisce, con la disposizione seguente (art. 10),
all’interessato ed all’intervenuto, gli strumenti di partecipazione al procedimento,
statuendo che questi “hanno diritto:
a) di prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall’articolo 24;
b) di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove
siano pertinenti all’oggetto del procedimento.”.
Tali poteri, oggi garantiti in via generale ed indiscriminata, assicurano effettività al
contraddittorio tra privato e Pubblica Amministrazione che, iniziato con la
comunicazione di avvio, prosegue con l’accesso agli atti e la valutazione ed il controllo
da parte dell’interessato delle ragioni fondanti del procedimento e del rispetto dell’iter
formale prescritto e sfocia, poi, nella possibilità di produzione di scritti e documenti di
cui l’Amministrazione ha l’obbligo di tener conto nella prosecuzione e nella conclusione
del procedimento.
Le memorie ed i documenti di provenienza privata rappresentano, dunque, la massima
espressione dell’intento partecipativo della norma del 1990, permettendo all’interessato
di interloquire con il Responsabile del procedimento fino al punto di porre in
discussione, mediante eccezioni tecniche oltrechè argomentazioni giuridiche, l’indirizzo
assunto dall’Amministrazione che ha nel provvedimento annunciato il suo naturale
esito.
Eguale ispirazione ha condotto all’adozione anche del più recente art. 10 bis, il quale
disciplina la già accennata “comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza”,
imponendo che “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o
l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica
tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine
di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per
iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al
primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a
decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del
termine di cui al secondo periodo.”
Questo nuovo incombente, assente nella prima stesura della legge n. 241/90 ed inserito
con la riforma della legge n. 15/2005, completa le disposizioni sulla partecipazione ed
attiene solo agli specifici procedimento avviati su istanza di parte, in cui è al privato,
15
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
necessitando di un atto, nella maggior parte dei casi autorizzatorio o concessorio, a dare
impulso all’iter processuale.
In tali casi, pertanto, il Responsabile ha l’onere, laddove ravvisi la sussistenza di ragioni
tecniche o giuridiche che impediscano un positivo riscontro all’istanza, di informare il
richiedente dei motivi ostativi all’accoglimento.
Il cosiddetto “preavviso di diniego” consente così all’istante, una volta conosciuti, di
opporre delle contestazioni ai motivi di diniego, presentando entro 10 giorni dalla
comunicazione,
anche
in
questo
caso
specifico
delle
osservazioni
scritte
e
documentazione aggiuntiva che l’Autorità ha l’obbligo di valutare e prendere in
considerazione.
Conferma di ciò si rinviene nella esplicita previsione, ancor più rigorosa di quella
generale che prescrive che “Dall’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data
ragione nella motivazione del provvedimento finale.”
Il privato, sia esso destinatario passivo di un atto o attivo richiedente di un
provvedimento amministrativo, è titolare, dunque, per effetto della normativa sul
procedimento, di diritti e facoltà che ne hanno rafforzato la posizione nei confronti della
Pubblica
Amministrazione,
anche
quando
questo
espleti
poteri
autoritativi,
consentendone l’intervento attivo nel processo decisionale al punto di poterne attuare
addirittura un “condizionamento”, se giuridicamente fondato.
La tempestiva e corretta attivazione di tali strumenti, qualificati dall’ordinamento, come
veri e propri diritti, rappresenta l’innovazione più importante e rilevante della norma
del 1990 che, unita alla disciplina dell’accesso e del silenzio, certamente hanno dato reale
effettività a quel principio della trasparenza che, nella sua accezione più lata, ha portato
alla teorizzazione, prima, ed alla attuazione, poi, della partecipazione del privato al
procedimento ed all’istaurazione di un efficace contraddittorio tra questi e la Pubblica
Amministrazione.
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
CAPO II
IL DIRITTO DI ACCESSO
Capitolo I
NOZIONE E PRESUPPOSTI
L’accesso a norma dell’art. 22 della L. 241/90, consiste nel potere riconosciuto
all’interessato di esaminare e di estrarre copia di documenti della Pubblica
Amministrazione.
