Jean-Pierre Changeux, L’uomo di verità Introduzione Verso una fisiologia della verità? Nel corso degli ultimi decenni, le scienze del cervello hanno compiuto progressi spettacolari. Nel febbraio del 2002 sono stati pubblicati i primi dati sulla sequenza completa del genoma umano. Tra poco dovremmo conoscere la struttura della totalità delle molecole che entrano nella composizione del nostro corpo e ovviamente in quella del nostro cervello. Parallelamente, le scienze cognitive, favorite dagli straordinari sviluppi dei metodi di imaging cerebrale, aprono la via a uno studio oggettivo delle funzioni superiori del nostro cervello – se non una finestra sulla nostra soggettività. Questo sapere sarà mai sufficiente a definire e comprendere cosa sia la natura umana? Da fatti scientifici di queste dimensioni possiamo sperare di dedurre l’insieme delle disposizioni che contraddistinguono l’umanità della nostra specie? Una riflessione critica che confronti i diversi approcci delle scienze della vita e delle scienze umane e sociali intorno al cervello dell’uomo e alla sua funzione si è fatta ormai necessaria. Nel 1998, i responsabili del programma trasversale “Mind, Brain and Behavior” dell’università di Harvard mi chiesero di tenere una serie di conferenze suscettibili di raccogliere intorno a un tema comune specialisti delle scienze della natura, delle scienze dell’uomo e degli studi letterari. La scelta di Anne Harrington e del comitato organizzatore del programma cadde sulla disciplina che più d’ogni altra è in grado di svolgere un’azione federativa, la neuroscienza. Il titolo scelto in un primo momento fu “il punto di vista – poi divenuto ‘le provocazioni’ – di un neurobiologo sul vero, il bene, il bello”. Una volta pronunciate le conferenze, il progetto d’insieme parve troppo ambizioso per dar luogo a un solo libro. Ci si concentrò così sul problema della verità. Intanto, cos’è la verità? La domanda è una delle più antiche tra quelle che la filosofia occidentale si è posta. Platone già si chiedeva: esistono verità eterne oppure, invece, l’uomo è la misura di tutte le cose? Apriamo l’Encyclopédie alla voce “Verità”. Diderot e d’Alembert ci propongono una risposta semplice e piena di buon senso, definendo con grande naturalezza la verità come “una conformità dei nostri giudizi a ciò che le cose sono”. In altri termini, qualcosa è vero quando si ha adeguazione tra il nostro pensiero e il suo oggetto: adæquatio rei et intellectus. Non si ha soltanto conformità tra le nostre idee e l’oggetto esterno, ma anche adeguazione interna di ciascuna delle nostre idee con un’altra. Aristotele sottolineava già che il vero e il falso hanno nel discorso la loro dimora. Eppure, quanti enunciati conformi a ciò che vediamo si rivelano falsi a un esame più attento! No, contro ogni apparenza, il sole non gira intorno alla terra. E quanti discorsi ben costruiti si caratterizzano per una verità altamente sospetta! Che fiducia attribuire ai discorsi dell’astrologia, dell’omeopatia, ai “miracoli” o ai “fenomeni” sovrannaturali? Dove passa la linea di demarcazione che separa “credenze” e “verità stabilite”, opinione e conoscenza scientifica? Cos’è che caratterizza le verità prodotte dai ricercatori scientifici? Esistono verità che possano essere non scientifiche? Questi rilievi sollevano un altro problema. Oltre all’errore, all’illusione, alle fantasie e ai deliri si può avere falsificazione cosciente, cioè menzogna. Chi mente sa di mentire, ma il destinatario delle sue menzogne non condivide necessariamente questa consapevolezza. Come stabilire se si ha inganno? Perché la capacità di mentire è un tratto distintivo della specie umana? È questa forse la contropartita del nostro esser capaci di stabilire la verità, cosa che risulta impossibile al cane o alla scimmia? Dopo secoli di riflessione, come affrontare oggi questo problema senza ridire ciò che è già stato detto, a volte assai bene? La neuroscienza ci offre una quantità di osservazioni del tutto nuove e varie ipotesi specifiche. Perché non cercare in essa la fonte di nuovi dibattiti? Associare fisiologia e filosofia non è impresa nuova. Dopotutto, i primi filosofi della Grecia antica, da Democrito a Empedocle, cercavano proprio nella materia il principio di tutte le cose. Più recentemente, Spinoza scriveva già che “gli uomini giudicano sulle cose secondo la disposizione del loro cervello”. Henri Bergson si è spinto sino a suggerire che le nostre conoscenze sul cervello potrebbero avere incidenze positive sulla filosofia. Rileggiamo Cartesio, che secondo me può essere considerato il precursore di questa alleanza millenaria tra la filosofia e quella che chiamiamo oggi la “neuroscienza”. Nella