Questa è la definizione che ci fornisce già di per sè tutti gli elementi utili a comprendere
portata e limiti dell’istituto così come disciplinato dalla norma. Infatti, chiarito che per
accesso si intende materialmente la possibilità di prendere visione, analizzare ed anche
estrarre copia degli atti amministrativi, la norma prevede che i legittimati attivi ad
esercitare il diritto sono solo i soggetti “interessati” vale a dire i privati compresi quelli
portatori di interessi pubblici o diffusi (si pensi alle associazioni di categoria) che
posseggano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento di cui si chiede l’accesso.
Ciò significa che non tutti i cittadini e non in ogni caso, possono avanzare pretese di
accesso ad atti amministrativi, ma legittimati a farlo sono solo coloro che siano portatori
di un interesse “serio e non riconducibile a mera curiosità” (C.d.S. IV 20.10.1998 n. 1477)
e siano personalmente e direttamente coinvolti dagli effetti giuridici dell’azione
amministrativa senza che, tuttavia, sia necessario, anche che tali effetti necessariamente
arrechino un pregiudizio ad un diritto o ad un interesse del privato. Infatti, in merito a
questo ultimo aspetto, su cui si è lungamente discusso, le sentenze amministrative
hanno chiarito che la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa
dimostrare che i provvedimenti o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano
idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti indipendentemente dall’
esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente e della sua attuabilità
con la tutela giurisdizionale di posizioni giuridiche concrete (ex multis : C.d.S. Sez. V, 10
Gennaio 2007, n. 55).
Se, dunque, il proprietario di un bene in procinto di essere espropriato ha certamente
legittimazione ad accedere agli atti di quel procedimento espropriativo, è, per la legge,
altrettanto legittimo che anche il proprietario del fondo vicino, non espropriato, possa
chiedere di avere visione degli atti di quello stesso procedimento perchè interessato, ad
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
esempio, a conoscere dall’Ente espropriante che destinazione avrà quel fondo, pur se il
procedimento espropriativo in corso non arreca danni o pregiudizi diretti ed attuali alla
sua proprietà.
Per quanto poi attiene le associazioni o enti esponenziali rappresentativi di interessi
collettivi o diffusi, come ad esempio Legambiente, WWF, CODACONS, ADUSBEF ecc.,
dopo che tali enti (portatori di interessi di rilevanza comune, quale la tutela
dell’ambiente o dei diritti del consumatore) hanno per anni in Tribunale reclamato una
autonoma legittimazione spesso negata dai giudici perchè non prevista dall’originario
testo della legge, con la novella della Legge n. 241 emanata nel 2005 sono stati
riconosciuti titolari del diritto di accesso a patto che vi sia “pertinenza” tra i loro fini
statutari e l’ambito di operatività dell’atto amministrativo cui accedere (C.d.S. Sez. VI, 16
dicembre 1998, n. 1683).
Esemplicativamente se gli obiettivi statutari di una associazione quale Legambiente,
sono quelli, come pare verosimile, della tutela dell’ambiente e dei suoi ecosistemi,
certamente potrà avere accesso ad esempio, ad atti attinenti il procedimento di bonifica
di un sito inquinato ma non potrà, senza dubbio, richiedere alla Pubblica
Amministrazione atti che riguardino le procedure di approvazione dei prezzi dei
biglietti delle Ferrovie dello Stato che, al contrario, potrebbero riguardare altra
associazione quale il CODACONS.
Il requisito dell’interesse e della pertinenza rappresentano, dunque, rispettivamente per
il singolo e per l’organismo associativo, il presupposto necessario ed inderogabile per
poter azionare legittimamente l’accesso che altrimenti, in loro carenza, potrebbe venire
negato dall’Ente Pubblico.
Se, dunque, la legge pone comunque dei legittimi limiti alla legittimazione attiva, ha
tuttavia contribuito ad allargare (soprattutto dopo le modifiche della L. n. 15/2005)
l’ambito di operatività della fattispecie per quel che attiene la legittimazione passiva.
Recependo,infatti, gli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi negli ultimi anni, volti
a ritenere accessibili non solo i provvedimenti delle Pubbliche Amministrazioni
“tradizionali” ma anche degli organismi privati ma svolgenti attività o servizi di
rilevanza pubblica, l’art. 22 lett. e) nel definire la “pubblica amministrazione” precisa che
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
tali sono da intendersi “tutti i soggetti di diritto pubblico ed i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o
comunitario”.
Era del resto impensabile, visto lo spirito e la ratio della legge sull’accesso, che enti pur
oggi privatizzati, come ad esempio le Ferrovie dello Stato, ma gestori di pubblici servizi
talvolta strategici per la vita economica e sociale del paese, solo perchè trasformati in
soggetti di diritto privato restassero esclusi dall’applicazione delle disposizioni
sull’accesso e, in generale, sul procedimento amministrativo. Tale concetto vale anche
per l’individuazione degli atti accessibili.
Infatti, il legislatore per definire il documento amministrativo, inteso come “ogni
rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetico o di altra specie,
detenuta da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse”,
ha ulteriormente specificato che ciò vale “indipendentemente dalla natura pubblicistica
o privatistica della loro disciplina sostanziale”, subordinando così alla legge sull’accesso,
non solo i provvedimenti e gli atti amministrativi in senso stretto (come ad esempio le
autorizzazioni o le concessioni) in cui l’amministrazione eserciti pubbliche funzioni e
poteri autoritativi, ma anche quando essa persegua le proprie finalità istituzionali
mediante un’attività sottoposta in tutto o in parte alla disciplina prevista per i rapporti
tra soggetti privati” (C.d.S. Ad. Plen., 22.04.1999 n. 4).
Ecco che, ad esempio, se il Comune di Ferrara delibera di stipulare una polizza di
assicurazione, atto certamente privatistico, per tutelare i terzi da eventuali danni
procurati dagli automezzi di sua proprietà, questo contratto, pur non essendo un atto o
un provvedimento amministrativo, è certamente accessibile da chi dimostri di avere un
interesse legittimo a visionarlo e ne faccia richiesta.
La disciplina sull’accesso, inoltre, tenuto conto della delicatezza della materia inerente la
conoscibilità generalizzata di atti e documenti della Pubblica Amministrazione, ha
previsto divieti che in taluni casi si possono ritenere assoluti ed in altri relativi, a
seconda che siano o meno derogabili dalla Pubblica Amministrazione.
Vale a dire che in presenza di determinate condizioni di diritto o di fatto, la norma non
consente di per sè l’accesso in quanto la divulgazione di dati o atti potrebbe determinare
19
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
il rischio di lesione di altri interessi pubblici o privati ritenuti preminenti
dell’ordinamento.
Recita, infatti, il comma 1 dell’art. 24 che il diritto di accesso è escluso: “a) per i documenti
coperti da segreto di Stato ... e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente
previsti dalla legge... (ad esempio il segreto professionale); b) nei procedimenti tributari...;
c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti
normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano
ferme le particolari norme che ne regolano la formazione; d) nei procedimenti selettivi, nei
confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale
relativi a terzi.”
Inoltre, “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato
dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, in modo tale da scongiurare che taluni, pur se
interessati
a
determinati
documentazione
talmente
procedimenti
ampia
ed
possano
avanzare
indiscriminata,
da
delle
richieste
concretizzare
non
su
il
soddisfacimento di un concreto e personale interesse giuridico ma bensì una “ispezione”
sull’operato dell’Ente, cui sono ordinariamente già preposti organi pubblici (ex multis:
C.d.S., Sez. VI, 10 febbraio 2006, n. 555).
Si tratta, in questi casi, di divieti assoluti, vale a dire, sempre applicabili e mai derogabili
ma ve ne sono altri che in determinate circostanze, prescritte dalla norma, possano
essere derogati in considerazione della necessità di tutela di eguali diritti contrapposti a
quello dell’accesso.
La regolamentazione di tali casi, infatti, è lasciata dalla L. 241, a normazione secondaria
e successiva alla legge, in modo tale che, caso per caso, l’Ente deputato alla tutela di tali
interessi possa normare a seconda delle specifiche esigenze.