quarta parte del Discorso sul metodo (1637) Cartesio pone il problema della verità dei nostri pensieri, e scrive: “ Non è difficile rendersi conto che le cose immaginate in sogno, mentre dormiamo, non devono farci dubitare per nulla della verità dei pensieri che abbiamo da svegli. [...] Perché, infine, svegli o addormentati, non dobbiamo mai lasciarci persuadere se non dall’evidenza della nostra ragione”. Da dove viene quell’evidenza di cui il filosofo fa il criterio della verità? Un’illustrazione del Trattato sull’uomo, a quanto pare di pugno dello stesso Cartesio, mostra che le “figure” dei “tubicini attraverso i quali gli spiriti animali possono entrare” (figura 1) sono diverse durante la veglia, nel sonno e nei sogni. Queste figure, “l’anima razionale [le] considererà immediatamente quando, essendo unita a questa macchina, immaginerà o sentirà qualche oggetto” (Cartesio, 1630-1633, p. 258). Cartesio, informato dal padre Mersenne del processo intentato a Galileo, non porterà mai sino in fondo questa prospettiva. La difficoltà, peraltro, non è ideologica. Essa è insita nel progetto stesso, che è quello di mettere in rapporto, se possibile in modo causale, l’organizzazione anatomica e gli stati di attività del nostro cervello con quelle funzioni cognitive per eccellenza che sono l’acquisizione della conoscenza e la verifica della sua verità. Mi sembra oggi legittimo riprendere questo ambizioso progetto. Certo, i dati scientifici di cui disponiamo sono ancora limitati. Resta, comunque, il fatto che le ricerche portate avanti sul cervello e le ipotesi teoriche che le sottendono ci autorizzano almeno a formulare in termini nuovi il problema della fisiologia del pensiero e della verità. Sciogliere e individuare questi rapporti, sia pure all’interno di una situazione che sappiamo essere di necessità provvisoria, diviene, di fatto, una delle sfide più importanti per il pensiero umano. Provocazione? Forse no. Dopotutto, se nessuno dubita del fatto che la brama di conoscenza si annida nel cuore stesso della natura umana, perché si dovrebbe fare un’eccezione quando si tratta di cercare di conoscere meglio tale brama, di capirla più a fondo? Questo progetto di naturalizzazione esteso sino alle produzioni più alte della cultura si sottrarrebbe, a mio avviso, a qualsiasi polemica ideologica. Torna a onore dell’uomo il fatto di volgersi sulle proprie origini e capacità invece di fermarsi all’esaltazione di una misteriosa eccezione dell’essere umano, che apre la strada a tutte le chimere e a tutti i fondamentalismi... Siamo modesti! “Della realtà”, diceva Democrito, “non cogliamo nulla di assolutamente vero, ma soltanto ciò che capita casualmente, conformemente alle disposizioni momentanee del nostro corpo e alle influenze che ci toccano o ci urtano”. Le rappresentazioni che costruiamo nel nostro cervello sono, come vedremo, oggetti fisici, “modelli in scala ridotta” del mondo esterno e del nostro stesso mondo interno. Esse non possono in alcun modo spacciarsi per una descrizione integrale, esaustiva della realtà del mondo. Esisterà sempre un margine di incertezza, uno spazio residuo per rimettere in discussione qualsiasi progresso della conoscenza scientifica. E per questo dovremmo rinunciare a saperne di più? Il mondo altamente sofisticato che abbiamo costruito nei secoli appoggiandoci sulle nostre conoscenze scientifiche testimonia in realtà del rapporto di corrispondenza, della “conformità” che può esistere tra fatti o oggetti del mondo esterno, da una parte, e oggetti di pensiero, stati interni, prodotti dal nostro cervello, dall’altra. Com’è possibile questo accordo? Come si stabilisce? Come viene messo alla prova? Come evolve? Sono questi i problemi che L’uomo di verità intende contribuire ad affrontare. La versione francese del presente libro non avrebbe visto la luce senza l’entusiasmo, i commenti critici e l’amicizia di Odile Jacob, cui va il mio caldo ringraziamento. L’opera deve molto all’eccellente lavoro di traduzione di Marc Kirsch, e alle sue critiche filosofiche più che pertinenti, nonché ai precisi interventi redazionali di Jean-Luc Fidel. Elizabeth Knoll, della Harvard University Press, Anne Harrington, Anne Fagot-Largeault, Stuart Edelstein, Henri Korn, Christian Jacquemin, Pierre-Marie Lledo, Sylvie Granon hanno cortesemente accettato di leggere le prime stesure del testo e di comunicarmi le loro osservazioni. Sono loro immensamente grato. Infine, vorrei ringraziare i responsabili del Marine Biological Laboratory di Woods Hole (Massachusetts) e in particolare il professor Gerald Weissmann, per aver messo a mia disposizione la ricchissima biblioteca del laboratorio nei mesi estivi del 2000 e del 2001.