Ecco che, previa adozione di un apposito Regolamento, il Governo “può prevedere casi di
sottrazione all’accesso di documenti amministrativi:
a) quando ... dalla loro divulgazione possa derivare una lesione ... alla sicurezza e alla difesa
nazionale, all’esercizio della sovranità nazionale ...;
b) quando l’accesso possa arrecare pregiudizio ai processi di formazione, di determinazione e
di attuazione della politica monetaria e valutaria;
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
c) quando i documenti riguardino ... le azioni strettamente strumentali alla tutela
dell’ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità...;
d) quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone
giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi
epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in
concreto titolari...;
e) quando i documenti riguardino l’attività in corso di contrattazione collettiva nazionale di
lavoro e gli atti interni connessi all’espletamento del relativo mandato;”
Al di là dei casi senza dubbio importanti ma certamente più rari, quale ad esempio la
sicurezza della difesa nazionale, in questa elencazione, particolare attenzione, merita
l’inserimento tra le riserve all’accesso della tutela della privacy, di cui al punto e), non
solo perchè una volta riconosciuto come diritto dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n.
38/1973) prima e dal legislatore poi (L. 675/1999), il diritto di riservatezza ha
rappresentato un “nuovo diritto” per il nostro ordinamento al pari di quello alla
trasparenza ed all’accesso, ma anche perchè proprio la contrapposizione tra l’esigenza di
assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e quella ex adverso di tutelare la
sfera privata personale e imprenditoriale dei soggetti privati ha rappresentato il tema
più spinoso e complesso che la Dottrina e la Giurisprudenza prima ed il legislatore poi
hanno dovuto affrontare nei recenti ultimi dieci anni.
Con l’entrata in vigore, infatti, della legge sull’accesso nel 1990 e della privacy nel 1999,
si è concretizzato, anche legislativamente, il conflitto tra due opposti valori: da un lato il
diritto alla riservatezza che quale espressione del right to be alone, cioè della potestà ad
escludere soggetti estranei dalla propria sfera di intimità personale e nel governo dei
propri dati personali mentre dall’altro il diritto di accesso ai documenti amministrativi
di cui all’art. 22 della L. 241 espressione del più ampio diritto all’informazione
amministrativa la cui base etica è rinvenuta nel disposto degli artt. 21 e 97 della
Costituzione.
E’ stato chiaro sin da subito, infatti, che una volta acconsentito ad ogni interessato di
poter avere libero accesso alla documentazione di una Amministrazione, la riservatezza
dei dati e delle informazioni di terzi che in tali documenti fossero contenuti, sarebbe
stata violata.
21
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
Ma cosa si intende per diritto alla privacy?
I primi a parlare di riservatezza sono stati due americani Warren e Brandeis nel 1890
quando come reazione alle indiscrezioni dell’”Evening Gazette”di Boston sulle amicizie
della signora Warren e sulle nozze della figlia Brandeis, parlarono di right to be alone cioè
il “diritto di essere lasciati soli”.
In Italia i primi casi di emersione del diritto alla riservatezza si collocano non a caso nei
primi anni Cinquanta quando caduto il regime fascista, gli organi di stampa godevano
di una libertà più ampia nel pubblicare fatti e notizie.
Il primo caso rilevante fu quello del tenore Caruso in cui il Tribunale di Roma venne
chiamato a decidere se fosse o meno lecita la rappresentazione cinematografica a
carattere autobiografico della vita del tenore in cui venivano riferiti episodi e
comportamenti della vita privata del personaggio senza il consenso dei familiari.
Il Tribunale capitolino (Trib. Roma 14 settembre 1953, FI, 1953, I, 115) affermò per la
prima volta che pur non prevedendolo il nostro ordinamento in modo esplicito
riconosce l’esistenza di un diritto alla riservatezza “nel divieto di qualsiasi ingerenza
estranea nella sfera della vita privata della persona e di qualsiasi indiscrezione da parte
di terzi su fatti e comportamenti personali che non pubblici per loro natura non sono
destinati alla pubblicità delle persone che essi riguardano” e “per la ricostruzione e la
disciplina di tale diritto ci si deve riferire in mancanza di esplicite norme di legge alla
disciplina del diritto all’immagine al quale è come manifestazione della riservatezza
della persona”.
La Corte di Cassazione si è in quegli anni opposta a questa affermazione ed andando
contro il crescente bisogno di tutela della privacy che nella società si faceva sempre più
pressante, forte di una interpretazione rigorosa della normativa vigente al tempo, ha
affermato in una sentenza del 1957 (Cass. n. 4487/1957, in FI, 1957, I, 4) che “nel nostro
ordinamento nessuna disposizione autorizza a ritenere che sia sancito il rispetto assoluto
dell’intimità della vita privata essendo soltanto riconosciuti e tutelati in modi diversi singoli
diritti soggettivi della persona come la tutela dell’immagine, ma l’aspirazione alla privatezza non
riceve protezione salvo che l’operato dell’agente offendendo l’onore e il decoro o la reputazione
della persona ricada nello schema generale del fatto illecito”.
22
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
Così è stato fino agli anni ’70 quando i mutamenti sociali hanno determinato un radicale
diverso approccio al problema della privacy recepito anche dalla giurisprudenza.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 38/1973, per prima ha dato riconoscimento
esplicito di diritto inviolabile alla riservatezza attraverso la lettura degli artt.2,3 comma 2
e 13 della Cost., intese come disposizioni che riconoscono e garantiscono i diritti
inviolabili dell’uomo fra i quali rientrano anche quello proprio del decoro, dell’onore,
della rispettabilità, riservatezza , intimità e reputazione e poi la Cassazione, con la
pronuncia (Cassazione n.2129/1975 in FI, 1975,I, 2895) ha sancito l’esistenza del diritto
alla riservatezza che “consiste nella tutela di quelle situazioni personali e familiari le quali
anche se verificatesi fuori del domicilio non hanno per i terzi un interesse socialmente
apprezzabile contro le ingerenze che sia pure con mezzi leciti per scopi non esclusivamente
speculativi e senza offesa per l’onore , la reputazione e il decoro non siano tuttavia giustificate da
interessi pubblici preminenti.”
Si è così giunti alla emanazione della Legge 31 dicembre 1996 n. 675 modificata poi dal
D. L.vo 30 giugno 2003 n. 196, che ha per prima riconosciuto la privacy come diritto e ne
ha disciplinato contenuti e tutele.
La legge rappresenta il recepimento in Italia della Convenzione Europea di Strasburgo
n. 108/1981 e della Direttiva Comunitaria 95/46/CE che avevano, già in ambito
europeo, imposto il principio del trattamento regolamentato dei dati personali e sensibili
e della loro utilizzazione non abusiva.
La normativa in esame, regolando appunto il trattamento dei dati, definito come ogni
operazione di raccolta, conservazione ed elaborazione di qualsiasi informazione
attinente alle persone fisiche ed alle persone giuridiche, ha, per quanto concerne le
Amministrazioni Pubbliche, stabilito che il trattamento dei dati personali da parte di
queste è consentito solo per lo svolgimento delle loro funzioni istituzionali, mentre
quello afferente ai dati sensibili, quali informazioni di tipo sanitario, giudiziario,
religioso o politico, è possibile solo laddove previsto da norme di legge (artt. nn. 4, 18-22
del D. L.vo n. 196/2003).
23
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
Egualmente, il legislatore, ha altresì stabilito che anche la divulgazione dei dati in
possesso degli Enti Pubblici non è mai consentita al di fuori dei casi in cui la legge lo
preveda.
Inoltre, come si evince dall’art. 24 della L. 241/90 che va coordinata con il testo di legge
sulla privacy, non solo la riservatezza delle persone fisiche ossia la riservatezza
dell’individuo rispetto alla propria sfera domestica e in pieno riferimenti all’intima sfera
privata della persona, è stata considerata degna di tutela dal legislatore, ma anche la c.d.
riservatezza d’impresa quale riservatezza commerciale e/o industriale esplicantesi sotto
forma di riservatezza di gruppi, persone giuridiche, enti ed associazioni, gode dello
stesso trattamento.
Sotto quest’ultimo aspetto, non viene tanto in rilievo il diritto al riserbo personale come
diritto ad escludere altri dalla propria sfera di intimità quanto piuttosto l’esigenza di
impedire la divulgazione di segreti, ritrovati, conoscenze, esperienze ed accorgimenti
tecnici, commerciali ed industriali accumulati dall’impresa nel corso dello svolgimento
della relativa attività imprenditoriale ed assolutamente necessari per lo svolgimento
dell’attività imprenditoriale ed assolutamente necessari per lo svolgimento dell’attività
produttiva che devono restare riservati e quindi sottratti all’altrui conoscenza (know
how). La lesione della riservatezza d’impresa, dunque, si realizzerebbe tutte le volte che
l’esercizio del diritto di accesso in particolare nella sua forma tipica dell’estrazione di
copia determini il turbamento dello svolgimento dell’attività d’impresa o produttiva. Ma
la lesione della riservatezza commerciale può aversi anche con la semplice visione degli
atti quando si determini la conoscenza della notizia destinata a rimanere riservata
causando così la perdita di competitività dell’impresa con conseguente perdita di
profitto.
Tornando, dunque, al rapporto tra diritto di accesso e tutela della privacy, l’aspetto di
maggiore difficoltà è stato dunque la ricerca di un punto di equilibrio e di composizione
del conflitto fra gli individuati opposti valori, punto sul quale la legge sull’accesso del
1990 e la prima normativa sulla privacy del 1996 non aveva fornito sufficiente chiarezza.
Infatti, sia Giurisprudenza che Dottrina si sono negli anni divise tra coloro che hanno
ritenuto prevalente sempre il diritto alla privacy su quello all’accesso e coloro che,
invece, hanno considerato in ogni caso l’esigenza di trasparenza dell’operato della
24
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
Pubblica Amministrazione, dominante sulla riservatezza dei dati dei terzi (preminente
rispetto alla riservatezza C.d.S. A.P. del 4 febbraio 1997 n. 5 e C.d.S. A.P. n. 119/1996),
senza, tuttavia, rinvenire dei criteri o parametri univoci che potessero consentire di
contemperare entrambe le esigenze e garantire uniformità di giudizio.
A distanza di quindici anni dalla prima stesura della legge sul procedimento ed a più di
sette dalla prima legge sulla privacy del 1996, il legislatore è finalmente intervenuto sul
problema ed ha fornito dei criteri generali, con il combinato disposto degli artt. 59 e 60
del D. L.vo n. 196/2003, che possono essere così sintetizzati e semplificati:
a) deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici in
un processo giudiziario;
b) quando il trattamento concerne dati sensibili quali ad esempio lo stato di salute, le
abitudini e dati giudiziari o politici, l’accesso da parte di terzi è consentito se la
situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare in sede giudiziaria consiste in
un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.
Ciò significa, dunque, che quando l’accesso a documenti contenenti dati di terzi
personali o anche sensibili o giudiziari, è necessario, per la tutela del richiedente in sede
giudiziaria e per la difesa dei propri interessi giuridici, la Pubblica Amministrazione non
può opporre alcun divieto o limite alla visione di tali documenti, ritenendo così che gli
interessi sottostanti alla richiesta di accesso, in tali peculiari situazioni, siano preminenti
e prevalenti rispetto alla segretezza e riservatezza dei dati da acquisire.
Capitolo II
IL PROCEDIMENTO
Il diritto di accesso, come detto, si esercita mediante esame ed estrazione di copie di
documenti amministrativi (l’esame è gratuito mentre il rilascio di copia è subordinato al
costo di riproduzione ed all’imposta di bollo, quando prevista dalla legge).
25
Tuttavia,
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
ciò è consentito, a patto che le regole procedimentali previste dalla normativa che
regolano tempi e modi di esercizio dell’accesso siano rispettate.
Infatti, dal momento che la Pubblica Amministrazione deve essere posta nelle condizioni
di verificare che non sussistano ragioni ostative all’accesso, la legge (art. 25) ha previsto
che l’interessato debba presentare una richiesta scritta di accesso ai documenti rivolta
all’Ente che ha formato il documento o che lo detiene, specificando i motivi per i quali
richiede l’accesso e specificando, laddove possibile, gli estremi degli atti o dei
provvedimenti da visionare.
Una volta presentata l’istanza, la Pubblica Amministrazione competente ha trenta giorni
per consentire l’accesso o per diniegarlo, naturalmente previa esplicitazione dei motivi
per i quali tale rifiuto è stato opposto.
Nel caso, tuttavia, di silenzio dell’Ente, scaduti i 30 giorni, l’istanza si intende respinta
(silenzio-rifiuto) e dunque, l’istante, qualora non condivida i motivi di diniego, se l’ente
si è espresso o non abbia ottenuto alcuna risposta, può, a quel punto, in ogni caso,
ricorrere alla Giustizia Amministrativa, con apposito ricorso che verrà discusso e deciso
dal TAR entro 30 giorni, oppure, per gli atti di Comuni, Province e Regioni, rivolgersi al
Difensore Civico territorialmente competente e per gli atti Amministrazioni Centrali e
periferiche dello Stato (ad esempio i Ministeri) alla Commissione per l’Accesso ai
documenti amministrativi istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (art.
27).
Il difensore civico o la Commissione per l’accesso si pronunciano entro trenta giorni
dalla presentazione dell’istanza. Scaduto infruttuosamente tale termine, il ricorso si
intende respinto. Se il difensore civico o la Commissione per l’accesso ritengono
illegittimo il diniego o il differimento, ne informano il richiedente e lo comunicano
all’autorità disponente. Se questa non emana il provvedimento confermativo motivato
entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico o della
Commissione, l’accesso è consentito. Se l’accesso è negato o differito per motivi inerenti
ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione provvede, sentito il
Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di
dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale il parere si intende reso.
26
Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
Le sentenze di primo grado in materia di accesso, così come le decisioni definitive del
Difensore Civico o della Commissione, sono, entro trenta giorni, impugnabili avanti
all’organo giurisdizionale competente che sarà il Consiglio di Stato nel primo caso,
appellando così la sentenza di primo grado, ed , invece, il TAR per le determinazioni di
Difensore Civico o della Commissione.
Oltre a decidere sulla sussistenza o meno dei presupposti per l’accesso, “il giudice
amministrativo, sussistendone i presupposti, ordina direttamente l’esibizione dei
documenti richiesti”ordine a cui l’Amministrazione, a quel punto, non potrà sottrarsi.
Capitolo III
L’ACCESSO IN MATERIA AMBIENTALE
Disciplina specifica o derogatoria rispetto alla normativa generale in materia di accesso
agli atti, è quella che attiene all’accesso alle informazioni ambientali, contenute nel
Decreto Legislativo n. 195/2005, il quale ha dato attuazione in Italia alla Direttiva
Europea 2003/4/CE.
Tale normativa, come detto, è caratterizzata innanzitutto dalla specialità in quanto
applicabile solo alle informazioni ambientali, definite dalla legge in modo molto ampio
come “qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in
qualunque altra forma materiale concernente:
1) lo stato degli elementi dell’ambiente, quali l’aria, l’atmosfera, l’acqua, il suolo, il
territorio, i siti naturali;
2) fattori quali le sostanze, l’energia, il rumore, le radiazioni od i rifiuti, anche quelli
radioattivi, le emissioni, gli scarichi ed altri rilasci nell’ambiente, che incidono o possono
incidere sugli elementi dell’ambiente, individuati al numero 1);
3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i
programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, .. che incidano o possono incidere
sugli elementi e sui fattori dell’ambiente di cui ai numeri 1) e 2);
4) le relazioni sull’attuazione della legislazione ambientale;
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Dispense a cura dell’ avv. Marco De Nunzio
5) le analisi costi-benefici ed altre analisi ed ipotesi economiche, usate nell’ambito delle
misure e delle attività di cui al numero 3);
6) lo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena
alimentare, le condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli edifici d’interesse
culturale;”
Inoltre, la particolarità, ancora più rilevante, dell’accesso in tali materie, è rappresentata
dalla non necessità di un interesse da parte del richiedente a visionare la
documentazione che abbia attinenza ambientale.
Infatti, come specificato dall’art. 3 del D. L.vo n. 195/2005, “l’Autorità pubblica rende
disponibile, secondo le disposizioni del presente decreto, l’informazione ambientale detenuta a
chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”, derogando
così probabilmente al presupposto più importante richiesto dalla normativa generale
che, come si ricorderà, esige un interesse concreto, serio ed attuale che va esplicitato dal
richiedente nella sua istanza sulla cui effettiva sussistenza la Pubblica Amministrazione,
che detiene la documentazione, può e deve vigilare, potendo anche rifiutare di
concedere l’accesso laddove valuti la richiesta non sorretta dai presupposti di legge.
Tutto ciò non è possibile, invece, in materia ambientale ove, dunque, la Pubblica
Amministrazione,
una
volta
ricevuta
l’istanza
dovrà
rendere
visionabile
la
documentazione entro il termine generale di 30 giorni, senza poter opporre alcunchè,
salvo che non contesti il contenuto ambientale degli atti stessi.
In tal caso resta ferma la competenza esclusiva della Giustizia Amministrativa, e dunque
dei TAR, a sindacare gli eventuali dinieghi all’accesso della Pubblica Amministrazione,
o il ricorso al riesame del Difensore Civico ed alla Commissione, secondo le regole
generali già spiegate, contenute nell’art. 25 della L. n. 241/90.
Tuttavia, anche l’accesso all’informazione ambientale è sottoposta a taluni limiti (art. 5
D. L.vo n. 195/2005) e può essere negato non solo nel caso in cui:
“a) l’informazione richiesta non è detenuta dall’autorità pubblica alla quale è rivolta la richiesta
di accesso;
b) la richiesta è manifestamente irragionevole avuto riguardo alle finalità di cui all’art. 1;
c) la richiesta è espressa in termini eccessivamente generici;
d) la richiesta concerne materiali, documenti o dati incompleti o in corso di completamento;
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e) la richiesta riguarda comunicazioni interne, tenuto, in ogni caso, conto dell’interesse pubblico
tutelato dal diritto di accesso;” ma anche quando, richiamando la disciplina generale, “la
divulgazione dell’informazione reca pregiudizio:
a) alla riservatezza delle deliberazioni interne delle autorità pubbliche, secondo quanto stabilito
dalle disposizioni vigenti in materia;
b) alle relazioni internazionali, all’ordine e sicurezza pubblica o alla difesa nazionale;
c) allo svolgimento di procedimenti giudiziari o alla possibilità per l’autorità pubblica di svolgere
indagini per l’accertamento di illeciti;
d) alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali;
e) ai diritti di proprietà intellettuale;
f) alla riservatezza dei dati personali o riguardanti una persona fisica;
g) agli interessi o alla protezione di chiunque abbia fornito di sua volontà le informazioni
richieste, in assenza di un obbligo di legge;
h) alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, cui si riferisce l’informazione, come nel caso
dell’ubicazione di specie rare;”.
Infine, aspetto peculiare e non privo di rilevanza, inserito da questa recente normativa, è
il principio della qualità della informazione sancito dall’art. 9, che prescrive che
l’Autorità ha l’obbligo di detenere informazioni ambientali aggiornate, precise e
confrontabili, imponendo che tale garanzia debba essere assicurata dal Ministro
dell’Ambiente e dall’Agenzia per la protezione dell’Ambiente che deve elaborare
specifiche tecniche per la tenuta aggiornata dei dati ambientali.
Si afferma, dunque, nel nostro ordinamento un nuovo onere per le Amministrazioni, che
consiste nel dovere assicurare non solo che le informazioni ambientali siano disponibili e
conoscibili alla collettività, ma anche che le stesse debbano essere periodicamente
aggiornate, presumendo così standard di monitoraggio dell’ambiente cui la Pubblica
Amministrazione dovrà necessariamente uniformarsi.
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